I PERDENTI – intervista a Nicola Manuppelli di Barbara Costamagna su Capodistria (I divergenti)
Ascoltate QUI l’intervista al traduttore del libro Nicola Manuppelli (1:25:43 circa)
Ascoltate QUI l’intervista al traduttore del libro Nicola Manuppelli (1:25:43 circa)
Tommaso ha vent’anni quando arriva a Roma, nell’estate del’70. Viene da una modesta famiglia di impiegati milanesi e il trasferire storie è sempre stato il suo gioco preferito da quando il padre, un mite dattilografo, gli aveva insegnato la magia di trasformare la parola in immagine regalandogli una Olivetti con la quale il piccolo Tommaso si esercitava a scrivere facendosi raccontare storie dagli amici. Storie che impara ad aggiustare, calibrare, osservare, vivere, sentendosene al contempo estraneo e partecipe. Dopo un breve tirocinio al “Corriere della sera” si trasferisce a Roma dove ambirebbe ad una carriera di sceneggiatore a Cinecittà. Il suo primo impatto è col Pigneto, dove alloggia temporaneamente presso conoscenti in un tumulto di umanità variegata che lo travolge. A guidarlo nei meandri del tumulto e della città sarà il nipote della padrona di casa Emanuele che, durante un delirante banchetto a Trastevere lo introduce alla corte di Satchmo, misterioso personaggio che gravita attorno al mondo del cinema costruendo e vendendo gossip dei quali Tommaso diventerà redattore. Entra così in un turbine di stravaganze e miserie popolate da intellettuali, attori famosi, artisti o sedicenti tali, protagonisti e testimoni di fatti veri o presunti, tutti con storie più o meno probabili. Ognuno con una storia da raccontare. E poi c’è Judy, aspirante attrice di vent’anni come lui, entrambi sul limitare tra l’essere spettatori e protagonisti della vita…
Invitante la copertina di Marco Petrella, impegnativo il titolo, immane la voglia di Nicola Manuppelli di mettere nel libro il più possibile. Impresa ardua. Ci riesce con la semplicità apparente con cui Pirlo calcia una punizione o Paco de Lucia ti sorprende con un passaggio musicale. Nell’impossibilità di menzionare tutti i pregi del romanzo basta dire che è un racconto che trasuda il sentire della narrazione con l’evidenza che si è narratori efficaci quando si è a propria volta osservatori, lettori e spettatori partecipi. Negli innumerevoli riferimenti cinematografici nessun nome, anche se citato di sfuggita, è casuale. Il Walter Chiari incontrato da Tommaso ce l’hai davanti ed è quello de “Il giovedì”, capolavoro seminascosto della cinematografia italiana. Il padre di Tommaso è una figura che in molti altri romanzi sarebbe stata relegata a quella di grigio e mediocre piccolo borghese, invece no. Il padre è privo di ambizioni per il semplice fatto di essere un uomo in cui è assente il conflitto e sembra guardato da un Maigret che sa che in fondo “ognuno fa quel che può”. In epigrafe troviamo “Il romanzo è una mescolanza di frottole e realtà, anche la vita”. E qui siamo in un romanzo pieno di storie in cui l’autore manipola i fatti come farebbe un regista, finendo per raccontare molto di sé. Così una storia diventa veramente la storia di chi la racconta. Si potrebbe affermare con ragionevole certezza che in quel Prenestino “ndo ce stanno solo li servaggi” dei primi anni ’70, Manuppelli che è nato nel ’77 ed è milanese, ci sia stato.
QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:
Ci arriva a sorpresa la recensione sotto forma di pensiero di Carlo Verdone e ci fa immenso piacere, a noi e a Nicola soprattutto!
Roma è sicuramente un ottimo libro. Io che ci sono nato e l’ho vissuta a fondo posso dire che l’ha resa poetica e vera con i tanti aneddoti e personaggi. Deve aver interrogato tante persone per arrivare a Nino Besozzi e Tofano … Quest’ultimo da bambino l’ho conosciuto di persona e mi regalava le caramelle Rossana. Abitava di fronte a me e mia madre lo adorava.
Insomma un bel viaggio in tanti bei ricordi, nomi, emozioni che in parte ho condiviso perché vissuti, spesso in prima persona. Lei deve essere un uomo pieno di passioni e da romano la ringrazio per l’amore enorme che ha dichiarato per la mia città. Che mi sembra sia diventata un pochino anche la sua. Alla fine del libro ho fatto questa riflessione e cioè che coloro che meglio comprendono Roma nella sua poesia, mitomania, miseria e grandezza non sono mai i romani. Ma scrittori che vengono dal Nord o dall’Adriatico: Gadda, Pasolini, Flaiano, Fellini, Amidei. Lei da curioso e innamorato ha fermato nel tempo tanti frammenti che potevano disperdersi. Lo stile è inconsueto e frenetico. Forse, alcune volte, molto denso. Ma il suo amore e la sua passione per Roma nei suoi anni migliori l’ha, ovviamente, rapita.
Le auguro ogni successo per questa fatica che merita belle soddisfazioni anche in terra francese (Carlo Verdone)
A sette anni Tommaso batte a macchina con disinvoltura; il padre, che fa il segretario in uno studio legale, gliel’ha insegnato quando era piccolo e il suo primo regalo importante è una Olivetti portatile. È questo il motivo che spinge il ragazzo a scegliere la carriera di giornalista a Milano, mentre è l’esplosione della bomba di piazza Fontana e il ferimento subito in quell’occasione a fargli decidere di partire per Roma alla ricerca di un cambiamento. In Roma, pubblicato da Miraggi edizioni, Nicola Manuppelli affronta una sfida coraggiosa: raccontare la Cinecittà di Fellini, ma anche il Pigneto, Trastevere, piazza del Popolo degli anni 1970-71 attingendo ad aneddoti su aneddoti (su Richard Burton, su Walter Chiari, su Gore Vidal per citare solo alcuni dei personaggi che compaiono nel libro) senza cadere nel bozzettistico. Ci riesce e il suo romanzo fa scoprire al lettore un’epoca d’oro del cinema italiano attraverso gli occhi di un giovane ingenuo ed entusiasta. A Roma, Tommaso conosce Satchmo, un sosia di Louis Armstrong, che vive costruendo notizie false sui divi grazie a una rete di collaboratori, tra cui presto annovera anche il nuovo arrivato. Tra cene che si protraggono tutta la notte, bevute interminabili, corse di maiali al Circo Massimo, Tommaso fa gli incontri fondamentali della sua vita. A stregarlo è Judy, un’inglesina di Bath, che sogna di fare l’attrice e vende gelati. L’amarissimo finale oltre a segnare la fine della giovinezza, marca quel confine tra vero e falso che tutta l’atmosfera intorno a Tommaso sembrava voler negare. Manuppelli alterna il lavoro di scrittore a quello di traduttore di classici americani: la sua prosa vivace e appassionata ne trae gran giovamento.
Leggi la recensione si volevoesserejomarch.blogspot.com anche qui
https://volevoesserejomarch.blogspot.com/2018/11/roma.html?fbclid=IwAR1jcHZaOObcg8hMjzG-v-cAa-9ZI44nR6jH6gqRFa2wMa-5mGSZUsZzMtM
Nicola Manuppelli, come è nata l’idea di Roma e perché ambientarlo in quel periodo storico?
«L’idea è nata da un pettegolezzo su una coppia di amanti emiliani che avevano dimenticato un dildo dentro un cespuglio. Il dildo era stato ritrovato dall’anziana vicina di casa della coppia. La donna, non sapendo di cosa si trattasse, aveva chiamato gli artificieri. Qualche giorno dopo, ero in un ristorante vicino a Cinecittà con Pasquale Panella, il paroliere dell’ultimo Battisti, che mi raccontava di quando da ragazzo scavalcava il muretto per andare a vedere gli studi cinematografici. Da questi due episodi è nata la scintilla. Anche se già da un po’ di tempo avevo deciso che avrei scritto un libro su Roma».
La scelta di Fellini era nei tuoi pensieri fin dall’inizio o si è fatta strada durante la scrittura della storia? Fellini è un autore che ami? Quali suoi film preferisci e perché?
«Adoro Fellini. Adoro I vitelloni, Amarcord, La dolce vita, Le notti di Cabiria e potrei andare avanti a elencare tutti i suoi titoli, disegni, copioni. Fellini è un autore a cui sono arrivato col tempo. Come mi è successo con Fitzgerald. Nella mia testa, li vedo come due autori molto simili, seppur con una diversa tonalità di voce, ma la sensibilità è quella. Anni fa, a Rimini, ho avuto per la prima volta l’impressione di essere davvero entrato in contatto con la sua opera. Più tardi, ospite a casa dello scrittore americano Chuck Kinder a Pittsburgh, buttai giù un romanzo mai pubblicato che fu il mio primo approccio con un modo di narrare “felliniano”. Sia in Gatsby che in La dolce vita il protagonista/voce narrante è dentro e fuori dalla storia. Questo era lo stesso tipo di approccio che cercavo. Così prima ho pensato a Roma, poi ho pensato che Roma potesse essere una sorta di nostra los Angeles, così come Milano poteva essere una nostra New York. Il protagonista si sposta da Milano a Roma. E a quel punto, ho pensato che il libro dovesse essere una grande festa, con un tocco di malinconia come le feste di Fellini e Fitzgerald – chiamiamoli le due F, i miei numi tutelari – dove ci si perdeva e dove far girare la mia giostra di personaggi. Fellini mi lascia continuamente meravigliato. Pensare a lui in corso della lavorazione del libro è stato inevitabile. Volevo che fosse un personaggio del libro, la luce verde del protagonista. E ho rivisto tutti i suoi film mentre lavoravo a Roma. La Dolce Vita, visto forse per la decima volta, mi ha lasciato ancora a bocca aperta. Non è solo un capolavoro di immagini, ma di moda, dialoghi, struttura narrativa. Un film immenso».
A leggerlo si ha la sensazione che sia un’opera in qualche modo “destinata” a trasformarsi in un film. L’hai pensata con questo obiettivo o è casuale?
«Sì, è una delle cose che voglio fare in futuro scrivere per il cinema. E mi piacerebbe molto che Roma potesse diventare un film. Per la prima volta, in un romanzo, ho lavorato in questo modo; visitando i set, visionando gli attori che volevo ne facessero parte – per esempio, mi sono divertito a riprodurre la parlata di Walter Chiari o quella di Fellini -, suddividendo il tutto in scene, parlando con gente che sapeva informazioni che cercavo. Nella mia ottica, mi sono aperto alla collaborazione. Ho fatto come un regista che lavora con dei collaboratori, mentre nei libri precedenti mi chiudevo da qualche parte a scrivere, qui sono uscito e ho ascoltato e ho lasciato che io e tutto il resto fossimo al servizio della storia, o delle storie».
Quanto ti ha impegnato il lavoro di documentazione?
«Sei mesi. Oltre a tutto ciò che avevo accumulato ogni volta che ero stato a Roma e ogni volta che l’avevo vista rappresentata in un libro o un film, da Petronio a Belli fino a Scola e Monicelli. E poi mi è stato molto utile l’appoggio di amici romani, che mi hanno aiutato per esempio col dialetto. Su tutti, un magnifico libraio che si chiama Emanuele Spinelli e suo padre Franco che è una sorta di Omero romano».
Quanto ha influito la tua esperienza come traduttore di importanti scrittori americani?
«Come ogni altra esperienza biografica influisce sull’opera di uno scrittore. Non amo molto essere visto come “traduttore”. Tradurre fa parte del mestiere dello scrivere. E scrivere rientra nella categoria più grossa del raccontare storie. Vorrei essere in primo luogo uno che racconta storie, quindi per derivazione uno scrittore e infine un traduttore».
Il riferimento a Il giorno della locusta di Nathanael West è esplicito…
«È uno dei miei libri preferiti e ho avuto anche il piacere di tradurre. Non ho invece mai visto il film. In Roma c’è anche un omaggio all’autore, un produttore che di cognome fa Locusta. Invece il libro è in memoria di William Styron, autore un po’ dimenticato ma che con La scelta di Sophie ha scritto uno dei romanzi più belli del secolo scorso».
Rappresentante del caos e del postmodernismo d’Oltrecortina, Venedikt Erofeev è una delle più rappresentative incarnazioni della letteratura russa del secondo Novecento. Condusse una vita dissestata, dedita all’alcolismo e all’accattonaggio, segnata da un continuo vagabondaggio di città in città. Scrisse la sua opera più importante, Mosca-Petuškì, nel 1970 (pubblicata inizialmente solo in Israele), in cui l’alter ego di Erofeev vaga per la città come un ubriacone, scoprendo infine la propria dimensione esistenziale.
Da poco è uscita, per la prima volta in Italia, Memorie di uno psicopatico (traduzione di Lidia Perri) per i tipi di Miraggi edizioni, nella collana Tamizdat (mai termine è stato più appropriato, in quanto nel blocco sovietico si indicavano con questo termine le opere, per lo più straniere, fatte circolare clandestinamente, destino che tutti i lavori di Erofeev hanno subito fino alla caduta del Muro).
Memorie di uno psicopatico è una raccolta di diari giovanili che mette in luce i temi dell’autodistruzione e dei mali della società contemporanea. Mischiando esperienze autobiografiche con riflessioni filosofiche e grottesche, talvolta assurde e comiche, l’autore riesce a dare un ritratto onesto e impietoso della Russia destalinizzata. Tutto passa attraverso l’alcol. Bere e scrivere sono collegati: una via di fuga dalla pochezza quotidiana ed estasi della libertà emotiva, il lirismo e il cinismo. Una testimonianza indimenticabile di un grande scrittore che già da giovane non faceva sconti a nessuno, a partire da se stesso.
Sempre per Miraggi edizioni sono usciti altri testi interessanti, molto diversi tra loro. Si tratta del nuovo, brevissimo romanzo di Roberto Saporito, Respira, viaggio letterario sulla morte, legato idealmente al crollo delle Torri gemelle, da cui prende spunto il plot, e che investiga, supportato da una miriade di consigli letterari e di citazioni, sull’evasione e sulla libertà spirituale e intellettuale. Non disturbare, di Claudio Marinaccio, dialoghi e riflessioni (più taglienti le seconde) di vita quotidiana. Intoppi di comunicazione che assillano tutti: telefonate con offerte commerciali, i testimoni di Geova, incontri in metropolitana, spalle su cui piangere dopo una delusione d’amore. Quello che dice una cameriera, di Nicola Manuppelli, raccolta poetica incisiva e ritmata che deve molto a scrittori americani contemporanei, di cui l’autore è un importante traduttore e biografo.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/10/03/letteratura-russa-il-miraggio-di-venedikt-erofeev/3891776/