fbpx
Romanzo senti/mentale – recensione di Lia Amen su Una banda di cefali

Romanzo senti/mentale – recensione di Lia Amen su Una banda di cefali

Anche se solo inconsciamente, ho sempre saputo che sarebbe finita così. Dopo tutti gli anni di “non toccare quella tazza!”, “meglio lasciarla sullo scaffale”, “è l’ultimo ricordo di Eliška”, “questa non la diamo nemmeno agli ospiti”, era chiaro che prima o poi si sarebbe rotta. Ora giace qui davanti a me, raro design degli anni Settanta con un astratto disegno a fiori arancione, spaccata in mille pezzi, alcuni ancora oscillano sul pavimento con aria di sfida, sembrano ammiccarmi in modo ambiguo: “Tanto lo sapevamo che sarebbe finita così”.

Che rumore fa una tazza che, cadendo, si infrange in mille pezzi? La traccia fragile di un passato che non può tornare ma che non possiamo nemmeno cancellare. Si moltiplica, divenendo altro da sé, ma conserva la complessità della sua natura. Si sgretola, fino ad assumere una forma multisfaccettata della sua primordiale realtà, si riduce in una miriade di frammenti, che confondono la vista e trasfigurano l’idea dell’oggetto. Sono così, a volte, i rapporti umani e quelli che dovrebbero circonfondere l’individuo, per garantirgli la sicurezza affettiva utile ad affrontare il mondo di fuori, che inizia al di là del rifugio che ci accoglie quando giungiamo al mondo. La penna di Bianca Bellová, autrice ceca di origini bulgare apprezzata sia nel suo Paese che all’estero, si è  mostrata da sempre assai abile nei rapporti già guasti all’origine, nella funesta interferenza della famiglia nelle dinamiche relazionali, nella sua intrusione rovinosa nell’età dell’innocenza, nella sua azione distruttiva di qualsiasi confortante idea di “passato”. L’autrice ha guadagnato importanti riconoscimenti (Premio Unione Europea per la Letteratura e Magnesia Litera) e ha raggiunto un pubblico più ampio nel 2016, con la pubblicazione del romanzo Jezero, che la casa editrice Miraggi ha pubblicato con la traduzione di Laura Angeloni (Il lago 2018), consentendo ai lettori italiani di conoscere una delle voci più affermate della letteratura ceca contemporanea. Ad approfondire questa preziosa conoscenza, si sono aggiunte le pubblicazioni del romanzo Mona (2020) e, in ultimo, di Romanzo senti/mentale che, anche se apparso a ottobre 2021 nella sua prima traduzione all’estero, rappresenta l’esordio della Bellová. Questi titoli, insieme a quelli di altri scrittori (drammaturghi, sceneggiatori, contemporanei e non) vanno a nutrire una collana interessante e necessaria che gli editori di Miraggi hanno intitolato “Nova Vlna”, a ricordare il movimento cinematografico cecoslovacco degli anni ’60 del Novecento.

Romanzo senti/mentale (Senti/mentální román 2009) contiene già quegli argomenti che l’autrice approfondirà nei lavori successivi in maniera più matura, ma anche più misurata. Perciò, la lettura del romanzo d’esordio, oltre che per la storia in sé e per la particolare struttura che lo sostiene, risulta interessante per scorgervi tutto il coraggio e la spregiudicatezza che vengono espressi mediante un realismo che non cede a esitazioni neanche di fronte a scene particolarmente violente e scabrose, e che potranno risultare inattese se confrontate alla delicatezza espressa altrove.

Al centro del romanzo e della ricerca portata avanti dalla scrittrice vi sono i rapporti difficili o irrisolti, in particolare quelli familiari, che inducono i protagonisti a intraprendere un viaggio – talvolta anche propriamente fisico – sui luoghi d’infanzia, attraverso i ricordi di un’epoca non sempre idealizzata, nel tentativo di afferrare il senso di una perdita o di colmare un vuoto, o di giungere a una qualche possibilità di comunicazione che però difficilmente avviene.

Eda è investito suo malgrado del ruolo di angelo della morte: durante una festa aziendale un uomo ubriaco precipita da una grande scalinata e rimane a terra senza vita: l’espressione sorpresa, gli occhi sbarrati, la camicia dello smoking immacolata e una macchia di sangue che si allarga sul parquet. Tra i cinquecento presenti, lui viene incaricato di raggiungere la vedova dello sconosciuto e di darle la tragica notizia. Lo attende un lungo viaggio, attraverso una notte fredda e piovosa, in compagnia di sonno e stanchezza e di una serie di ricordi che emergono da un passato tormentoso.

Nina torna nella casa di famiglia che non abita più da quindici anni. La casa è piena dell’assenza della madre – della cui morte dovrà farsi messaggera fino al padre ormai ricoverato e assente a se stesso – e soprattutto è piena dell’assenza della sorella Eliška, presenza ingombrante nella sua infanzia, nella sua adolescenza e nella sua memoria. Nel tentativo di liberare la casa dai ricordi, tra oggetti guasti, oggetti intoccabili e altri dimenticati, si solleva un’intera vita come un’ombra, a proseguire la sua opera di tormento. Le vite di Eda e Nina si intrecciano nel nome di Eliška.

Gli occhi del lettore scorrono, riga dopo riga, pagina dopo pagina, sulle esistenze di Eda e Nina e sulle loro voci, che si alternano regolarmente, includendo altri personaggi e ampliando lo spettro dell’incomunicabilità. Dalle pagine si scende nelle profondità dei loro segreti e dei sensi di colpa inconfessabili, nei dubbi perpetui. Man mano che riaffiorano i ricordi, per il tonfo di un oggetto che cade, per l’improvviso addensarsi del cielo, per una voce che spezza, riemergono anche paure, incertezze, gelosie laceranti, scene traumatiche e indelebili, vuoti che riempiono gli animi a distanza di tempo, che i chilometri e gli anni non hanno saputo annientare del tutto. Il peso del lutto, che mentre schiaccia i protagonisti sembra conferire loro allo stesso tempo l’impulso ad alzarsi e a scrollarsi di dosso il passato, è raccontato da Bianca Bellová attraverso un ritmo estremamente calibrato, che ci conduce alla conclusione del racconto senza balzi improvvisi, nonostante la crescente drammaticità del filo narrativo. La dimensione familiare è una trappola da cui Eda e Nina non riescono a liberarsi.

La parola di Bianca Bellová si attacca alle cose come la polvere sugli oggetti vecchi tanto che riusciamo quasi a sentirne l’odore. E sui personaggi agisce come lo scandaglio negli abissi, cosicché questi sono d’un tratto davanti a noi, con tutte le debolezze degli esseri umani e con la loro precisa storia e la difficoltà che hanno a raccontarla. Loro sono davanti a noi e noi  siamo dentro di loro.
Forse il romanzo di Bianca Bellová non è “sentimentale” come suggerisce il titolo – che però già lancia un indizio con quel segno che divide: senti/mentale – ma la sua scrittura suscita forti emozioni e per questo non si lascia dimenticare.

QUI l’articolo originale:

Il bruciacadaveri – recensione di Alessandra Fontana su La lettrice controcorrente

Il bruciacadaveri – recensione di Alessandra Fontana su La lettrice controcorrente

La trama

Praga, 1938-39. La storia del Novecento marcia a passo forzato verso uno dei suoi momenti più critici: il magniloquente Nuovo Ordine nazista, la guerra imminente, la “questione ebraica”, le persecuzioni pianificate, l’invasione dell’Europa. Chi è il signor Kopfrkingl, protagonista di questa storia nera praghese? Un tenero, sdolcinato padre di famiglia, impiegato al crematorio, un uomo che sorride sempre. Sì, in apparenza. Interiormente, invece, è una marionetta dall’animo monodimensionale, dalla volontà larvale, dalla morale astratta e limitata, che vede tutto e tutti come stereotipi. Un uomo intimamente servile per cui il bene è indifferentemente cura e sterminio, felicità e olocausto, la cui idea di paradiso in terra condanna gli altri all’inferno. Lo stile ossessivo e preciso di Fuks sottolinea perfettamente questo aspetto e gli è funzionale. Il bruciacadaveri procede come una partitura con il frequente contrappunto di ripetizioni di nomi e intere espressioni. Lo sguardo alienato e distorto del protagonista, con tracce di macabro divertimento, amalgama un testo di cui si può apprezzare la struttura profonda e la caleidoscopica creatività. Postfazione di Alessandro Catalano.

Attuale

Il bruciacadaveri  di Ladislav Fuks (Miraggi edizioni) è una lettura difficile da raccontare. Un racconto disturbante, dai contorni sfumati come in un sogno, o meglio, in incubo.

Ho comprato questo libro nel 2019 e ha atteso fino a poche settimane fa in libreria (fa parte della sfida dello scaffale strabordante) e sono contenta di averlo letto ma sono sincera: senza la postfazione a cura di Alessandro Catalano, non avrei mai colto la bellezza e la profondità del testo, che non è sempre di facile comprensione.

Il protagonista è Karel Kopfrkingl: odioso, repellente e contraddittorio. Non sopporterete quest’uomo e tutto quello che rappresenta.  Innamorato della moglie in maniera ossessiva, lavora in un crematorio. Ovviamente il suo non è un lavoro come gli altri ma una vera e propria missione.

Ossessionato dalla morte non fa altro che ricercarla tra gli articoli di giornale, tra gli sguardi nel mondo, tra le bare pronte ad essere bruciate. La polvere deve tornare polvere, questa è verità assoluta.

La sepoltura mediante cremazione è assolutamente sicura, e libera chiunque, in modo definitivo, dal timore di ritornare in vita.

Grottesco a ambiguo, si muove in un mondo in cui i personaggi sono trascurabili, quasi finti. Il bruciacadaveri  viene scritto (e letto) con gli occhi del protagonista: le ripetizioni, i rituali, la maniacalità, tutto contribuisce a costruire un quadro inquietante e grottesco.

Siamo a Praga a cavallo tra 1938 e il 39, noi leggiamo questo libro con il senno di poi. E la contraddizione di Karel è quella che ci stranisce. Marito premuroso ma ipocrita, continuerà a farsi visitare da un dottore per paura delle malattie veneree, è un fanatico travestito da mediocre. Un simbolo dell’orrore più buio della storia del Novecento.

La follia collettiva, l’indifferenza, la banalità del male… Il bruciacadaveri racchiude i grandi temi con cui molti scrittori si sono misurati, ma Fuks lo fa in maniera inedita, creativa, inquietante  sì, ma a tratti anche divertente.

Dopo cena il signor Kopfrkingl baciò la sua celeste e disse:

«Vieni, ineffabile, prima di spogliarci, prepariamo la stanza da bagno.»

E prese una sedia e andarono, la gatta li guardava.

«Fa caldo qui, » disse il signor Kopfrkingl nel bagno, e mise la sedia sotto il ventilatore, «forse ho esagerato con il riscaldamento. Accendi il ventilatore, cara.»

Quando Lakmé salì sulla sedia, il signor Kopfrkingl le accarezzò il polpaccio, le gettò il cappio al collo e con un tenero sorriso le disse:

«E se ti impiccassi, cara?»

Lei gli sorrise dall’alto, forse non aveva capito bene le sue parole, anche lui sorrise, calciò via la sedia ed ecco fatto.

Le cose si complicheranno quando l’antisemitismo entrerà nelle vite dei protagonisti del romanzo, tra promesse di promozione, scelte, dolori… e adesso sarei crudele io a raccontarvi di più.

Il bruciacadaveri è…

Attuale, in maniera sconcertante. C’è una frase che i personaggi ripetono spesso durante la lettura ed è questa:

La violenza non paga per nessuno. Con essa si può tirare avanti solo per un breve periodo, ma non si può scrivere la storia. Viviamo in un mondo civilizzato, in Europa, nel Ventesimo secolo.

Forse è anche quello che ci ripetiamo noi quando leggiamo alcune notizie sul giornale come i protagonisti de Il bruciacadaveri, forse è quello che speriamo quando il clima di odio intorno a noi si fa insopportabile, forse è la scusa per non intervenire quando vediamo la violenza.

Il bruciacadaveri è sicuramente un libro di grande spessore e sono contenta che Miraggi sia riuscita a ripubblicarlo. Un romanzo che dovrebbero leggere tutti, perché è facile dimenticare, difficile prendere una posizione diversa.

Sono sincera però, pensavo che avrei fatto meno fatica ad entrare nella storia e invece non riuscivo ad orientarmi, spesso perdevo il filo. Benedette siano le analisi degli esperti quando ci si trova di fronti a testi importanti.

Consigliato per chi vuole leggere qualcosa di diverso su un tema letto e riletto. Per chi è in cerca di una storia particolare, angosciante e stridente. Il ricordo del protagonista sorridente e malvagio non vi lascerà in pace molto presto.

QUI l’articolo originale:

Il lago – recensione su Letture in viaggio

Il lago – recensione su Letture in viaggio

Boros, un villaggio affacciato su un lago inquinato e senza nome, si vive principalmente di pesca. Mani, il protagonista, abita con i nonni materni, non sa chi sia il padre e ricorda solo vagamente la madre. Ha tre anni quando lo incontriamo per la prima volta ed è un giovane uomo quando infine, dopo un lungo peregrinare attraverso esperienze difficili e toccanti, torna al paese d’origine.

La sua infanzia spensierata finisce quando anche la nonna lo lascia, costretta dalla comunità del villaggio, guidata dal presidente del kolchoz, a consegnarsi allo Spirito del Lago su una chiatta senza remi. Da quel momento gli eventi precipitano e lui deve provare a sopravvivere in ambienti sempre più tossici, aggrappandosi a pochi brevi momenti di felicità.

La storia di Nami è un racconto di formazione dal sapore universale, perché oltre a essere fuori dal tempo e dallo spazio, ricalca il mitico viaggio dell’eroe, un viaggio che l’autrice, Bianca Bellová, suddivide in quattro capitoli — Uovo, Larva, Crisalide, Imago —, affidando la narrazione in terza persona a una successione di episodi quasi sempre amari e dolorosi.

Il lago è l’altro grande protagonista del romanzo; uno specchio d’acqua inquinato, che gradualmente si ritira, le cui acque provocano eczemi e altri disturbi e il cui Spirito, secondo la gente del villaggio, deve essere nutrito affinché si pacifichi.

Ormai le barche sono così lontane dal molo originario che nella striscia tra il segno dell’alta marea e lo stesso molo i bambini hanno fatto un campo da calcio. È un po’ in pendenza, quindi ad ogni passaggio la palla rotola verso il lago. Dal campo si solleva la polvere e ogni tanto qualche gamba sprofonda nella crosta dura del sedimento. Il molo di cemento, coperto di alghe imputridite, emerge direttamente dalla sabbia incrostata e dal fango, sotto le bitte di ferro sono sparsi i rifiuti.

IL LAGO, BIANCA BELLOVÁ

Bellová non si spinge a fondo nell’analisi del protagonista e degli altri personaggi, né ci consegna un finale chiaro e rassicurante. Lascia a noi il compito di interpretare i sentimenti e le ragioni di Nami e dare un senso all’epilogo.

La scrittura è disadorna, caratterizzata da frasi brevi e dall’uso del presente, che accentua l’atemporalità del racconto e pungola l’interesse di chi legge. I principali temi affrontati da Bellová sono la ricerca dell’identità e il rapporto dell’uomo con la natura, una relazione da cui quest’ultima esce sconfitta, ma che ne Il Lago tenta di riprendersi quanto le viene tolto.

— Leggi anche Una misteriosa storia dai Carpazi Bianchi: Kateřina Tučková e le dee di Žítková

L’ambientazione

“Su entrambi i lati della via polverosa che risale la collina sopra il porto sorgono le casupole dei pescatori, alla fine della via ci sono un chiosco con le aringhe e un altro con i semi di girasoli. D’estate arriva anche un venditore di zucchero filato che prende in affitto tutta la vecchia birreria in fondo alla strada. Sono case in muratura, solide, di solito a un piano solo, giusto un paio — compresa quella in cui Nami vive con la nonna — hanno due piani. La chiamano Via dei Pescatori e in sostanza è il cuore del paese.
A ovest della Via dei pescatori si trovano gli edifici adibiti a policlinico, casa della cultura, posta e scuola, e le case degli altri abitanti, costruite senza un chiaro progetto urbanistico. Non ci passano strade in mezzo, le costruzioni emergono dalla superficie in modo casuale, spesso a sorpresa. Ad est c’è il complesso residenziale per gli ingegneri russi, con la meravigliosa piazza e il monumento allo Statista, più oltre verso il bosco che indietreggia sempre più in favore delle case, si trova la caserma.”

IL LAGO, BIANCA BELLOVÁ

Nami cresce in un villaggio fittizio e in un periodo storico imprecisato (la mia testa l’ha collocato tra gli anni ‘80 e la fine degli anni ‘90). Sappiamo solo che il territorio è sottoposto al controllo dei russi e che il lago è inquinato e ospita un’isola dove sono stati condotti pericolosi esperimenti biologici.

Il pensiero va quindi al tristemente famoso lago d’Aral, situato tra Kazakistan e Uzbekistan. Sulla sua storia ti consiglio l’ascolto di Il lago che era, una delle puntate della seconda stagione di Cemento, il podcast di Eleonora Sacco e Angelo Zinna (fra i più interessanti in circolazione).

I luoghi del romanzo, desolanti quanto le vicende narrate, sono descritti dal punto di vista di Nami, che cambia con lui. Leggendo, li immaginavo poveri e spogli, fatti di terra e cemento, circondati da una natura maltrattata e matrigna. Compare anche una città, quella dove il protagonista inizia il viaggio alla ricerca di se stesso (e della madre).

Se dovesse descrivere la città, Nami non saprebbe da dove iniziare. I palazzi sono così alti che Nami tende istintivamente a farsi piccolo e i suoi occhi cercano di continuo l’orizzonte. L’aria è piena di clacson che strombazzano, di marmitte che scoppiettano e grida. Una donna rimprovera ad alta voce un bambino che piange. Si sente odore di escrementi, ma anche di profumi dolci e di grasso di frittura. In aria svolazzano fogli sporchi e polvere. Le persone hanno un aspetto un po’ diverso: gli occhi sono più luccicanti, luminosi, e si muovono più velocemente. Anche i cani vagabondi sembra vadano più in fretta. I muri sono coperti di vari strati di manifesti colorati. In basso si staccano, raccogliendo la polvere nell’aria.

IL LAGO, BIANCA BELLOVÁ

— Leggi anche Le fiabe ceche di Božena Němcová e Karel Jaromír Erben

Te lo consiglio se

Capisco bene cosa intendeva Laura Angeloni, la traduttrice, quando ha scritto “Nami è così, te ne innamori ancora prima di conoscere la sua storia“. Anche io mi sono affezionata a Nami fin dalle prime pagine. Credo abbia colpito (e affondato, aggiungerei) quel lato di me che desidera proteggere, aiutare e guidare e si riconosce nel viaggio dell’eroe. Te lo consiglio se sei pronta/o a immergerti in un mondo spesso brutale, cupo e incolore, dove la tenerezza e la speranza sono merci rare.

Il lago è il quarto libro della scrittrice ceca Bianca Bellová. In Italia è stato pubblicato nel 2018 da Miraggi Edizioni. Ha vinto due premi: il Premio Unione Europea per la Letteratura e il Premio Magnesia Litera. Per approfondirne la conoscenza, ti suggerisco la lettura dell’intervista di Martina Mecco di Est/ranei all’autrice.

QUI l’articolo originale:

Romanzo senti/mentale – recensione di Maria Caterina Prezioso su Satisfiction

Romanzo senti/mentale – recensione di Maria Caterina Prezioso su Satisfiction

Tuffarsi nel mondo di Bianca Bellová è una esperienza sensoriale a suo modo unica. Classe 1970, la scrittrice è una delle voci femminili più significative della Repubblica Ceca.

Grazie a Miraggi edizioni, nella collana diretta da Alessandro De Vito, arriva al lettore italiano questa narrazione assordante. Perché, se si potesse paragonare a un elemento, la scrittura della Bellová è acqua. Acqua di lago, pioggia incessante, non fa differenza, basta saper ascoltare e si sente il rumore dell’acqua.

È il suo romanzo di esordio Romanzo senti/mentale, che Miraggi pubblica dopo averci fatto conoscere di lei i successi internazionali Il lago e Mona. Eppure la scrittura già forte e distinta ne è la voce.

Ebbene, tuffandosi in questi abissi incontriamo Eda e Nina, le voci narranti di Eliška: di Nina la sorella, di Eda l’amore. In realtà sono tutti affascinati da Eliška e lo siamo anche noi dal primo istante, dalla sua prima entrata in scena. Nonostante siano trascorsi quindici anni da quando Eliška si è chiusa il sipario alle spalle, nessuno pare averla dimenticata anzi, il passare del tempo fa di lei ancora di più un personaggio centrale della vita e nella vita degli altri.

Estremamente interessante è il gioco di alternare le due voci nel corso della narrazione, che pare svolgersi nell’arco di un giorno, forse due. In parallelo siamo scaraventati indietro nel tempo quando, ancora bambini, Eda, Eliška e Nina si sono incontrati per non lasciarsi mai più.

Ancora più potenti sono poi le figure genitoriali in particolare modo i padri. Forse non è un caso che la Bellová dedichi il romanzo al papà.

Nella finzione il padre di Nina e Eliška è cosparso da una luce che “è come attraversata da una specie di nebbia”, un padre lontano con la testa altrove. Il padre di Eda invece “è un personaggio di un certo calibro. Non ho solo ricordi brutti di lui”. Un padre fisico, fin troppo, con la sua percezione rocciosa che diventa violenza sulla donna. Ambedue, per motivi diversi, diversissimi, incapaci di amare la voce femminile che ne è la compagna.

Il presente si fa ricordo. Eda e Nina hanno in comune un passato che diventa, per una strana casualità, di nuovo presente. Finalmente insieme, di nuovo. Un nuovo dove forse potrebbe trovare spazio non solo il ricordo di Eliška, ma anche la possibilità di ricominciare, di crescere e diventare davvero adulti. Oppure no. Perché né Eda né Nina hanno previsto una variante che manda all’aria tutte le possibilità: “il senso di colpa”.

Come scrive Angelo Di Liberto nella prefazione: “non si può scappare dalla volontà della colpa, ha memoria antica, si può solo desiderare di dormire per dimenticare”.

Ci sono i diari di Eliška che Nina cerca, ci sono gli sguardi del non detto, c’è l’arte e la capacità dell’arte di ri-generarsi e poi c’è quello sguardo “accompagnato da un sorriso di labbra e occhi, e poi gli occhi si abbassano. E poi la colpa. Dall’alba dei secoli quello è lo sguardo che si riserva agli amanti”.

Romanzo senti/mentale che sentimentale non è, lascia il segno e il rumore dell’acqua si fa più forte nonostante tutto.

QUI l’articolo originale:

Il lago – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Il lago – recensione su Progetto Repubblica Ceca

“NováVlna” è una nuova collana italiana di letteratura ceca, il cui nome è ispirato alla “Nouvelle vague” cinematografica ceca ai tempi della Primavera di Praga. I primi due libri pubblicati nella collana sono stati: “Volevo uccidere J.-L Godard”, di Jan Němec, e “Il Lago” di Bianca Bellová. “Il lago” è un vero e proprio capolavoro che fa da cornice alle vicende di Nami, il protagonista: un bambino che non ha nulla e che, diventando uomo, deve trovare la propria strada nel mondo. La storia è ambientata in un villaggio di un paese dell’ex blocco sovietico; un villaggio che vive di pesca, ma all’improvviso i pesci muoiono, il lago si riduce e i pescatori e la gente del luogo soccombono. Il lago d’Aral, che è facile riconoscere nel racconto, non viene però mai menzionato lasciando così il lettore nel dubbio su dove la storia sia veramente ambientata. Nami, una volta rimasto solo, partirà per la capitale dove farà i lavori più disparati e andrà incontro alle bestialità umane legate alla metropoli e al progresso. Poi tornerà a casa perché, forse, per poter trovare bisogna sempre tornare anche indietro.

QUI l’articolo originale:

http://www.progetto.cz/il-lago/?lang=it

Il bruciacadaveri – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Il bruciacadaveri – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Una nuova edizione di un classico. Questa storia è ambientata in uno dei periodi più tragici del Novecento, quello dominato dal nazismo con la guerra imminente, la “questione ebraica”, le persecuzioni pianificate e l’invasione dell’Europa. Il protagonista, il signor Kopfkringl, è un tenero e sdolcinato padre di famiglia, un uomo che sorride sempre. Tutto ciò, però, solo in apparenza, perché interiormente è invece una marionetta dall’animo monodimensionale, dalla morale astratta e limitata, che vede tutto e tutti in modo stereotipato. Un uomo intimamente servile per cui il bene è indifferentemente cura e sterminio, felicità e olocausto, la cui idea di paradiso in terra condanna gli altri all’inferno.Forse ha un senso ulteriore riproporre oggi questa figura di “volenteroso carnefice”, che accoglie in sé gli ordini con leggerezza e conseguenze paradossali. Sebbene alcuni fantasmi sembrino appartenere solo al passato, sappiamo che nulla può essere dato per scontato, che l’angusto abisso del signor Kopfrkingl non si è richiuso per sempre con la fine delle ideologie, e che far finta di niente potrebbe farci precipitarci nuovamente in esso.

QUI l’articolo originale:

http://www.progetto.cz/novita-editoriali-il-bruciacadaveri/?lang=it

Chiedi a papà – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Chiedi a papà – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Esce la traduzione italiana del libro “Chiedi a papà” di Jan Balabán. Dal titolo traspare un’amara ironia perché “chiedere a papà come siano andate realmente le cose non è più possibile”. Dopo la morte del medico Jan Nedoma, letteralmente tradotto “senza casa”, i figli Hans, Emil e Katerina insieme alla madre devono far fronte non solo al lutto, ma anche alle accuse inflitte di presunta complicità con le autorità comuniste e di corruzione mosse contro il padre da quello che un tempo era il suo migliore amico. “Chiedi a papà” è un libro che affronta temi sul senso, sulla qualità e sul percorso della vita umana, sui rapporti familiari, sulla malattia e sulla morte, ma anche su quello che si incontra dopo. Balabán riesce a descrivere in modo estremamente preciso l’aspetto tragico del destino individuale che inevitabilmente tende al suo punto finale. L’autore si pone diverse domande: non è forse vero che è dalla nascita che si comincia a morire? Chi siamo e che cosa facciamo nel frattempo?

QUI l’articolo originale:

http://www.progetto.cz/chiedi-a-papa/?lang=it

Grand Hotel – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Grand Hotel – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Vincitore nel 2007 del premio letterario ceco Magnesia Litera, “Grand Hotel. Romanzo sopra le nuvole” racconta la vicenda surreale di un ragazzo stritolato dalle difficoltà di una vita a ostacoli, ma che sa comprendere le nuvole, le alte e le basse pressioni e i misteri dei venti. Fleischman, il personaggio principale è un trentenne solitario, rimasto orfano da ragazzino. La sua vita è un fallimento. Non è mai riuscito in nulla. Non ha mai neppure lasciato la sua città, Liberec, nei Sudeti, al confine ceco-tedesco. La sua vita è un diagramma in cui annota il tempo atmosferico e lo scorrere del tempo. Fleischman, che non conosce nemmeno il suo nome proprio, è il tuttofare del Grand hotel di Ještěd, l’avveniristico e gigantesco hotel a forma di astronave che sovrasta la città. In questo luogo, sospeso tra la terra e il cielo, si rende conto che troverà una via d’uscita dalla sua città e dalla sua stessa vita solo attraverso le nuvole, ma nei suoi piani irrompe la cameriera Ilja, che un giorno arriva come un’apparizione alla reception dell’hotel.

QUI l’articolo originale:

http://www.progetto.cz/grand-hotel-romanzo-sopra-le-nuvole/?lang=it

La perlina sul fondo – recensione su Progetto Repubblica Ceca

La perlina sul fondo – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Finalmente tradotto in italiano da Laura Angeloni, con una postfazione del boemista Alessandro Catalano, il libro che ha fatto conoscere lo scrittore ceco Bohumil Hrabal al grande pubblico. “La perlina sul fondo”, infatti, fu l’esordio nel 1963, all’età di 49 anni, di Hrabal, oggi considerato uno dei più grandi scrittori del Novecento. “Ho inchiodato rotaie, fatto il capostazione, offerto polizze assicurative, ho lavorato come commesso viaggiatore, operaio di acciaieria, imballatore di carta da macero e macchinista teatrale. Quello che volevo era sporcarmi con l’ambiente, con la gente comune, e trovarmi a vivere, ogni tanto, l’esperienza sconvolgente di scorgere la perla sul fondo dell’essere umano”, scrive Bohumil Hrabal in quella che può essere considerata la presentazione migliore di questo libro che racconta con lucidità e ironia la realtà di un popolo e di un Paese negli anni prima della “normalizzazione”.

QUI l’articolo originale:

http://www.progetto.cz/la-perlina-sul-fondo/?lang=it

Romanzo senti/mentale – recensione di Gianluigi Bodi su Senzaudio

Romanzo senti/mentale – recensione di Gianluigi Bodi su Senzaudio

A volte ti bastano poche righe per incontrare una voce che poi imparerai a riconoscere come familiare e addirittura andrai a cercare tutte le volte che ti sembrerà di essere a corto di letture, tutte le volte in cui guarderai la libreria strapiena, con gli scaffali piegati dai libri (alcuni mai aperti) e ti dirai: non ho nulla da leggere. Bianca Bellová è quella voce lì, quella voce che nell’arco di una pagina fa risuonare già un certo tipo di affinità che riservi solo agli autori e alle autrici che considerei beni rifugio quando ci sono tempi di magra.

“Romanzo senti/mentale” è, per quel che mi riguarda, solo apparentemente un romanzo a due voci. Il racconto viene portato avanti in modo alternato, guardando prima nella vita di Nina e poi in quella di Eda. In mezzo a loro due presenze disturbanti. Da un lato Eliška, la sorella di Nina e dall’altro il deux ex machina, il santone…il padre di Eda. La narrazione parte da due lutti non legati tra loro. Il primo lutto ha a che fare con la morte della madre di Nina, il secondo con quello di un cliente dell’albergo in cui lavora Eda. Eda viene incaricato di andare a casa del malcapitato e comunicare la sua morte ala moglie. Diventa un angelo della morte.

Ma c’è, sopra di loro, un lutto supremo dal quale nessuno riuscito a staccarsi. Nina ha perso la sorella, Eda ha perso l’amore. Eliška è stata, nelle loro vite, una presenza disturbante, folle, portatrice si squilibrio, ma allo stesso tempo, magnete che attira a sè gli sguardi e i desideri delle persone. Quell’Eliška che da artista vive la propria vita come fosse un’opera d’arte e poi soccombe a un demone interiore nutrito dal santone, il padre di Eda. E tutto questo con nello sfondo il regime e la sua presenza chiara e vivida nella memoria delle persone, presenza che la Bellová reifica nel personaggio potente e inquietante del padre di Eda. Un uomo che può tutto e a cui non si può opporre difesa.

“Romanzo senti/mentale” è caratterizzato da una serie di incroci tra persone, da una struttura che si regge in perfetto equilibrio e, come ho detto all’inizio, da un elemento importantissimo: la voce della scrittrice Bianca Bellová. C’è, nel suo modo di raccontare, nel ritmo che tiene durante tutto il libro, un lento avvicinamento verso la conclusione che a tratti ricorda la rigida e commossa malinconia dei cortei funebri. Si tratta di un romanzo breve che, ne sono certo, non potrà fare altro che rieccheggiare a lungo nella mia memoria.

Traduzione di Laura Angeloni.

Bianca Bellová (1970) è una delle autrici più affermate della Repubblica Ceca. Ha esordito nel 2009 con Sentimentální román (“ Romanzo sentimentale ”), ripubblicato in nuova edizione nel 2019, a cui ha fatto seguito nel 2011 Mrtvý muž (“ L’uomo morto ”), tradotto in tedesco, e due anni dopo Celý den se nic nestane (“ Non succede niente tutto il giorno ”). Nel 2016 arriva il grande successo di critica e di pubblico de Il lago, tradotto in più di 20 lingue (in Italia in questa stessa collana) e vincitore nel 2017 di due importanti premi: il Premio Unione Europea per la Letteratura e il premio nazionale Magnesia Litera. Mona consacra la sua voce unica e inconfondibile, quella di un’autrice tra le più interessanti nel panorama letterario contemporaneo.

QUI l’articolo originale:

http://senzaudio.it/bianca-bellova-romanzo-senti-mentale/

Krakatite – recensione di David Frati su Mangialibri

Krakatite – recensione di David Frati su Mangialibri

Praga, anni Venti. Il giovane ingegnere Prokop barcolla sul marciapiede della strada che costeggia il fiume Moldava. Ha i brividi e la schiena inzuppata di sudore, gli gira la testa, vorrebbe sedersi su una panchina ma ha paura di attirare l’attenzione di qualche poliziotto e quindi raccoglie le poche forze che ha e tira dritto. Si sente svenire, si accorge che un passante lo fissa con insistenza allora cerca di accelerare il passo ma vacilla, quasi cade a terra, è costretto a poggiarsi ad un albero e a chiudere gli occhi ansimando. Il passante lo raggiunge, a quanto pare lo conosce, dice di essere Jirka Tomeš, un suo collega del Politecnico. Si sente male? Può aiutarlo? Prokop accetta, è ferito: farfuglia qualcosa riguardo a un esplosivo sperimentale che ha battezzato “krakatite” in onore del vulcano Krakatoa, soltanto una piccolissima quantità di polvere ha distrutto la stanza dove si trovava Prokop, lo ha scaraventato a terra come un fuscello. Poi Prokop sviene. Tomeš lo raccoglie, lo fa salire su un calesse e lo porta a casa sua, dove gli dà un’aspirina, lo sveste e lo mette a letto. Prokop dorme e sogna. Sogna di incontrare Plinio in una fabbrica e di spiegare a lui il meccanismo d’azione della letale krakatite, poi di cadere, di fuggire, di rivelare la formula del nuovo esplosivo ai suoi colleghi accademici. Quando si sveglia, nota che Tomeš accanto a lui ha preso appunti: vuole rubargli la scoperta dunque? Dopo tanto lavoro, tanta sofferenza sarebbe un vero disastro… Crolla di nuovo in un sonno stavolta senza sogni. Si sveglia che si è fatto giorno, sono passate molte ore: si sente confuso, debole, ha un mal di testa lancinante. È solo in casa, Tomeš a quanto pare è uscito. Suonano alla porta, è una ragazza con il viso coperto da un velo. Prokop la fa entrare in casa, inebriato dal suo intenso profumo…

Finalmente pubblicato in italiano a quasi un secolo dall’uscita a puntate sul quotidiano “Lidové Noviny” nel 1923 (modalità narrativa che peraltro si rintraccia nella struttura un po’ frammentaria del romanzo), Krakatite è uno dei due grandi romanzi “pessimisti” di Karel Čapek assieme a La fabbrica dell’assoluto. In uno l’energia che tiene unita la materia viene sfruttata per causare esplosioni di potenza catastrofica, nell’altro per creare una divinità. In entrambi i casi però le conseguenze sono apocalittiche. Del resto Čapek, profondamente segnato dall’esperienza della Prima guerra mondiale – definita dagli storici il primo vero conflitto “tecnologico” della storia – era sinceramente preoccupato per le sorti del genere umano di fronte all’incalzare di una scienza solo raramente utilizzata per scopi pacifici (“A me la forza non piace, né quella bellica, né quella elettrica”, scrisse). Così, dopo il successo strepitoso delle pièces teatrali R.U.R. (nella quale viene coniato il termine “robot”) e L’affare Makropulos decise di regalare ai suoi lettori un inquietante, minaccioso apologo sulle armi di distruzione di massa che anticipa quasi profeticamente il tema dell’escalation nucleare. Ma non c’è solo questo in Krakatite. Come la quarta di copertina della bellissima edizione Miraggi vuole suggerire con la citazione riportata, c’è anche una metafora sociale nel romanzo, non solo un plot fantascientifico geniale: al mondo per Čapek “tutto è esplosione”, “tutto sfrigola come una compressa effervescente”, anche i pensieri e le emozioni, persino l’erotismo. Il rombo delle esplosioni è il suono della modernità, della frenetica cultura urbana che prende il posto di quella tradizionale contadina e travolge la vecchia morale. Nel 1948 il regista cecoslovacco Otakar Vávra girò una pellicola tratta dal romanzo che è passato alla storia per essere il primo film al mondo in cui è descritto un olocausto atomico.

QUI l’articolo originale:

https://www.mangialibri.com/krakatite?s=09