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Laura Angeloni con «Io sono l’abisso» di Lucie Faulerová intervistata da «Posto delle parole»

Laura Angeloni con «Io sono l’abisso» di Lucie Faulerová intervistata da «Posto delle parole»

di Livio Partiti

Passato e presente, realtà e fantasia, compongono un mosaico di continui chiaroscuri, e lo stile è un’architettura perfetta: tenero, poetico, ironico, di straordinaria purezza.

Ascolta l’intervista alla tradutrice:

QUI l’articolo originale: https://ilpostodelleparole.it/libri/laura-angeloni-io-sono-labisso/

QUI il canale YouTube di «Il Posto delle Parole»: https://www.youtube.com/@ipdp

Manuale della scomparsa: “Io sono l’abisso” di Lucie Faulerová

Manuale della scomparsa: “Io sono l’abisso” di Lucie Faulerová

di Martina Cimino

Il catalogo di Miraggi Edizioni nel 2024 si arricchisce con la pubblicazione, all’interno della collana NováVlna, di Smrtholka (“Io sono l’abisso”, 2020) di Lucie Faulerová.  Il romanzo, nominato per il premio Magnesia Litera nel 2021, nello stesso anno ha vinto il prestigioso Premio dell’Unione Europea.  La traduzione è di Laura Angeloni.

Forse nella realtà non esisto. Forse nella realtà sono soltanto un’imitazione.

(Max Richter, Infra 5)

Tutum… sh – sh-sh.

Il ritmo di Infra 5 di Max Richter, l’oscillare del vagone di un treno: questa la cornice del romanzo di Faulerová. Un romanzo che si muove nell’interstizio di un dialogo tra la narratrice e protagonista Marie e il suo riflesso mentre siede sul sedile di un treno che percorre la Repubblica Ceca in direzione sconosciuta.

Una trama apparentemente semplice – un viaggio nella memoria – che si instaura nella tradizione del romanzo ferroviario ma che pagina dopo pagina svela la propria complessità e inabissa, o illumina, il lettore in una realtà frammentaria, le cui uniche coordinate sono proprio le deviazioni del treno. È in queste deviazioni che Marie vive da sempre la propria vita: sentendosi altro dalla famiglia, dalla lingua e nel corpo; e così le ripercorre in una serie di fantasie divertenti e analessi che in comune hanno questa costante del suo essere e sentirsi altro.

Probabilmente non sono mai stata me stessa. Mi sono sempre intrufolata di soppiatto nei mondi degli altri. Trasferendomi in essi come in case estranee. In casa di Madla, in casa del mio primo e poi del mio secondo ragazzo, nella casa di Rochester. Forse nella realtà non esisto. Forse nella realtà sono solo un’imitazione… Non sono me stessa. Devo attaccarmi. Essere parassita. Sono dipendente. Incompleta. Una cornice senza quadro. Una scopa senza paletta. Una semiretta. […] una frase incompiu–ta-tum.” (p. 129)

Marie, appassionata di magia fin da piccola, non fa che cercare attraverso i trucchi che impara il modo di scomparire. Infatti, è chiaro, no? Se il tuo sogno è diventare un mago che magia vorresti saper fare prima di tutto? Io quella di scomparire” (p. 13). Così, tutta la sua vita scorre alla ricerca di metodi per sparire, alternati a episodi divertenti vissuti con la sorella, e il lungo e doloroso viaggio in treno non è che la metafora stessa della scomparsa, dando alla narrazione una cadenza da trance rituale.

Il treno è trasparente e nel treno sono trasparente anch’io, rimbomba in un’eco, esistiamo solo a metà, l’altra metà non esiste, siamo solo un’immagine che si è impressa sul lato inferiore del foglio, un negativo sbiadito.” (p. 162)

Un viaggio molto diverso dai tragitti notturni che spingono la protagonista nella Praga sotterranea delle stazioni della metropolitana, nelle piazze colme di gente e nei supermercati; quei non-luoghi di precarietà assoluta in cui alla ricerca di contatto umano trova forse la sua visibilità. Un viaggio che la rende narratrice a volte inattendibile perché “ognuno si ricorda le cose a modo suo” (p. 172) e lei ricorda di sé solo in funzione degli altri, che siano essi la sorella Madla, la madre, il padre o il fratello Adam.

Ma io chi sono da sola? Chi sono da sola, senza gli altri? Non c’è niente che mi definisca, niente che definisca me in quanto me. Ogni volta che comincio ad avere troppa consapevolezza di me, mi sgretolo come pietra arenaria, ho bisogno degli altri per rimanere integra, devo pensare a quelli che ci sono, a quelli che non ci sono. Devo. Devo attaccarmi. Devo essere parassita. Perché altrimenti non esisto.” (p. 161)

Tutto procede sempre a tentoni nel suo attaccarsi agli altri: dall’abbandono materno, ai momenti passati con Madla e il suo suicidio, ai ritrovi di spiritualità new age nel Sokol di Carogna – il paese in cui vive –, ai percorsi universitari intrapresi e abbandonati e agli atti di autolesionismo. Cosa fare quando gli altri non sembrano o non sono più presenti? Allora non le resta che una risposta: fingere di credere che ci sia ancora qualcosa in cui credere.  Infatti, Marie sceglie di esistere nell’assenza, in quel vuoto solcato dalle perdite e nella prospettiva di un perenne inverno. Ed è proprio nell’assenza di un gesto, il suo non aderire al rituale di passaggio dall’inverno alla primavera in cui il fantoccio della dea della morte Morana viene fatto affondare lanciandogli contro dei sassi che anche il titolo del romanzo Smrtholka, letteralmente “Ragazzamorte”, trova spiegazione.

E il sindaco è in testa al corteo che porta Morana, la tiene alta sopra la testa, un fantoccio coperto di paglia, due assicelle a croce avvolte con dei cenci. […] E poi il sindaco la getta nel fiume, Morana affonda sotto una scarica di sassi. Io, il mio continuo a strofinarmelo tra le dita. Mi guardo intorno e mi sento come se m’ avessero catapultata all’improvviso in un gioco di cui non conosco le regole: gioca con noi, dài gioca! È la prima volta che mi sembra di non riuscire a capire quel rituale, non capisco la loro gioia. […] Vorrei allungare la mano verso quella vecchina di cenci e tirarla a riva.” (pp. 29-30)

Un gesto mancato che rivela la dissonanza di Marie da se stessa e dal mondo e che sancisce il momento in cui sente di essere condannata.  Io sogno Morana. Da anni e anni. / A furia di sognare la tua dea, è lei che comincia a sognare te” (p. 95); perseguitata a tal punto da Morana, Marie si convince della propria colpevolezza e tutta la sua vita – almeno per com’è raccontata – assume le tinte del lutto e della perdita di sé, il non vedersi, da ciò derivante che la porta a compiere atti di automutilazione come accecarsi con una matita.

… quando qualcuno intende morire di propria mano, il volto si cerca allo specchio… […] … se si dice: dunque questo sono io. Perché sono io? […]Quando mi infilo la matita nell’occhio, il dolore è tanto forte che tutto diventa buio. Riesco a intravedere solo il caos inondato per metà dal colore, non verde, ma rosso, qualcuno grida, qualcuno corre via. Ma forse sorrido persino, mentre cado nell’incoscienza con la matita che sporge dall’occhio[,] forse sorrido persino, perché Morana – Morana non c’è più”. (p. 113)

Una libertà acquisita, la scomparsa di Morana, che esige però un alto prezzo: la privazione, in questo caso parziale, della vista materiale. Una scena di chiara matrice edipica tanto necessaria perché racchiude in sé uno dei motivi strutturali del romanzo, il vedere e il non-vedersi, il dialogo tra la Marie-passeggera del treno e la Marie-visione che sfugge. L’auto-accecamento, dunque, non è soltanto segno dell’impossibilità di Marie di reggere il peso del proprio sopravvivere a Madla ma anche la controparte dialettica della vista sensibile, rappresentata dal fratello Adam: Adam è l’occhio sano. […]  Adam è la parte integra del mio viso che è lì solo e solo e soltanto a rammentare che l’altra metà un tempo era esattamente così” (p. 120), e dai corsi di spiritualità frequentati dalle due sorelle perché alla fine la questione è sempre la stessa: purificarsi, concentrarsi, armonizzarsi” (p. 27). E se in fondo è la narrazione che si fa a decidere chi si è, non sorprende che il mantra di luce di uno di questi corsi venga rovesciato in L’abisso è lì. / Vedo l’abisso. / L’abisso vede me. / L’abisso è in me. / Io sono l’abisso” (p. 28), a confermare la percezione che Marie ha di sé.

Tuttavia, sarebbe sbagliato credere che Marie si lasci soltanto andare all’abisso della memoria perché, anche quando non ne ha la forza, non fugge, forse intuendo che il buio del tunnel va attraversato. Così, in questa tragedia bagliori e sprazzi di luce si alternano al dolore, accecando violentemente lei e il suo riflesso e tracciando una scia di chiaroscuri che segue il percorso del treno, deviazioni e soste incluse, perché alla fine la meta è il viaggio in sé” (p. 43) e quindi non importa se lei stia partendo o tornando ma la sua decisione di sopravvivere e finalmente guardarsi per com’è. Perché in fondo che lei sia senza tre quarti di lingua e con un solo occhio non ha importanza quando chi ci sta attorno si accorgerà che siamo avvolte dalla luce e per questo verranno a cercarci” (p. 53).

La possibilità di tornare è lì: in quel lungo in cui anche chi cerca di scomparire desidera solo tornare.

Mari marilù bidibibodibibù” (p. 15)

QUI l’articolo originale: https://www.andergraundrivista.com/2025/04/16/manuale-della-scomparsa-io-sono-labisso-di-lucie-faulerova/

Recensione dei «Vigliacchi» di Josef Škvorecký sulla rivista online «Emöke»

Recensione dei «Vigliacchi» di Josef Škvorecký sulla rivista online «Emöke»

di Leonardo Guizzetti

“E mentre guardavo il sole lassù, con il grande edificio bianco alle mie spalle e la quiete di un paese dove erano morti tutti, poteva essere ovunque, mi assalì un grande senso di inutilità, mi pervase tutti i pori e le cellule del corpo e sentii tutto, tutto eccetto me stesso, infinitamente lontano. Ed ero un mollusco nel solido guscio di quella inutilità, ci stavo bene, anche se ero solo e senza senso, ma appena ne uscivo il mio corpo molle e vulnerabile incontrava qualcosa di doloroso. Appena uscito, compariva subito Irena e la sofferenza di non averla e la sofferenza di non sapere se mi interessava davvero o no, e la sofferenza di desiderarla ed essere geloso di lei e quella di essere indifferente a lei e quella di pensare che non l’avrei mai avuta e che era stato ed era tutto inutile, le serate e le parole e la rivoluzione […].”

Il romanzo ceco che ha subito la più feroce e spietata offensiva mediatica dell’intero periodo socialista è senza dubbio I vigliacchi (1958) di Josef Škvorecký. A suo modo, il romanzo divenne un vero e proprio caso editoriale, l’imputato di un “processo letterario” che costrinse l’autore a confrontarsi con i vertici del regime comunista. Nella Cecoslovacchia della fine degli anni ’50, il caso de I vigliacchi determinò un inasprimento delle politiche censorie che impedì a molti autori, tra cui Bohumil Hrabal, di pubblicare le proprie opere. Come era accaduto per Il dottor Živago nel 1957, un anno prima della pubblicazione de I vigliacchi, il romanzo dovette attraversare un complesso percorso editoriale prima di essere pubblicato; inoltre, le numerose stesure del testo che ci sono pervenute rendono difficile individuarne una versione ufficiale e definitiva. La nuova traduzione de I vigliacchi (2025), pubblicata da Miraggi, colma il vuoto lasciato sugli scaffali dal 1969, quando vide la luce, per Rizzoli, la sua unica edizione italiana, almeno fino ad ora.

L’esplodere dello scandalo, paragonabile a quello scoppiato per Il dottor Živago, fece sparire il nome di Škvorecký dai piani editoriali per ben cinque anni. Ricomparve solo nel 1963 con la pubblicazione di La leggenda Emöke, il «delizioso racconto» ricco di «ondulazioni musicali» che ha ispirato il nome di questa rivista, e che è così descritto da Angelo Maria Ripellino in una lettera a Italo Calvino. Fondatore a Toronto, dopo la sua emigrazione dalla Cecoslovacchia, della casa editrice ’68 Publishers, fondamentale per la diffusione della letteratura ceca all’estero, Josef Škvorecký si inserisce nel novero degli autori che, in vari momenti del secolo scorso, subirono il fascino della letteratura americana, da sempre considerata un “tabù” dalle politiche culturali di regime, perchè estranea alla loro logica normativa. 

Negli otto capitoli in cui è diviso il romanzo, che corrispondono ai giorni tra il 4 e l’11 maggio del 1945, si racconta l’arrivo dei russi a Kostelec, una piccola città immaginaria ispirata a Náchod, ora libera dai tedeschi. Nella costruzione del racconto Škvorecký disattende però ogni regola dell’estetica di regime, ogni principio del realismo socialista. Sebbene non possa definirsi propriamente un romanzo anticomunista, I vigliacchi presenta, per la prima volta nel contesto cecoslovacco, una posizione libera, leggera e spensierata. La narrazione è in prima persona e punta soprattutto sull’immediatezza delle impressioni del protagonista. Non è infatti l’intervento della voce autoriale a richiamare l’attenzione, non è l’opinione forte dell’autore a mediare le riflessioni del personaggio che fin da subito non viene dotato del cinismo necessario a motivare le sue considerazioni. Il protagonista Danny cresce insieme all’autore e ne costituisce una sorta di alter ego fittizio (tornerà infatti in altri romanzi di Škvorecký); non è l’uomo “da glorificare” dell’estetica ufficiale, ma è un Giovane Holden che fa del suo patriottismo lo strumento per conquistare Irena, la ragazza di cui è innamorato senza essere ricambiato. 

In un romanzo giocato sulla descrizione contrastiva del mondo degli adulti e quello dei giovani, il giovane Danny oscilla tra dissenso e adesione. L’arrivo dell’Armata rossa viene privato di ogni forma di mediazione ideologica; tutto l’evento è presentato come una grande farsa, uno sketch di cabaret: un cambio di bandiera, un palchetto, i russi come ubriachi uomini a cavallo, l’organizzazione della Resistenza come un susseguirsi di ronde senza senso.

Danny ama le ragazze, il jazz, il ragtime e la cultura americana, ha da poco concluso il liceo; il suo cognome Smiřický è quello di una famiglia nobile e ciò fa di lui un privilegiato, un buon partito. Si sente diverso da «quelli che hanno fame», i comunisti, da quelli che non hanno una camera confortevole in cui rifugiarsi. È chiaro fin da subito, dunque, che la sua visione del mondo non è priva di implicazioni, poiché condizionata, seppur in minima parte, dalla sua eredità di classe. Danny è un ragazzo stregato dai ricordi. È perennemente perso nel suo fantasticare e riscopre la realtà, seppur parzialmente, solo dopo essersi scontrato con l’evidenza della guerra, che impedisce lo svolgersi della sua vita quotidiana. Eppure, nonostante siano posti di fronte alla violenza della guerriglia, lui e i personaggi con cui dialoga minimizzano i fatti appena accaduti attraverso scambi di battute privi di forza comunicativa: la violenza resta perlopiù riposta nella loro mente. Raccontano gli eventi senza dar peso alla morte, rendendola quindi inconsistente, e forse, per questo, ancor più dolorosa. 

Danny è per primo uno dei vigliacchi a cui allude il titolo, così come lo sono i suoi amici, che evitano lo scontro aperto, o i personaggi in vista della città, che cambiano posizione con l’arrivo dei russi. La forza del protagonista sta proprio nel suo “parlare di nulla”, nella sua inettitudine, in questa sua inerzia esistenziale che, contrapposta al pathos degli eventi, dà vita ad una satira contro il piccoloborghese, contro il “mondo dei padri” e contro la sacralizzazione dell’Armata rossa. 

Se dunque non possiamo riconoscere lo sconforto del protagonista nei dialoghi a cui prende parte, lo possiamo però fare nelle parti liriche, nei suoi monologhi, nelle contraddittorie idealizzazioni del presente che testimoniano la sua sostanziale fragilità, nelle sue paure nei confronti del futuro: la laurea in lettere e la vita in questo “nuovo mondo” che ha cancellato il vecchio. Con Hemingway come modello per i dialoghi e Faulkner per le parti liriche, Škvorecký dona al suo personaggio l’indeterminatezza emotiva dei protagonisti dei romanzi di Sartre o Camus. Nonostante la sua naïveté, Danny si mostra capace di articolare pensieri estremamente complessi senza però giungere mai ad un vero e proprio “sunto esistenziale”, optando sempre per risoluzioni provvisorie, contraddittorie o di compromesso. Anche il leitmotiv dell’affermazione dell’amore per Irena – l’ossessione per il suo “A love supreme” – ci mostra come, in realtà, questa esperienza sia ben lontana dall’essere totalizzante, o quanto meno lo sia in modo estremamente provvisorio. Irena è sia oggetto di desiderio che motivo di repulsione, mentre le interazioni con il mondo femminile se in molti casi prevedono un tentativo di corteggiamento, in tanti altri possono essere riassunte nel motto infantile: “maschi contro femmine”. Danny è un narratore inaffidabile e sono le contrastanti modalità in cui concepisce l’amore a dimostrarcelo: l’amore è furbizia, desiderio, soggiogazione, idealizzazione; «le ragazze sono tutte stupide» se lo rifiutano, ma allo stesso tempo si dispiace di vivere in un «mondo di uomini» se accettano le sue avances. Se nell’assenza di un commento in terza persona possiamo riconoscere il voluto occultamento dell’opinione autoriale, nel flusso dei pensieri di Danny, tutto sommato abbastanza ordinato, e in questa serie di indicazioni sul protagonista – il nesso eroismo/erotismo e il suo narcisismo –, nel suo modo di descrivere il mondo femminile e nel tentativo di sopprimere i suoi reali sentimenti nella contraddizione, possiamo riconoscere la sua sostanziale irresolutezza.

In questo contrasto tra diversi registri emozionali, tra le parole del personaggio e i suoi pensieri, tra la sua risposta emotiva agli eventi e il peso che sembra conferirgli, la musica è ciò che segnala al lettore un possibile istante di armonia, ciò che garantisce una forma di coerenza ai discorsi del protagonista. Il lessico musicale anticipa un momento di confessione intima, ne rivela la profondità. La musica è la vera lingua con cui dialogano Danny e i suoi amici. E se il reale senso di questi discorsi è come la parte sommersa di un iceberg, ed è la musica a guidarci, ecco che quanto leggiamo non è che uno scat, una serie di sillabe musicali sincopate che non hanno valore di per sé, ma che si arricchiscono di significato all’interno di un contesto più ampio – storico o armonico, ma non solo – che va cercato non in superficie, ma sott’acqua. 

In questa grande partitura possiamo trovare la call and response tra le voci dei protagonisti, le blue notes dei momenti di monologo (in cui Danny mostra tutte le sue fragilità), e le battute in cui lo stream of consciousness si fa meno strutturato e più libero, come un assolo di sassofono. Ed è l’abilità cinematografica di Škvorecký a rendere i diversi elementi tra loro coesi: i moduli narrativi ripetitivi, l’ibridazione lessicale, gli intermezzi dialogati, i rari – ma non assenti – momenti elegiaci, anche se repressi o nascosti.

Nel finale, è la luce rossiccia della stella Betelgeuse ad annullare l’equivalenza che Danny stabilisce tra il sassofono e il mitra; la luce sanguigna della stella, del colore prima dell’amore, dell’Armata rossa e poi della guerra, gli fa comprendere come, in realtà, ad accomunare tutti gli attori di questa storia siano soltanto la morte e la vendetta, in un ciclo che difficilmente potrà essere interrotto. La guerra non è più qualcosa su cui interrogarsi, ma una realtà concreta. Sopravvivono gli interrogativi sull’amore, su Irena, sull’invidia che Danny prova nei confronti dell’amante di lei, ma non su un possibile futuro di morte, perché ne è terrorizzato. Immagina Irena in una Praga dalle tinte jazz, una nuova Chicago ben diversa dalla piccola Kostelec; oppure sogna la donna sconosciuta che spera di incontrare là dopo la guerra. Ma anche questo futuro è precario. Unica sicurezza resta la musica, strumento privilegiato per riconsiderare quanto successo, o forse solo il pretesto per negarsi ad ogni tipo di introspezione, ad ogni possibilità di crescita. Di fronte ai “disastri della guerra” rimanere immobili non è una reazione innaturale; dopotutto, come Danny è costretto ad ammettere, posto di fronte alla violenza della guerra anche «Goya non è niente».

QUI l’articolo originale: https://www.emokerivista.it/i-vigliacchi/

Premio Salerno Letteratura 2025: Lucie Faulerovà vince con «Io sono l’abisso»

Premio Salerno Letteratura 2025: Lucie Faulerovà vince con «Io sono l’abisso»

SALERNO – È Lucie Faulerovà la vincitrice dell’edizione 2025 del Premio Salerno Libro d’Europa, inserito nella 13ª edizione di Salerno Letteratura. Con “Io sono l’abisso” (Miraggi edizioni) Faulerovà si è aggiudicata il primo premio con il riconoscimento della platea dei lettori. Nella terna, selezionata dai comitati direttivi di Salerno Letteratura, Duna di Sale e #fuorifestival, c’erano anche Tom Hofland con “Il cannibale” (CarbonioEditore) e Munir Hachemi con “Cose vive” (La nuova frontiera).


“Io sono l’abisso”, per la traduzione di Laura Angeloni, è stato tradotto in spagnolo, macedone, bulgaro, serbo, ungherese, polacco, croato, lettone, egiziano e sloveno. Passato e presente, realtà e fantasia, compongono un mosaico di continui chiaroscuri, e lo stile è un’architettura perfetta: tenero, poetico, ironico, di straordinaria purezza. Colpita da una serie di tragedie familiari e abbandoni, la protagonista del romanzo, Marie, si trova a fare i conti col suo passato, nel difficile tentativo di approdare a un futuro. I suoi ricordi, come tasselli di una realtà frantumata che man mano va a ricomporsi, ci presentano il quadro di una famiglia spezzata dall’impeto violento di una malattia. L’amore è il collante su cui i tre membri rimasti si sforzano di ricostruire le fondamenta della loro vita, ma la battaglia più difficile, per la protagonista, è quella con sé stessa, con l’attanagliante senso di colpa che le impedisce di affrontare i propri demoni interiori e di chiedere aiuto. Inizia in treno, questa storia, e in treno finisce, ma nel percorso è condensata una gamma di emozioni infinita. Un vero viaggio nella vita, ma anche nella morte e nel dolore, un dolore che trasuda anche nelle scene che strappano un sorriso e si insinua in ogni piega, perché Marie, la protagonista, non si risparmia e non ci risparmia. Non fugge dalla violenta raffica dei ricordi, forse non ne ha la forza o forse intuisce che il buio del tunnel va attraversato, che indietro non si torna. Ed è proprio nel buio che spiccano maggiormente gli sprazzi di luce, e in queste pagine di sprazzi di luce, pur nella tragedia, ce ne sono tantissimi. I legami di famiglia, l’amore di un cane, un aquilone al vento, un fruscio di foglie, un cielo pieno di stelle, la lieve carezza di un sorriso. Passato e presente, realtà e fantasia, compongono un mosaico di continui chiaroscuri, il viaggio in treno scandisce il ritmo, tra accelerazioni e rallentamenti, e lo stile è un’architettura perfetta: tenero, poetico, ironico, di straordinaria purezza. Lucie Faulerová è nata nel 1989 ed è una della più brillanti giovani autrici ceche. Dopo gli studi di boemistica ha cominciato a lavorare come redattrice editoriale. Il suo romanzo di debutto, Lapači prachu (Gli acchiappapolvere, 2017) è stato nominato ai premi Magnesia Litera e Jiří Orten. Smrtholka, del 2020, il cui titolo letteralmente significa Ragazzamorte, e indica la dea della morte Morana, è stato nominato per il premio Magnesia Litera nel 2021 e nello stesso anno ha vinto il prestigioso Premio dell’Unione Europea.

“Io sono l’abisso” è la sua prima opera tradotta in italiano.

QUI l’articolo originale: https://www.primapress.it/premio-salerno-letteratura-2025-lucie-faulerova-vince-con-io-sono-labisso/

Intervista a Lucie Faulerovà, autrice di «Io sono l’abisso» vincitore del Premio Salerno Libro d’Europa 2025 – su «Ulisse Online»

Intervista a Lucie Faulerovà, autrice di «Io sono l’abisso» vincitore del Premio Salerno Libro d’Europa 2025 – su «Ulisse Online»

di Angela Senatore

«La storia di Marie è una storia drammatica, angosciante, di sofferenza, di buio, di abisso appunto, un tunnel dal quale è attratta ma dal quale al tempo stesso vorrebbe disperatamente riemergere. Se da bambina questa attrazione la spingeva con curiosità a scoprire l’universo (“mi sporgo nel vuoto e guardo le stelle”) da adulta si trasforma in una ricerca autolesionista del dolore (“a furia di affilare il coltello, è il coltello che affila te”). Il viaggio che compie è l’occasione per guardare in questo abisso e finalmente, forse, trarne forza»

Lucie Faulerovà, con “Io sono l’abisso”, edito da Miraggi edizioni nella collana di letteratura ceca NováVlna, è la supervincitrice del Premio Salerno Libro d’Europa 2025.

Il romanzo ripercorre la vita di Marie, la ventitreenne protagonista, attraverso rapidi flashback che passano davanti ai suoi occhi. Marie sta viaggiando in treno, dal finestrino vede lo scorrere del paesaggio: il fiume poi il bosco si alternano rapidamente fino a scomparire, lasciandole l’immagine riflessa di sì stessa, quella che lei fatica a vedere. Inizia così il suo viaggio interiore. Si rivede bambina quando desiderava diventare un mago per poter scomparire e scoprire dove si va quando si sparisce, poi inventrice del perpetuum mobile, poi dendrologa. Vorrebbe essere tutto e niente. E poi si rivede con la sua amata sorella Madla a scherzare sedute sul davanzale della finestra o ai corsi di meditazione organizzati dal Comune mentre ironizzano sui santoni che di volta in volta raccontano sempre la stessa storia “purificarsi, armonizzarsi, concentrarsi”. Rivede la madre, che sembrava una zia divertente che una notte se ne è andata, il padre, l’albero frondoso, il fratello Adam, con cui si sta bene in silenzio e si piange anche bene, Mr Rochester, che – finalmente – la illumina come una torcia.

La storia di Marie è una storia drammatica, angosciante, di sofferenza, di buio, di abisso appunto, un tunnel dal quale è attratta ma dal quale al tempo stesso vorrebbe disperatamente riemergere. Se da bambina questa attrazione la spingeva con curiosità a scoprire l’universo (“mi sporgo nel vuoto e guardo le stelle”) da adulta si trasforma in una ricerca autolesionista del dolore (“a furia di affilare il coltello, è il coltello che affila te”). Il viaggio che compie è l’occasione per guardare in questo abisso e finalmente, forse, trarne forza. Marie è consapevole che la sua vita ruoti intorno agli altri, sia nelle assenze, quella materna prima, quella della sorella poi, sia nelle presenze, quelle del padre, del fratello, di Mr Rochester che sembrano ricompensarla di tutto il dolore. C’è un desiderio di contatto che è desiderio materiale di essere visti ma lei, probabilmente, deve innanzitutto imparare a vedersi.

Accanto ad un racconto forte, è la scrittura che colpisce, a tratti poetica, ricca di similitudini e onomatopee, a tratti divertente. Il ritmo del libro è cadenzato dall’incedere incessante del treno (il fantastico Tu-tutum nella traduzione della bravissima Laura Angeloni). È un ritmo sinusale, poi improvvisamente tachicardico. Le uniche pause d’aria, in cui come balene o delfini che decidono che vogliono respirare (“Allora è fantastico, non ti pare?”), sono date dalle digressioni in cui Marie, appassionata di manuali, indica le statistiche dei vari tipi di morte da suicidio nel mondo. Non è però una mera catalogazione, Marie è interessata, interessata soprattutto a quelli per cui l’atto non ha avuto “effetto fatale”.

È la stessa attrazione che prova verso l’ignota ragazza suicida sui binari del treno che, come un’ombra, accompagna Marie dall’inizio alla fine del suo viaggio. “Mi chiedo se ha gli occhi aperti. Mi chiedo se ha paura. Mi chiedo se prova sollievo.”
Ho incontrato Lucie Faulerovà emozionatissima. poco prima di sapere di essere la supervincitrice del Premio, a Palazzo Fruscione, quartier generale di Salerno Letteratura Festival, e a lei ho rivolto qualche domanda su questo libro pieno di emozione.

Partiamo dal titolo: in ceco il tuo romanzo si intitola “Smrtholka”, termine intraducibile in italiano, tant’è vero che si è dovuto scegliere un diverso titolo, “Io sono l’abisso”. Cosa significa esattamente questa parola?

Smrtholka è un altro nome per dire Morana, che è la dea della morte e dell’inverno nella cultura ceca. Significa molte cose: è innanzitutto la combinazione di due nomi, morte e ragazza, e la trovavo una parola perfetta per il titolo di questo romanzo sia perché nel libro parlo della tradizione ceca relativa a Morana, sia perché questa parola descrive al tempo stesso Marie, la protagonista, ma anche il suo doppio, la ragazza suicida alla stazione. Tuttavia, mi piace molto anche il titolo italiano, scelto dalla traduttrice Laura Angeloni, anche per chi non si conosce la tradizione ceca, sarebbe complicato a comprendere il significato del titolo.

Marie, la protagonista, ci conduce, nel suo viaggio in treno, attraverso una storia per immagini che porta il lettore in un abisso sempre più profondo. Marie ha una attrazione per l’ignoto: vuole fare la maga per poter scomparire e scoprire dove si va quando si scompare, poi vuole scoprire il perpetuum mobile, poi si sporge nel vuoto a guardare le stelle ed è affascinata dalla vastità sconosciuta dell’universo. La sua è più una curiosità verso la vita, visto che da queste esperienze estreme lei vuole tornare, o è una angoscia di morte?

L’atteggiamento di Marie – penso – è dovuto al fatto che lei ha avuto una infanzia non standard, segnata dalla scomparsa della madre prima e dalla malattia della sorella poi che finisce con la scomparsa anche della sorella. Questi sono certamente eventi che influenzano la personalità e la crescita di una persona. Malgrado non si tratti di un testo autobiografico, c’è dentro qualcosa che mi riguarda. Anche io sono stata una bambina strana: anche io volevo essere una maga e inventare il perpetuum mobile. Accanto a questo, il mio processo creativo ad un certo punto va da sé e dunque neanche io so spiegare ogni dettaglio che c’è nella storia.

A proposito di processo creativo: hai pensato prima alla storia da raccontare o prima ai temi dei quali volevi parlare?

Io penso prima alla storia perché è mentre scrivo che mi si chiarisce di cosa sto parlando e di cosa voglio parlare. Certo, inizialmente avevo la visione di questa ragazza che vuole autodanneggiarsi ma non sapevo esattamente perché no volessi parlare, così ho iniziato a raccontare la sua vita. Contemporaneamente ho sentito la storia della ragazza alla stazione metro e ho pensato di inserirla nel testo.

L’attrazione di Marie per l’ignoto mi ha ricordato un passo de L’insostenibile leggerezza dell’essere in cui Kundera afferma: “La vertigine è qualcosa di diverso dalla paura di cadere. La vertigine è la voce del vuoto sotto di noi che ci attira, che ci alletta, è il desiderio di cadere, dal quale ci difendiamo con paura”. C’è questa suggestione?

No, a dire il vero, non avevo pensato a questa influenza, in realtà, mi ha ispirato Nietsche secondo cui: “se guardi a lungo nell’abisso, anche l’abisso guarderà dentro di te”

Oltre il tema dell’ignoto, ci sono altri temi nel tuo romanzo: la ricerca dell’identità, il doppio, il bisogno dell’altro per conoscersi.

Madla e la ragazza del binario sono entrambe dei doppi di Marie. Questo del doppio, dell’altro è un tema fondamentale: io penso che in generale le persone sono specchi per noi stessi. Se io sono affascinata da qualcuno, se ci sono in sintonia, cerco di creare dei legami e mi riconosco attraverso quella persona.

Tra gli atti di autolesionismo più impressionanti che Maria compie verso se stessa, c’è il momento in cui si acceca con la punta della matita provando un dolore atroce. Mi è parsa una scena metaforicamente molto potente anche pensando a tutti i grandi classici a partire da Omero o Tiresia in cui la mancanza fisica della vista era simbolo di altro. Qual è il senso di questo gesto di Marie?

Ci sono molti significati in questo gesto. Principalmente io pensavo alla mia generazione, io vengo da un Paese democratico, in pace, in cui ci sono infinite possibilità di scelta, molta libertà. A volte però paradossalmente questa libertà estrema paralizza perché ci sono troppe opzioni. Marie subisce questa paralisi così decide volontariamente di togliersi delle possibilità, autolesionandosi, così che possa dire: “io non potrò essere mai una attrice, una cantante, una ballerina, perché non mi è possibile”. Si costruisce così un alibi per essere libera in un modo diverso, limitato.

Nel libro sembra che i personaggi maschili siano generalmente positivi rispetto a quelli femminili. È un caso?

Assolutamente sì è un caso e i personaggi non sono distinti bianco-nero, positivo-negativo. Anche il personaggio di Madla non è completamente negativo, d’altra parte i personaggi maschili sono residuali rispetto alla protagonista, Marie, che io volevo rendere assolutamente preminente. La vita di Marie era talmente tragica che ho pensato fosse utile alla storia inserire dei personaggi positivi, portatori di luce. Il messaggio ultimo del libro che volevo dare è mostrare che noi possiamo vivere una vita bella anche avendo perso i nostri affetti, avendo sofferto tanto, sforzandoci di aprire gli occhi e vedere le persone intorno che ci amano e che si prendono cura di noi.

QUI l’articolo originale: https://www.ulisseonline.it/cultura/intervista-a-lucie-faulerova-autrice-di-io-sono-labisso-vincitore-del-premio-salerno-libro-deuropa-2025/

Lucie Faulerova vince il premio Salerno libro d’Europa

Lucie Faulerova vince il premio Salerno libro d’Europa

Lucie Faulerovà è la vincitrice dell’edizione 2025 del Premio Salerno Libro d’Europa, che si è tenuto ieri nell’atrio del Duomo nell’ambito della tredicesima edizione di Salerno Letteratura“Io sono l’abisso” (Miraggi edizioni) ha conquistato la platea dei lettori che l’hanno scelta ed applaudita per il suo lavoro. Nella terna, selezionata dai comitati direttivi di Salerno Letteratura, Duna di Sale e #fuorifestival, c’erano anche Tom Hofland con “Il cannibale” (CarbonioEditore) e Munir Hachemi con “Cose vive” (La nuova frontiera). Il premio è sostenuto da Bper banca.

Io sono l’abisso”, per la traduzione di Laura Angeloni, è stato tradotto in spagnolo, macedone, bulgaro, serbo, ungherese, polacco, croato, lettone, egiziano e sloveno. Passato e presente, realtà e fantasia, compongono un mosaico di continui chiaroscuri, e lo stile è un’architettura perfetta: tenero, poetico, ironico, di straordinaria purezza.

Recensione a «I vigliacchi» di Josef Škvorecký su «Alibi Online»

Recensione a «I vigliacchi» di Josef Škvorecký su «Alibi Online»

di Michele Lupo

Quasi in diretta, appena finita la Seconda guerra mondiale, il giovane Josef Škvorecký, fra i maggiori scrittori cechi del secolo scorso (era nato nel 1924) mette nero su bianco un romanzo-fiume, Zbabělci (I vigliacchi) ora in libreria grazie a Miraggi Edizioni con una nuova traduzione a cura di Alessandro De Vito.

Il libro racconta le vicende di un gruppo di ragazzi sollevati finalmente dall’oppressione dell’occupazione nazista ma per nulla entusiasti del nuovo Leviatano, lo stalinismo, che si affaccia cupo alle porte della loro storia.

Siamo in Cecoslovacchia fra il 4 e l’11 maggio del ’45, il contesto è ovviamente imparagonabile, ma a prima vista le giornate della voce narrante, Danny Smiřický, e dei suoi amici, sembrano quelle di una qualunque banda di giovani europei, italiani anche, degli anni Settanta, che se la spassano suonando e rincorrendo ragazze. Ovviamente è un’altra storia, ma indiziaria del tono e del clima che di primo acchito si respira in queste pagine.

Il protagonista tornerà nei romanzi successivi dell’autore, una volta emigrato in Canada, per nulla intenzionato a farsi macerare dal controllo comunista, già immaginando da ragazzo un’alternativa occidentale com’è testimoniato dalla conoscenza dell’inglese e dai primi esercizi di traduzione.

I vigliacchi del titolo amano il jazz, perplessi rispetto agli avvenimenti della grande Storia che li aspetta fuori dalle stanze in cui fanno le prove, e si lasciano tormentare dalle fanciulle che gli ruotano intorno. Rispetto all’underground nostrano di mezzo secolo fa – freak destinati a soccombere sotto i colpi criminali della strategia della tensione e della cupezza delle Brigate Rosse – questi ragazzi tendono a fuggire da una morsa ancor più stretta e tragica: sono sopravvissuti agli eccidi nazisti, gli ultimi fuochi della guerra ancora esplodono, la liberazione dovrebbe renderli euforici ma temono che un nuovo mostro stia rubando le loro illusioni.

Non casualmente, al suo apparire in patria, il libro incontrò una dura ostilità: ma come, i russi comunisti ci hanno liberato dal nazismo e voi siete innamorati dell’America? Škvorecký lo fu così tanto da trasferirvisi, non negli USA ma in Canada, dove contribuì a far conoscere al mondo occidentale scrittori altrimenti destinati alla clandestinità. Com’è in un certo senso clandestina la vita di questi ragazzi, estranea ai drammi della storia o forse così segnati da volersene liberare per ripiegarsi sui fatti propri: più malinconici che gaudenti in verità, nonostante le velleità contrarie, ma riluttanti ad abbracciare i mitra per fare il loro dovere.

Il protagonista in particolare s’imparenta con la stravagante e numerosa famiglia degli spleenetici della letteratura novecentesca (anche quella del secolo prima) – qui illusioni e fantasticherie erotico-romantiche (l’ossessione per l’imprendibile Irena) si alternano a momenti di aspra cupezza, di quelli
ben noti agli adolescenti (seppure qui al crocevia con l’età adulta).

Ha dei momenti di soprassalto, Danny, ascolta per radio le notizie di Praga messa a ferro e fuoco, e lì per lì crede di dover fare il suo, ma sono momenti brevissimi, ci crede poco. Tiene al jazz piuttosto, a una musica attraverso cui incarnare e sublimare insieme gioie e dolori. Il distacco, l’ironia è forte e il sax (un libro di Škvorecký tradotto da Adelphi è intitolato Il Sax basso) sembra fatto apposta per dissacrare gli improbabili entusiasmi comunisti (che a loro paiono tutto sommato non così diversi dai padri borghesi).

La settimana del maggio 1945 (a ogni giornata corrisponde un capitolo) avrebbe tutto per essere la più eccitante della sua giovane vita – lo è pure, da una parte, ma il nuovo che avanza in luogo del nazismo per Danny già puzza di vecchio, di ordinario.

La verve di un sax tuttavia può essere beffarda e malinconica insieme, ossia autoironica, autoriflessa, e irresponsabile, com’è della giovinezza, verso quanto accade intorno, fra soldati tedeschi che scappano e russi che occupano la piccola città, per cui Danny, fra un Diexieland e un “ronzio sincopato del sax”, sempre torna col pensiero a Irena, certo la sua ossessione, salvo che “poi mi dispiaceva un po’ per lei per il fatto che non l’amavo più”.

Come quello di un narratore inattendibile, anche l’io di questo romanzo deve poter disporre di una lingua adeguata, qui uno slang mutuato (e reinventato) da quello giovanile, che dell’irriverenza jazz prova a restituire anche l’umore.

Nella esauriente postfazione Alessandro Catalano ci avverte che non è facile renderne le peculiarità in italiano; Alessandro De Vito (che della casa editrice Miraggi è anche uno dei fondatori nonché curatore della collana NováVln dedicata alla letteratura ceca) vi si cimenta affidandosi a una recente edizione critica che riorganizza i materiali precedentemente soggetti a censure, elusioni e montaggi arbitrari responsabili di una ricezione distorta del romanzo. Che sa dell’America dei giovani salingeriani non meno che delle fumisterie praghesi dell’indimenticato Angelo Maria Ripellino.

QUI l’articolo originale: https://www.alibionline.it/recensione-i-vigliacchi-di-josef-skvorecky/

Recensione dei «Vigliacchi» di Josef Škvorecký su UniversoLetterario.it

Recensione dei «Vigliacchi» di Josef Škvorecký su UniversoLetterario.it

Con I vigliacchi, edito in Italia da Miraggi EdizioniJosef Škvorecký ci regala un romanzo di formazione anomalo, che si muove tra il ritratto generazionale e la critica sociale, senza mai cedere alla retorica eroica. Pubblicato per la prima volta nel 1958 in Cecoslovacchia, il libro è ambientato negli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale e segue un gruppo di giovani della provincia ceca, appassionati di jazz e poco inclini ai grandi gesti patriottici.

Lontano dalle narrazioni classiche di resistenza e coraggio, Škvorecký tratteggia un’umanità sospesa tra il desiderio di libertà e la paura di esporsi. La sua scrittura, ironica e vivace, racconta le contraddizioni di una gioventù che sogna l’America ma vive sotto l’ombra della guerra, facendo del jazz non solo una passione musicale, ma un simbolo di ribellione e di un altrove sognato ma irraggiungibile.

Trama: un attimo prima della libertà

Il romanzo si svolge in una piccola città ceca nel maggio del 1945, proprio mentre le truppe naziste si stanno ritirando e l’arrivo delle forze sovietiche sembra imminente. Il protagonista, Danny Smiřický, è un giovane sassofonista che trascorre le giornate tra la musica, le fantasie amorose e le discussioni con i suoi amici, senza un vero impegno politico o militare.

Danny e il suo gruppo non sono eroi né resistenti, ma nemmeno collaborazionisti: sono semplicemente ragazzi che cercano di capire da che parte stare, mossi più dalla paura e dall’incertezza che da una reale convinzione ideologica. Il titolo stesso, I vigliacchi, suggerisce l’ambiguità di questi giovani che si trovano a vivere un momento storico cruciale senza avere il coraggio o la voglia di essere protagonisti.

Il romanzo si sviluppa come una serie di episodi che oscillano tra il comico e il tragico, mostrando l’assurdità della guerra e la difficoltà di prendere posizione in un mondo in cui le certezze si sgretolano di fronte agli eventi.

Un protagonista antieroico: Danny Smiřický

Danny è un personaggio che si distacca dai classici eroi della letteratura di guerra. Non ha il coraggio di unirsi alla resistenza, ma nemmeno la spietatezza di chi ha abbracciato il nazismo. È un giovane che vorrebbe solo suonare il jazz e conquistare le ragazze, ma che si trova invischiato in una realtà che non può ignorare.

Attraverso il suo sguardo, Škvorecký mostra l’ipocrisia della società dell’epoca. Mentre alcuni si affrettano a dichiararsi partigiani solo quando la vittoria è ormai certa, altri cercano di ripulire la propria immagine per sopravvivere al nuovo regime che sta arrivando.

La grandezza del romanzo sta proprio in questa assenza di giudizio morale. Škvorecký non condanna Danny e i suoi amici, ma li racconta per quello che sono: giovani confusi, pieni di paure e desideri, costretti a confrontarsi con una storia che non hanno scelto di vivere.

Il jazz come simbolo di libertà e disillusione

Uno degli elementi più affascinanti del romanzo è la centralità del jazz, che non è solo la passione di Danny, ma un vero e proprio simbolo della libertà sognata e mai raggiunta.

In una Cecoslovacchia ancora sotto il giogo nazista e presto destinata a cadere sotto il regime sovietico, il jazz rappresenta un anelito di evasione, un collegamento con l’America e con un mondo che sembra così lontano dalla realtà quotidiana. Tuttavia, proprio come Danny e i suoi amici, anche il jazz resta sospeso tra il desiderio e l’impossibilità di realizzarlo pienamente.

Škvorecký, che nella vita reale era un grande appassionato di musica, utilizza il jazz come filo conduttore per esprimere la frustrazione di una generazione privata della possibilità di sognare davvero. La musica diventa un linguaggio alternativo alla guerra e alla politica, un rifugio in cui cercare un’identità in un mondo che sembra non offrirne alcuna.

Stile e tono narrativo: ironia e disincanto

Uno degli elementi distintivi de I vigliacchi è il suo stile narrativo. Škvorecký adotta un tono ironico e a tratti dissacrante, che smonta la retorica eroica tipica delle narrazioni di guerra. Il suo sguardo è disincantato, capace di cogliere la comicità involontaria di certe situazioni senza mai perdere di vista il dramma sottostante.

Il linguaggio è scorrevole, colloquiale, quasi cinematografico. I dialoghi sono vivaci e realistici, e i pensieri di Danny, spesso contraddittori e confusi, contribuiscono a rendere il protagonista estremamente umano e credibile.

Nonostante l’ironia, però, il romanzo lascia addosso un senso di inquietudine e di malinconia. Il lettore sa che la storia non darà a Danny e ai suoi amici la possibilità di vivere la vita che desiderano. L’occupazione nazista sta per finire, ma presto arriverà un’altra oppressione, e i sogni di libertà resteranno, ancora una volta, irrealizzati.

Un romanzo scandaloso e attuale

Alla sua pubblicazione, I vigliacchi suscitò enorme scalpore in Cecoslovacchia. La critica ufficiale lo accusò di essere anti-patriottico e offensivo nei confronti della resistenza. In un’epoca in cui si cercava di costruire una memoria collettiva fondata su atti eroici e sacrifici gloriosi, il ritratto di giovani indecisi e spaventati apparve come una provocazione inaccettabile.

Oggi, però, il romanzo si rivela di straordinaria attualità. In un mondo in cui le guerre e le crisi politiche continuano a mettere le persone di fronte a scelte difficili, I vigliacchi ci ricorda che non tutti sono pronti a essere eroi, e che spesso la storia è fatta anche di esitazioni, paure e compromessi.

U classico del disincanto

In conclusione, con I vigliacchi Josef Škvorecký ci consegna un romanzo che sfida le narrazioni eroiche della storia, offrendo un ritratto sincerorealistico di una gioventù senza certezze. Grazie a uno stile ironico e coinvolgente, e a un protagonista tanto imperfetto quanto umano, il libro si impone come una lettura fondamentale per chiunque voglia comprendere il lato meno celebrato della guerra: quello di chi ha avuto paura, di chi ha esitato, di chi ha cercato di sopravvivere senza diventare un martire.

QUI l’articolo originale: https://universoletterario.it/i-vigliacchi-di-josef-skvorecky/

«Ogni cosa ha il suo tempo» di Petra Soukupová: quand’è l’ultima volta che siamo stati felici?

«Ogni cosa ha il suo tempo» di Petra Soukupová: quand’è l’ultima volta che siamo stati felici?

di Sara Concato

Una domanda che risuona nella testa dopo la lettura di un romanzo che penetra, come una sonda, lo spazio e il tempo di una famiglia come altre. Ogni cosa ha il suo tempo, di Petra Soukupová.

La prima cosa che salta all’occhio tenendo fra le mani questo libro è il titolo in lingua originaleche emerge da quello in italiano e il nome della traduttrice, Letizia Kostner, in copertina. È un segno di riconoscimento della casa editrice Miraggi in generale e in particolare della collana NováVlna, dedicata alla letteratura ceca.

In quarta di copertina appare un intero brano scritto in entrambe le lingue, riga per riga a ricordarci che l’autore di un libro tradotto non è mai uno solo. Ma forse ogni libro non ha mai solamente un autore.

La prima cosa che salta all’occhio tenendo fra le mani questo libro è il titolo in lingua originaleche emerge da quello in italiano e il nome della traduttrice, Letizia Kostner, in copertina. È un segno di riconoscimento della casa editrice Miraggi in generale e in particolare della collana NováVlna, dedicata alla letteratura ceca.

In quarta di copertina appare un intero brano scritto in entrambe le lingue, riga per riga a ricordarci che l’autore di un libro tradotto non è mai uno solo. Ma forse ogni libro non ha mai solamente un autore.

Difficilmente in famiglia si parla con chiarezza e sincerità. C’è una dinamica di aspettative e di sottintesi che spesso corre più veloce di noi. Ma a volte può capitare di essere ascoltati: “Tutto qui?” (p. 198) esclama Kája sorpreso di non ricevere punizioni dai genitori dopo aver detto loro che non vuole più nuotare. Mettersi nei panni dell’altro è un esercizio poco praticato, è un esercizio difficile. Più leggiamo e più ce ne accorgiamo. Passando da un punto di vista all’altro, entriamo nella mente dei personaggi e capiamo che non esiste un “cattivo” e “un buono”. 

Esistono relazioni e cambiamenti. Esistono egoismi, sussulti di un’io che si scontra col noi. Non è facile costruire una comunità, grande o piccola che sia. È facile che una comunità si disgreghi per far posto ad altre forme di esistenza. Richard pensa alla sua famiglia che “si regge solo per inerzia”, e si chiede: “se invece avessero ancora tutti la possibilità di avere qualcosa di meglio?” (p. 252). “Ormai è tutto una noia”, gli fa eco Alice, “non chiacchierano più di nulla, solo di questioni organizzative” (p. 272). Ma la rottura spaventa, la perdita dell’abitudine, la paura del nuovo. Alice è tormentata tra la noia e la rabbia, fra l’abitudine e il desiderio di vita. “Quasi tutta la giornata trascorre così, rabbia, tristezza, determinazione, rabbia, tristezza, lavoro, pranzo, nel pomeriggio porta di nuovo il cane a fare una passeggiata, senza nemmeno fingere di voler fare giusto due passi. Niente” (p. 275).

Nel susseguirsi dei capitoli, che aprono ogni volta il punto di vista di un personaggio diverso, entriamo nella quotidianità asfittica di una famiglia tradizionale, madre, padre, figlio e figlia, con cui intraprendiamo un viaggio lungo più di trecento pagine, percorriamo un pezzo della loro storia, una storia ordinaria, sviscerata nei minimi dettagli. È come una vivisezione, la dissezione di un corpo vivente per guardarne i meccanismi il più vicino possibile, accorgendoci che la chiave di tutto è sempre il mutamento, l’instabilità (necessaria) che comporta scomposizioni e ricomposizioni, respiri lunghi o tagli netti che permettono a un organismo di rigenerarsi.

In men che non si dica prende il ritmo che le è più congeniale” (p. 141). Fra scegliere un compromesso e seguire il proprio tempo ci si smarrisce spesso, e si resta in uno spazio indefinito in cui la coppia mal assorbe l’individuo, ne digerisce un po’ e un po’ lo perde. La tenerezza spontanea svanisce e un gesto o uno sguardo insolito provocano ansia, sospetto, perfino fastidio, più che piacere. L’abitudine viene a coronare il malassorbimento, ma le parti indigerite prima o poi tornano a galla. Conosciamo mai veramente chi abbiamo accanto?
Quand’è l’ultima volta che siamo stati felici?

QUI l’articolo originale: https://www.ghigliottina.info/2025/04/14/ogni-cosa-ha-il-suo-tempo-petra-soukupova/

Alessandro De Vito scrive dei «vigliacchi» di Josef Škvorecký su «tuttolibri»

Alessandro De Vito scrive dei «vigliacchi» di Josef Škvorecký su «tuttolibri»

I vigliacchi Josef Škvorecký è uno dei grandi classici della letteratura ceca. 

Siamo in Boemia agli sgoccioli della seconda guerra mondiale, e gli ultimi giorni, dal 4 all’11 maggio del 1945, sono altrettanti capitoli. La guerra, con le sue atrocità, resta costantemente sullo sfondo, ma è un romanzo in cui vengono celebrate la vita e la giovinezza. Protagonisti sono i ragazzi che suonano in un complesso jazz, stravedono per tutto ciò che è americano e inglese, e a modo loro sono già dei “ribelli” nel confronto del mondo degli adulti: costretti malvolentieri ad arruolarsi in un arrangiato esercito cecoslovacco basato, guardacaso, in una fabbrica di birra, tra ironia e sarcasmo, slanci ideali e comprensibile paura – i tedeschi sono in ritirata incalzati dai sovietici – i loro principali interessi restano la musica e le ragazze. E pensare al futuro, come fanno i giovani di ogni epoca, con atmosfere quasi da film che precorrono gli anni Sessanta.

Scritto nel 1948-49 da uno Škvorecký ventiquattrenne e pubblicato solo nel 1958, era arrivato una prima volta in Italia nel 1969 nella traduzione di Giuseppe Mariano per Rizzoli, condotta, all’epoca, sulla seconda edizione del romanzo (1964), una stesura in parte censurata e in parte riscritta dallo stesso autore perché ne fosse concessa la pubblicazione. Ora il romanzo si può di nuovo leggere integralmente e nella sua forma originaria e più viva.

I vigliacchi si distingue per una lingua e uno stile molto personali che alternano registri bassi e quotidiani a una struttura letteraria articolata. I dialoghi tra amici, diretti e cinematografici, sono pieni di gergo giovanile – non è facile mantenere quella freschezza e immediatezza a distanza di generazioni e di decenni senza indulgere alle mode passeggere del contemporaneo, e senza utilizzare espressioni che in italiano sono regionali. Invece le lunghe elucubrazioni, i sogni a occhi aperti e le riflessioni post-adolescenziali del protagonista Danny (alter ego dell’autore in molti suoi romanzi) sulle ragazze, sulla guerra, ma in fondo sempre sul senso della vita, spesso sono periodi talvolta più lunghi di una pagina. Solo la sapienza letteraria di un autore amante del jazz e del cinema consentono al lettore di non perdersi e percorrere le pagine una dopo l’altra con leggerezza e apparente semplicità.

In Škvorecký la vita, che sia amore o guerra, risuona con i contrappunti del jazz, dello scat, dell’improvvisazione studiata, del ritmo sincopato. E moltissimi sono i verbi che richiamano suoni e rumori, si “sente” la colonna sonora almeno quanto si “vedono” i personaggi: un film su carta. Ma del jazz e del cinema ci sono anche l’abbandono della ragione e della ragionevolezza per le ragioni del cuore, che sono quelle dell’essere giovani, da ragazzi e sempre.

 

Radka Denemarková: «Viviamo il tempo degli oligarchi narcisisti, che considerano il mondo un giocattolo privato» – intervista

Radka Denemarková: «Viviamo il tempo degli oligarchi narcisisti, che considerano il mondo un giocattolo privato» – intervista

di Alessandro Catalano, professore di Letteratura ceca presso l’Università di Padova e socio di Memorial Italia

La scrittrice ceca a Huffpost: «Noi che siamo nati nell’est capiamo molto meglio i segnali di una politica che rischia di diventare repressiva. Per me è sconvolgente che il pensiero totalitario sia ancora così attraente, ma è un modello tutto sommato semplice, basato su ordine e consumismo”… “Ha notato che una delle prime misure messe in atto da tutti i sistemi autoritari è quella di condizionare gli scrittori? Perché rappresentano lo specchio del potere. La censura è sempre tragica, ma è anche una buona notizia: significa che la voce della letteratura è ancora forte».

La scrittrice Radka Denemarková rappresenta una delle voci più originali e provocatorie della letteratura ceca, ha vinto numerosi premi ed è un’intellettuale con grande visibilità nell’ambiente culturale tedesco. In italiano sono stati tradotti i romanzi I soldi di Hitler, sul complesso processo di denazificazione seguito alla Seconda guerra mondiale dal punto di vista di una ragazza sia ebrea che tedesca (Keller 2012), e Contributo alla storia della gioia, sulla dilagante violazione del corpo femminile nella storia (Sovera 2018, entrambi tradotti da Angela Zavettieri). Poche settimane fa l’editore Miraggi ha pubblicato, nella brillante traduzione di Laura Angeloni, il monumentale romanzo Ore di piombo, che la scrittrice ha appena presentato a Torino, Parma e Firenze.

Da quando l’ho intervistata l’ultima volta per lo spazio di Memorial Italia sull’HuffPost, due anni e mezzo fa, sono successe molte cose. Vorrei affrontare con lei sia la ricezione del suo romanzo appena tradotto in italiano, Ore di piombo, sia la situazione politica internazionale. Partirei da quando è stata invitata a inaugurare il festival Pordenonelegge, dove ha dialogato con la scrittrice Silvia Avallone. In una sera caratterizzata da una bella partecipazione di un pubblico caloroso, non sono mancate le polemiche da parte del sindaco della città, Alessandro Ciriani, che ha usato parole forti: “Ho assistito a una serie di luoghi comuni triti e ritriti di un vecchio femminismo che non esiste più”. Perché le sue parole provocano spesso questo tipo di reazioni?

Credo che molti esponenti politici odierni non siano più abituati al fatto che gli scrittori violino lo spazio della politica, la percepiscono come un’invasione. Ma non dobbiamo dimenticare che gli scrittori si sono sempre espressi sul mondo, fornendo spesso una prospettiva nuova e diversa, e sono persuasa che dobbiamo continuare a difendere la nostra autonomia e a dire quello che pensiamo. La politica è in fondo solo un servizio, anche se molti credono di essere immuni dal controllo della società. Io sono una scrittrice e una cittadina, e il XX secolo ci ha insegnato che il diritto di criticare è importantissimo. Un diritto che da una parte fa paura, ma dall’altra costituisce la nostra grande forza. Ha notato che una delle prime misure messe in atto da tutti i sistemi autoritari è quella di condizionare gli scrittori? Perché rappresentano lo specchio del potere. La censura è sempre tragica, ma allo stesso tempo è anche una buona notizia: significa che la voce della letteratura è ancora forte. Ricordo bene l’appassionata reazione del pubblico a Pordenone. Ecco, quello che mi sta più a cuore è ricevere il sostegno di chi ascolta. Credo che sia oggi molto importante dare voce a chi non ha la possibilità di manifestare pubblicamente le proprie idee, a chi non può rischiare. E credo che di questo tipo di coraggio avremo sempre più bisogno. 

Lei ha più volte richiamato l’attenzione sul persistere di una cultura patriarcale anche in contesti dove stentiamo a riconoscerla, ad esempio tra i dissidenti. Quanto c’entra il fatto di essere donna?

Sì, naturalmente le cose non erano affatto diverse neanche nella dissidenza. Se pensiamo ai dissidenti in Cecoslovacchia, ci vengono in mente i nomi di Václav Havel, o di Milan Kundera, sempre di uomini si tratta. Anche se a nessuno piace sentirlo, il mondo odierno è dominato ancora da un pensiero patriarcale, solo gli uomini vengono presi sul serio. Se le stesse frasi le pronuncia una donna, hanno minor peso.

In questi giorni lei è in Italia per presentare il romanzo Ore di piombo, uscito in ceco nel 2018. In questi sei anni trascorsi, secondo lei è cambiato qualcosa di essenziale nel modo in cui possiamo leggere questo romanzo, in buona parte ambientato in Cina?

Quando il romanzo è uscito, poteva paradossalmente suonare come un avvertimento. Oggi invece alcuni degli argomenti affrontati sono realtà. Viene quindi spesso letto come un romanzo che contribuisce a svelare i meccanismi del nuovo potere. Il mio intento era quello di mettere in guardia contro un nuovo tipo di totalitarismo. Molti erano convinti che un’economia che funziona porta automaticamente al benessere. Ma quando il governo è monopartitico, l’economia non fa che rafforzarne il potere. Avendo trascorso molti mesi in Cina, ho constatato con orrore quanti europei hanno sostituito i nostri valori con il denaro, allineandosi cioè al modus operandi degli oligarchi di tutto il mondo. E non parlo solo di Trump e Putin, il discorso può essere esteso anche altrove, generando un sistema che sfugge a tutti gli strumenti di controllo della democrazia. 

In diversi punti del romanzo mi sembra anche di percepire una forte critica, o se preferisce, un avvertimento, nei confronti della tecnologia, o meglio del mondo virtuale.

Sì, volevo in effetti mostrare quanto la tecnologia sia ormai onnipresente nelle nostre vite, cosa di cui soltanto adesso cominciamo a renderci pienamente conto. In internet si sono ormai formati dei veri e propri Stati, che nessuno controlla: Facebook, Meta, perfino il loro nome cambia di continuo. Per non parlare del fenomeno dell’intelligenza artificiale, con tutti problemi connessi. Sono realtà che non possono rimanere senza una forma di controllo. Pensiamo per esempio alle fake news: sono ormai talmente diffuse, che per il cittadino medio è difficile orientarsi; inoltre, creano il sostrato ideale per insabbiamenti di vario tipo, distolgono l’attenzione dai temi davvero importanti. Chi fa circolare menzogne dovrebbe essere punito, come del resto in molti paesi già viene punita la negazione della Shoah. In questo momento storico è fondamentale riaffermare il concetto di responsabilità.

Che troppo spesso è invece dimenticato proprio dalle alte sfere della politica…

Il problema è che abbiamo a che fare con individui che avanzano la pretesa di influenzare la politica mondiale, pur non essendo mai stati eletti. E penso alle immagini della “incoronazione” di Trump: in prima fila non c’erano di sicuro premi Nobel e artisti, ma individui che non dovrebbero avere nulla a che fare con la politica, visto che manifestano un aperto e profondo fastidio nei confronti della democrazia e hanno costruito veri e propri imperi sul verticismo, sul dominio assoluto. La politica dovrebbe occuparsi di organizzare la società così da garantire il benessere dei cittadini. Noi purtroppo avvertiamo il pericolo solo quando vediamo i fucili, ma il modo in cui questi individui influenzano la struttura sociale è molto più pericoloso di un fucile. Dovrebbero essere controllati con la massima attenzione e invece sono loro a controllare noi.

Eppure, dovremmo avere imparato la lezione… 

Esatto, guardando al passato, rimaniamo sempre attoniti all’idea che una sola persona sia riuscita ad alterare così profondamente l’idea stessa di democrazia, ma quando una cosa analoga si verifica davanti ai nostri occhi, nemmeno ce ne accorgiamo. Il ruolo peggiore lo ricopre sempre la maggioranza silenziosa, spalleggiata da una lunga serie di utili idioti. In un mondo interconnesso come quello in cui viviamo, non c’è via di fuga. C’è un gruppo ristretto di persone — e parlo di tutti gli oligarchi che proliferano ovunque, tutti con la stessa forma di narcisismo — che sembra aver preso il mondo per una sorta di giocattolo privato e si sente padrone del destino di interi paesi, più o meno piccoli. Se anche i grandi paesi cominciano ad agire nello stesso modo, allora è facile che scoppi una guerra, di solito contro gli stati più deboli. E sono guerre che non riguardano solo i paesi aggrediti.

È quello che è successo in Ucraina, per esempio?

Direi di sì, Putin a mio avviso non odia soltanto l’Ucraina, ma l’idea delle tradizioni democratiche in sé. E la sua forza è amplificata dalla debolezza dell’Europa. Sono discorsi che richiederebbero lunghe e dettagliate disquisizioni, ma non vorrei che si pensasse a Ore di piombo come a un trattato politico. I livelli di lettura del romanzo sono molti e diversificati. 

Infatti, vorrei anche chiederle, a beneficio di chi non ha letto il romanzo, come si declina poi tutto questo sotto forma di opera narrativa.

Ore di piombo è un esperimento. Mi sono chiesta se fosse possibile rappresentare la complessità dell’epoca che stiamo vivendo attraverso una forma nuova. Io credo che solo il romanzo sia in grado di affrontare contemporaneamente un gran numero di aspetti diversi da diversi punti di vista. Come rappresentare, infatti, questo processo di disgregazione dei valori che coinvolge la società, la famiglia, l’individuo e, perché no, perfino l’anima? A differenza della storia, che fotografa e analizza gli avvenimenti, la letteratura può cogliere il mondo interiore dei personaggi e far emergere la percezione individuale della mentalità di un’epoca. La metafora dell’“ora di piombo” in quanto momento fatale nella vita dei personaggi, ma anche della società e persino dei paesi, funziona secondo me meglio di tanti saggi sull’argomento. Il mio è un romanzo a più voci, anche se ovviamente il lettore è spesso portato a identificarmi con il personaggio di Scrittrice. Ma lei non capisce il mondo che ha attorno spesso provoca con i suoi atti la rovina di chi la circonda, per esempio nel caso di Ragazza cinese. Ho poi voluto dilatare il tempo e lo spazio, contrapponendo all’incomprensibile agire umano il mondo animale, gli uccelli e due gatti, Arancio e Mansur. Soprattutto il primo, Arancio, è un gatto millenario, ha vissuto varie epoche e ha visto la storia ripetersi innumerevoli volte, dunque osserva tutto con indulgenza, con il suo caratteristico umorismo nero. Questa pluralità di prospettive sulla storia raccontata è una cosa che solo un romanzo è in grado di far emergere.

In Ore di piombo c’è poi un particolare lavoro sulla lingua…

La battaglia della vera letteratura, oggi, è combattuta con la lingua e per la lingua. Un romanzo scritto con una lingua debole, incerta, senza prese di posizione chiare, non è in grado di svelare alcunché sul mondo. Ogni mio libro ha una lingua e una forma diversa. È il mio tentativo di recuperare una lingua che abbia un significato reale, facendo sì che ognuno si assuma la responsabilità di ciò che afferma. Il lavoro sulla forma è complesso, i singoli capitoli del romanzo rappresentano dei mattoni con i quali ho edificato una cattedrale. Al tempo stesso ogni linea narrativa e ogni capitolo possono essere letti come storie a sé stanti. Ore di piombo rappresenta quindi un esperimento con la lingua e con la forma: mi piace ripetere che contiene in realtà cinque romanzi diversi, che può essere letto come un romanzo d’amore, un romanzo su un singolo personaggio, sulla Cina e sull’Europa, su cosa sta succedendo oggi alla famiglia e su cosa significa essere “non rieducabili”. 

Volevo in effetti chiederle cosa significa per lei l’espressione “non rieducabile”, utilizzata spesso nel romanzo ed estendibile a molti episodi tragici del passato, basti pensare a una “donna non rieducabile” come Anna Politkovskaja.

I “non rieducabili” sono quelli che un tempo chiamavamo dissidenti, ma oggi la parola “dissidente” non basta più. Le nuove forme di totalitarismo esercitano un controllo così capillare sul singolo, che per loro non è sufficiente chiudere in prigione chi non si conforma. Il “non rieducabile” va eliminato in tutto e per tutto. Per questo, oggi, è estremamente importante non arrendersi.

Perché ha deciso di ambientare il romanzo proprio in Cina?

La Cina rappresenta una grande novità, in quanto ha sviluppato una nuova forma di totalitarismo che riunisce in sé il peggio del capitalismo e il peggio del comunismo. Pensi solo al totale silenzio sugli oppositori concreti. A suo tempo, quando Havel, il più famoso dissidente cecoslovacco, veniva arrestato, ne parlavano i giornali e le televisioni di tutti i paesi occidentali, insorgevano tutti i governi occidentali… Oggi in Cina spariscono spesso persone che all’estero sono del tutto sconosciute, quindi chi se ne preoccupa? È una forma di totalitarismo molto più efficace, che controlla i cittadini in modo feroce.

Non trova a suo modo curioso che, parlando della Cina, si continui a usare la parola “comunismo”?

Sì, senz’altro. Se definiamo oggi la Cina “comunista”, qual è il significato di questa parola? Il potere è una questione che riguarda i più ricchi, ovvero i capitalisti della peggior specie. La parola comunismo è stata completamente svuotata del suo significato. In un momento in cui l’unico valore sembra quello del denaro, dobbiamo tornare al vero valore delle parole, a partire da: che cos’è l’uomo? 

La guerra in Ucraina ha cambiato qualcosa da questo punto di vista? 

La guerra in Ucraina ha fatto emergere altri problemi della nostra epoca. Solo adesso ci rendiamo conto, per esempio, di quanto siano efficaci le guerre ibride e di quante persone abbiano assorbito la propaganda russa. Secondo me, comunque, alla base di tutto c’è un rovesciamento dei valori che fa sì che la vittima venga trasformata in colpevole. È per questo che è così facile rovesciare l’idea di chi sia il vero aggressore. 

La Repubblica ceca che posizione ha assunto nei confronti della guerra in Ucraina? 

Per fortuna la nostra politica ha assunto una posizione chiara, anche perché a Praga è stato tutto percepito in relazione al 1968 e ai vent’anni successivi, lasciando scarso adito a dubbi. Vari paesi dell’ex Europa dell’Est hanno ancora una conoscenza profonda della mentalità della Russia, convinta che ciò che le è appartenuto un tempo, le appartenga ancora… Ora, però, vediamo anche che alcuni paesi sono tornati ad assorbire forme di propaganda esplicita, basta pensare all’Ungheria. Il sogno di Putin non è scomparso, del resto, e mentre osserviamo la reazione coraggiosa dell’Ucraina discutendo nei nostri salotti, intanto lì si combatte. Ora la situazione politica mondiale sta cambiando, l’atteggiamento degli Stati Uniti è naturalmente essenziale, il che dimostra tra l’altro che basta un singolo narcisista per trasformare radicalmente tutto. Trump è fatto della stessa pasta e sarebbe disposto a sacrificare anche l’Europa intera. La guerra ha svelato anche a quali pericoli potremmo andare incontro, quali ore di piombo ci attendono. Se tutto è incentrato solo sull’economia, ogni rivendicazione riguarderà cose concrete, come hanno dimostrato la discussione sulle terre rare e la mentalità delle tante imprese che hanno fatto di tutto per aggirare le sanzioni. Purtroppo, pochi comprendono l’essenza della questione: in ballo non c’è solo qualche chilometro di un territorio lontano, ma siamo di fronte a un’epoca di rottura, in cui lo svuotamento dell’individuo è cosa reale. Il numero dei caduti rende necessario, dopo tre anni, fare blocco attorno all’Ucraina, altrimenti sarà troppo tardi e seguiranno altri casi simili: Groenlandia, Canada, Taiwan, Gaza etc.

Se lei dovesse ridefinire l’Europa, nei cui confronti in passato è stata più volte critica, descriverne i confini e ridisegnare le etichette che si continuano a usare (Occidentale, Orientale…), come la descriverebbe oggi? 

Molti di questi termini hanno ancora senso perché riflettono un’eredità condivisa da diverse generazioni, ma oggi non mi pare abbiano più un valore reale. Solo un’Europa realmente attiva potrebbe funzionare, perché c’è un grande bisogno di ribadire i valori nei quali ci identifichiamo. Ma in vari paesi la situazione è palesemente problematica. I valori sono una cosa, l’eredità un’altra. Se pensiamo all’Est e all’Ovest di un tempo, all’eredità del nazismo prima e del comunismo poi, e confrontiamo tutto questo con i recenti risultati politici, capiamo bene che fare i conti con i totalitarismi è un processo molto complesso. Questo dovrebbe anche insegnarci a riflettere sul futuro, mentre purtroppo continuano a prevalere, da una parte, una sorta di arroganza dell’Ovest e, dall’altra, una specie di senso di inferiorità dell’Est. Sarebbe necessario superarle e invece abbiamo sottovalutato molte cose. Rispetto all’occidente, in cui si pensava che tutto si potesse risolvere con le sanzioni, noi che siamo nati nell’Est capiamo molto meglio i segnali di una politica che rischia di diventare repressiva. Per me, in quanto scrittrice, è sconvolgente che il pensiero totalitario sia ancora così attraente, ma è un modello tutto sommato semplice, basato su ordine e consumismo.

E cosa può fare oggi la letteratura?

Si è parlato tanto di crisi del libro e naturalmente ho percepito anch’io gli ultimi anni come una crisi senza precedenti. Ma poi mi sono resa conto di quanto io stessa senta il bisogno della letteratura. In epoche simili, quando è in agguato una crisi di tale portata, le persone riscoprono la propria natura animale e si sforzano di comprenderne la ragione. Ho l’impressione che in alcuni paesi questo si stia già verificando. Nel mondo arabo, ad esempio, i cittadini assediati trovano un momento di aggregazione proprio attorno alla letteratura, che funziona come una sorta di oasi. Può sembrare assurdo, ma non mi stupisce che in tempo di guerra la gente si incontrasse proprio per leggere poesie, per non cadere in depressione: per questo si scriveva anche nei campi di concentramento. Tutte le proprie energie venivano riversate in un’attività come la scrittura. Io non ho mai creduto al fatto che si legge sempre meno. In fondo, se guardiamo la storia, la lettura non è mai stata un’attività chissà quanto diffusa. La letteratura ha il potere di salvare le persone, così è stato anche in passato. Anche se si tratta degli ultimi sopravvissuti, di un piccolo gruppo, molto distante dalle grandi masse, è comunque importantissimo. Magari ora potremmo sembrare dei paladini delle cause perse, guidati da un idealismo inutile e fastidioso, ma facciamo comunque parte di una lunga catena. Anche in passato ci sono stati scrittori che hanno pagato: sono rimasti incompresi, si sono suicidati, hanno bruciato i loro manoscritti, sono morti. È quindi anche un modo per proseguire nella loro tradizione, nella tradizione della “vera letteratura”. 

Ho l’impressione che per lei abbia un significato particolare questa idea di “vera letteratura”?

Sì, per me c’è una differenza essenziale tra “scrivere” e fare vera letteratura. Esistono tanti tipi di scrittori, ma non tutti sono disposti a rischiare, a seguire sentieri che non sono stati ancora battuti. È anche un’attività difficile perché in un’opera letteraria deve funzionare tutto, la forma, la lingua, la storia. Se un autore mette tutto sé stesso in un romanzo, i lettori se ne accorgono. Se ad esempio ripensiamo a Gita, la protagonista dei Soldi di Hitler, e al tema della Shoah, quanti libri kitsch, sentimentali, pieni di cliché sono stati scritti sull’argomento… Invece, gli autori che hanno davvero saputo fare i conti con sé stessi, Primo Levi, Imre Kertézs, Paul Celan, Jean Améry, lo hanno pagato sulla loro pelle. Si tratta di qualcosa che non è facile da definire, ma che avverto in modo molto forte. Pensi solo a quanti libri hanno enorme successo e due anni dopo non li ricorda più nessuno. Poi, certo, scrivere è anche una forma di narcisismo. Io, che ho avuto seri problemi finanziari e ho cresciuto da sola i miei figli, ho temuto spesso di dover cambiare modo di scrivere per vendere più copie. Per fortuna poi le cose sono andate in modo diverso. 

A questo punto non posso fare a meno di chiederle cosa rende un romanzo durevole nel tempo?

Non è il tema che rende certi romanzi immortali, ma il fatto che riflettono un intero mondo.  Le faccio due esempi molto diversi tra loro. Anna Karenina può essere letta in tanti modi, come una storia d’amore, una storia sul senso della famiglia, sull’infedeltà etc., ma se volete cogliere l’essenza della mentalità della Russia del XIX secolo, lì dentro c’è tutto. E questa è una forza che può avere solo un romanzo. L’uomo senza qualità riflette l’atmosfera di disgregazione della monarchia asburgica, e per coglierla Musil ha lavorato molto con la forma. Ma scrivere così comporta dei rischi. In Ore di piombo ho lavorato profondamente sulla forma, è un romanzo con tendenze liriche, riflessioni storiche, elementi saggistici, dialoghi con Confucio e Havel. E tante altre cose. Volevo verificare se oggi è possibile costruire un romanzo in questo modo. Io scrivo ogni mio romanzo come se fosse l’ultimo. E ritengo che riflettere sulla propria epoca significhi anche riflettere in termini di eternità. Funzionerà? Non lo sa nessuno. Ma è necessario provarci.

Alla luce di tutta la nostra conversazione, mi viene in mente una domanda finale, forse paradossale. Ma lei si sente una scrittrice ceca?

Io sono allergica a queste etichette, la letteratura italiana, la letteratura ceca etc. Per me esiste solo la vera letteratura. E sono convinta che in futuro la vera letteratura avrà un significato ancora più ampio, perché saremo investiti da un’alluvione di testi che riscriveranno la storia. L’intelligenza artificiale diventerà un’arma potente in mano a molti dilettanti. Ma dobbiamo imparare a conviverci: alcuni ambiti ne riceveranno un grosso aiuto, ma il pericolo c’è e non si può negare. Molti non si limiteranno a creare brevi video molto efficaci, ma anche testi più articolati in cui la verità e le menzogne saranno mescolate con sapienza. Solo la letteratura è in grado di raccontare i destini individuali e a illuminare la realtà da una prospettiva diversa, e ne abbiamo bisogno perché è un processo liberatorio. La fantasia ci aiuta a sviluppare il pensiero critico, attraverso cui decodificare la realtà.

QUI l’articolo originale: https://www.huffingtonpost.it/guest/memorial-italia/2025/03/29/news/radka_denemarkova_e_il_tempo_degli_oligarchi_narcisisti_che_considerano_il_mondo_un_giocattolo_privato-18783761/