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Il bambino intermittente – candidato al Premio Strega 2022 | segnalazione sul Corriere della Sera

Il bambino intermittente – candidato al Premio Strega 2022 | segnalazione sul Corriere della Sera

Quarta mandata di titoli in gara per il Premio Strega: dal lavoro degli Amici della domenica (membri del nucleo storico della giuria) ecco la nuova dozzina di libri che dovranno – con gli altri, e siamo a 48 – contendersi l’ingresso nell’Olimpo dei 12 finalisti e affrontare la selezione della cinquina, prima della finale del 7 luglio. La novità più evidente? Il candidato della fede.

Hotel Padreterno di Roberto Pazzi (La nave di Teseo), presentato da Massimo Onofri, è stato infatti già «recensito» da un Lettore d’eccezione: Papa Francesco, che ha inviato un elogio personale all’autore. Forse perché è un libro visionario che racconta di un miracolo moderno. Di un Dio che scende tra gli uomini (questa volta senza inviare il figlio), per «tornare a capire l’umanità». E lo fa incarnandosi in un uomo di 78 anni, cappotto e borsalino nero, che incontra un bambino nella metropolitana di Roma.

La madre è spaventata da quell’uomo che si compiace di parlare col figlio; ma lo sconosciuto finirà col guarire il bambino da un tumore al cervello, con la sola imposizione delle mani. «Quell’uomo vorrà provare tutto della vita degli uomini, perfino l’innamoramento», rivela l’autore.

C’è un piccolo protagonista anche in un altro libro entrato nella selezione: è Il bambino intermittente di Luca Ragagnin (Miraggi Edizioni), che ricostruisce la realtà attraverso l’incontenibile immaginazione di un bimbo straordinario, un piccolo impacciato ma iperattivo, problematico ma poetico, che «trova Dio in una cabina da spiaggia… poi lo perde in una mensa sotterranea».

Tra le segnalazioni emerge poi quella di «un affresco unico della società culturale italiana e americana, e di quella comunità di intellettuali italiani che si ritrova, per caso o destino, a New York»: è Una disperata vitalità di Giorgio van Straten (HarperCollins), romanziere e traduttore, già direttore dell’Istituto italiano di Cultura cli New York. Lo ha candidato Giovanna Botteri.

Degno di attenzione Il digiunatore di Enzo Fileno Carabba (Ponte alle Grazie): racconta la vita di un «artista del digiuno» realmente esistito, Giovanni Succi, nato nel 1850 a Cesenatico, che conquistò fama internazionale negli anni fra Otto e Novecento, arrivando a ispirare un racconto di Kafka. Narra invece la storia familiare intrecciata alle pagine più scure della storia d’Italia Stirpe e vergogna di Michela Marzano (Rizzoli), che parte dalla scoperta del passato fascista del nonno per svelare il fascismo «sotto la cenere della vergogna che riaffiora in famiglia, in comportamenti e relazioni».

Di livide memorie parla anche Mordi e fuggi. Il romanzo delle Br, di Alessandro Bertante (Baldini+Castoldi). Tra gli altri candidati ci sono poi: Sogno notturno a Roma 1871-2021 di Annarosa Mattei (La Lepre Edizioni); Il cuoco dell’imperatore di Raffaele Nigro (La nave di Teseo); Con tutto il mio cuore rimasto di Rosaria Palazzolo (Arkadia); La ladra di cervelli. Un Alzheimer in famiglia di Ciriaco Scoppetta (Armando Editore); Padri di Giorgia Tribuiani (Fazi); Il sole senza ombre di Alberto Garlini (Mondadori).

Luca Zanini

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Colloqui con il pesce sapiente – recensione di Angelo Di Liberto su Modus legendi

Colloqui con il pesce sapiente – recensione di Angelo Di Liberto su Modus legendi

Il Pensiero originale è infatti collettivo e indescrivibile.

Non esiste forse enunciato più acconcio per viaggiare in direzione eguale e contraria verso l’opera di Paolo Brunati. Scrittore, poeta, scultore, artista totale, nella cosmogonia letteraria che lo caratterizzò ogni elemento veniva irradiato di una vita propria che serviva a creare altra vita, altro significante.

Allora insetto non si riferiva soltanto alla minuscola vita strisciante, volante, saltellante di artropodi comuni, ma la metafora del passaggio dell’uomo sulla Terra, nella sua impossibilità d’essere altro dal minimo contributo occasionale e fugace di pensiero.

Mi chiedo a volte se la scrittura non sia, rispetto al pensiero, quello che è l’Insetto trafitto nella scatola entomologica rispetto all’Insetto vivo.

E il ricordo dell’insetto più famoso della storia della letteratura ritorna prepotente. Lo scarafaggio kafkiano trafitto nella sua scatola familiare è al tempo stesso pensiero e scrittura del pensiero, è il vivo-morto, il ritornante della sua specie mutata, così come lo è la scrittura del pensiero defunto che si fa carta e che riverbera da centosessanta prose intitolate all’inorganico, all’inessenziale, all’infinito, contenute in un testamento letterario dal titolo “Colloqui con il Pesce Sapiente”.

Brunati non conclude, non cristallizza nelle forme ma spazia negli oceani plasmabili dell’inconoscibile la sua materia filosofica, immergendola nelle acque tiepide dell’ironia sottile, del boudoir di un illusionista, in quel dietro le quinte di una rappresentazione a scopo dimostrativo e preparatorio della vita.

Nella sua incessante riscrittura dell’avventura umana, l’autore fagocita l’assurdo restituendo plausibili scenari, insuperate visioni metafisiche collimanti con l’abituale rapporto col quotidiano, con l’ineludibile consunzione della materia.

Ogni Morto è un grandissimo attore drammatico. La sua persona anagrafica sparisce con la sua totale immedesimazione nel personaggio.

L’umorismo paradossale che alberga in ogni prosa brunatiana fa i conti con una consapevolezza profonda del rapporto che lega gli elementi primordiali. Il gusto del contrario è cifra identitaria strutturata in relazione paritetica. Si è nel momento irripetibile del dolore e della farsa.

Persino sentimenti come l’inimicizia sovvertono l’efficacia di un’esperienza.

Sì, l’inimicizia è uno dei sentimenti più forti, più genuini. Un vero nemico è colui che riesce a rivoltarti, farti cambiare posizione da quella in cui già fin da troppo tempo giacevi anchilosato.

La letteratura come nemico è un’idea affascinante che scoraggia il lettore, aduso a un rapporto infantile, si direbbe quasi elementare con la parola scritta. Da un libro vuole ristoro, non la spinta al confronto. Ricerca il simile, l’ovvio, non l’eccezione, l’insolito.

La filosofia contenuta in “Colloqui con il Pesce Sapiente”, pubblicato da Miraggi Edizioni, da cui sinora sono stati tratti spunti di riflessione, è un luminoso istinto non già verso la salvazione, ma l’incontenibile suggestione di essere in presenza di un’aurora polare, il cui effetto ottico sta all’occhio che la osserva e al cuore che la prova. Non raramente chi legge Brunati avvertirà quei suoni elettrofonici che si odono in alcune manifestazioni di aurore boreali ma, come quest’ultime, si sarà in presenza di fenomeni che ancora sfuggono alla comprensione dell’origine della creazione di uno scrittore, che ha dato alla letteratura materiale organico in continuo divenire.

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Uno di noi – recensione di Francesco Subiaco su Contro il nulla

Uno di noi – recensione di Francesco Subiaco su Contro il nulla

Un affresco tragico e tormentato della società italiana

La collana scafiblù della casa editrice Miraggi si ispira alle omonime imbarcazione usate a Napoli per il contrabbando di sigarette. Gli scafi blu della letteratura non trasportano più tabacchi e merci, ma contrabbandando idee clandestine, messaggi disobbedienti, originali e originari, attraverso stili e contenuti ribelli. Trasportando, oltre l’attenzione generale, i luoghi oscuri dell’uomo e le verità segrete ed inconfessabili dietro ogni uomo. Ci riesce bene Daniele Zito che nel suo “Uno di noi”(Edito da Miraggi Edizioni) compie l’affresco tragico e tormentato della società italiana. Raccontando la vicenda di un gruppo di amici, frustrati e sconfitti, che in un giorno di euforia, dopo l’ennesima disfatta in una partita di calcetto, decidono di dare fuoco ad una baraccopoli della loro città. Un gesto assurdo a cui cercano di dare più significati, etici, politici, morali, che nella loro mente nasce con la noncuranza spietata con cui ognuno distrugge senza pensarci nella vita. una noncuranza che li porterà a bruciare case e abitazioni di disperate e a condannare ad atroci ustioni una giovane ragazza emarginata e disabile. Un fatto drammatico per entrare nel ventre molle della società, nelle paure e gli odi di un mondo emarginato e sconfitto. Fatto di cattiveria ed emotività, di paure e disperazione. In una indagine priva di quella retorica patetica dei romanzi del nostro tempo, attraverso uno stile poetico e terribile che spezzetta le azione, apre le vite dei suoi personaggi mostrando vittime e carnefici, certamente, ma soprattutto, uomini, turbamenti, oscurità. Un romanzo anomalo che più che una trama ha una atmosfera, più che personaggi riflessi. Non hanno nomi veri i membri della banda del calcetto, né dottori precari, passanti e soccorritori, la bambina che soffre, suo padre rimasto solo e in agonia. I quattro hanno una voce unica rappresentata dal “uno di noi”, parlante, che
si distrugge e logora tra i sensi di colpa e il bisogno di indifferenza per non farsi scoprire, tra la violenza verbale e l’annientamento umano e intimo. Ha nome solo sua moglie, Irene, che gli legge dentro, lo vede turato, orribile, pentito, confuso. Maschere che si accompagnano al coro volubile ed emotivo della società, capriccioso ed istintivo, bisognoso di certezze e comprensione, ma anche affamato di vendetta, arringato e sconvolto dalla chiacchiera e dagli sciacalli sociali. Dai ministri opportunisti sempre pronti a salire sul carro del vincitore, a giornalisti che si nutrono di morte e dolore. Volti, riflessi, allusione che raccontano la grande tragedia anonima che può aggirarsi nella vita crepata di ognuno di noi.

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Il richiamo del dirupo – recensione di Alessandra Fontana su La lettrice controcorrente

Il richiamo del dirupo – recensione di Alessandra Fontana su La lettrice controcorrente

Frammenti

Il richiamo del dirupo di Mìcol Mei è un libro breve, particolare e intenso. Difficile collocare in un genere un racconto così, composto da frammenti, suggestioni, emozioni e ricordi.

L’atmosfera è ammantata di mistero e io ho pensato subito, lo so anche se non c’entra quasi nulla, a Shirley Jackson e al suo L’incubo di Hill House. Anche ne Il richiamo del dirupo infatti la protagonista sembra essere una casa assai particolare, una casa che inghiotte e trasforma i suoi personaggi.

Raccontare Il richiamo del dirupo è difficilissimo perché il pericolo “spoiler” è sempre dietro l’angolo e io ovviamente non voglio rovinare la sorpresa a nessuno. Degno di nota è il modo di raccontare la storia. Il lettore si trova sempre di fronte a un registro diverso: ci sono descrizioni tradizionali, canzoni, diari… Il richiamo del dirupo è un racconto in costante movimento.

Se all’inizio crediamo di trovarci di fronte a un horror, con l’andare avanti delle pagine scopriamo che non è proprio così. La seconda metà del libro esplode e si trasforma in qualcosa di completamente diverso.

Il richiamo del dirupo racconta la storia di una casa in stile vittoriano a picco sul mare. Un giorno il proprietario, Felice Hernandez, decide di ingaggiare un agente immobiliare per affittare la casa. E fin qui direte: cosa c’è di strano? Gli inquilini dovranno avere particolari caratteristiche e infatti gli ospiti della casa di Hernandez saranno quattro persone diversissime e soprattutto tormentate da qualcosa.

Nell’inquietante casa prenderanno posto una donna che ha perso la figlia,  uno scultore, un’ ex tennista e un ragazzo affetto da una rara malattia.  Ed è qui che comincerà per loro un percorso attraverso ossessioni, vendette e ripicche.

(…) ciò che colpì maggiormente il giovane furono però delle vecchie foto appese con cornici d’epoca. Ritraevano quelli che avevano tutta l’apparenza d’essere vecchi attori d’inizio secolo, quando tradizionalmente ci si aspetterebbe di trovare fotografie di parenti e famigliari.

In questa casa nulla è lasciato al caso: le stanze degli ospiti sono arredate secondo un’intenzione precisa. Nessuna è uguale ad un altra, proprio come nessun dramma assomiglia a un altro.

Se ho imparato una cosa buona da lei, è che la tragedia col passare del tempo diventa farsa, perciò tocca sorridere quando grandina.

Il richiamo del dirupo è…

Frammenti. Mei compone un puzzle avvincente e spiazzante. All’inizio si può fare un pochino di fatica perché la narrazione non è tradizionale. Questo è sicuramente l’aspetto che ho apprezzato di più. Mi è piaciuta la tensione crescente quando entrano in scena i personaggi e l’idea di immergerli, come se fosse in un esperimento, in un ambiente pronto a far emergere le loro fragilità e addirittura di ribaltare le convinzioni che avevamo su di loro.

Quello che mi è piaciuto meno è stata la brevità. Avrei voluto rimanere ancora un po’ in loro compagnia e magari aggiungere qualche pagina mi avrebbe fatto innamorare di più. Ma lo sapete, io amo i mattoni e non faccio testo.  Ringrazio AldoStefano Marino e l’autrice per avermi mandato la copia. Miraggi ancora una volta si è distinta pubblicando un romanzo nuovo, insolito e godibilissimo.

Consigliato per gli amanti delle storie inclassificabili, per quelli che sono in cerca di storie particolari e mai banali, per chi non si accontenta e vuole essere stupito.

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Endecascivoli – recensione di Stefano Bonazzi su SATISFICTION

Endecascivoli – recensione di Stefano Bonazzi su SATISFICTION

Mi approccio a questa lettura con colpevole ritardo. Libri e libri che si accumulano sulle mensole e che continuo a rimandare, nel frattempo, come tutti aggiungo e impilo, appunto altre letture che andranno a rimpinguare quello spazio sempre più ridotto ma che resta lì e in qualche modo mi da sicurezza. Il porto sicuro in cui so che potrò attingere ogni volta che ne sentirò il bisogno. Un po’ come i frammenti letterari presenti in questa raccolta, gli “Endecascivoli”, appunto. Memorie luminose e impalpabili che affiorano incontrollate alla superficie, come la marea che torna a bagnare la punta dei piedi, come quelle immagini che ci appaiono davanti agli occhi se li stringiamo forte, con il sole piantato dritto negli occhi.

E allora via di frasi e paragrafi che sono particelle, luminose e sfolgoranti, fragori che si consumano nel tempo di un respiro o, come ci suggerisce l’autore stesso, nell’istante di un vuoto d’aria, come quelli che ci colgono alla sprovvista, dopo aver salito decine di scalini, prima di un salto nel vuoto.

Sessantacinque (come l’anno di nascita dell’autore) sono i racconti presenti in questo pregiato volume edito da Miraggi, editore che da sempre confeziona le sue uscite con una cura a tratti artigianale. La copertina piacevolmente ruvida, con quella carta di un bianco che tende verso il seppia e l’immagine di una manica a vento che emerge da un paio di buffe nuvolette stilizzate, è già la conferma che qui siamo lontani dal territorio delle letture convenzionali.

Racconti brevi, a tratti brevissimi. Schegge di memoria intagliate nella corteccia di una vita policroma di esperienze. Non importa quando ci sia di realmente biografico e quanto sia fiction, o citazione, il focus è tutto spostato verso il substrato emotivo dell’autore: il rapporto con la sua famiglia, le giornate trascorse con il padre, il nonno, gli zii, il alla miniera, il carbone sulla pelle, i cunicoli che toglievano il respiro, le cui pareti d’ombra sono rimaste impresse negli occhi lungo gli anni. E poi i pomeriggi a turno sul muretto con gli amici, indossando i primi Lewis da portare rigorosamente senza giaccone, per sfoggiare l’etichetta. Il ricordo del primo viaggio a Cagliari, in una trattoria che ancora esiste, con Gigi Riva seduto nel tavolo alle spalle. Le distese di sabbie rosse che portano fino al mare, le camminate senza meta, con l’erba nascosta sotto i vestiti e uno zaino sfilacciato sulla spalla, sotto un sole carico di promesse e i confini tutti sbiaditi. Un’epopea onirica in cui la dimensione del sogno non dimentica la crudeltà di una realtà beffarda. Lo capiamo subito, dal primo, brevissimo racconto, deflagrante in tutta la sua spietata lucidità. All’autore bastano poche frasi, una manciata di descrizioni e già siamo lì, al centro della tragedia, sfiniti dal peso di quel corpo dilaniato che a stento riusciamo a reggere. In mezzo al fumo, alle grida, impregnati di quella stessa fuliggine che ritornerà ancora e ancora, lungo tutto l’arco narrativo, come lo spettro di una macchia indelebile. Poi il ritmo rallenta e subito mi torna alla mente quel concetto a me tanto caro di “anemoia”. Il retrogusto nostalgico per una un’epoca mai vissuta ma che in qualche modo mi appartiene, ci appartiene, rendendoci complici inconsapevoli di una grande memoria collettiva. 

Patrizio Zurru è bravo a giocare con un ritmo narrativo che mette a suo agio il lettore. Come se sfogliando questi racconti, l’autore ci sussurrasse all’orecchio di non avere fretta, prenderci i nostri tempi, centellinare la scoperta di questi fotogrammi sospesi tra l’ironia dell’attimo (il reportage ambientato durante il festival letterario Una marina di libri è una chicca per chiunque abbia a che fare con il mondo editoriale) e l’agrodolce malinconia del ricordo.

Il tutto tratteggiato con grande padronanza linguistica e un’umiltà che traspare anche quando l’autore si concede dei piccoli guizzi stilistici (alcuni paragrafi in rima, qualche indovinello sparso). Le immagini si sovrappongono, gli odori si mescolano (la passione per la cucina è evidente) e proprio come la cadenzata costanza di una mareggiata, senza nemmeno accorgercene stiamo scorrendo assieme all’autore quell’immenso album fotografico. Istantanee dai tratti nitidi che sbiadiscono gradualmente fino a dissolversi in un riverbero fuori fuoco. L’aroma del latte bollito, il bruciore del carbone sciolto sulla pelle, l’ebbrezza di una serata trascorsa con i migliori amici, il viaggio e il bisogno di riconoscersi nomade, seppur ancorato a quell’isola preziosa dove la vita è scandita da un tempo diverso. 

Il tempo sospeso, lo stesso di quest’opera. 

QUI l’articolo originale:

Cacciatori di frodo – recensione di Francesco Montonati su FMONTONATI.COM

Cacciatori di frodo – recensione di Francesco Montonati su FMONTONATI.COM

“Cacciatori di Frodo”, finalista al Calvino e candidato allo Strega nel 2013, è il libro d’esordio di Alessandro Cinquegrani. Non ha vinto nessuno dei due premi, ma la sola candidatura mi riempie di speranza per il destino della letteratura nazionale; encomiabile il coraggio di Miraggi Edizioni nella scelta di pubblicarlo. 

Sì perché “Cacciatori di frodo” è certo un libro notevole, ma ha una particolarità: è scritto con la tecnica del flusso di coscienza; James Joyce, William Faulkner, Virginia Woolf, per intenderci. A volerla dire tutta, ultimamente Remo Rapino con il suo “Vita morte e miracoli di Bonfiglio Liborio” ha usato la stessa tecnica e ci ha vinto il Campiello 2020, ottenendo un successo molto maggiore di quello di Cinquegrani, ma questa è un’altra storia e a me “Cacciatori di frodo” è piaciuto di più.

Protagonista è un uomo del nordest italiano, Augusto, benestante proprietario di un inceneritore per lo smaltimento di pneumatici. Tutti i giorni sua moglie cerca di ammazzarsi aspettando il treno che le faccia rotolare la testa giù dagli argini e nel fiume. E tutti i giorni lui percorre dodici chilometri suppergiù di binario morto per andare a recuperarla. Tutti i giorni, da quando il loro piccolo di diciotto mesi è caduto dalla finestra. Dodici chilometri di pensieri e ricordi, considerazioni e scoperte di verità nascoste. Che lui stesso, che la sua stessa mente gli ha finora nascosto.

Un flusso di coscienza a un tempo esiziale e catartico di poco più di cento pagine. Pagine fitte, piene. Non solo perché gli a capo si contano in tutto il libro sulla punta delle dita, e non solo perché i periodi possono durare pagine intere. Ma anche e soprattutto perché ogni pagina contiene una cifra, un barlume, un’espiazione, un rimorso, un contrasto, un rifugio, una rabbia, un motivo per cui il protagonista è adesso l’individuo che è. 

Alessandro Cinquegrani

Con uno stile consapevole e apprezzabile, Alessandro Cinquegrani, oggi professore di critica letteraria all’Università Ca’ Foscari, dà vita a un fiume, ordinato e musicale, di parole che gridano per le ingiustizie di cui il protagonista si sente vittima, che ha visto perpetrare attorno a lui, che lo hanno da sempre circondato. Un fiume, come quel Piave dei fanti il 24 maggio, che scorre nei suoi pensieri e li accompagna nel loro fluire ininterrotto scandendone corso e velocità.

Flusso di coscienza? Oddio, no. 
Calma. Non c’è da spaventarsi. Il James Joyce di “Ulysses” e delle decine di pagine senza segni di interpunzione è molto lontano. Qui tutto è comprensibile. Come già detto nel post sul flusso di coscienza, all’epoca (si parla degli inizi del Novecento) gli autori erano visti dalla gente con rispetto, deferenza. L’autore dal suo piedistallo elargiva capolavori che, nella loro forma contorta, stava poi al lettore decifrare. Ora i tempi sono cambiati, il lettore cerca l’immediatezza, la facile fruizione. Così, nel corso degli anni, anche il flusso di coscienza è cambiato. Valutate voi.

…ma io non conto i passi mentre percorro i binari della ferrovia, penso mentre percorro i binari della ferrovia, io mi porto al guinzaglio la mia nuvola, una manciata di metri cubi di acerbe espiazioni prese al guinzaglio e percorro i binari della ferrovia, dodici chilometri ho sentito dire, dodici chilometri suppergiù che devo percorrere per raggiungere la curva troppo stretta e dietro la curva trovare mia moglie sdraiata sui binari che aspetta che il treno venga a farle rotolare la testa giù dagli argini e nel fiume.

“Cacciatori di frodo” è un gran bel libro, complesso e aspro, che vi invito a leggere, senza preconcetti, senza difese. Per goderne appieno dovrete lasciarvi trascinare. Non ve ne pentirete.

QUI l’articolo originale:

https://fmontonati.com/2021/11/04/cacciatori-di-frodo-di-alessandro-cinquegrani-recensione/ 

La vita moltiplicata – recensione di Teodora Dominici su Flaneri

La vita moltiplicata – recensione di Teodora Dominici su Flaneri

Trasfigurare la realtà in un carosello di sogni

Alla sua terza raccolta di racconti dopo L’ora migliore e altri racconti (Il Foglio, 2011) e Non risponde mai nessuno (Miraggi, 2017), Simone Ghelli raccoglie qui una teoria di narrazioni brevi collegate tra loro dall’atmosfera rarefatta e onirica, in cui i protagonisti si muovono galleggiando a metà tra le trasfigurazioni di cui è capace l’inconscio e una realtà talvolta amara da digerire.

I dieci racconti di La vita moltiplicata (Miraggi, 2019) ci proiettano in un universo in cui la nota di fondo è malinconica, fin dai titoli, che risuonano di un’eco sognante e ineluttabile – “L’ineluttabile” è tra l’altro il titolo dell’ultimo racconto, tra i più belli, dedicato a un ex studente di Siena che vi ritorna per un posto da ricercatore e, in un locale di via Pantaneto che ha ormai cambiato gestione, ha una intensa conversazione notturna con un bizzarro personaggio che si intende di cinema e filosofia.

Il titolo della raccolta sembra volerci introdurre, in maniera sintetica quanto incisiva, alla materia che troveremo affrontata nella raccolta: spezzoni, frammenti in perenne mutamento, stati di transizione, momenti clue – o meglio, epifanie –, una vibratile costellazione di esistenze sempre sul punto di “spiccare il volo”, come la figuretta in copertina, da una fase all’altra della vita o da un piano all’altro della propria essenza profonda.

Vi è, in questi racconti, un senso dell’attesa, dello stare a guardare, come nel primo, “Oboe d’amore”, che parla del difficile rapporto con la musica e con la madre di un bambino e poi adulto invaso dalle proprie personalissime muse.

«Accadeva che io fossi un’ombra, e che perciò strisciassi silenzioso tra i tappeti di foglie autunnali; e che ricoperto in testa d’un cappuccio di pelliccia, restassi a fiutarla tra i folti cespugli, a respirarla di lontano».

Ci sono situazioni allucinate, come nel caso di Vera, dove dai ricordi, dalle fotografie, dalle memorie di vita di coppia lei scompare, lasciando al compagno il dubbio che non sia mai esistita («Vera divenne ben presto Era, terza persona singolare del verbo essere, passato imperfetto»), sullo sfondo di una città post-apocalittica in cui stuoli di uccelli imperversano sull’orizzonte «gravido di antenne».

Molto emblematici sono i personaggi di “La somma dei secondi e dei sogni” e “L’ultima vetrina”, rispettivamente uno stagista di casa editrice e un libraio indipendente. Il primo, seppur consapevole che sarebbe stato più saggio imparare, fare esperienza, è irrimediabilmente attratto solo dai manoscritti che continuano a fioccare in casa editrice nella speranza di esser valutati (metafora delle aspirazioni di sconosciuti e velleitari scrittori), il secondo, che ha ereditato carattere fumantino e piccola libreria dal genitore, è colto nel terribile momento in cui decide di chiudere per sempre, facendo calare per l’ultima volta la saracinesca sulla vetrina del suo eroico negozietto.

Vi sono poi i postini anti-Internet, il professore di provincia triturato dai social per aver voluto lasciare i suoi pestiferi ragazzi liberi di esprimersi aggirando le disposizioni ministeriali, ragazzi spenti a casa ma indisciplinati a scuola, risucchiati dai loro telefonini in un’illusione di vitalità. «E come dargli torto?», osserva questo professore. «Per loro la scuola dev’essere una specie di mondo in bassa definizione».

In “La grande divoratrice” e “La sentinella di ferro” troviamo invece la critica sociale, uno sguardo più lucido su alcune realtà scomode del nostro tempo, il lavoro spersonalizzante dei call center – in generale dei servizi di assistenza/vendita ai clienti, con i loro annessi e connessi di postazione pc, credenziali di accesso, team leader e piani produzione – e le vecchie fabbriche che mangiano sia il paesaggio sia gli operai che ci lavorano.

Nel primo il protagonista «prendeva appunti sul portatile e provava a scrivere qualcosa che non sapeva se sarebbe diventato mai un libro o se sarebbe rimasto soltanto un lamento in prosa, il tracciato emotivo di un soggetto defraudato di qualcosa». Nel secondo un vecchio operaio osservando la ex fabbrica si rammenta «del tempo in cui contava soltanto produrre, e poi di quello in cui se n’erano vergognati, ma in cui era comunque necessario continuare».

I personaggi che Simone Ghelli sceglie sono tutti specchi di qualcos’altro, emblemi e maschere utilizzati per proiettare momenti e sentimenti stratificati nel tempo. Sono sentinelle costantemente in bilico tra l’infanzia e l’età adulta, tra quel che volevano fare e quel che invece fanno, tra l’incredibile qui e ora in cui l’azione sembra possibile e il successivo attimo di dispersione.

Queste figure, il postino, il professore, lo stagista, l’operaio, l’impiegato, il libraio, il pianista coatto, appaiono nello stesso tempo molto reali e assolutamente avulse. Nell’economia della raccolta, servono però a veicolare pensieri e significati che convergono tutti in una stessa direzione, quella di una velata critica al vivere contemporaneo, una sensazione di “fuori sincrono”, di spaesamento. Che senso ha farsi fotografie da soli? Per testimoniare cosa? Non sarà che questo grande universo di dati e informazioni in cui tutti sono immersi è una grande illusione, il miraggio di una vita piena? Non sarà che alle persone ora basta un’idea, la possibilità di questa libertà illimitata? Perché nessuno scrive più lettere e riceviamo solo estratti conto e pubblicità, sarà che non abbiamo più niente da dirci? Perché dobbiamo farci venire delle crisi di rabbia guidando per strada dietro a una persona lenta, e arrivare in ritardo a un lavoro da automi in cui non conosciamo neanche tutti i nomi degli altri dipendenti?

Allora può essere che un personaggio, stufo di tutto, per reazione, non desideri altro che «vivere in mezzo ai boschi […] diventando semplicemente terriccio per i funghi».

Che pace. Che pensiero vitale anche se raccoglie un’idea di scomparsa. Soprattutto se a fare da contraltare vi è una città del genere (è Roma): «Si era a tal punto elevata sul proprio passato da assomigliare a una millefoglie: strati e strati di asfalto, di laterizi poggiati l’uno sull’altro, di fondamenta accavallate tra loro. E ogni volta che si apriva una voragine sulla strada, lui si affacciava di sotto con la speranza di vedere l’inferno, o almeno un antico centurione sulla biga, mentre invece non c’era che qualche centimetro di nulla in cui si sentiva l’odore del catrame bruciato».

Lo stile di Ghelli è ben calibrato, piano ma con aperture al ricercato, e nel tessuto della narrazione sono frequenti le incursioni di sensazioni e stati d’animo. Talvolta si accumulano passaggi disorientanti in cui il filo si aggroviglia, strati di parole che conducono a una stanza sempre diversa del labirinto. La forma preferita è quella della brevità senza troppo indulgere al dialogo, che è invece protagonista nel già citato ultimo racconto, quello che accoglie anche, nelle parole dell’uomo misterioso incontrato dall’ex studente, il pensiero che pervade e attraversa l’intero libro:

«È difficile aderire all’immagine che gli altri pretendono da noi. È il piccolo o grande dramma dell’adattamento dell’individuo ai canoni sociali. La forma comica sancisce l’appartenenza alla società, così come la forma tragica ne sancisce l’esclusione».

QUI l’articolo originale:

http://www.flaneri.com/2021/11/15/vita-moltiplicata-ghelli-recensione/?fbclid=IwAR0SY_VtpWFZh2kXrI-qtnsGMuNSbG-Ef3mu459BcE5p3CwQgt7Uq3eA0uI

L’uomo che rovinava i sabati – recensione di Vincenzo Trama su Il foglio letterario

L’uomo che rovinava i sabati – recensione di Vincenzo Trama su Il foglio letterario

Ma che bella scoperta è L’uomo che rovinava i sabati!

La cosa pregevole è che la lettura di un libro di 352 pagine è andata giù come una birra fresca, tipo una festa molto più mobile di qualche americano triste. Conoscere Jack Ebasta e gli altri auto-reclusi della Val Crodino mi ha fatto pensare che in fondo sono meno solo di quanto possa pensare. Sì, perché se c’è una cosa che ho afferrato della vacuità di Facebook, da cui sono iscritto da maggio con grande, grandissima riluttanza, è che libri come questi, in contesti dove si ciarla a vanvera di qualsiasi cosa, li trovi col lumicino, se insisti, a tentoni. E invece dovrebbero essere loro a trovare te, in qualche modo, perché teoricamente sei in cerca di qualcosa, di qualcuno, di un modo diverso di pensare e di leggere.

Se aspetto però gli algoritmi faccio in tempo a chiudere il profilo, per cui tanto vale parlarne, almeno un po’, qui nel cantuccio della nostra rivista online.

Nella Val Crodino, in Lombardia, Poloni ci racconta della storia di tre amici: il poeta Jack Ebasta, il cantautore Chiarugi e il Palma, che invece fa il liutaio. Nelle loro vite c’è sempre un “che” di sbagliato, una nota distorta che non vuole sapere di accordarsi con il resto del volgo, quello che “sta bene”, che non sosta nella “zona disagio”, come la definiscono loro. Eppure anche il solo parlarne, il condividere assieme punti di fuga, più che di vista, rende la loro esistenza sensata, pur all’interno di una enclave che ha scelto consapevolmente di rimanere ferma nel tempo – o meglio con il tempo – rifiutando una scellerata corsa alla modernità a tutti i costi, alla spersonalizzazione social e alla svendita un tot al chilo della propria libertà.

C’è tanta poesia in questo libro, e tanta natura. C’è l’immersione in un borgo screziato di verde e di blu e c’è l’amicizia. C’è una scrittura paziente e tenace, che leviga il foglio. E ci sono passaggi, spunti e riflessioni che vanno ben oltre la soglia del romanzo.

Il bello di questo libro è proprio questo, che è soltanto in apparenza un romanzo. È molto di più; è un distillato visionario, un estratto allucinogeno di qualche funghetto montano, un file corrotto di un sistema affaticato, che si ostina a girare male, malissimo.

Nelle pagine de L’uomo che rovinava i sabati si trovano indicazioni di vita, scelte plausibili per quanto rischiose, modalità alternative per condurre un’esistenza più faticosa, magari, ma estremamente libera. Questa urgenza comunicativa di Poloni io l’ho avvertita, tra le righe. Nella sua stessa bio, quando parla di insegnante redento, si legge tutta la disillusione di una professione allo sbando da più di un trentennio. E i tre amici che partono alla ricerca di un uomo che forse neanche esiste sono lo specchio di tutto ciò; ci si lascia qualcosa di certo alle spalle, ma solo per tendere ancora una volta all’indefinito, come promessa che nessun database o forma sociale prestabilita può darci. La ricerca a tutti costi del successo, sia esso espresso anche da un semplice like in più, ha avvelenato le coscienze della maggior parte di noi, sterminando quei minimi anticorpi che avevamo da stagioni di lotte sociali e civili. Leggere un libro come questo riequilibra. E ne abbiamo bisogno, dannatamente.

Io, vi assicuro, un giro nella Val Crodino me lo vado a fare. Se ci venite anche voi buttate un fischio, che si prepara lo zaino assieme.

QUI l’articolo originale:

Vincenzo Trama – “L’uomo che rovinava i sabati” di Alan Poloni

Santi, poeti e commissari tecnici – recensione di Emiliano Colomasi su REWRITERS

Santi, poeti e commissari tecnici – recensione di Emiliano Colomasi su REWRITERS

Angelo Orlando Meloni ci conquista con una scrittura ironica e profonda

Cosa passa per la testa di uno talmente innamorato di uno sport da non concepirne la sua trasformazione in un business esasperato? Chiedetelo ad Angelo Orlando Meloni, chiedetelo al suo “Santi, poeti e commissari tecnici” (Miraggi Edizioni).

Sei racconti irriverenti, teneri, commoventi, incentrati sullo sport più amato dagli italiani: il calcio. Metafora, collante sociale, fucina di sogni e delusioni, corruzione e sudore, denaro, sacrificio e vendetta.

C’è la squadra di provincia che inizia a vincere perché santa Serafina, la santa patrona del paese, suggerisce formazione e tattiche al parroco; c’è un centravanti alcolizzato che riaccenderà la passione dei tifosi di una neopromossa in B; un ragazzino di talento, figlio di una famiglia umile, messo fuori squadra per far spazio agli altri, ai ragazzi con i padri avvocati, medici e notai. C’è lo sport in tutte le sue sfaccettature, si parla di calcio ma quello che ti resta in testa è la trasformazione di una intera società.https://googleads.g.doubleclick.net/pagead/ads?client=ca-pub-6096339054037913&output=html&h=200&slotname=6402658951&adk=2293240344&adf=2340260423&pi=t.ma~as.6402658951&w=798&fwrn=4&lmt=1641306606&rafmt=11&psa=0&format=798×200&url=https%3A%2F%2Frewriters.it%2Fsanti-poeti-e-commissari-tecnici-i-racconti-di-angelo-orlando-meloni%2F&flash=0&wgl=1&uach=WyJtYWNPUyIsIjEyLjAuMSIsIng4NiIsIiIsIjk2LjAuNDY2NC4xMTAiLFtdLG51bGwsbnVsbCwiNjQiXQ..&dt=1641306935602&bpp=2&bdt=490&idt=514&shv=r20211207&mjsv=m202112060101&ptt=9&saldr=aa&abxe=1&prev_fmts=0x0%2C798x280&nras=1&correlator=7003414156900&frm=20&pv=1&ga_vid=1557863565.1641306936&ga_sid=1641306936&ga_hid=1285529850&ga_fc=1&rplot=4&u_tz=60&u_his=2&u_h=900&u_w=1440&u_ah=875&u_aw=1440&u_cd=24&u_sd=2&dmc=8&adx=321&ady=2264&biw=1440&bih=796&scr_x=0&scr_y=0&eid=21067496&oid=2&pvsid=1910922950845235&pem=407&tmod=842&eae=0&fc=1920&brdim=0%2C25%2C0%2C25%2C1440%2C25%2C1440%2C875%2C1440%2C796&vis=1&rsz=%7C%7CeEbr%7C&abl=CS&pfx=0&fu=1152&bc=31&ifi=3&uci=a!3&btvi=2&fsb=1&xpc=eJ2vFfKDQs&p=https%3A//rewriters.it&dtd=518

Angelo Orlando Meloni riesce a tenere insieme queste storie spingendosi al limite del surreale e lo fa con una scrittura agile, ironica e profonda che accompagna il lettore tra le pagine di questa raccolta di racconti. I suoi personaggi, mai banali, portano sulle spalle, nel bene e nel male, il peso di questa trasformazione antropologica e si comportano di conseguenza creando una galleria di caratteri e di indoli davvero formidabili.

«Lindo Martinez invece il giorno corricchiava e la notte andava a puttane, anche se lo sapevano solo un barista e un gastroenterologo di Buenos Aires, che lui fosse sostanzialmente un alcolizzato. Martinez di sé pensava in grande, di essere un campione e di non avere niente da dimostrare. Era felice e beveva come una merda.».

Leggendo “Santi, poeti e commissari tecnici” si ride molto, ci si indigna perfino ma la particolarità di questa raccolta di racconti è il filo rosso di profonda umanità che lega, una dopo l’altra, queste storie, tra sogni infranti, delusioni, amore e rinascite.

«E hai pulito lo spogliatoio e hai raccolto i palloni e sentivi una cosa in gola. Quando sei uscito di lì con la borsa sulle spalle la cosa nella gola era diventata un artiglio dentro lo stomaco e non era possibile che solo venti minuti prima poteva essere così bello. Non hai nemmeno sentito l’allenatore che si lamentava con il custode del campetto: “Tutte le teste di cazzo sempre a me”. O forse hai fatto finta di non sentirlo, come hai fatto finta di sorridere a tuo padre, all’uomo dei tic, mentre tornavate a casa, e tuo padre ha fatto finta che non fosse successo niente. Perché così va l’amore, a volte non facciamo domande per paura delle risposte.».

QUI l’articolo originale:

L’EDOnista – recensione di Laura Marzi su Il manifesto

L’EDOnista – recensione di Laura Marzi su Il manifesto

La formazione sentimentale di un «edonista»

L’Edonista è il titolo del romanzo scritto a quattro mani da Francesca Angeleri e Alessandra Contin (Miraggi Edizioni, pp. 172, euo15). Edo è il nome del ragazzo protagonista, nonché voce narrante: un giovane rampollo dell’alta borghesia torinese, che già nelle prime pagine impartisce una lezione tanto severa, quanto realistica: «nella vita contano i soldi e quelli fatti in una sola generazione non sono sufficienti. Nell’ufficio di mio padre ci sono appese lauree che risalgono agli inizi dell’Ottocento Quei titoli rappresentano una vasta rete di contatti e di benessere, nonché un laboratorio di eugenetica che ha portato al mio concepimento».

IL ROMANZO racconta il percorso che ha condotto il ragazzo, che all’inizio della storia è dominato da una tale visione del mondo, feroce e classista, a diventare un adulto. La vita di Edoardo si compone di studio – deve scrivere la tesi in giurisprudenza – uscite con amici, che appartengono alla sua stessa classe sociale, e amplessi con ragazze che hanno tutte in comune disturbi alimentari. Queste amanti non hanno un nome, ma vengono indicate con locuzioni tipo: «Disturbia Mentina», «Disturbia Cappuccino», eccetera. Le principali attività che Edoardo svolge insieme agli amici Gianmarco, Leone e Sofia sono: assumere dosi massicce di alcol e droghe sintetiche e fare delle bravate, come terrorizzare coppiette appartate sulle strade della collina torinese. Sembrerebbe quasi che la ferocia e la superficialità dei comportamenti di Edoardo siano da addebitare alla sua situazione familiare: la madre, anch’essa laureata in legge, ha abbandonato la sua carriera da giovane, mentre il padre, brillante e agguerrito avvocato torinese, che lavora per «il diavolo», cioè le grandi aziende, la tradisce regolarmente con ragazze, che non superano mai i venticinque anni.

IL TURNING POINT del testo è generato, ça va sans dire, dall’amore: Edoardo che sembra un anaffettivo, erotomane cronico, è in realtà semplicemente innamorato, senza volerlo ammettere neanche a se stesso, della sua compagna d’asilo Viola. Anche la ragazza è figlia dell’alta borghesia torinese, ma non di quella che si assume la responsabilità del classismo, bensì la fazione radical chic.
Dopo che la verità del sentimento esploderà in faccia a entrambi, Edo si recherà a Brighton, per la consueta estate a casa di sua zia Ginevra. La donna ha il ruolo della coadiuvante dell’eroe: grazie all’affetto di questa zia e al suo essere davvero irresistibile, Edoardo scoprirà alcune verità sulla sua famiglia, lasciandosi alle spalle l’insensatezza delle abitudini torinesi, il vuoto di un’esistenza dedicata alla distruzione di se stesso e al consumo di sostanze e di persone, come se fossero la stessa cosa.

Il testo di Angeleri e Contin si contraddistingue per un uso della lingua particolarmente adeguato al tema della narrazione e coerente coi personaggi, che rende la lettura agevole e contribuisce alla creazione di un mondo, composto da persone estremamente ricche, eccezion fatta solo per il personale domestico, che nel testo è decisamente riuscita e convincente.

QUI l’articolo originale:

https://ilmanifesto.it/la-formazione-sentimentale-di-un-edonista/

Endecascivoli – recensione di Paola Giorgia Ascani su Exlibris20

Endecascivoli – recensione di Paola Giorgia Ascani su Exlibris20

Un arcobaleno di sensazioni

Dal frivolo al più profondo, i racconti, ben 65, sono tutti a tinte forti, ben delineati, pur nella estrema brevità sono pieni di dettagli che li rendono sorprendentemente articolati.

Nell’insieme, a fine lettura, si rivelano come i singoli, minuscoli frammenti di un discorso unico.

Zurru semina questa unitarietà in ciascun racconto e lascia il lettore trovare il suo fil rouge.

Una parola, un luogo, una scena, comporrà il tutto in un unico affresco.

Non a caso i racconti non hanno un titolo; forse proprio per non spezzare quel filo che li lega. Per non dare loro un’indipendenza, lasciando che sia il lettore a unire i piccoli indizi, come puntini che formano una sola figura.

La voce di Zurru è molto precisa. Ha caratteri univoci è ironica, ma sa essere anche dura, drammatica. Il registro cambia spesso lungo i racconti e questo rende la lettura oltremodo piacevole, mantenendo alta l’attenzione alle tante storie raccontate.

Lui stesso parla della propria voce di scrittore. Nel racconto 44 confida al lettore che, dopo mille ricerche, osservando le cose, la natura, e dopo l’ascolto dei suoni e delle voci altrui, è stata proprio lei a trovarlo e a rimanergli fedele “la voce scava da sola, se vuole, le parole sanno la strada che parte e arriva sicura”.

Ed è bellissimo anche il racconto 43, nel quale accosta lo scrittore a un direttore d’orchestra, la scrittura alla musica. Scrivere è come riempire uno spartito. La ricerca della parola perfetta è come il tocco del musicista sui tasti d’avorio; la lettura del proprio testo finito è come suonare la musica che si è creata. Un racconto elegantissimo.

Per questo Endecascivoli non è solo un’antologia di racconti. Sembra piuttosto un insieme di frammenti dello stesso romanzo, una storia unica distinta in flash, in istantanee. Piccole fotografie che possono essere scattate o disegnate e inserite nel riquadro vuoto che il lettore trova all’inizio di ciascun capitolo, come una cornice pronta a ospitare l’immagine evocata leggendo in racconto. Gradevole e molto fantasiosa questa idea editoriale di far interagire, sotto diversi punti di vista, chi legge.

Spesso, chi scrive, lo fa partendo da un’immagine; che sia un passaggio volontario, un’operazione contemporanea o meno alla stesura, è un’operazione comune a molti scrittori. Si parte da un’immagine e poi ci si scrivono su le parole; in questo caso, l’incontro è doppio e intrecciato. La prima immagine è Zurru a metterla, scrivendo un racconto che poi il lettore potrà tradurre in un’altra immagine ancora. Due immagini e in mezzo le parole a veicolarla.

Con questi racconti il lettore è ricondotto in un mondo che non esiste più. Quando si legge dei frammenti di una vita rurale ormai dimenticata, quando l’autore ricorda le merende di pane e zucchero per i bambini preparate dalle nonne, “in campagna, riuniti nei giorni di festa. Parlavano poco, ma questo è già detto. Mangiavano l’aria che avevano intorno. Mangiavano l’aria, almeno quel giorno”, i ritmi lenti, i sapori forti di sentimenti e rapporti umani.

In altri racconti, a uscire nitido è invece il rapporto viscerale con il mare. Descritto come una creatura sensuale la cui brezza è un essenza conturbante, il respiro è l’artefice di un movimento che diventa seduzione “mi fermo su un granello di sabbia che rimane sul letto anche se ho fatto la doccia al ritorno dal mare.”

E ancora, c’è la vita circense come metafora usata spesso da Zurru per divertire il lettore e suscitare in lui una riflessione profonda con un’atmosfera onirica, dal sapore quasi felliniano, per descrivere una realtà tragicomica.

Ma è nei racconti che sono filastrocche, in cui l’autore dà il meglio di sé. Divertissement con un fondo di riflessione che addolciscono l’anima in uno spazio effimero; il loro ritmo giocoso si esprime e comprime in una pagina o poco più. Il racconto 45, ad esempio, in cui lo scrittore usa una filastrocca ironica che fa ridere di gusto, malgrado la tematica sia tutt’altro che scherzosa nel far riflettere sulle persone che si perdono, lasciando un retrogusto amaro nel lettore più attento.

Da metà libro in poi si trovano, forse, i racconti più profondi, più intimistici; la voce dell’autore si fa confidenziale, calda, la sua visione del mondo si rivela appieno ed esce l’attenzione ai rapporti umani, in particolare all’amicizia come istante in grado di durare tutta una vita e unire nel profondo le persone, pronto a rinnovarsi.

E c’è anche l’attualità. La pandemia, che pervade, ma non invade il campo. Rimane come elemento incidentale, fa da sfondo nel racconto 50. Un pezzo particolarmente esilarante e critico al tempo stesso. Nell’intervallo esiguo di una pagina, vi trova posto un’acre critica ai social, mondo inventato, dove si riciclano frasi e comportamenti che prima trovavano posto “nei cessi”. Un racconto che è quasi un sonetto, per struttura e morale.

In altri casi invece, i racconti assomigliano a ballate; ritmi e contenuti che, ancora con una metafora musicale, potrebbero esprimersi in fraseggi alla De Andrè, coi quali condividono il ritratto dolce-amaro dell’umanità.

In Endecascivoli c’è anche tanto della terra natìa dell’autore: la Sardegna con le sue miniere, la vita dei minatori, dura, essenziale e ricca di valori, descritta con tinte meno vivaci, forse più cupe, ma sempre schiette.

Complimenti a Patrizio Zurru, che incontra la realtà e ne scrive con vigore e nuance variegate, conservando una voce personale, a tratti tinta di poetico, dove la realtà è ricordo, evocazione o durezza del quotidiano. Questa raccolta fa riflettere in modo talvolta leggero, talvolta impegnativo sull’esistenza, sul passato e sui valori attuali della vita.

Un libro da leggere anche in questa estate bizzarra, sia nel meteo che nel quotidiano, che si lascia scorrere in modo scorrevole e piacevole; con la consapevolezza che qualsiasi cosa si possa leggere “appena finisce il racconto è finito l’amore che hai ascoltato, che hai letto, o immaginato”.

Così è, se vi pare, insomma.

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Più di là che di qua – recensione di Massimo De Feo su Il manifesto

Più di là che di qua – recensione di Massimo De Feo su Il manifesto

Passeggiata in bicicletta con celebrità

Inforcata una bici un monaco buddhista tibetano si inoltra nel Bardo, dimensione in cui per 49 giorni viaggia l’anima del defunto in attesa di rinascere o di raggiungere l’illuminazione. Nel suo pedalare si imbatte in Garibaldi, Fausto Coppi, Omero, Gesù, Attila, Van Gogh, Dante, Karl Marx, Freud, Hitler, Santippe, Elvis Presley, Cleopatra… per citare solo alcuni dei 49 trapassati, tutti più o meno «illustri» e tutti confusi e perplessi, di cui riporta le peripezie. Nel Bardo non valgono le leggi dello spazio-tempo dei vivi, passato presente e futuro si intrecciano, si sovrappongono, e i ricordi di quanto si è fatto in vita non mollano facilmente la presa, annebbiando la mente. È la trama di «Più di là che di qua», ultimo scritto di Paolo Morelli (Miraggi edizioni, 170 pag. 16,15 euro). Di ogni deceduto viene riportata la data, il luogo e la causa della morte, e quando è possibile anche l’ora. «’Addio Totonno, non veggo più luce’ esalato l’endecasillabo sfranto Giacomo Leopardi s’è appressato alla morte il 14 giugno del 1837, alle 21 precise in vico Piero 2 a Napoli, tra le braccia di Ranieri Antonio, appunto». Dopo varie avventure calcistiche ed endecasillabi sempre peggiori, l’ex poeta infinito «riuscirà a intrufolarsi nella signorina Clemente Anna, la quale il 15 febbraio ’98 dava alla luce Antonio Vincenzo Stefano, meglio conosciuto come Totò».

Alighieri Durante, detto Dante, cerca di capire chi sono tutti questi arrabbiati con lui che gli vengono incontro. Che gli ha fatto? Non se lo ricorda. Johann Sebastian Bach si risveglia in un canneto. Gesù «ha esalato l’anima il 7 aprile dell’anno 30 dopo sé stesso, un retrogusto acetoso in bocca…».

I primi passi nel Bardo di Blaskó Béla Ferenc Dersö, in arte Bela Lugosi, sepolto con mantello di velluto nero e rosso, sono in un campo sterminato, coltivato ad aglio. «Ah no! Io qui non ci vivo neanche morto!». Per Karl Marx c’è il deserto rosso di Marte, landa senza una capitale, per Napoleone Buonaparte ovviamente il manicomio. Cristoforo Colombo è prigioniero di una banda di vichinghi. Cervantes e Shakespeare, morti entrambi il 23 aprile 1616, si ritrovano abbracciati l’un l’altro guardandosi in cagnesco. Adolf Hitler si porta appresso le ultime ore nel suo bunker, e ossessivamente cerca invano di suicidarsi di nuovo, con coltelli, veleni, cocci di bottiglia, salti nel vuoto… «non era certo un trionfo per la logica tentare di ammazzarsi per chi è già morto». Archimede di Siracusa fu ucciso veramente il 14 marzo del 212 a.C., ossia nel giorno del pi greco?

La testimonianza del monaco a un certo punto viene interrotta da un reportage dalla Moravia, regione della repubblica Ceca, di cui discutono Alberto Moravia, Elsa, Pierpaolo ed Enzo. In chiusura prende il via il Gran Premio del Mandala, corsa ciclistica di 40 km. Garibaldi va subito in fuga, il plotone guidato da Bach e Paganini lo riprende quasi subito. Il primo gran premio della montagna se lo aggiudica Lugosi su Savonarola. La corsa continua, scatti di Van Gogh, Dante e Salomone e via pedalando con Romolo, Elvis, Cleopatra, pioggia e vento contrario, cadute, inseguimenti, fino al circuito di Quintessenza dove si taglia il filo di lana caprina dell’arrivo.

«Più di là che di qua ha un che di psichedelico, si specchia nella dimensione dei sogni, a volte assurdi e sconclusionati, a volte profetici o misteriosi. I giochi di parole e i calembour abbondano, la fantasia straripa. L’autore si è chiaramente divertito in sella a questo libro, che rimanda alla Livella del Principe de Curtis lucidando la falce del Tristo Mietitore.

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