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Romanzo senti/mentale – recensione di Martina Mecco su Estranei

Romanzo senti/mentale – recensione di Martina Mecco su Estranei

Un microcosmo di voci che si intrecciano

Bianca Bellová è una delle voci più interessanti della letteratura ceca contemporanea. L’edizione italiana di senti/mentální roman (“romanzo senti/mentale”), fresca di stampa, riconferma al pubblico questo aspetto. Grazie alla traduzione di Laura Angeloni, è finalmente edito il primo romanzo dell’autrice presso la casa editrice Miraggi Edizioni, dove sono già stati pubblicati altri due romanzi: Jezero (“Il lago”) e Monasenti/mentální roman è, straordinariamente, un romanzo d’esordio in cui è già possibile cogliere l’inconfondibile cifra stilistica dell’autrice. Ciò che colpisce sempre nei romanzi di Bellová è la sua capacità di condensare in un numero anche esiguo di pagine un intreccio molto complesso di sfumature tematiche. Innanzitutto, è necessario sottolineare il fatto che in senti/mentální roman si riscontra, nei confronti di Jezero e Mona, una differenza sostanziale, ovvero la presenza di coordinate spaziali e temporali precise, nonché contestualizzabili in passato recente. Il presente da cui procede inizialmente il romanzo è, infatti, la Cecoslovacchia all’indomani della Rivoluzione di Velluto del 1989. Nonostante ciò, la scelta di collocare l’azione entro coordinate precise si rivela essere un elemento relegato sullo sfondo della narrazione, mentre questa si concentra piuttosto sui singoli personaggi.

Il cielo si scurisce davanti ai miei occhi come una vasca da bagno in cui si versa inchiostro.

Con questa metafora si apre romanzo senti/mentale. Difficile parlare di un’opera come questa cercando di rendere giustizia all’incredibile capacità espressiva della sua autrice. Il romanzo presenta una struttura piuttosto interessante, dove la narrazione è affidata a due dei personaggi principali: Nina e Eda, legati da un passato e da un destino comune. In realtà, la vicenda ha come suo fulcro il motivo di questa connessione, ovvero Eliška, la cui voce emerge solo nell’ultima sezione del romanzo, in cui l’autrice decide di riportare una parte dei suoi diari. Le due voci narranti, rigorosamente in prima persona, si alternano in continuazione producendo così un effetto particolarmente dinamico e mettendo in luce la vicenda sotto due prospettive differenti. Tanto nel caso di Nina quanto in quello di Eda si assiste a un recupero del passato, partendo da un’infanzia che assume sembianze al tempo stesso traumatiche e mitiche, fino ad arrivare al presente, il momento in cui le due prospettive trovano il loro punto di intersezione. A risvegliare il bisogno di recuperare il passato è l’elemento della perdita, rappresentata dalla morte di Eliška.  Legata dal vincolo famigliare a Nina e da uno di carattere invece sentimentale a Eda, Eliška si rivela essere la chiave di volta, nonché il pilastro su cui si regge tutta l’opera. Anche dopo la sua morte, continua a permeare e a invadere la vita, ad esempio, di Nina attraverso oggetti, tracce tangibili:

Dopo tutti gli anni di “non toccare quella tazza”, “meglio lasciarla sullo scaffale”, “è l’ultimo ricordo di Eliška”, “questa non la diamo nemmeno agli ospiti”, era chiaro che prima o poi si sarebbe rotta. […] Non era di certo quello l’ultimo ricordo di Eliška. Questa casa è così piena di suoi ricordi che per girarti devi prima uscire dalla stanza: una mezza dozzina di cavalletti, decine di tele in varie fasi di realizzazione, acquarelli, scatole piene di tubetti di colori a olio ormai secchi, addirittura tutte le uova di Pasqua che un tempo ha dipinto.

Gli oggetti che affollano la stanza non sono altro che una proiezione di quanto sia importante la (non)presenza di Eliška nella vita di Nina. Lo stesso accade nel caso di Eda, continuamente tormentato dal ricordo di lei e, soprattutto, dagli eventi immediatamente precedenti al suo suicidio. A complicare la situazione contribuisce il fatto che è proprio Eda a trovare il corpo senza vita e a comunicare la morte alla madre di lei.

Il tentativo di ripercorrere un tempo ormai trascorso si identifica con un processo, necessario, di ricostruzione di questo. Processo in cui, il lettore, non può rinunciare a nessuna delle due prospettive per poter avere un quadro completo, sebbene questo venga ricostruito solo grazie ai diari. Fare i conti con il passato si rivela essere, però, molto più complesso di quanto non sembri. Come accade anche ne Il lago, Bellová problematizza questo recupero costruendo una dimensione della vicenda profondamente umana, un discorso in cui non vengono mai messe a tacere questioni delicate o problematiche. Se, però, ne Il lago si assiste a un protagonista che si allontana dagli apparentemente sicuri luoghi dell’infanzia per entrare nella vita adulta, in romanzo senti/mentale si assiste al percorso opposto. Difatti, si palesa necessario un ritorno all’idillio dell’infanzia per comprendere le tragiche dinamiche del presente in cui i personaggi si ritrovano incastrati. Una nostalgia che nel romanzo si vede rappresentata dalla citazione di When you were young dei Killers: “Sometimes you close your eyes and think ok the place you used to live… when you were young”.

Da giovani, Eliška, Nina e Eda sono semplici compagni di giochi che, però, si vedono già costretti ad affrontare le difficili questioni della vita degli adulti. A questo proposito, ad essere centrale è la complessità dei rapporti entro le mura domestiche, dove anela una profonda incomunicabilità. L’apparente idillio si rivela essere, al tempo stesso, un’infanzia tradita, che in Eda è determinata principalmente dalla figura del padre. Il loro rapporto si mostra insanabile sin dalla tenera età, quando Eda scopre della violenza sessuale che il padre esercita sulla madre, aspetto che condizionerà in modo profondamente negativo il modo che egli avrà di intendere la sfera della sessualità. Allo stesso modo anche nel caso di Nina riemerge in continuazione il difficile rapporto con i genitori, nonché quello con la sorella. Bellová si mostra particolarmente abile nel tratteggiare sia i complessi contorni di queste situazioni, utilizzando un linguaggio complesso e crudo, sia gli effetti che le esperienze traumatiche della giovinezza si riversano sui singoli personaggi nel corso della vita adulta. Un’indagine, quella dell’autrice, che conduce il lettore in una messa a nudo delle debolezze delle voci narranti, senza nasconderne in alcun modo le fragilità.

Tornando ad Eliška, che si è detta essere un elemento irrinunciabile dell’opera, è interessante osservare come si evolva nel corso nella narrazione. Sia in Nina che in Eda l’indagine sul sé è necessariamente anche un’indagine su Eliška e sulle relazioni che li legano a lei. I ricordi di Nina abbondano di descrizioni della sorella, alla quale spesso lei stessa si contrappone – mettendo in risalto i propri difetti – e che cerca, quasi disperatamente, di comprendere senza mai riuscirci. L’immagine che viene concessa al lettore, il quale non ha mai un contatto diretto con la voce di Eliška se non nella parte dei diari, è quello di una ragazza eclettica, dotata di un grande talento artistico e, al tempo stesso, profondamente instabile. Instabilità dovuta al suo stesso carattere e, in parte, all’impossibilità di essere compresa, che si mostra anche nei tentativi operati da Nina e Eda dopo la sua morte. Anche se il lettore dispone di un assaggio delle rivelazioni intime della ragazza all’interno die diari, il cui stile ne rivela in modo efficacie il carattere, non c’è mai una completa comprensione di Eliška, che perennemente sfugge all’essere delineata in modo chiaro: un’impossibilità profondamente umana. I diari si rivelano essere un elemento fondamentale anche per Nina e Eda, ma in modo diametralmente opposto. Mentre lei non ne è in possesso ed è determinata a recuperarli – col fine di riuscire finalmente a comprendere la sorella –, lui, avendoli, decide di distruggerli in un modo che viene annunciato sin dalle prime righe del romanzo, da quella “vasca da bagno in cui si riversa inchiostro” che si citava inizialmente. Ritornando alla questione dell’incomunicabilità, che permea tutto il romanzo, la forma del diario è anche l’unico modo in cui riesce a esprimersi con l’esterno: Vorrei con tutta me stessa che qualcuno trovasse questo diario, visto che non posso comunicare in altro modo…, dice a un certo punto. Anche Nina è attanagliata da questa difficoltà di esprimersi:

Ho sempre sentito il bisogno di livellare le mie emozioni. Eliška era quella che esprimeva sempre ciò che sentiva, e in modo dannatamente spontaneo; mentre a me veniva un groppo in gola appena, ahimè, un’emozione affiorava in superficie, e non sapevo come evitare di sembrare un’idiota, una rigida ochetta.

romanzo senti/mentale è dunque un microcosmo in cui Bellová mostra un’umanità lacerata, il tentativo e la necessità di ognuno dei suoi personaggi di ritrovare un equilibrio. Le voci si separano e si rincorrono, si smentiscono e si confermano, concorrendo così a creare una vicenda in cui vengono affrontati temi profondamente attuali, che penetrano la società in modo silente. La forza narrativa dell’autrice risiede proprio nel riuscire a scoperchiare il silenzio che li cela, senza rinunciare a incorniciare il tutto in una struttura complessa di voci e punti d’osservazione differenti. Bellová mette ancora una volta il lettore di fronte alle difficoltà del trovare un proprio equilibrio, anche se il finale porta a porsi un’ulteriore questione: esiste davvero un equilibrio possibile?

QUI l’articolo originale:

Con Bata nella giungla – vincitore premio Antonio Semeria – settembre 2021

Con Bata nella giungla – vincitore premio Antonio Semeria – settembre 2021

Al teatro del Casinò la consegna dei premi Antonio Semeria

La cerimonia per la premiazione del Premio internazionle letterario “Casinò di Sanremo, Antonio Semeria è stata condotta dal giornalista scrittore Mauro Mazza, coadiuvato dal presidente di giuria tecnica Matteo Moraglia, dal professor Francesco De Nicola, dai giurati Carlo Sburlati, Marco Mauro, Marino MaglianiPaola Monzardo e dal segretario generale Marzia Taruffi.

Per la narrativa internazionale opere tradotte questo il verdetto finale:
Alessandro De Vito per l’opera “Bata nella giungla” (Miraggi ) ha prevalso su Marco Drago con l’opera “L’ultima canzone di Bobby March” (Bompiani) . Terzo classificato Silvia Nugara e Claudio Panella con il volume “Delitti alle traversette” (Fusta editore)

QUI l’articolo originale:

https://primalariviera.it/cultura/al-teatro-del-casino-la-consegna-dei-premi-antonio-semeria/

Bianca Bellová – la regina ceca del romanzo su LA SICILIA (articolo di Gabriella Magistro – settembre 2021)

Bianca Bellová – la regina ceca del romanzo su LA SICILIA (articolo di Gabriella Magistro – settembre 2021)

Lunedì 20 alle 19 nell’Aula consiliare del Palazzo municipale di Sant’Agata Li Battiati, appuntamento con la maggiore autrice contemporanea cecoslovacca, Bianca Bellová, tradotta in 22 Paesi del mondo, in Italia dalla piemontese Miraggi, che per l’area metropolitana di Catania in occasione del suo tour italiano ha scelto il piccolo Comune, noto per essere Città della cultura tout court. Se il giorno prima sarà a Palermo e il giorno dopo, il 20, a Firenze, la Bellová che è stata inserita in un fuori programma di “Etnabook 2021” per volontà del presidente del Comitato scientifico, Salvatote Massimo Fazio, che assieme al sindaco Rubino hanno dialogato col direttore Cristaldi, del Primo Festival del Libro e della Cultura della Città Metropolitana di Catania, motivando la straordinarietà del personaggio, porta con sé copie rare dei due volumi tradotti in Italia, a prezzo normali: per lettori, per collezionisti che avranno possibilità di farseli autografare. «Un incontro unico – dichiara Fazio – Scegliere e sapere della consapevolezza d’oltre confine che Sant’Agata Li Battiati è il territorio primo dell’area etnea riconosciuto come paese della cultura, rende onore ad un sindaco; Rubino, definito “del fare”».

All’incontro, oltre alla Bellová, accompagnata dalla traduttrice Algeloni e dall’editore Reina, e al sindaco Rubino, il blog “Letto, riletto, recensito!”, la Libreria Sofà delle muse” e la “No_Name AC” encomieranno il comunicatore dott. Giovanni Di Stefano contraddistintosi per l’impegno culturale, e il presidente del ritorno nella massima serie della pallavolo etnea, la Saturnia Acicastello, nonché scrittore, Luigi Pulvirenti.

Krakatite – segnalazione di Lorenzo Mazzoni su Il Fatto quotidiano

Krakatite – segnalazione di Lorenzo Mazzoni su Il Fatto quotidiano

Krakatite, di Karel Čapek (traduzione di Angela Alessandri, postfazione di Alessandro Catalano; Miraggi edizioni), nuova uscita nella collana NováVlna dedicata alla letteratura ceca, è l’opera incredibile di uno degli scrittori di fantascienza più significativi del Novecento. Mai tradotto prima in italiano, Krakatite racconta, attraverso i suoi 54 capitoli, le paure emerse dopo la Prima guerra mondiale riguardo alla radioattività. Un’estrosa miscela di distopia e realtà aleggia per tutto il romanzo, segue le vicissitudini del protagonista, il chimico Prokop, inventore della Krakatite, un esplosivo micidiale, capace di distruggere intere nazioni. La storia dell’autore ceco diviene così metafora delle fobie umane e dell’ansia del movimento verso l’ignoto.

QUI l’articolo originale:

https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/07/23/libri-dai-thriller-psicologici-a-karl-marx-ecco-le-novita-internazionali/6259024/

La perlina sul fondo – recensione di Marco Archetti su Il Foglio

La perlina sul fondo – recensione di Marco Archetti su Il Foglio

Lo spartito di Hrabal, che ha fatto melodia della cacofonia del mondo

Secondo la moglie, i suoi racconti erano come il cibo precotto: una volta a casa, uno deve finire di cuocerlo perché diventi commestibile – “Sono racconti raggrumati,” diceva, “un po’ come quando si rapprende il latte.” Secondo il regime comunista, che aveva bloccato la pubblicazione del suo primo libro di poesie, “La strada perduta”, si trattava di uno scrittore mediocre – “Vogliamo davvero pubblicare una porcheria del genere?”, avrebbe detto lo zelantissimo direttore della casa editrice ČCekoslovenský spisovatel a proposito della sua raccolta “Allodole sul filo”, peraltro già rimaneggiata e accomodata alla ricerca di un compromesso col partito. Secondo alcuni critici, erano “quasi racconti”. Secondo i detrattori, era più francamente “uno schifoso maiale, un maniaco, un autore di una letteratura letamaio” e meritava la forca – il libro “Ballata su una pubblica esecuzione” riporta numerosi passaggi di lettere anonime di questo tenore. Secondo Angelo Maria Ripellino, che in Italia l’ha portato, la magia dei suoi testi risiedeva in quel “brulichio del parlato” che li gremiva. Parliamo dello stesso Angelo Maria Ripellino che però nel 1967, cioè quattro anni dopo la sua clamorosa uscita in Cecoslovacchia, sconsigliò a Einaudi la pubblicazione della prima raccolta di – appunto – Bohumil Hrabal, “La perlina sul fondo”, che possiamo leggere per la prima volta solo da quest’anno, e il merito va a Miraggi editore (250 pp., €20 euro).

I racconti di questa raccolta angolare, inevitabilmente polifonica e dunque hrabaliana al massimo grado, sono la migliore rappresentazione della forgia dello scrittore praghese, la parata numero uno dei suoi calchi, e l’occasione di vedere entrare in scena, per la prima volta nel teatro dei suoi pábitelé, una figura che assumerà poi tratti mitologici: quella dello zio Pepìn. Che cosa significhi, al netto delle semplificazioni, pábitelé, lo spiegò molto bene proprio A. M. Ripellino, parlando di sbruffoni, piccoli fantasticatori, svitati, parassiti, stramparloni da birreria, cialtroni.

E sì, sono loro: pullulano anche in questa raccolta, anzi, qui debuttano, e come per ogni debutto sono tirati a lucido. La letteratura di Hrabal è, infatti, letteratura di personaggi. Ogni personaggio si tira dietro il proprio teatro, non accade mai il contrario. Hrabal non allestisce la scena, mette solo i personaggi in condizioni di agire – cioè di parlare – e così è lo spartito intertestuale delle chiacchiere che si sovrappongono, è il loro accavallarsi, il loro rievocare disordinato che fa la scena, che fa il teatro. Sono racconti impalpabili in cui si palpa il midollo di una lingua che si rigenera nei dialetti, nelle gergalità, nei neologismi popolari. In Hrabal tutti parlano. Sempre. Dovunque. Di qualsiasi cosa. Quando un personaggio di Hrabal non parla con qualcuno, parla con se stesso, e col pensiero cuce ciò che non si potrebbe cucire, dramma e comicità, profondità e idiozia, vanvere e verità, ed ecco che i significati si rimescolano, il tessuto si smaglia e rimaglia di continuo, il mondo si piega e si sbilancia al punto che esiste solo chi sta raccontando per come lo sta raccontando, aedo repentino, cantore istantaneo di gesta inutili e buffonesche, di tutta la vita in grande che sogna l’uomo piccolo, l’uomo che ha solo l’energia della propria fantasia e si rivolge a chi? Forse a nessuno, forse a tutti, sempre a una scomposta platea di altri parlatori che gli parlano sopra e attraverso e durante, e alla fine, tutti insieme, compongono lo spartito inimitabile di Bohumil Hrabal, uno scrittore che ha fatto melodia dalla cacofonia, che ha osato un linguaggio e che dal linguaggio ha fatto germogliare un mondo.

Il racconto più bello di questa raccolta che ne annovera molti (“Corso serale”, “I bei tempi andati”, “Il battesimo 1947”) è “La morte del signor Baltisberger”. E’ ambientato a Brno nel corso del Gran Premio di motociclismo culminato nella morte del corridore tedesco Baltisberger. E’ un compendio perfetto del hrabalianesimo intersezionale: più raccontatori prendono spunto dal racconto di altri per poi slacciarsene e andare altrove, ognuno delirando con la propria aneddotica e sovrapponendosi di continuo, mentre la corsa impazza, un altoparlante tra il fogliame dà informazioni di prassi, e due giovani non faranno in tempo a vedere il loro eroe, morto in curva. Perché la vita è quel che accade mentre accade qualcos’altro, ma quel qualcos’altro siamo noi che chiacchieriamo, sempre in primo piano, sempre di sfondo.

QUI l’articolo originale:

https://www.ilfoglio.it/cultura/2020/08/16/news/lo-spartito-di-hrabal-che-ha-fatto-melodia-della-cacofonia-del-mondo-330989/

Grand Hotel – recensione di Fabio Sarno su Exlibris20

Grand Hotel – recensione di Fabio Sarno su Exlibris20

Una storia sopra le nuvole

In cima alla collina che domina la città di Liberec, ultima fermata della funivia, meta preferita di amanti e suicidi, attratti dalla magia della solitudine, dall’ebbrezza dell’infinito, dalla pericolosa bellezza dell’abisso alla quale è così difficile resistere (“la vertigine è la voce del vuoto sotto di noi che ci attira, che ci alletta, è il desiderio di cadere, dal quale ci difendiamo con paura”, scrive Kundera), alle spalle di un Cristo piegato dal vento, sorge un hotel tra le nuvole, centro di questo romanzo e del mondo dei suoi personaggi principali, ognuno con la sua particolare linea della vita che è qualcosa di diverso in ognuno di noi. Per me sono i grafici del tempo atmosferico (dice il protagonista). Per Franz sono i suoi amici morti. Per Zuzana, i test. Per Jegr, il museo del blocco orientale. Per Ciuffo, le bottigliette di happylife.

Un microcosmo di personaggi insoliti, strampalati, strasolati, ciascuno con le proprie piccole o grandi manie e i propri segreti, che l’agile penna di Rudis, viaggiando leggera, tra frasi brevi e incisive e suggestive iperboli e metafore, svela a poco a poco. Ma ve lo racconterò più avanti ripete spesso il protagonista e io narrante, come stringendo un patto con il lettore (non preoccupatevi, sembra dire, non vi deluderò, vi parlerò di tutto e di tutti, ma concedetemi il mio tempo).

Queste interazioni con il lettore e la concisione dei paragrafi contribuiscono a dare ritmo a un racconto fluido e coinvolgente, intenso, ricco di sfumature.

Fleischman è il nome che si è dato il protagonista, in omaggio al nonno mai conosciuto, morto schiacciato da un carro sovietico, ma che, in qualche modo, ha indirizzato il suo destino. È il tuttofare del Grand Hotel, da quando Jegr, un lontano parente che lo aveva preso con sé dopo la scomparsa dei genitori, spinto più dalla promessa di un sussidio che da uno slancio d’affetto, ne è diventato, in maniera tanto repentina quanto inspiegabile, il responsabile. Fleischman è un solitario, emarginato fin da bambino, vittima dei soprusi e delle angherie dei compagni di scuola, con un’ossessione maniacale per i numeri e per i nomi (e i soprannomi). Da una realtà che non accetta e che non lo accetta lo salva la scoperta della meteorologia: guardai le nuvole che scorrevano basse sopra la via. Le nuvole che portavano la pioggia dal Mare del Nord e a un tratto capii. Intendo dire che capii tutto delle nuvole e anche di me stesso. Mi tranquillizzai. Studia il tempo, annotandone le variazioni tre volte al giorno, mangia biscotti, beve limonata, spia dal buco della serratura chi fa meglio di lui (spia i corpi, le azioni, ma anche le conversazioni, sempre con un occhio soltanto, ma con entrambi gli orecchi), parla poco ed è inchiodato alla sua città dalla paura di andarsene, dall’impossibilità di andarsene, dall’impossibilità di raggiungere qualcosa. Cerca dicompensare questo suo immobilismo con lo studio delle mappe, geografiche, storiche e soprattutto meteorologiche, perché è convinto che chi conosce quelle mappe conosce il mondo intero.

Fleischamn spiega tutto attraverso i fenomeni atmosferici, sia come metafora della vita, sia come causa primigenia, fattore scatenante delle più importanti decisioni umane, costantemente influenzate da nuvole e vento, alta e bassa pressione.

Ma se sa tutto del tempo, dei venti, della pressione, delle nuvole, del punto di rugiada, non sa nulla del mondo reale, dei rapporti umani, delle donne. L’opposto di Jegr, il cui universo estremamente concreto è fatto di fiki fiki e di pallone, laddove quello evanescente di Fleischman è fatto di nuvole e sogni. Lo iato tra queste due opposte concezioni della realtà è apparentemente incolmabile, tra i due non scorgiamo alcun punto di contatto, eppure li unisce una sorta di affetto sottaciuto, che qua e là affiora appena.

Ma qual è, poi, la realtà? Non tutto è sempre come appare: a volte raccontiamo agli altri, ma prima ancora a noi stessi, storie a cui finiamo col credere, e diviene sempre più difficile distinguere il falso dal vero, ciò che è accaduto, da quello che sarebbe potuto (o dovuto) accadere. Non solo il presente e il futuro, ma anche il passato possono essere piegati alle esigenze di chi racconta (“la realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi se vogliamo essere” scriveva Pirandello). E ridisegnare il passato nel ricordo e riscattarlo attraverso le azioni del presente ci consente di fare pace con la nostra coscienza e di costruire un futuro che ci permetta di porre rimedio ad antiche colpe, nostre o altrui.

Spesso gli scrittori cechi fanno i conti, in maniera più o meno esplicita, con la storia recente del loro Paese. I comunisti, i nazisti, la primavera di Praga, i carrarmati sovietici. Rudis affida questa funzione di “voce” della storia al vecchio Franz, ma anche ai racconti di Fleischman su suo nonno, e scandisce lo scorrere del tempo attraverso un ossessivo rimarcare i cambiamenti della toponomastica, a sottolineare i passaggi storici (e linguistici) che si sono succeduti.

La storia (quella dei popoli, ma anche la propria personale) è un cerchio, uno deve finire là dov’è nato è il motto di Franz, ma per tornare bisogna andarsene e andare via, staccarsi dalle proprie radici, dai propri affetti, dalle proprie paure, è la scelta più difficile. C’è una sola strada, percorribile in un’unica direzione: verso l’alto. Anche se a volte, prima di spiccare il volo, è necessario precipitare, magari nel proprio abisso interiore, nel proprio infinito personale. E così, d’improvviso, il protagonista capisce: la sola via di fuga possibile è attraverso le nuvole, affidandosi al vento.

QUI l’articolo originale:

Mona – recensione di Erminio Fischetti su Mangialibri

Mona – recensione di Erminio Fischetti su Mangialibri

A volte non abbiamo bisogno che di parlare con qualcuno, soprattutto per essere ascoltati. Mona ha bisogno di parlare: è stanca, spossata, stremata, il lavoro e la guerra la abbattono, ogni giorno di più, ma lei resiste. E così parla con Mun. Mun è il nome del bue che porta al pascolo. O perlomeno Mun è il nome che Mona dà al bue quando, portandolo al pascolo, gli parla. Mun le vuole bene, si vede, o perlomeno è Mona a cui sembra di vedere ciò, che si sforza di capire i discorsi che lei gli fa, anche quando sono troppo impegnativi per lui, che è solo un povero bue, e le è così affezionato che quando lo vendono non vuole che nessun’altra persona al mondo lo conduca fuori dalla stalla se non Mona stessa. Mun è un bel ricordo per Mona, che ogni tanto si estrania da tutto ciò che la circonda e torna a parlare con Mun, a confidarsi con lui, anche se gli argomenti spesso sono inquieti come la sua anima. Mona, infatti, non ha tempo per riposarsi un attimo, intorno a lei brulica la frenesia di un ospedale in tempo di guerra, dove si urla per salvare vite o per il dolore: adesso, per esempio, Mona è da sola in mezzo agli strilli. Il medico di turno ha avuto una giornata impegnativa al fronte, non vuole svegliarlo (sì, è distrutto tanto da riuscire nonostante tutto a dormire), può cavarsela benissimo con le sue forze. La sua esperienza è tale che saprà certamente dare una mano a quel povero ragazzo amputato e disperato: legge il nome sulla targhetta del letto, Adam…

Lei ha scritto moltissimo, e con ogni probabilità, quantomeno è quello che tutti i suoi lettori certamente si augurano, continuerà a farlo, ma soprattutto hanno scritto moltissimo su di lei, in quanto è non solo fra le autrici più interessanti, originali, anche se dalla prosa ricca di riferimenti artistici e filmici, oltre che letterari, liriche, intense e particolari, ma anche fra le più premiate della Repubblica Ceca, nazione dalla tradizione letteraria di tutto rispetto, centrale per quel che concerne la cultura mitteleuropea ponte fra l’esperienza occidentale e i paesi che vivono ancora i retaggi della lunga appartenenza al grappolo di stati satelliti sovietici: Il lago è la sua opera certamente più nota, tradotta in molte lingue, ma Mona segna un punto di svolta nella produzione di Bianca Bellová. Si tratta infatti non solo di una riuscita allegoria del potere salvifico della parola, capace di valicare ogni ostacolo, ma è anche una riflessione sentita, composta, profonda e potente sull’abiezione della guerra, la violenza della dittatura, la fragilità dei rapporti umani, le conseguenze che ogni azione determina nella vita di ogni singolo individuo che la compie o la subisce e della collettività alla quale egli appartiene, la cognizione del dolore, il senso di straniamento che dà la sofferenza, la speranza generata dall’amore, in questo caso quello fra l’infermiera di un ospedale devastato da un conflitto e il soldato, adolescente o poco più, che arriva, col suo carico di paura e d’impudenza dovuta all’età acerba, gravemente ferito dal fronte.

QUI l’articolo originale:

https://www.mangialibri.com/mona

L’anno del gallo – recensione di Martina Mecco su Andergraund

L’anno del gallo – recensione di Martina Mecco su Andergraund

Fare i conti con la disillusione. “L’anno del gallo” di Tereza Boučková

L’anno del gallo (Rok kohouta) è l’ultimo libro edito da Miraggi Edizioni all’interno della collana NováVlna, interamente dedicata alla letteratura ceca. L’autrice, Tereza Boučková, era già stata presentata al pubblico italiano nel 2018 con La corsa indiana (Indiánský běh), sempre pubblicato dalla medesima casa editrice nella traduzione di Laura Angeloni.

Tereza Boučková (1957-) è una delle protagoniste della scena letteraria ceca contemporanea. Figlia del dissidente e chartista Pavel Kohout, firma Charta 77 non appena conclusi gli studi liceali. Questa sua scelta le creerà non pochi problemi, soprattutto in ambito lavorativo, dove si troverà costretta a fare i lavori più disparati, dalla postina alla donna delle pulizie. Nonostante le difficoltà causate dagli anni della Normalizzazione, Boučková è riuscita a ritagliarsi il suo spazio non solo nell’ambito letterario, ma anche in quello della pubblicistica e del cinema.

L’anno del gallo può essere considerato come l’ideale continuazione de La corsa indiana (su Andergraund Rivista è stato pubblicato un articolo dedicato al romanzo nel terzo numero di maggio), romanzo in cui l’autrice affronta temi quali la questione famigliare, la difficoltà della vita negli anni della Normalizzazione e la questione della maternità, protagonista è infatti un io narrante che cerca disperatamente di avere figli. L’opera, inoltre, è profondamente critica nei confronti di personaggi dell’epoca, quale il padre Pavel Kohout e il futuro presidente della Cecoslovacchia Václav Havel, che compaiono con gli pseudonimi di “Indiano” e “Monologo”. Anche L’anno del gallo cela, sin dal titolo, una critica nei confronti del padre, giocando sull’ambivalenza del termine “kohout”, che in ceco significa appunto “gallo”.

“Mi è capitato in mano un grazioso libricino. Oroscopi cinesi. Sulla copertina è scritto in lettere maiuscole:

KOHOUT

Il gallo, sotto il cui segno sono nata io, è… E ora tenetemi forte, tenetemi perché salto in aria! Gli anni nel segno del gallo si ripetono periodicamente, ma ci sono varie sottospecie di galli, che si alternano ogni sessant’anni.” (p. 139)

All’interno del testo non mancano di certo riferimenti alle condizioni di vita ai tempi della Normalizzazione, ricordando ad esempio un incontro con le “donne della Charta” (il documentario, girato nel 2007, si può recuperare in lingua ceca qui: https://www.ceskatelevize.cz/porady/10114412382-zeny-charty-77/), ovvero la maggior parte di coloro che avevano dato sostegno ai loro uomini durante gli anni del dissenso. Il ruolo delle donne, nonostante questo non venga enfatizzato abbastanza da coloro che si occupano di questo specifico periodo, fu determinante su molti fronti, basti pensare all’importanza della moglie di Havel, Olga Havlová, durante gli anni della prigionia del marito. Proprio in questo frangente viene ricordato come il romanzo forse più famoso di Kohout, Katyně (“La carnefice”, pubblicato da Editori Riuniti nel 1980), fosse stato battuto a macchina da Drahomíra Šinoglová. Gli anni in cui è ambientato L’anno del gallo si situano in un arco di tempo distante rispetto a quello de La corsa indiana, ovvero a partire dal 2005. Tutto il romanzo è narrato, come il precedente, in prima persona e si incontrano numerosi elementi che si possono ricondurre alla vita dell’autrice. Boučková riesce in modo magistrale a indagare la complessa dimensione dell’interiorità, sviscerandone gli strati per comprendere l’origine della sofferenza e del dolore. Il piano su cui questa ricerca viene portata avanti è duplice, da un lato si ha la dimensione intima della famiglia, dall’altro, invece, quella pubblica dell’ambito lavorativo a cui si lega il ruolo di intellettuale della protagonista impiegata nella stesura di sceneggiature cinematografiche. Le sensazioni dell’io narrante vengono esternate senza alcun filtro che le mitighi, in tutta la loro profondità:

“Ieri finalmente ho fatto una fuga, sono andata a fare una passeggiata a Praga, ho parlato con la gente, ho riso, ma non è servito ad allontanare il mio senso di solitudine. Ce l’ho dentro, non mi lascia via di scampo. L’antidepressivo non ha ancora fatto effetto. Sono una donna inutile. Mi do fastidio da sola. […] A volte verrei mi venisse un cancro. Lo so che è una bestemmia. Ma magari accenderebbe il motore che un tempo mi aiutava a superare le crisi. Avrei un motivo vero per lamentarmi e forse ritroverei la forza di combattere.” (p. 73)

La situazione famigliare in cui vive la protagonista è tutt’altro che semplice. Nonostante sia riuscita a soddisfare il suo bisogno più grande, quello di avere dei figli (elemento centrale in La corsa indiana), questi mostrano dei problemi comportamentali spesso complessi da gestire. Il più grande, Patrik, se ne è andato di casa finendo in condizioni di vita precarie nella capitale. Lukáš, invece, è affetto da difficoltà nel controllare la rabbia e da disturbi da cleptomane, ragione per cui i genitori devono sempre mettere sottochiave i loro averi. Il più giovane, Matěj, è l’unico dei tre a non essere stato adottato e nel corso nel romanzo arriva anch’egli a scontrarsi con la madre. A complicare la situazione è anche il marito Marek, appassionato di ciclismo e spesso fuori casa per lavoro, non sembra rendersi conto davvero della situazione che alleggia in famiglia, reagendo molto spesso dando sfogo alla sua rabbia. Lo stesso rapporto col marito sembra vacillare a più riprese nel corso del romanzo, la stessa protagonista arriva addirittura a farsi domande sull’effettivo valore della loro unione matrimoniale. L’atmosfera che si respira in famiglia può essere riassunta con le parole stesse dell’autrice: Grido alla casa intera, al nostro nido ormai trasformato in trappola” (p.213). Tutto questo sovrapporsi di problematiche, che viene mostrato da vicino attraverso gli occhi e le sensazioni della voce narrante, genera una condizione di sofferenza e, soprattutto, solitudine. Difatti, ad essere lamentata a più riprese è l’impossibilità di essere compresi o ascoltati. Il dolore si genera e si consuma nella protagonista senza che questa riesca a trovare alcun tipo di conforto duraturo. Boučková costruisce, così, un grande collage di disillusioni che rappresenta la vita stessa.

Nejradši jsem tam, kde zrovna nejsem - kulturní magazín Uni

Accanto a questa linea narrativa si sviluppa quella che riguarda la questione legata alla stesura della sceneggiatura. La protagonista è una scrittrice di sceneggiature e libri, questo lo si capisce in modo esplicito quando un uomo sul tram si complimenta con lei per le sue opere. Ad avvalorare il fatto che nella protagonista ci sia molto dell’autrice non bisogna dimenticare che Boučková ha realizzato anche sceneggiature per il cinema, quella di Smradi (“Canaglie”, film del 2002 diretto da Zdeněk Tyc) e Zemský ráj to na pohled (“Paradiso terrestre a prima vista”, film del 2008 diretto da Irena Pavlásková). Entrambi compaiono all’interno de L’anno del gallo, sebbene non siano gli unici film a essere nominati. Difatti, tutto il romanzo è caratterizzato da una forte componente intertestuale: sono moltissimi i riferimenti che compaiono, sia di carattere letterario (come il caso dello scrittore slovacco Rudolf Sloboda) che cinematografico. Non vi sono solo rimandi al cinema ceco come nel caso di Evald Schorm, una delle stelle della Nová Vlna, ma compaiono anche riferimenti a registi di fama internazionale, ad esempio Federico Fellini:

“Uscendo dall’ufficio della caporedattrice sono andata alla proiezione mattutina del film di Fellini ‘La dolce vita’. […] Fosse per me l’avrei accorciato. Già, sono talmente sfrontata che avrei accorciato Fellini. […] Per il resto magnifico. Soprattutto la storia nella storia, che parla di un intellettuale amico del protagonista. Al contrario di quest’ultimo, dissennato e superficiale, il suo amico è a prima vista un uomo equilibrato, arguto, profondo, onesto. […] E forse proprio la sua vita piena di sicurezza, armonia, ordine, tranquillità e pace, tutto secondo i piani e senza imprevisti, lo spinge infine a fare del male a se stesso e ai suoi figli.” (p.149)

Il personaggio ricordato, nonché successivamente aspramente criticato, da Boučková è quello di Steiner. Fellini viene citato anche in riferimento al suo libro Fare un film. Difatti, una delle difficoltà della protagonista è proprio quella che ha a che fare con la dimensione creativa. Spesso lamenta l’impossibilità di scrivere, la difficoltà nel trovare un qualche tipo di ispirazione per il soggetto della sua sceneggiatura. A questo concorrono anche altri problemi legati al trovare un regista adatto che non ne limiti le scelte.

In conclusione, L’anno del gallo di Tereza Boučková è un romanzo che, sebbene si presenti come il racconto di vicende personali, mostra una profondità di indagine e una ricchezza di riferimenti storico-culturali. Ciò che, inoltre, colpisce della prosa dell’autrice è la capacità di narrare in prima persona episodi personali in modo diretto e tangibile. Questa resa reale del quotidiano attraverso la scrittura si realizza anche grazie all’uso di numerosi realia (ad esempio slivovice o la tradizione pasquale della Pomlázka), che sono stati commentati in modo meticoloso dalla traduttrice grazie all’uso di note. Leggere Boučková significa compiere un viaggio negli strati più profondi dell’anima, scavare nei propri dolori e nelle proprie insicurezze, fare i conti con una vita che non è sempre rosea, ma in cui è sempre possibile trovare un modo per continuare. Questa possibilità la si scopre proprio grazie alla forza della prosa di Boučková che, con questo romanzo, si riconferma essere la grande autrice che già si era palesata nel suo primo romanzo, La corsa indiana.

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La perlina sul fondo – recensione di Stefania Medda su Mangialibri

La perlina sul fondo – recensione di Stefania Medda su Mangialibri

L’istruttore smonta dalla Java 250 a doppio manubrio, si accende una sigaretta e guarda il suo allievo in maniera truce. Non ci siamo proprio, pensa, mentre il ragazzo tenta in modo frenetico di mettere in folle la moto: è stato un vero disastro, soprattutto in prossimità degli incroci. Quand’è che si deciderà seriamente a studiare il codice della strada? L’esame è alle porte, e sono ormai nove mesi che frequenta le lezioni. Il pomeriggio, al rientro dal lavoro, sarebbe un buon momento per dedicarsi allo studio, azzarda l’istruttore. Ma tra il pisolino, la lettura di un libro mozzafiato da cui non riesce a staccarsi – Il bruto dottor Quartz e la leggiadra Zanoni, è fortissimo, se vuole glielo porto! – e le uscite con la sua ragazza super accessoriata (che tutti gli invidiano), il giovanotto non avanza neanche un briciolo di tempo. Rimane la notte, ma a quel punto è così carico di adrenalina, che il miglior modo per rilassarsi è accendere la radio: Bing Crosby, Eartha Kitt, Luis Armstrong… musica che graffia il cuore! Ad ogni modo, il ragazzo promette che l’esame verrà superato con successo. Ora tocca ad Hrabal: lui è un uomo attempato, già pratico di moto, suo padre le ha guidate per una vita intera. Viscosità, compressione, pistoni, camera a scoppio. Hrabal sa tutto, ma l’istruttore, sebbene compiaciuto, lo mette in guardia: “Si accorgerà presto che gli zucconi, completamente a digiuno di teoria, guidano da dio, mentre lei prima o poi farà una bella caduta”… Quasi mezzanotte. All’acciaieria, dopo aver predisposto tutto per il sistema di colata, Kudla, Jenda e il caposquadra si concedono una pausa. Jenda si appresta a mangiare le sue fette di pane imburrato, e Kudla, tolti dalla sua borsa forbici e macchinetta, è pronto a tagliare i capelli al caposquadra. Accomodatosi su una cassa di cromo vuota, l’uomo si raccomanda: niente taglio drastico, che poi rischia di sentire freddo in testa. Kudla opta per un taglio all’americana, più corto ai lati, mentre Jenda asserisce a gran voce che mai nessuno toccherà i suoi capelli tranne Theodor Olivieri, il francese che lavora al “Parrucchiere dei giovani”. Quello sì che è un grande: un vero maestro, un uomo elegante, e che fa esattamente ciò che gli viene richiesto. Nel raccontare Jenda si toglie il berretto e china la testa, così da mostrare le morbide onde fattegli da Olivieri. Non l’avesse mai fatto: Kudla ne approfitta per soffiare via dal rasoio i capelli del caposquadra, che finiscono dritti a farcire il pane di Jenda. Panino che tra l’altro, si è riempito di polvere poco prima, quando Kudla, togliendo da sotto il sedere la cassetta a Jenda, lo ha fatto ruzzolare a terra. Per Jenda va così, ormai è abituato ad essere lo zimbello: ridono sul suo modo di approcciare le donne, sul suo piedino piccolissimo, sui suoi capelli da fraticello. E quando qualcuno in acciaieria urla, Jenda è sempre convinto che ce l’abbiano con lui… Il ragazzo entra in birreria e ordina trenta sigarette e una birra. Nessuno sa chi è: è un bel giovane, indossa un maglione di lana pesante, di quelli fatti ai ferri; al collo ha annodato un fazzoletto rosso e la sua chioma corvina splende. Da quando è entrato è chino su un libro, niente lo distoglie dalle pagine, nemmeno il chiasso degli avventori esaltati, che sostano al locale prima di dirigersi allo stadio a vedere la partita. Lo guardano tutti con disprezzo, convinti che stia leggendo un libro pornografico o qualche storia sanguinaria. Che gioventù, eh? Intanto il volto del giovane assorto passa invariabilmente dalle lacrime alle risa. Qualcuno gli dà pure della femminuccia, ma il giovane non se ne cura, non interrompe la lettura nemmeno quando va in bagno…

Ironica, grottesca, vivace, anticonformista: la narrativa di Bohumil Harabal (Brno 1914 – Praga 1997) è spiazzante, e difficilmente confinabile in un preciso canone letterario. Sproloqui da taverna che dicono tutto e il contrario di tutto, monologhi sfiancanti che apparentemente non portano da nessuna parte, ma che danno vita a storielle esilaranti; è interessante vedere come racconti banali sul calcio, il sesso o i motori riescano a raggiungere una dimensione quasi epica attraverso le bocche di personaggi stralunati. Sono i pábitel: i cosiddetti sbruffoni, gli straparloni tanto cari ad Hrabal, protagonisti indiscussi di tutte le sue opere. “Quando non scrivo, è allora che scrivo di più. Quando passeggio, quando cammino, quando faccio un monologo interiore, quando assorbo non solo quello che sento e che è interessante ma anche ciò che matura dentro di me… E allora di nuovo esco e vado in giro per le birrerie, è solo nella taverna che i discorsi si muovono”. Assiduo frequentatore delle taverne praghesi, uomo dai mille mestieri – “Ho escogitato per me stesso la teoria del destino artificiale, mi sono andato a cacciare lì dove non avrei mai voluto essere. Io, timido, offrivo assicurazioni sulla vita, vendevo cosmetici, lavoravo nelle miniere, e continuavo a scrivere e scrivere” – Hrabal si è nutrito della vita vera e della creatività della gente comune, riportando sulla carta il linguaggio della strada, fatto di slang ed espressioni dialettali. “Ho reso umani i pettegolezzi da ballatoio e il vituperio e l’ingiuria, ho lanciato in situazioni estreme lo splendore dei chiacchieroni e il loro sollazzarsi, che talvolta finisce alla polizia o all’ospedale”. Una scrittura colorita, palpitante, priva di orpelli letterari a lungo riposta nel cassetto, imbrigliata nel grigio conformismo del regime socialista a partire dal 1948 (anno in cui viene bloccata, a spese dell’autore, la pubblicazione delle sue prime poesie) poi liberata con forza prorompente, proprio con La perlina sul fondo, nel 1963, anno in cui la cultura riprende a respirare e le opere di Hrabal cominciano finalmente a circolare alla luce del sole: l’autore ha quasi cinquant’anni, e per quindici di essi ha vissuto, narrativamente parlando, come un clandestino. Fortissime, le reazioni di alcuni lettori di fronte all’originalità delle sue opere: gli hanno dato del maniaco, del pervertito, del maiale, invocando addirittura la forca. Una narrativa osteggiata da più parti, a ben vedere, un successo arrivato in tarda età, ma che non ha impedito a Bohumil Harabal di diventare a pieno titolo uno dei più acclamati scrittori cechi del Novecento. Diverse sue opere sono state trasposte a teatro e al cinema, e gli è stato intitolato persino un asteroide (Hrabal, n°4112). Un consiglio ai lettori: un approccio troppo leggero ai racconti può essere destabilizzante, necessitano di totale concentrazione per essere davvero apprezzati. Infine, da leggere anche le preziose note al testo della traduttrice, Laura Angeloni, e l’accurata postfazione di Alessandro Catalano, curatore della raccolta: l’esperienza sarà completa.

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Bianca Bellová intervistata da Martina Mecco su EST/RANEI

Bianca Bellová intervistata da Martina Mecco su EST/RANEI

La costruzione dell’identità come continua ricerca. Intervista a Bianca Bellová, autrice de “Il lago”

Nami suda. Si aggrappa alla mano grassoccia della nonna. Le onde del lago sbattono a ritmo regolare contro il molo di cemento. Dalla spiaggia del paese arriva un grido, uno strutto piuttosto. Dev’essere domenica, se sta lì sulla coperta col nonno e la nonna.

Così inizia il romanzo Il lago. Bianca Bellová (1970 -) è una delle autrici ceche contemporanee più conosciute all’interno del panorama internazionale. La sua attività di scrittrice inizia nel 2009 con la pubblicazione di Sentimentální román (“Romanzo sentimentale”), a cui segue nel 2011 Mrtvý muž (“L’uomo morto”) e nel 2013 Celý den se nic nestane (“Non succede nulla tutto il giorno”). Il 2016 è l’anno di Jezero (“Il lago”), mentre nel 2019 è stato pubblicato Mona. Quest’anno è stata pubblicata la raccolta di racconti Tyhle fragmenty (“Questi frammenti”).

In italiano sono state pubblicate dalla casa editrice Miraggi Edizioni le opere Il lago e Mona. Il romanzo Il lago ha ricevuto il premo Magnesia Litera come Kniha roku (“Libro dell’anno”) nel 2017 ed è stato tradotto in numerose lingue straniere. Sempre nello stesso anno, il romanzo ha vinto anche il Premio Unione Europea per la Letteratura. Nel 2018, in occasione di un’intervista realizzata da iLitera.cz, le è stato chiesto perché il romanzo abbia un carattere così universale e se la fortuna internazionale che ha avuto fosse dovuta al fatto che avesse appunto vinto il Magnesia Litera. L’autrice ha risposto:

Questo lo deve chiedere ai lettori e agli editori. Secondo me “Il lago” ha una narrazione classica, l’eroe deve intraprendere un viaggio per scoprire qualcosa su se stesso e infine tornare da dove è venuto, in realtà, è completamente banale, senza alcun esperimento o introspezione profonda. Mi ha anche aiutato il Premio dell’Unione europea per la letteratura, che supporta le traduzioni in altre lingue europee. Ma forse il lavoro più importante è svolto dai boemisti all’estero: sta a loro raccomandare agli editori locali quello che gli piace. E ho incontrato molti traduttori davvero sensazionali.

La forza di un romanzo come Il lago risiede nella sua universalità. Questo carattere si evidenza nel modo in cui sono fornite le coordinate spazio-temporali in cui si svolge l’azione, che in realtà non esistono. Nonostante vengano indicate località differenti, queste si rivelano essere meri riferimenti fittizi. Boros, la cittadina in cui Nami trascorre l’infanzia, non compare su nessuna cartina geografica. Inoltre, non viene mai contestualizzato il periodo in cui la narrazione si dispiega. Nonostante si rimarchi più volte il fatto i territori siano occupati dai russi, nulla vieta al lettore di contestualizzare la vicenda nella contemporaneità. Le poche indicazioni date dal narratore, voce esterna e onnisciente, sfumano per lasciare spazio alla fantasia di chi si approccia alla lettura del romanzo. L’elemento centrale risiede nei moniti di cui l’autrice lancia al lettore. Primo tra tutti, la forte componente di ecocritica. Il lago, infatti, rappresenta un simbolo dello scontro dell’uomo con la natura, argomento quanto mai attuale. Le immagini in cui viene descritto sono spesso molto crude e suggestive: “Il cielo sopra il lago è ora pesante come il piombo, nuvole possenti coprono l’interno orizzonte come un vecchio uomo grasso la fresca sposa, la prima notte di nozze.”  Le tragiche conseguenze dell’azione dell’uomo sulla natura vengono interpretate dalla gente del villaggio come una vendetta del lago, che viene personificato. Secondo un principio di carattere ancestrale, è lo Spirito del Lago a regolare le vite degli abitanti di Boros. Lo Spirito mette il broncio, si arrabbia, maledice. Ogni vivente origina dal lago e vi ritorna nel momento della morte. Quella ritratta da Bellová è una natura matrigna, che l’uomo può controllare solo apparentemente. A questo si lega anche il tema della malattia. Ad essere raffigurata è infatti una natura malata che riflette la sua condizione in chi vive a contatto con essa, da fonte di approvvigionamento dato dalla pesca degli storioni il lago diventa fonte di malattia. La natura reagisce con la stessa ferocia con cui viene attaccata da un’umanità che ormai perso l’originaria comunione con essa.

Il romanzo si sviluppa attorno al suo personaggio principale, accompagnandolo nella sua evoluzione dall’età infantile a quella adulta, costruendo così una sorta di Bildungsroman, che però non ha niente a che fare con il classico concetto di Bildung. La storia di Nami è piuttosto un collage di continue disgrazie, di ostacoli che è continuamente costretto ad affrontare per riuscire a sopravvivere. A rispecchiare la progressiva evoluzione del protagonista concorre anche la struttura stessa del romanzo, divisa in quattro capitoli: UovoLarvaCrisalide e Imago. Paradossalmente, però, questo movimento di progressione, di tende a qualcos’altro, è in realtà un ritorno a un’origine che, per quanto famigliare, è sconosciuta. Nami, abituato a vivere in un’atmosfera equilibrata tra il fare burbero del nonno e la figura per lui dolce della nonna, ignora totalmente chi siano i suoi genitori e inizialmente nega addirittura di avere una madre:

“Il fatto è che tua madre se li è scopati tutti.”
“Non ce l’ho una madre, deficiente.”

Il linguaggio di Bellová è spesso diretto, limpido, non mitiga la brutalità con cui un evento si manifesta. Inseguito al trauma della morte dei nonni si disgrega l’idillio dell’infanzia di Nami, la casa dove è cresciuto smette di essere un luogo sicuro e diventa estraneo. Proprio in questo momento si fa impellente il bisogno di attraversare il lago, di giungere nell’altra sponda dove si trova la capitale e dove, forse, trovare delle risposte. Il sociologo Zygmunt Bauman sostiene che il concetto stesso di identità nasce dalla crisi dell’appartenenza. Proprio nel mettere in discussione riferimenti da sempre considerati certi si innesta nel protagonista de Il lago il processo della ri-scoperta del se. La vicenda narrata da Bellová è il tentativo di rispondere alla domanda “Kdo jsem?”. La complessa questione dell’identità si concretizza inizialmente in Nami nella ricerca della madre, una figura fantasma, che alleggia sfumata all’interno del ricordo. Immerso nella capitale, si fa così strada all’interno di un nuovo molto che lo mette continuamente alla prova. Questa ricerca, che pare a tratti insensata allo stesso Nami, nasconde invece un significato molto più profondo ed elude dal fatto che l’esistenza della donna che sta cercano è reale quanto quella dello Spirito del Lago. A spronare Nami è la speranza, mista a una sicurezza che alleggia nel profondo. Nonostante il ricongiungimento con la figura materna avvenga, non si rivelerà essere l’atto risolutivo. La riscoperta del sé è possibile solo attraverso un ritorno, è necessario volgere lo sguardo indietro e attraversare ancora una volta il lago: il romanzo è un cerchio che si chiude, tutto ritorna nel lago, cuore pulsante della narrazione.

Intervista a Bianca Bellová

Di seguito riportiamo l’intervista all’autrice, con la quale si è discusso di alcuni aspetti de Il lago e dei legami che questo presenta con l’altro suo romanzo pubblicato in Italia, Mona.

D: Una volta ha detto che Jezero presenta una “narrazione classica”, ma dal punto di vista strutturale è al contempo davvero interessante. Il lettore non ha riferimenti temporali e Boros è solo un luogo fittizio. Il focus della narrazione è incentrato sull’evoluzione dell’eroe Nami e il lettore deve immaginarsi tutto il resto. Quanto è importante il ruolo del lettore nei suoi libri e perché si ha questa assenza di coordinate?

Bellová: Ottima osservazione. Io scrivo per un lettore che durante la lettura sia disposto a collaborare e investire in essa alcune delle sue sensazioni e la propria fantasia. Dipende da lui, come proietterà la sua storia, come le darà scenari concreti e colori. Il lettore a cui piacciono le cose dette alla lettera e le spiegazioni, rimarrà deluso dai miei testi. Mi interessa l’universalità delle storie, i dettagli non sono essenziali.

D: Nel romanzo Il lago la domanda fondamentale dell’eroe è “Chi sono?”. Nami cerca continuamente la propria identità e, secondo me, questo tema ha un carattere fortemente universale. Lei ha la sensazione che la perdita dell’identità sia un problema della società contemporanea?

B: Sì, viviamo in un’epoca di perdita dell’identità. Siamo lacerati dal conflitto tra l’ancoraggio dell’individuo nella società, che per secolo gli è stato dato dalle istituzioni tradizionali come la famiglia, la nazione o la religione, e qualcosa di nuovo, di diverso, più bello, più veloce, che deve sostituire quei valori. Questi sono dilemmi davvero difficili, dobbiamo scegliere il meglio da entrambi i mondi, ma a questo nessuno ci darà la soluzione giusta.

D: Nel libro Jezero è fondamentale l’immagine dell’acqua, che è un simbolo molto importante. L’ha ispirata qualcosa? Da qualche parte ho letto che avete trovato un reportage sul lago di Aral sulla rivista National Geographic. Nel romanzo esiste anche un legame tra la natura e l’uomo. Quanto profondo è questo legame secondo lei e possiamo parlare, nel romanzo, di ecocritica?

B: Sì, la storia del lago d’Aral era il punto di partenza, l’ho usata come ispirazione, perché era una buona rappresentazione del rapporto tra l’uomo e la natura che lo nutre. La natura può fare a meno dell’uomo, ma l’uomo senza la natura? Certo, è un cliché, ma proprio perché è un cliché, non smette di essere vero.

D: Penso non sia facile stabilire quale sia il genere di un romanzo come Jezero. Come lo definirebbe?

B: Io non credo che questo lo debba in qualche modo definire l’autore. Riguardo a Jezero, ho sentito che è un romanzo distopico, politico, di formazione, ecologico e, infine, femminista. Dipende da cosa ci vede il lettore, anche se alcune interpretazioni mi sembrano davvero un po’ strane. Ma chi sono io per interpretare i miei testi? Questo è un lavoro da critici letterari.

D: In Italia non abbiamo solo la traduzione di Jezero ma anche di Mona. Entrambi i libri sono stati editi dalla casa editrice Miraggi. Si può dire che ci esistono numerosi punti in comune tra Mona Il lago. In entrambi i casi abbiamo un eroe o un’eroina che si trovano a centro della narrazione e anche dei luoghi fittizi. Può parlare un po’ di questo? Vorrei chiederle, se secondo lei esistono questi aspetti comuni e quali sono le differenze principali.

B: E ora è in preparazione una traduzione italiana del mio primo romanzo, Sentimentální román (“Romanzo sentimentale”)! Sia in Miraggi che nella traduzione della fenomenale Laura Angeloni apprezzo molto il fatto di poter lavorare con persone così meravigliose. In effetti, probabilmente tra i traduttori non c’è nessuno, con cui potrei essere così in sintonia come con Laura – è sensibile, attenta, ragiona come me, abbiamo molto in comune – abbiamo la stessa età, abbiamo perfino entrambe tre figli. Ma per rispondere alla tua domanda: sì, Jezero e Mona sono un genere di variazione dello stesso tema, in uno seguiamo la storia di un ragazzo, nell’altro di una ragazza. Entrambi hanno destini di vita difficili, causati da circostanze fuori dal loro controllo, ed entrambi li affrontano come meglio possono. Questo è ciò che entrambi i testi hanno in comune con il mio ultimo romanzo (che non è ancora stato pubblicato) Ostrov (“L’isola”), che si svolge in un luogo fittizio e in un tempo indeterminato. In realtà, si è creata involontariamente una specie di trilogia di “romanzi strani”. Forse ormai dovrei smettere di scrivere.

Noi, chiaramente, ci auguriamo che Bianca Bellová continui a scrivere romanzi e, soprattutto, la ringraziamo per il suo tempo e per aver accettato di rispondere a queste domande!

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I tedeschi – recensione di Angelo Di Liberto su La Repubblica di Palermo

I tedeschi – recensione di Angelo Di Liberto su La Repubblica di Palermo

Viaggio al termine dell’amore in cerca di una verità dolorosa

Gentili lettori, quante volte abbiamo temuto che il corso delle nostre vite quotidiane si interrompesse di colpo per un evento imprevisto? E non mi riferisco alla contingenza sanitaria, ma a una frattura nella propria storia personale. Se perdere qualcuno è una delle esperienze più dolorose, cosa ne è della sottrazione di un’identità? Jakuba Katalpa è una scrittrice ceca di arguto intuito letterario, che ha fatto della geografia della perdita il fulcro di una storia. “Nèmci”, potente metafora di un’assenza, che assurge a emblema di tutto ciò che ci manca. In Italia Miraggi Edizioni ha pubblicato il libro con il titolo “I Tedeschi”, nella traduzione di Alessandro De Vito (che è anche uno dei tre editori Miraggi), e l’ha inserito nella collana NováVlna, che ormai vanta un elenco di scrittori cechi di grande respiro stilistico e ideativo. È proprio la lingua di De Vito che valorizza la parola calibrata e capace di creare chiare immagini conoscitive di Katalpa, premiando il lettore con un ritmo intenso, un effetto domino che costringe a non sottrarsi alla bellezza della storia e del linguaggio.

La vicenda si apre con un funerale a Praga, ma si sviluppa su un dubbio: «È tutta qui la questione, se invitare al funerale anche i parenti tedeschi». La figlia di Konrad, il defunto, è stata abituata dal padre a una strana storia. Durante quasi tutta la vita dell’uomo, a casa della famiglia arrivavano puntualmente dei pacchi pieni di dolciumi e altre cibarie da parte di una signora tedesca di nome Klara Rissmann, madre biologica di Konrad, che aveva affidato il figlio in tenera età a una donna di nome Hedvika, che viveva nella Repubblica Ceca, senza mai più rivederlo. Perché aveva fatto questo? “Scrive di nuovo la troia” diceva di solito con scherno. Parlava di sua madre.

Cercando di svelare il mistero, la figlia di Konrad decide di partire per la Germania, alla volta di Lahnstein, dove abitano ancora due sorelle del padre. Inizia da qui la geografia della perdita, intrecciandosi con gli anni bui della Germania, con la Seconda guerra mondiale e con la condizione delle donne nell’Europa della prima metà del Novecento.

La scrittura di Katalpa è un magnete a cui non ci si può sottrarre, per un bizzarro gioco di scatole cinesi, entro le quali si annidano le ragioni del male e dell’incomprensione. La specularità delle storie dei personaggi con la grande Storia crea un meccanismo ipnotico in grado di svelare la verità che risiede dietro l’identità di ciascuno di noi. “Konrad non hai mai fatto parte della nostra famiglia” mi spiega Gertrude. “Nostra madre gli mandava i pacchetti, questo sì, e non ha mai nascosto la sua esistenza. Ma non ci ha raccontato niente di lui”. Chi è Konrad? Qual è la verità della sua esistenza? Qual è il peso della memoria? Forse ci sono destini votati alla perdita, come fosse una condizione connaturata a quell’essere. E, forse, certi segreti dovrebbero rimanere tali, perché se la verità è un dovere, ciò che ne deriva è una dannazione.

L’Antiquario vi saluta.

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I tedeschi – recensione di Antonello Saiz su Satisfiction

I tedeschi – recensione di Antonello Saiz su Satisfiction

«A volte sognavamo che un giorno la nonna avrebbe ripreso piena coscienza, guarita e con una memoria perfetta, e ci avrebbe raccontato tutto quello che volevamo sapere. Non ci passava neanche per la testa che i suoi segreti li avrebbe voluti preservare, che avrebbe potuto rannicchiarsi intorno a essi, circondarli con le braccia e non lasciarci passare; che non avrebbe voluto condividere. Con un retrogusto amaro, sentivamo che la sua appartenenza dalla nostra famiglia ci desse il diritto di insinuarci nel suo passato.

Jakuba Katalpa, I tedeschi. Una geografia della perdita, traduzione di Alessandro De Vito, Miraggi Edizioni 2021

ultimo nato nella collana di narrativa ceca NováVlna di Miraggi edizioni, curata da Alessandro De Vito, è giunta al dodicesimo titolo con I tedeschi di Jakuba Katalpa, romanzo intriso di tematiche di grande valore sociale e individuale.

Ricordiamolo, NováVlna è la collana di letteratura ceca che prende il nome dalla Nouvelle Vague cinematografica attiva negli anni della Primavera di Praga. Una letteratura portatrice di freschezza e innovazione, spesso dal carattere ironico, grottesco e surreale, sia quando si tratta di opere di autori contemporanei – come in questo caso, visto che l’autrice è nata nel 1979, sia quando recupera testi preziosi ingiustamente dimenticati o mai tradotti.

Il libro di Jakuba Katalpa, che ha esordito nel 2006, è stato pubblicato nel 2012 collezionando diversi importanti premi, come il Premio Josef Škvorecký 2013 e il Premio Libro Ceco dell’Anno 2013, più una nomination al Magnesia Litera 2013 categoria Prosa. Inoltre è stato tradotto in cinque lingue e ora, finalmente, giunge ai lettori forti italiani nella precisa e fluida traduzione di Alessandro De Vito.

L’autrice crea con I tedeschi una indagine privata e familiare che affonda le radici nella storia del nostro Novecento, riuscendo anche nella non facile impresa di essere originale in una materia su cui molto è stato scritto. Interessante il focus sul punto di vista dei “tedeschi ”, fino a quel momento dominatori del mondo e qui ritratti in un momento storico preciso, ovvero quando si ritrovano allo sbando, come individui e come popolo.

Fin dalle prime pagine siamo testimoni della costruzione di una “geografia della perdita”, come recita il sottotitolo. Del resto è il romanzo stesso che si apre con una perdita importante.

Siamo nel 2002 e a Praga muore Konrad, padre di tre ragazzi e di una ragazza che vive in Inghilterra. È lei che diventa la voce narrante di questa epica familiare. Suo fratello Martin vive in California, Pavel in Australia, solo il più piccolo Daniel esercita la professione di medico nella Repubblica Ceca e si è laureato in coincidenza con la morte della madre.

Tutti perdono qualcosa in questo libro e sembrano destinati a perdere altro nella complessa giostra della vita. Ma il dilemma iniziale della giovane protagonista è se avvertire o meno della morte del padre i parenti tedeschi indicati nel titolo. I fratelli vi si oppongono fermamente, al fine di onorare le volontà del padre.

Per loro quei parenti rappresentano l’altro, il diverso, qualcuno con cui non c’è niente da condividere, che non va accolto anzi, verso cui si erige una ulteriore barriera.

Da qui parte un viaggio alla scoperta di una complessa verità. Veniamo a sapere col procedere delle pagine che per anni – a partire dal 1947 e fino alla caduta del muro, nel 1989 – questa famiglia praghese ha ricevuto pacchetti di piccoli doni dall’Ovest. Contenevano dolciumi, cioccolata, confetture in barattoli di lusso e orsetti gommosi. Il loro arrivo era cessato con la caduta della cortina di ferro. A spedirli fino ad allora era stata Klara Kolmann Rissmann. Li mandava al figlio da cui si era separata poco dopo la nascita, alla fine della guerra, quando aveva fatto ritorno in Germania. Prima aveva insegnato alcuni anni nel villaggio di Rzy, vicino a Ticky Brod nel Protettorato dei Sudeti.

Konrad è infatti cresciuto con un’altra donna, Hedvika, che da suo marito Jaroslaw non poteva averne, di figli. Solo con l’approssimarsi di un tumore, nell’età adulta del figlio, gli confessa che quei pacchi erano della vera madre.

La figlia di Konrad, dopo la morte del padre, mentre si occupa dello svuotamento della casa paterna trova delle bretelle per la cura della displasia dell’anca. Da quel preciso momento decide di intraprendere un percorso di ricerca. Dopo il ritrovamento la ragazza va sulle tracce degli sconosciuti parenti tedeschi per scoprire almeno un barlume di verità su quel particolare dramma famigliare. Così facendo arriva, con sua figlia Dorotka, nella casa a due piani di Gertrude, una delle due figlie che Klara ha avute da un architetto sposato nel 1949 a Lahnstein.

Con lei ripercorreremo la vita di Klara, immersa nel flusso spesso tragico della storia tedesca ed europea del Novecento. Scopriremo inoltre che questa signora nata nel 1912 è ancora viva, ma avendo l’Alzheimer è ricoverata in un istituto.

A questo punto, tutto il libro comincia a ruotare intorno alla figura della vera protagonista, Klara, donna ribelle ed emancipata che sceglie di andare a insegnare nei Sudeti, dove è percepita come estranea e nemica

Sempre avvolta nella nuvola di fumo delle sue sigarette, prova a cercare indipendenza in una società maschile e maschilista, dibattendosi tra l’attrazione verso un brutale tassidermista, il disagio e il male di vivere del padre di Konrad, il poetico insegnante Erich Fuch.

È un libro potente e dal ritmo incalzante I tedeschi, composto da nove macrosezioni, ognuna portatrice di un titolo evocativo e suddivisa in tanti piccoli capitoli sui rapporti familiari incrinati e sulle assenze ingiustificate, che diventano perdita e ferita sanguinante. Una perdita legata soprattutto alla maternità. Infatti, siamo in presenza di un romanzo di donne e di madri: Klara, Hedvika, Anna, Franziska, Gertrude, Joanna. Donne buone o cattive, madri mancate o defraudate, a seconda dei punti di vista.

Dunque un romanzo anche sulla memoria, quella che tende a svanire senza rimedio, tra le cose non dette e la cattiva coscienza, ma soprattutto un romanzo storico sugli effetti del nazismo e del declino dei suoi valori in anni di terribili deportazioni. Un libro di grande Storia, che incontra le storie minime dei familiari. Come quella di nonna Anna Mary o dei genitori di Klara, Franziska e Karl o dei nuovi coloni Barbora e Martin Levicka. Una storia di traumi e disagi che investono i personaggi maschili: Melman, Fuch, Malke.

Attraverso lo spessore e l’analisi di ogni singolo personaggio si comprende chi è il vero nemico della specie umana.

Sullo sfondo della Grande Storia, che inevitabilmente va a influenzare le storie minime dei singoli e le loro scelte, è il lettore a essere scosso e interrogato sul senso della vita e sul potere della cattiveria umana. La cronaca è ritmata dalla scelta stilistica di un linguaggio pulito, lineare, essenziale, capace di far risaltare potentemente la narrazione storica.

Sulla ragione ignota di un abbandono che fa da innesco alla storia ci si interroga continuamente, tra fenditure temporali e declino, tra disgregazioni familiari e crepe profonde della Storia. Un romanzo complesso intorno a un trauma originario e alla ricerca di possibili spiegazioni e verità, dove spesso nulla è come sembra.

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