Dopo “Dio se la caverà” dallo scrittore bergamasco arriva il sorprendente “L’uomo che rovinava i sabati” Romanzo picaresco che richiama la commedia all’italiana, “suona” come una sarabanda, fa ridere e anche riflettere
L’andatura narrativa è picaresca, in diversi luoghi richiama la commedia all’italiana, e si potrebbe anche scomodare il romanzo di formazione, o meglio il viaggio iniziatico, quello che osa spingersi oltre gli angusti limiti della coscienza ordinaria. Il termine esatto è sarabanda, forse. D’altronde, in chiave musicale la sarabanda per eccellenza è la “Follia Spagnola”, consiglio la versione di Corelli per un assaggio. Di sicuro il romanzo di Alan Poloni, “L’uomo che rovinava i sabati”, edito da Miraggi a fine 2020 – seconda prova dello scrittore bergamasco dopo “Dio se la caverà” (Neo 2014) – ha pochi paragoni con le opere che van per la maggiore: e questo sia detto a merito, s’intende.
Questo romanzo non ha genere, semmai crea un genere nel segno dell’invenzione continua, divertita e divertente. Per restare in ambito musicale, è una sorta di Arte della Fuga, e magari anche un Enigma, come quelli che Bach si divertiva a far risolvere a Federico II di Prussia. Altri tempi, altri sovrani.
Tre amici
Tutto nasce da tre amici scombinati, che fanno fatica a “starci dentro”, come ama dire Poloni: un poeta, Jack Ebasta, in perenne bilico e conflitto sia con gli affetti primari, sia con il sistema editoriale; un cantautore tombeur de femmes, Malcolm Chiarugi, che campa installando cessi chimici; un liutaio che realizza chitarre per intenditori, Palmiro detto Palma, che però fatica a separarsene, ovvero non le vende al primo che passa, ci mancherebbe anche quella. E poi c’è il contesto, la fantomatica Val Crodino, nicchia antropologica che ospita una popolazione sopra – meglio: sotto – le righe, gente dall’animus anarcoide che non ha certo di mira il posto fisso e men che meno il consumo, refrattaria com’è ai centri commerciali, che qui non hanno il permesso di soggiorno; gente che si contenta di poco o nulla, eccezion fatta per certi funghi psicotropi, opportunamente ripassati in pentothal dal druido di turno. Date un occhio alla copertina del libro: il serpente tenta Adamo ed Eva avvinto a un Amanita Muscaria, qui albero del Bene e del Male, proprio come accade in un affresco medievale.
Messa a fuoco
A onor del vero, andrebbe anche aggiunto un quarto personaggio, che magari passa via minore, ma che minore non è affatto per la messa a fuoco della trama: trattasi di Cecchini, figlio del farmacista, ovviamente ipocondriaco, una sorta di Roi Ipnol, di sacerdote del monte Tavor. A me il libro si è acceso proprio all’arrivo del Cecchini, per la precisione a pagina 136. Prima i tre stiracchiano le loro vite in assenza di direzione certa, o perlomeno retta. I sodali hanno una vocazione, eccome, ma la medesima marciava sul posto, ingavinati com’erano nelle rispettive ossessioni: Palma a elaborare il lutto della separazione dalla Rossana e a cacciare dal negozio clienti indegni delle sue creature; Chiarugi a impiantare bagni chimici e a tener testa al suo parco donne, che a quanto pare proprio cessi non sono; Jack che resiste alle gioie della serenità familiare e in cambio di due palanche declama in pubblico poesie con «fredda cantilena da monatto incallito» (21).
Bene: entra in scena il Cecchini e gli altri tre trovano la via, guarda caso uniti e solidali. Siccome il Palma insegue un misterioso antropologo disperso tra i monti – vuole a tutti i costi provare una sua teoria sull’ostinata stanzialità dei Camuni, antichi abitatori della Valle –, gli altri due lo accompagnano nel fantastico viaggio finale; nel mentre, in quattro e quattr’otto Malcolm sforna un album con una canzone dedicata a ciascuna delle donne del suo harem, invitando l’intero parco al concerto di lancio, per vedere da vicino l’effetto che fa; Jack verrà richiamato in servizio permanente effettivo dagli affetti familiari e dal sistema editoriale, cercando di mantenersi passabilmente impuro e folle.
Sorriso benevolo
Alan Poloni si mette in traccia dei suoi personaggi, li pedina, a volte li affianca facendosi il quarto di tre, certo li scruta col sorriso benevolo del genitore che sorvola sui difetti, ci regala l’utopia delle intenzioni, arreda con cura questo suo ripostulato altrove. Esibisce uno stile libero, crepitante come il fuoco quando prende bene, felice per inventiva e dismisura. Si ride di gusto, preparatevi, ci sono giri di frasi da sbellicarsi, e la commedia si fa largo con felice grazia e levità. Come avete capito, i temi del libro sono parecchi. Uno, l’amicizia virile, che prova a dare un senso al mondo a partire da quelle primitive vocazioni che non devi mai scordare per strada, o peggio tradire. Due, il romanzo è fitto di rimandi musicali, il sapore è pop e soprattutto rock, mondo che mi sfugge abbastanza, per cui mi astengo. Certo l’intera narrazione è musicale in senso stretto, cioè fatta di intro, sviluppo del tema, ritornello polifonico, ripresa finale, chiusa a sorpresa, con una ritmica solida a scandire il tempo. Terzo, per me delizioso, l’infinito gioco di rimandi e citazioni letterarie, altrettanti segreti omaggi ad autori che Poloni evidentemente predilige.
Però, ecco, a ben vedere, al centro di tutta la narrazione, e dunque delle intenzioni dell’autore, sta la preoccupazione per la sorte della poesia, che poi sarebbe la vocazione allo stato puro, o bellezza che dir si voglia: questo è il cuore segreto dell’orologio, la forza propulsiva generata dalla coppia conica persuasione/retorica.
Chiariamo il concetto: Poloni non sta dicendo che la bellezza salverà il mondo, che è roba da involucro dei cioccolatini; no, dice che tocca al mondo, cioè a ciascuno di noi, salvare la bellezza, cosa possibile solo se si lascia campo alla poesia. Il che non significa solamente alla parola, che della poesia è la versione sciamanica per eccellenza, ma anche alla misura di un gesto, all’ascolto dell’altro, all’etica del prendersi cura, all’inevitabile ossessione dell’artigiano, alla felice mania dell’artista. In questa chiave, allora, si può sorridere sull’ossimoro “grosso editore” laddove si parla di poesia(97), piuttosto che meditare sul fatto che in Val Crodino non ci sono «automobili di cilindrata superiore ai milletré (in un’enclave dove poetesse come Mariangela Gualtieri e Livia Candiani venivano invitate quasi ogni anno dalla Mary, “Quattroruote” coi suoi interessantissimi test prestazionali vendeva un paio di copie a far bello)» (132); ci si commuove al ricordo di Pierluigi Cappello (221), o riflettere sul fatto che a Jack per stare meglio basta «girare per la cucina in mise anni cinquanta, sentirsi sandropenna, lui e la sua cheta follia…» (87); infine, e per certi versi soprattutto, si conviene sulla lucida analisi riservata al sistema editoriale: «Il poeta, come il romanziere, fa di tutto per creare il personaggio, per fare in modo che l’extra-libro traini il libro…» (257).
Il circuito letterario premia gli autori permeabili alle logiche della rete, i personaggi televisivi, il chiacchiericcio dei media, l’intrattenimento fine a se stesso, l’Assunzione del nulla. A richiamare il titolo, questo sabato del villaggio globale si merita un calcio nel didietro, che Poloni assesta con felice vigore. A simmetrica chiusa, la poesia s’incarna nella Roxanne dei Police citata in esergo: la giovane prostituta può scegliere di non vendere il proprio corpo perché ha finalmente incontrato qualcuno che la ama davvero.
Edoardo giovane rampollo di famiglia borghese con villa sulla collina “bene” torinese, vive in una bolla nella quale ha tutto ciò che vuole, ma definisce le sue giornate “fotocopie”.
Giornate sempre uguali: studio, amici alcool, droghe e donne per il suo puro piacere sessuale, tutte definite “Disturbia” con qualche aggettivo che le differenzia, ma tutte con la stessa caratteristica: la magrezza eccessiva. Le usa a suo piacimento e poi devono sparire dalla sua vista quanto prima possibile. Con gli amici fa scorribande nei locali dove c’è musica e si “tirano neri” fino all’alba. Una famiglia in cui il padre fedifrago è sempre più fuori casa, lavora molto, il loro rapporto è nullo e la madre ricompensa con ritocchi di botulino e vita solitaria.
Finiti i bei tempi di quando era piccolo e andavano in vacanza dai nonni, non c’è rimedio il tempo non torna. Viola sua compagna fin dall’asilo è la donna del suo cuore, ma lei ha molto da fare, tanti progetti di studio e ad un certo punto pure un fidanzato. Non è un ragazzo tranquillo, sì bello e brillante, ma non sereno, ne prende sempre più consapevolezza e comincia la sua transizione scaricando, una sera, la sua rabbia contro il padre, dicendogli tutto quello che covava dentro e soprattutto a difesa della madre.
Uno tsunami arriva improvvisamente nella sua vita, quando va in Inghilterra dopo la laurea per un corso di studi, dalla zia Ginevra, sorella molto più giovane del padre e da lui detestata.
Il percorso per la presa di coscienza di quello che è Edo realmente e di quello che vuole essere, non è privo di ostacoli, ma scoprire nodi familiari sconosciuti ,riprendere a fare musica, apprezzare la solitudine e affrontare tante strane concomitanze impensabili, sono la condizione che potrebbero permettergli di ritrovarsi e finalmente scegliere quello che ritiene il meglio per lui.
Libro piacevole che si legge tutto d’un fiato, che affronta tematiche all’ordine del giorno, ma non semplici , una vetrina su una realtà giovanile complessa, scritto con linguaggio scorrevole.
Torino, si sa, è una città di libri e di librerie. E anche di scrittori, locali e adottati, capaci di raccontare luoghi e figure tipicamente cittadine. Sullo sfondo, troneggiano (sempre e per sempre) due inarrivabili giganti come Fruttero & Lucentini, con il loro sguardo sapiente su tic e cliché sabaudi. Era dai tempi dei primi romanzi di Enrico Remmert e di Giuseppe Culicchia che non si leggevano pagine così specificamente dedicate a una gioventù borghese e peculiarmente torinese come quelle de L’EDOnista, scritto a quattro mani da Francesca Algeleri del Corriere della Sera e Alessandra Contin, pubblicato da Miraggi. Edo, il protagonista, è il giovane rampollo di una famiglia agiata (molto), con villa in collina (di rigore) e un’ossessione: il sesso con le ragazze magre. Pare aver avuto tutto dalla vita, e certo non si fa mancare nulla. È bello e intelligente, lo descrivono le autrici, e ha una vita apparentemente perfetta, che però perfetta non è. Tra sogni e ambizioni messe da parte, droghe e locali esclusivi, Edo e i suoi amici vivono tutti i possibili scarti tra convenzioni sociali e pulsioni estreme. Ma anche molto casalinghe, come suggerisce l’incipit del romanzo: «Sono qui, in mutande, seduto sulla mia poltrona Frau con il telecomando che punta al sessanta pollici, dove mi imbatto in una replica urlata di Uomini e donne». Fin dalle prime pagine, ambienti tratteggiati con arguzia («A casa mia si fa colazione, rito che sopravvive solo da noi e nelle pubblicità del Mulino Bianco. Ma casa mia è il Mulino Bianco, infatti mia mamma ha assunto un giardiniere peruviano che assomiglia a Banderas») si alternano ad analisi disinvoltamente autoriferite: «Chi ti ha detto che potevi farcela, ti ha ingannato, perché nella vita contano i soldi e quelli fatti in una sola generazione non sono sufficienti». E ancora: «Bellezza, ricchezza e potere sono gli unici ingredienti per un successo duraturo e questi elementi non sono dovuti a capacità individuali, sono un diritto di nascita e non importa quanto ti prodighi a essere un degenerato». Secondo il modello del romanzo di formazione e «educazione sentimentale», L’EDOnista racconta, con il protagonista come io narrante, un percorso di perdita di sé e (forse) di redenzione. Con alcuni riferimenti letterari assai ambiziosi: a che cosa mirare, con un protagonista bello, ricco e dannato, se non a un capolavoro del minimalismo americano come Meno di zero, il primo, impareggiabile e indimenticato romanzo di Bret Easton Ellis? Da leggeremo la musica dei Radiohead e dei Clash nelle orecchie: Should I stay or Should I go?
La sua intenzione non è quella di stabilirsi, di “installarsi” a casa del padre; sta solamente passando per quelle zone -per impegni di lavoro, naturalmente- e sarebbe poco cortese non andare a trovarlo; giusto una visita di cortesia, per educazione. Al massimo potrebbe fermarsi per una notte, certo non di più. Alla fine, si tratta sempre di suo padre. Chissà che faccia farà, pensa Pellicani figlio, dopo vent’anni di assenza. Sarà stupito, sorpreso di vederlo in quel suo completo grigio con la valigetta ben salda in mano. “Affari, un’impresa import-export” gli spiegherà, ponendo ben in mostra la valigetta, mentre il padre si adopererà per mettere a suo agio il figlio, rispettabile uomo in carriera. Certo, il vestito non è perfettamente stirato, appena un po’ sgualcito -ma sono gli effetti dei continui viaggi di lavoro, le trasferte, i voli. Ed è vero, la valigetta contiene solo qualche oggetto di cancelleria di cui Pellicani figlio si è appropriato prima di andarsene dalla sua occupazione precedente e, che altro? Ah sì, una mutanda pulita come ricambio, che non si sa mai. Il palazzo non è, però, come se lo ricordava. Tutta la via, in realtà, si mostra come un cumulo di macerie e pilastri e tubi ed il caseggiato nel quale viveva Pellicani da giovane si staglia come unico edificio sopravvissuto, quasi vergognosamente, tra i resti di altre costruzioni. Pellicani figlio entra nel caseggiato attraverso il portone d’entrata tenuto aperto da un mattone e imbocca le scale…
Partiamo dai fatti: il romanzo in questione è stato finalista alla XXXII edizione del Premio Italo Calvino e in questa occasione ha avuto la Menzione Speciale Treccani: in effetti, l’elemento che forse maggiormente caratterizza e conquista di questo romanzo è l’utilizzo della lingua, puntuale e affascinante. La scrittura è davvero equilibrata, sapiente e il lettore si sente rassicurato, guidato dall’autore cui si affida pienamente: tale precisione e armonia cozzano irrimediabilmente con la storia raccontata, che narra di decadenza sociale, personale, fisica. Il tema centrale è il rapporto fra padre e figlio (o, per la precisione, fra Pellicani figlio e quello che si presume essere suo padre) che implica il conoscersi e il riconoscersi, comprende la necessità di fare i conti con il ciclo della vita, la necessità di dialogo e l’incomunicabilità fra diverse generazioni o ruoli sociali. Mentre i personaggi – limitati, essenziali – sembrano non riuscire a instaurare una comunicazione alla pari, gli oggetti attorno a loro hanno una potenza espressiva e iconica sorprendente (la valigetta, la carne Simmenthal, i fumetti e i giocattoli). Pur svolgendosi effettivamente e quasi completamente entro quattro pareti, il romanzo parla di una realtà (e follia) attualissima e universale, incrociando sensi di colpa e voglia di riscatto, malattia fisica e squilibrio mentale, disagio sociale subito e incapacità di adattarsi alle norme imposte. Un romanzo consigliatissimo.
Padri tormentati dai figli, tra immaginazione e realtà
La scrittura è fitta. Trascina il lettore in una spirale ossessiva, a tratti claustrofobica. «I Pellicani, cronaca di un’emancipazione» di Sergio La Chiusa si consuma all’interno di un edificio decadente e disabitato. O meglio, un residente c’è: Pellicani padre, anche se l’io narrante del figlio, in visita dopo vent’anni d’assenza, ha qualche dubbio sulla reale paternità. Unica somiglianza? Un naso ingombrante. In un continuo rimando tra realtà, finzione, aspettative, vecchiaia e giovinezza, si assiste all’immobilismo di un giovane uomo alle prese con temi sociali ed esistenziali. Lo scrittore, tra i finalisti del Premio Bergamo, ne parlerà oggi alle 17 sui canali social della manifestazione, intervistato da Maria Tosca Finazzi.
Come nasce il titolo?
«Pellicani è il cognome dei protagonisti, richiama il loro naso ingombrante e ironicamente anche la simbologia cristiana del pellicano: il padre che si sacrifica per i figli, mentre nel romanzo un ipotetico padre è tormentato da un ipotetico figlio».
Il sottotitolo «cronaca di un’emancipazione» è più ironico che reale.
«Sì, gioca con il sentimento del contrario che anima il romanzo. Non si tratta di una cronaca, ma di una continua interpretazione tendenziosa e contraddittoria. Poi le emancipazioni sono parodie di un’emancipazione: il giovane vive confinato nella trappola della propria mente, il vecchio nella trappola del proprio corpo, entrambi nella trappola dell’immobile».
Nel testo si relaziona molto con gli oggetti, valigetta, pantofole, peluche, Pinocchio, mollette… Perché?
«Gli oggetti affollano il romanzo supplendo alla povertà di personaggi. Sono usati come protesi del corpo, simboli, sintomi, indizi e agenti provocatori. Formano una specie d’inconscio fisico e si presentano allo sguardo paranoico di Pellicani come maschere dietro le quali si nasconde qualcosa di minaccioso, enigmatico, ostile. Anche se il rapporto che egli v’instaura ha spesso esiti comici, risultano perturbanti e possono essere visti come fili di un’immensa ragnatela tesa intorno alle nostre esistenze dalla società dei consumi».
L’io narrante afferma che «l’ozio è la forma assoluta della ribellione», «il nullafacente il vero sovversivo dei tempi moderni». Lo crede anche lei?
«No. L’io narrante è un portatore di conflitti, contraddizioni, ambiguità. Non il portavoce dell’autore. In taluni casi però la diserzione, non l’ozio, è la sola forma possibile di ribellione».
Nel romanzo il protagonista afferma che l’inclinazione a scomparire è una prerogativa degli asociali. Lei è sociale o asociale con la tendenza a scomparire nei suoi libri?
«Mi ritengo un essere sociale. Scrivere però è intimamente contraddittorio: un lavoro di solitudine e tuttavia rivolto idealmente a una folla ignota d’individui, sconosciuti gli uni agli altri, distanti nello spazio e nel tempo».
Si ritrova una continua relazione tra realtà e finzione.
«Uno dei temi del libro è il rapporto tra immaginazione e realtà, tra la fabbricazione di un mondo fittizio e la miseria del reale e della nuda vita, con i suoi limiti biologici, e il vecchio, con le sue esigenze di semplice sopravvivenza, rappresenta per il giovane uno specchio deformante che produce ossessioni».
La storia è ambientata in un caseggiato disabitato e decadente. È reale o il labirinto della mente?
«È un caseggiato reale, ma anche metafora d’una società in rovina e soprattutto labirinto mentale, intrico di stanze, scale e corridoi immateriali nel quale si consuma il confronto tra vecchiaia e giovinezza».
Pellicani figlio si presenta dopo 20 anni alla porta del padre. Non si vedono da quel giorno in cui lui se n’è andato sottraendo al genitore i risparmi che erano in casa.Pellicani arriva e trova un caseggiato disabitato e in rovina, l’unico appartamento ancora abitato sembra essere proprio quello di suo padre, ma al suo interno non trova il genitore, ma un vecchio paralitico, immobilizzato a letto e assistito quotidianamente da una donna, che ogni mattina lo nutre, si occupa della sua igiene e del lavaggio della biancheria.Fin qui tutto normale, tutto plausibile, tutto verosimile, vero?E invece no, non è così. Pellicani figlio racconta in prima persona ogni suo movimento e ogni suo pensiero, ed è così che ci accorgiamo che siamo all’interno di una mente allucinata, che siamo nella mente di un Don Chisciotte al contrario.Un eroico renitente, che con fierezza critica e si sottrae alla società, che non riconosce il padre in quel vecchio paralitico, che vede in ogni gesto umano, in ogni oggetto inanimato intorno a lui, un qualche messaggio diretto a lui, un giudizio, un rimprovero, che lui, da renitente, rifiuta.L’allucinazione è la realtà in cui Pellicani si muove, portando i suoi gesti al grottesco e crudele, verso se stesso e verso il padre, in nome di quel rifiuto della società che lo anima.È un romanzo esilerante, eppure scioccante e doloroso. Sergio La Chiusa è geniale e senza remore varca i limiti del verosimile e del moralmente accettabile, con una capacità narrativa e di pensiero che generano nel lettore un’empatia disturbante.
Stando agli ultimi dati dell’AIE (associazione Italiana Editori), i libri pubblicati nel 2019 sono stati più di 78mila. Una giungla di carta all’interno della quale ci si orienta a fatica. Anche perché i colossi dell’editoria (e non solo) strizzano sempre meno l’occhio alla letteratura e preferiscono affidarsi ai prodotti editoriali, possibilmente partoriti dal personaggio di turno, la cui durata nel tempo, a dispetto del clamore socialmediatico che sono soliti suscitare, è paragonabile a un battito di ciglia.
Insomma, non è facile scovare qualcosa di interessante. Ecco perché vale la pena parlare de I Pellicani – Cronaca di un’emancipazione di Sergio La Chiusa, edito da Miraggi (186 pag., 17 euro). Un romanzo sorprendente e gustosissimo, che prevede molteplici livelli di lettura ed è intriso di quello spessore letterario che è lecito attendersi da uno scrittore. E La Chiusa lo è, non c’è dubbio: la sua parola è levigata e venata di elegante umorismo. Elementi peraltro propizi al suggestivo teatro dei paradossi da lui allestito, che rifugge da qualsiasi pretesa di linearità. A cominciare dai Pellicani, che non hanno niente a che vedere con i volatili che tutti conosciamo. Qui abbiamo invece a che fare con due uomini misteriosi (padre e figlio? forse sì, forse no, ma poco importa), che, dopo vent’anni e vecchie ruggini, si ritrovano quasi magicamente in un tempo e in un luogo indefiniti. Uno, il Pellicani-giovane, ha le fattezze di un bizzarro figuro lontano parente dei dannati di Dostoevskij; l’altro, il Pellicani-anziano, è un ottantenne paralitico bisognoso di cure che si trascina stancamente al pari del vecchio stabile in cui abita e che lo ha incatenato a una triste solitudine.
L’incontro tra i due è il detonatore di una commedia dell’assurdo sapientemente congegnata dai pensieri ad alta voce del Pellicani-giovane, che si diverte con la realtà come Vitangelo Moscarda in Uno, nessuno e centomila di Pirandello fa con il suo io: scompone, ricompone, trasfigura ciò che vede, quasi travolge il lettore con il suo torrenziale flusso di coscienza. E noi non possiamo far altro che star dietro ai suoi soliloqui tragicomici, ma senza illuderci di trovare le giuste corrispondenze tra ciò che è e ciò che appare. Perfino l’evidente asimmetria tra i due personaggi (l’invadenza del Pellicani-giovane fa da contraltare alla remissività del Pellicani-vecchio) si risolve lentamente in un enigmatico gioco di specchi, che si nutre di visioni degne di Sorrentino e lascia intravedere una bizzarra crociata in nome dell’emancipazione di entrambi.
Eppure, mentre ondeggiamo tra sogno e realtà, ci risulta difficile prendere le parti dell’uno o dell’altro. Forse perché i Pellicani sono solo due simpatici inetti a vivere che non si vergognano della loro condizione. O forse perché la stanza in cui si consuma tutta la storia è il palcoscenico con cui, volenti o nolenti, tutti noi dovremo prima o poi fare i conti per sbarazzarci delle nostre paure più profonde.
Il romanzo, finalista alla XXXII edizione del Premio Italo Calvino, è un bijou anche dal punto di vista tecnico, tanto da meritare la “Menzione Speciale Treccani 2019” per l’originalità linguistica e la creatività espressiva. Quello di La Chiusa, infatti, è un esempio ben riuscito di prosa poetica, che mette in vetrina un linguaggio curato nei minimi dettagli e assai distante dalle banalizzazioni con cui vengono imbanditi certi best sellers. Un piccolo poema sul senso della vita capace di trasformare l’apparente fuga dal mondo delle sue creature in un coraggioso atto di ribellione pirandelliana nei confronti della società e delle sue forme statiche.
Ma il lunghissimo monologo del giovane Pellicani, interrotto da scenografici squarci onirici e oscure presenze quasi kafkiane, è anche la cronaca di una convivenza mancata che prova disperatamente a ritrovarsi, anche se nel farlo è essa stessa una nuova impostura. Dieci e lode all’autore. Raramente infatti, per utilizzare le parole di Giulio Mozzi, “la lettura di un romanzo dà tanto piacere per la scrittura in sé”. Senza contare che qui, come del resto lo stesso critico suggerisce, c’è anche altro. Molto altro.
Sergio La Chiusa presenta il suo libro «I Pellicani» nella cinquina dei finalisti al Premio Bergamo «I protagonisti, incapaci di emanciparsi, si dibattono in una realtà spettrale, inafferrabile, inattendibile»
I disegni appesi alle pareti «rivelavano una precoce ansia di emancipazione. Bambini volanti, sollevati per aria da grappoli di palloncini colorati, ridevano entusiasti, come solleticati dalla mancanza di gravità, ma invece di prendere il largo e rimpicciolirsi nelle vaste lontananze del cielo, restavano a mezz’aria, tenuti saldamente per una caviglia da certi signori assennati, nerovestiti, regolarmente incravattati e radicati al suolo con smisurate scarpe aziendali».
Penultimo a presentare il suo libro, nella cinquina dei finalisti della XXXVII edizione del Premio Narrativa Bergamo, giovedì 27 maggio, alle ore 17, in streaming sui canali social dell’Associazione, Sergio La Chiusa, con «I Pellicani» (Miraggi, euro 17). Centottantasei pagine di monologo interiore del personaggio che dice Io, forse figlio di un forse padre in una forse ex casa sua.
Dopo vent’anni, e l’indebito prelievo dei suoi risparmi dal comodino, Io, o Pellicani junior, torna a casa del padre: unico, vecchio caseggiato superstite in un paesaggio da Waste Land, mucchi di macerie, detriti e piloni incompiuti, residui del vento della modernità che ha spazzato (quasi) tutto, con la sua «smania di rinnovamento».
Ma, nel letto, trova un vecchio paralitico che è/non è suo padre, glielo ricorda ma, insieme, non può essere lui.
Una straordinaria prova di fantasia-immaginazione, una torrentizia ambiguazione del senso di realtà, identità, e relativi rapporti fondativi.
Un «parolare» inesausto che assume in sé il crollo delle certezze, per cui l’«erlebte rede», il discorso vissuto, si materia soltanto di ipotesi e contro-ipotesi.
Come si può spiegare il sottotitolo, «Cronaca di un’emancipazione»? Quella che il protagonista sembra perseguire sin dai disegni infantili, vuole rivendicare ossessivamente, quasi «ritmicamente»…?
«Cronaca di un’emancipazione un sottotitolo ironico, che gioca con il sentimento del contrario che anima il romanzo. Innanzitutto perché non si tratta di una cronaca, cioè di un resoconto impersonale di avvenimenti, ma di una continua interpretazione, peraltro tendenziosa e contraddittoria. Poi perché le emancipazioni alle quali si allude sono delle parodie di emancipazione: il giovane Pellicani vive infatti confinato nella trappola della propria mente paranoica, il vecchio nella trappola del proprio corpo paralizzato, ed entrambi nella trappola dell’immobile fatiscente, una specie di corpo sociale in rovina. L’emancipazione che il protagonista tenta di perseguire è inoltre una reazione alla società della prestazione nella quale viviamo, e quella che tenta d’imporre al vecchio l’esito paradossale della sua personale incapacità di emanciparsi».
Il fatto che il padre forse non sia padre, il figlio forse non figlio, la camera dei giochi forse di qualcun altro, un’iperbole del discorso sull’incertezza identitaria, l’incertezza sulla sostanza reale dei rapporti, anche i più importanti, sull’incertezza, persino, della cosiddetta «realtà»?
«Sì, la realtà nel romanzo risulta incerta, inafferrabile. In parte perché è filtrata dalla parola inattendibile e dallo sguardo allucinato del protagonista, cui la realtà visibile appare come il travestimento di una seconda realtà, enigmatica e minacciosa, e tutte le cose gli si presentano dietro un velo d’impostura, epifenomeni di un più vasto e impenetrabile complotto ordito ai suoi danni. In parte perché la realtà non solo è trasformata dagli occhi di chi guarda, ma ha anche una sua intima natura spettrale. Basta voltarsi indietro: cosa rimane della realtà del nostro passato? Le esperienze più importanti e i rapporti più solidi non risultano a un certo punto come svaporati, illusori, equivoci abbracci di spettri?».
Come nel Pirandello di «Uno, nessuno e centomila», il discorso sulla dissoluzione del senso «solido», granitico, univoco dell’identità, si concentra sul naso (è il naso di mio padre? Di un Pellicani?). Ha elevato a potenza un tema del girgentino?
«La radicalizzazione di un tema pirandelliano che però s’intreccia con molti altri temi: per esempio, per citarne uno particolarmente rilevante, il rapporto tra immaginazione e realtà, che è il tema della letteratura stessa, che viene dal Don Chisciotte e sta alle origini del romanzo moderno. Il protagonista, infatti, perennemente intento a fabbricarsi una sua realtà immaginaria, alternativa, abitabile, la realtà verbale del romanzo appunto, e in ciò è uno dei molti discendenti del cavaliere errante e dei personaggi creati da quegli autori che hanno saputo trasportare lo spirito di Cervantes nel Novecento; e quindi più ancora che di Moscarda, Pellicani mi pare un parente “povero” dei personagginarratori di Gombrowicz, e di Kien, il protagonista di “Auto da fé”, l’uomo dei libri uscito dall’intelligenza di Canetti».
Il naso è un po’ anche il becco del pellicano in copertina…
«Sì, il becco del teschio di pellicano in copertina richiama il naso particolarmente pronunciato dei due Pellicani e, anche, il Pinocchio di legno che compare allusivo in più parti del romanzo».
Se la «Cognizione del dolore» di Gadda è una lunghissima (auto-) analisi, incentrata sul tema del rapporto con la madre, qui sembra valere qualcosa di simile per il rapporto con il padre…
«La figura del padre rappresenta per il figlio una specie di specchio deformante, e infatti nel vecchio padre paralizzato, il figlio rivede sé stesso proiettato nell’avvenire: è insomma la personificazione della malattia e dell’incombenza della morte. Inoltre, il padre rappresenta anche l’autorità su cui riversare il proprio risentimento di persona incompleta, inadeguata, impotente: una specie di parodico simulacro della società che regola, pretende, giudica».
Entrambi i «protagonisti» sono due «renitenti-resistenti», alle lusinghe e seduzioni del mercato, agli stili di vita dettati dal mainstream, all’essere solo «consumatori», ecc.: come si intreccia questo tema sociale con quello dell’identità e del senso di irrealtà che sembra promanare dal rapporto fra ospite e ospitato: lontani, incomunicanti, eppure simili in questa loro resistenza/renitenza…?
«Il mercato contamina i rapporti interpersonali e condiziona le nostre identità suggerendoci insistentemente come comportarci, come vestirci, cosa comprare, quali applicazioni scaricare per stare al passo con i tempi, svalutando così le nostre esperienze, facendoci sentire sempre in ritardo, in difetto, insinuandoci un sottile, persecutorio senso di colpa. Le due dimensioni, quella sociale e quella esistenziale, procedono naturalmente insieme, nel romanzo come nella vita reale, perché una condiziona l’altra, e il senso d’irrealtà che sembra promanare dai rapporti tra ospite e ospitato proviene, in parte, dall’esterno. I protagonisti inoltre non sono dei veri “resistenti”, ma delle scorie prodotte dalla società dei consumi, e proprio per questa loro comune natura di scarto sociale si ritrovano, e anche il risentimento del figlio che si trasforma in sadismo nei confronti del padre è in certa misura un prodotto della società».
A proposito: la «modernità» ha distrutto tutto quanto era attorno al condominio dove vivevano i Pellicani. Cittadella superstite perché soprattutto reperto memoriale, sopravvivenza di un passato?
«Un reperto spettrale, sì. Il vecchio Pellicani è il passato, inservibile, e persino molesto, che s’attarda tra le macerie e, maceria anch’egli, intralcia con la sua timida ma cocciuta presenza i piani speculativi della modernità».
Quando la potenza della scrittura e la fantasia si coniugano nascono questi gioielli. Il libro inizia con una sorta di vademecum che è preambolo ai capitoli e un elenco di nomi -Cerca di ricordarti.
Conosciamo Berg che è un bambino che va alla scuola materna, non va affatto volentieri. Lui non è un bambino e basta è: goffo, distratto, impreciso, stupido, bambino parentesi, maldestro incompreso, intermittente e ha tanti nomi tutti inventati così come inventata è la sorella con la quale discute come fosse sempre con lui, assumendo le forme di oggetti vari a lui preziosi, ed ha le sue “copertine “ come Linus ma non sono copertine.
“Ho tre anni e la vita sta diventando difficile……”
E a tre anni trova la radio noiosa e comincia il suo ritornello “ mamma, comprami GIRADICCHI! Io DICCHI…..” Comincia da piccolo ad amare la musica che insieme alla fantasia e ai tratti della sua personalità non l’abbandoneranno mai.
E con questo bagaglio già così pieno fin da piccolo affronterà la vita, con delle difficoltà ogni volta diverse e uguali con cui fare i conti. La madre insegnante, il padre con un maggiolino giallo a pois rosa. I nonni di mare e quelli di città. Con ognuno crea un rapporto unico, con qualcuno anche speciale e sarà la nonna di mare quella con la quale vivrà esperienze di complicità e amorevolezza e che lo porterà un giorno anche a crescere più in fretta e a scoprire l’inutilità del dolore.
Lo troviamo tra i ragazzi dell’orario alla scoperta di se e degli altri, a volte impacciato o timido, “la prima ombra di barba … la barba fu un piccolo trama “, a 16 anni Amanda “ era come arrivare impreparati ad una interrogazione”.
Con “ gli amici della panchina “ a parlare della passione comune: LA MUSICA , forse l’amore suo più grande, quello che non è mai svanito. La musica diversa da quella che ascoltavano gli altri “stavo sviluppando una curiosità maniacale e bulimica “. Sopra un treno per andare a pranzo dalla nonna di mare durante il periodo del servizio militare, vicino casa di nonna, che buttava la pasta quando vedeva il treno passare dal balcone.
E in crescendo a fare per un periodo il commesso in un negozio di dischi e poi in un’altra città e un’altro amore e… Con salti temporali tra un capitolo e l’altro e tanti rimandi in cui la vita del bambino, ragazzo, adulto è un vortice che assorbe tra fantasia e realtà e tanta tanta umanità.
È un racconto ironico, pieno di tenerezza di malinconia di una vita unica e speciale che appassiona dalla prima pagina.
E non finisce con l’ultima pagina del libro ( pag 665), perché c’è una playlist di tre pagine da sentire
“ per chi ha paura della fine, del silenzio, ovvero l’inutilità del dolore ……………..Se vuoi farne parte ti serve un suono “.
Non è facile recensire questo libro perché c’è tanto da dire, può essere solo letto. E merita di essere letto, si cresce insieme al bambino intermittente e a volte ci si scopre intermittenti , quasi come lui.
Chi sono i Pellicani? Sono realmente ciò che appaiono nelle prime pagine? Vi è una specie di burla e di ricerca d’identità all’inizio del romanzo di Sergio La Chiusa, “I Pellicani” edito da Miraggi edizioni. Un racconto che è arrivato finalista al 32° Premio Calvino con la Menzione Speciale Treccani. Alla maniera di Dino Buzzati, un giovane con la valigetta va a trovare un anziano paralitico in un palazzo fatiscente. Sulla carta, lui dovrebbe essere il giovane Pellicani, e l’anziano suo padre. Ma già dalle prime battute il vecchio non viene riconosciuto, se non che per il naso. “Che ci faceva un tale relitto in casa di mio padre? Come si permetteva di occupare il suo posto?“. Si presenta tutto come un equivoco al lettore, il quale non è certo più di nulla. Una storia vaga, priva di collocazione geografica, di limiti spazio-temporali. Non vi sono nomi propri e vi è un dialogo non dialogo, direi “muto” tra figlio e padre. Kafka e Landolfi vengono evocati in ogni dove con una scrittura allucinata e aliena. Un monologo che non finisce e che avvolge il lettore imbrigliandolo in un vortice di supposizioni, ripetizioni, ipotesi e convinzioni.
Un fiume di parole che denuncia un’inerzia dell’uomo moderno che anela a dominare gli esiti della civiltà. La Chiusa crea mondi inesplorati e al contempo riflessi nel presente, forse all’avanguardia rispetto al patrimonio letterale attuale. Abbiamo una certa etica del corpo che appare certamente al centro del romanzo. Non è solo uno, ma due di cui uno è in movimento e l’altro immobile rinchiusi dalle parole in uno spazio ristretto di un appartamento.
“I Pellicani appaiono come eredi di un teatro di Beckett”, ove personaggi sono costituiti di flussi torrenziali di parole e la cui vecchiaia perde il suo colore e la sua identità nell’infanzia e nel nulla. Tutto il romanzo è pervaso inoltre da un torpore, da una stanchezza fisica e mentale che non permette di raggiungere la verità più intima delle cose.
Nel cortiletto della libreria Milton sono tornate a risuonare le voci dei libri grazie al coraggio di Carlo, Serena e della casa editrice Miraggi. È stato presentato Il bambino intermittente: diretta streaming e firma copie per i lettori di Luca Ragagnin, già candidato allo Strega 2019 con Pontescuro (proposto da Alessandro Barbero). Torinese, dotato di estro poliedrico, dopo aver esordito come poeta negli anni ’90 (vincendo il premio Montale) Ragagnin ha proseguito come autore di romanzi, racconti, testi teatrali e canzoni (anche per Mina, Antonello Venditti e Subsonica). Nella sua ultima opera ha racchiuso le memorie di una vita.
Com’è nato il romanzo?
«Quattro anni fa, mentre stavo scrivendo altre cose, ho sentito l’esigenza di raccontare un periodo abbastanza lungo della mia vita di Berg, personaggio che in qualche modo mi appartiene. Con molto pudore potremmo definirlo un romanzo di formazione: in fondo si segue la crescita di Berg, nome principale del protagonista che nel libro ne assume diversi altri. Una delle sue caratteristiche più importanti, comune a tutti i bambini, è una sorta di esubero di fantasia, per cui vive le sue esperienze e i fatti che gli capitano stravolgendoli. Di solito lo scarto che si crea tra la sua interpretazione e la realtà è buffo e divertente. Manterrà la caratteristica fino all’età adulta, producendo una serie di eventi agrodolci, che sono un po’ la mia cifra stilistica».
Chi è il bambino intermittente?
«L’intermittenza riguarda i pensieri di Berg sul mondo, le persone, i bambini che incontra all’asilo, poi a scuola, all’oratorio, poi anche nella vita adulta, durante il primo scontro-incontro con l’altro sesso, ma anche le problematiche sociali che gli si presentano quando è adolescente, dato che ci troviamo alla fine degli anni ’70. Nel romanzo si attraversano gli anni di piombo, delle droghe, fino ad arrivare alla data simbolica dell’11 settembre 2001, che rappresenta la morte dell’Occidente. Con questo disincanto e intermittenza, Berg vorrebbe agire, fare, collocarsi nel mondo, ma poi finisce spesso per fare l’opposto».
Con quale approccio hai ricostruito quel periodo?
«Ho cercato di ricordare il mio passaggio in quegli anni, Berg è un po’ un mio coetaneo (leggermente più giovane), è un bambino e poi un adolescente che ha pochi mezzi conoscitivi, come pochi ce n’erano in quegli anni. Non capisce, chiedi lumi a sua madre che è una professoressa e che ha a che fare anche con ragazzi problematici. In fondo i terroristi che incontra sono appena più grandi di lui, ma sono irraggiungibili per la sua comprensione. Neanche la madre ha delle risposte, cerca solo di approntare delle difese, mettendogli dei divieti minimi per evitare rischi (no treni, no mezzi pubblici, no manifestazioni)».
Il tuo romanzo precedente aveva un aspetto favolistico. Hai mantenuto anche qui quel tipo di narrazione?
«In questo libro lo scopo principale è preservare la memoria, per quanto aberrata dalle caratteristiche del personaggio che l’attraversa. In pandemia a malapena ricordiamo un mondo che è scomparso 15 mesi fa, immagina lo sforzo per ricostruire il mondo degli anni ’70 e ’80, anche nel modo di vivere la gioventù in una città industriale con pochi spazi».
Che rapporto hai con le Langhe e i suoi scrittori?
«Un rapporto stretto. Ci vengo spesso. Considero Milton di Carlo Borgogno una seconda casa. Con Enrico Remmert abbiamo scritto per Laterza L’acino fuggente, una scorribanda nei territori del vino tra cui soprattutto il Roero e la Langa. Gli scrittori come Pavese, Fenoglio, Lajolo li ho amati e li apprezzo molto, ma vorrei citare anche Marco Giacosa, che è originario di qui e ha appena pubblicato lo splendido Langhe inquiete».
Le memorie di un padre (minatore poi laureato) accendono le narrazioni di Patrizio Zurru
Se al termine della lettura di ciascuno dei 65 racconti arriva l’impulso di cercare il pollicesù per mettere un mi piace, non c’è da preoccuparsi. È solo uno dei sani effetti collaterali di “Endecascivoli” scritto da Patrizio Zurru e pubblicato per Miraggi edizioni. Storie ritmate e brevi, come dentro un social network, da leggere con la libertà di non seguire l’ordine proposto nel libro.
Vita social
Il nostro tempo, pesante di preoccupazioni, con questi racconti sembra prendersi una tregua, e così si fa largo un’oasi di leggerezza e giocosità che offre riparo soprattutto in ciascuna pagina dispari del libro dove è presente un riquadro bianco concepito per raccogliere pensierini, appunti o disegni. Anzi, scarabocchi come succedeva ai tempi del telefono grigio a rotella della Sip. L’evoluzione di quei ghirigori diventa la vita social del volume: è stato infatti creato un hashtag, #endecascivoli, per interagire con l’autore e magari esprimere un giudizio.
Istruzioni per l’uso
In apertura un bugiardino offre qualche spiegazione sul testo e sul senso della narrazione. «Tutto nasce», spiega l’autore, «dalle storie raccontate da mio padre e dalla successiva richiesta al sottoscritto di mia madre: mettile in bella, come sai scrivere tu. In particolare gli aneddoti sulla miniera». Non hanno titoli i racconti-post, quindi il riferimento è la pagina. Alla 29 si legge: «15 anni di sottosuolo a spalare carbone, e a un certo punto ha deciso che poteva esserci un’altra possibilità, si è messo a studiare per laurearsi, facendo registrare a mia madre le lezioni su un Geloso, che ascoltava nella strada che da casa ogni notte lo pottava in miniera. Avanti e indietro. Play, stop, rewind. Play again, stop, rewind, return home».
Il viaggio
Lo spunto per ciascun brano è reale, spesso sono le memorie a dettare il viaggio alla fantasia per spaziare tra nonsense, sarcasmo, realismo liberatorio. Ovunque si ritrova musicalità, che come brezza di parole investe il lettore per poi scivolare via e lasciare sensazioni rarefatte che sono già ricordi. Pagina 70: «Mio padre, che si faceva i chilometri a piedi per incontrare mia madre, un amore scavato con scarpe coi chiodi sotto, per non consumarsi, arrivare ad Iglesias per un sorriso». Difficile scegliere il passo più divertente, specie quando la narrazione attinge alla memoria collettiva di chi negli anni Sessanta ci è nato. A pagina 25 c’è un viaggio in treno per raggiungere Parigi, alla frontiera il controllo dei documenti, delle borse, delle valigie… e le Superga di tela o le espradillas usate come «potenziale bellico non indifferente» per non condividere lo scompartimento con nessuno. E come non citare Eros Ramazzotti suonato all’infinito da un sopravvissuto jukebox in un pub belga non appena il gestore, troppo ospitale, capisce che Zurru arriva dall’Italia. “Endecascivoli” è questo. È parola che non esiste ma che parla di racconti, scritti perfino durante il tempo di cottura di un minestrone.
Lo scrittore
Nome noto nel panorama editoriale per essere stato prima libraio e ora ufficio stampa, agente letterario, direttore di collana, Zurru è passato per un attimo dall’altra parte, quella degli autori, quasi non per scelta. «Non ho ansie da scrittore», dice a tal proposito, “il libro è un divertissement, niente di più. Determinante è stata la spinta forte delle gemelle Ivana e Mariela Peritore, con le quali lavoro per la collana SideKar, altrimenti chissà… ».
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