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UN SOLCO SENZA SEME. INTERVISTA A LUCA RAGAGNIN

UN SOLCO SENZA SEME. INTERVISTA A LUCA RAGAGNIN

di Gianluca Garrapa

Un solco senza seme è una silloge di sillogi pubblicata per la collana Scafiblù di Miraggi edizioni nel 2024 e raccoglie scritture con gli a-capo, come ama definirle l’autore, pubblicate tra il 1988 e il 2023 e inedite (come la sezione Mangimonio). La scrittura di Luca Ragagnin privilegia spesso il significantesuono più del significato, immergendo l’orecchio del lettoreascoltatore in un ambiente fortemente legato al reale, per esempio il reale televisivo, ma anche, e soprattutto, il mondo della musica, della storia della musica, senza tralasciare esperimenti che colgono punti di colore nelle atmosfere oracolari, del cinema e di quello spettacolo interiore che può diventare spazio teatrale, oscenità del corpo e lirica che ricorda le vibrazioni fuori dall’Io di Andrea Zanzotto o l’abbandonarsi al desiderio del dirsi inconscio di Giuliano Mesa. Una scrittura di allitterazioni, paronomasie e metafore dietro cui si cela la dialettica del mondo con il pensierosentire di chi scrivecanta, sinestetici impressionismi e scrittura in pura perdita che sottrae il senso al prodotto commerciale del potere dell’Io. L’antologia di Ragagnin, o meglio la disontologia, «è per buona parte un’antologia, la sua genesi sono gli anni e i decenni trascorsi per arrivare qui» e gli strati di cui si compone danno l’idea di un’immersione di cui si gode riemergendo, a conclusione del discorsocantato «quando tutto è finito», après coup, avrebbe detto Lacan. In questo senso il viaggio sotterraneo, o in volo, dipende, è sempre un percorso concluso dal quale l’autore riparte verso nuovi incontri, dove la visceralità e la precisione chirurgica delle parole e dei timbri sono un tutt’uno con l’idea di una scrittura che vorrebbe diventare un «suono, una musica, una risonanza, un bordone, un mantra, qualcosa che inizia già iniziato e che non finisce dopo la sua fine.»

Ma se da un lato è musica, la scrittura di Ragagnin è pure «una contestazione e anche molte altre cose ovviamente, private e pubbliche», sempre risonanti del desiderio di chi scrivecompone, di chi leggeascolta, e anche della Legge\legge, interiore e sociale, dell’individuopopolo che abbia la fortuna, o la disgrazia, di avvicinarsi a una letteratura che indichi o guarisca le ferite di un pensaresentire critico sempre più raro…

Gianluca Garrapa

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Genesi e desiderio del tuo libro.

Ho smesso di consegnare a un mio libro desideri specifici. Erano troppo questo e troppo quell’altro, erano abnormi, sproporzionati, non ne ero all’altezza e non lo sapevo. Adesso lo so. Questo volume è per buona parte un’antologia, la sua genesi sono gli anni e i decenni trascorsi per arrivare qui.


Quando scrivi, godi?

No, non credo. Più che altro vado in apnea. Godo quando riemergo, quando tutto è finito.

Un estratto dal libro che è risultato più difficile o particolarmente importante: perché? Lo puoi trascrivere qui?

Non c’è. Sono materiali stratificati, si sono formati lentamente nel tempo a volte immobile della vita. Oppure, se c’è, cambia ogni volta, a seconda del pensiero che gli dedico. Ma quando una scrittura diventa libro non me ne occupo più. Non rileggo i miei libri, non ci torno sopra, voglio solo andare da un’altra parte. 


Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere il tuo libro?

Qualcosa di molto vicino, in effetti. Vorrei che fosse suono, una musica, una risonanza, un bordone, un mantra, qualcosa che inizia già iniziato e che non finisce dopo la sua fine. 

Che rapporto hai con la censura?  

Sano, cioè pessimo. Indignato e rabbioso. Se pensiamo a certa letteratura europea del Novecento, a certi Paesi, ai destini di certi autori, c’è da rabbrividire ancora oggi. Però attenzione al ridicolo delle nostre latitudini perché la censura si fa strada così, con una prima ridicola picconata. 

Per te scrivere è un mestiere o un modo di contestare lo status quo?

Scrivere può essere una contestazione e anche molte altre cose ovviamente, private e pubbliche. In qualche caso diventa un mestiere. Può essere una missione, una vocazione, una malattia, la lista è lunghissima. Ma molto dipende dalla storia sociale di uno stato, dal periodo storico. E da cosa fa quello stato per la salute culturale della popolazione.  

QUI l’articolo originale: https://tinyurl.com/yc82fdxm

La conversazione infinita. “Trittico” di Saša Sokolov.

La conversazione infinita. “Trittico” di Saša Sokolov.

di Manuel Paludi, «Andergrraund»

Saša Sokolov (Ottawa, 1943) è uno delle voci più importanti ed originali del panorama letterario dell’emigrazione russa del secondo Novecento. Esule nella vita, dal 1975, e nell’animo, è autore di tre romanzi: La scuola degli sciocchi (Škola dlja durakov, 1976; traduzione di Margherita Crepax, Salani 2007); Tra Cane e Lupo(1980); Palissandreide (Palisandrija, 1985; traduzione di Mario Caramitti, Atmosphere Libri 2019); oltre che di diversi saggi “proetici”. Trittico è l’ultimo e più maturo frutto della sua ricerca.

Sul pannello di destra del Giardino delle Delizie di Hieronymus Bosch – quello raffigurante “l’inferno musicale” – campeggia la misteriosa figura dell’Uomo-Albero. Il corpo di questa creatura è costituito da un guscio d’uovo schiuso sorretto da due gambe-tronchi calzati di scialuppe. Il suo volto – in cui alcuni hanno voluto vedere l’autoritratto del pittore fiammingo, altri addirittura quello dell’anticristo – è rivolto verso l’osservatore, mentre lo sguardo è diretto alla bisca ospitata all’interno del suo corpo, che osserva con aria indifferente e sorniona, come a una cosa che non lo riguardasse. Sul capo porta un disco inclinato su cui alcune figure ibride marciano tenendo per mano i corpi nudi dei dannati. A completare la scena, in alto a sinistra si trovan o, tra le altre cose, un paio di orecchie trafitte dalla lama argentea di un pugnale.

L’Uomo-Albero – atipico direttore d’orchestra nell’“inferno musicale” del trittico di Bosch – sembra una figura quanto mai adatta per parlare di un altro trittico, che, anche se meno grottesco, non è per questo meno musicale, né meno brulicante di strane creature. Si sta parlando dell’ultimo libro dello scrittore di lingua russa Saša Sokolov, Trittico (Triptich, 2011), tradotto in italiano da Martina Napolitano per i tipi di Miraggi Edizioni. Il volume, che, come gli altri della collana “janus|giano”, gode del pregio di riportare il testo originale russo a fronte, raccoglie e presenta per la prima volta al pubblico italiano tre componimenti poetici pubblicati inizialmente sulla rivista letteraria “Zerkalo” durante gli anni 2000.

I tre “pannelli” che vanno a comporre Trittico – Ragionamento (Rassuždenie), Gazibo, e Il filornita (Filornit) –  sono suddivisi in strofe numerate di lunghezza variabile non rispondenti ad alcuno schema metrico tradizionale. La scelta di adottare il cosiddetto verso libero non è casuale da parte di Sokolov e, come non manca di sottolineare la traduttrice nella prefazione al libro, sembra rispondere alla precisa volontà dell’autore di risalire alle origini prime della poesia e della lingua, che sono confuse con quelle della musica. I tre componimenti infatti abbondano di riferimenti e indicazioni musicali che conferiscono al testo un carattere quasi librettistico. Anche la struttura corale (mnogoloso p. 42), e il carattere performativo dell’opera, da leggersi espressamente “a voce non troppo alta”, “come un recitativo” (p. 37), sembrano confermare il desiderio dell’autore di ricongiungersi alle origini ancestrali della poesia, intesa prima di tutto come dialogo polifonico sul Bello (izjaščnoe) che dovrebbe trascendere la sfera dell’umano.

Prendiamo piuttosto il punto di vista dell’eternità,
allora diverrà chiaro che tutto, compresa
la sabbia dispersa del sahara
dai sette samurai,
si sistemerà, s’incollerà,
si riunirà, tornerà come prima
” (p. 49)

Se da un lato la danza linguistica” (p. 5) di Trittico si articola sul piano atemporale dell’Arte e nella dimensione ciclica dell’eterno ritorno, dall’altro il testo si pone espressamente come autentico documento umano” (p. 45), che in virtù del suo legame con la phonè, con la voce, o meglio, con le voci, acquista una portata etica. In quest’opera infatti, in modo ancora più radicale che nelle precedenti, la figura autoriale si dissolve nel respiro ritmico della scrittura e del verso, e, come il corpo dell’Uomo-Albero nel trittico di Bosch, si fa concavo per ospitare una moltitudine di personaggi e di voci, a cui guarda con un sorriso misto di malizia e rassegnazione, come se non gli appartenessero, come se provenissero, appunto, da altrove.

Nella vita come in Letteratura, Saša Sokolov esorta i lettori ad abbandonare le categorie prestabilite (“ci è assai di conforto che voi non siate di quei / linnei che gli insetti e gli uccelli, / sulla sola base che i secondi / sono alati sempre, e i primi talvolta, / li riducono al comune denominatore, / […]  ah, quanta ancora superficialità in loro, / quanto dogmatismo” pp. 67-69), orientandosi piuttosto verso una visione panteistica del mondo e dell’esistenza, in cui “qualunque cosa si prenda è correlata” (p. 73). Solo così si sarà in grado di pensare a folate, nello stile del vento” (p. 63), ma anche nello stile del fiume” (p. 65) e in quello del giunco; ovvero di uscire dalla monade del sé per divenire Altro.

In questo senso, Trittico rappresenta l’ultima tappa della ricerca dello scrittore, che porta alle estreme conseguenze il progetto di disgregazione della voce narrativa già iniziato nel suo romanzo d’esordio, La scuola degli sciocchi. Il risultato è una scrittura diafana e rarefatta che oscilla tra espressionismo astratto e preziosismo barocco, e in cui è talvolta impossibile stabilire con certezza quale sia l’argomento del discorso e chi stia parlando. Che sia, per esempio, la vedova di guerra trasformata in mosca in Gazibo, il compositore cinquecentesco Antonio Scandello, o ancora la signora ispanica che appare nel Filornita, personaggi e voci si accavallano e si confondono nelle pieghe del tessuto contrappuntistico dell’opera, che, nonostante gli appigli offerti dall’apparato di note che correda il volume, a un primo approccio può lasciare a dir poco disorientati.

Una possibile strategia per approcciare un testo di questo genere sarebbe forse quella di “tirare i remi in barca” e, inerti, lasciarsi trasportare dal flusso sonoro della scrittura, così come, del resto, l’autore stesso si lascia volentieri andare ad un’euforia puramente fonetica per la Parola, e per la sua capacità di generare associazioni inaspettate, personaggi ed episodi sempre nuovi. Questo entusiasmo si riflette, per esempio, nel leitmotiv dell’enumerazione e delle liste, che percorre in modo trasversale i tre “pannelli” di Trittico.

Già artificio principe del cosmo sokoloviano, liste ed elenchi vi svolgono una funzione opposta a quella che a loro viene solitamente assegnata, cioè invece di ordinare il discorso, hanno il compito di disperderlo ulteriormente, e di mostrare quindi il mondo e il linguaggio nella loro dimensione di caos e entropia. Ma poiché, si sa, i dettagli sono nella lettera” (p. 37), l’elenco particolareggiato, stilato lentamente, con cura e dovizia di particolari, diventa per esteso metafora delle Belle Lettere e, quindi, della creazione di quel Bello (izjaščnoe) che è al cuore della poetica dell’autore. Inoltre, come confermano i riferimenti ai papiri e alle antiche civiltà mesopotamiche disseminati per il testo, in Trittico cataloghi, liste, fogli contabili, registri e quant’altro si legano al tema dell’infanzia della scrittura, alle cui origini si trova appunto l’esigenza di enumerare ed elencare possedimenti e beni, e di rendere conto degli scambi commerciali.

In conclusione, non resta che augurare buona fortuna (e buon viaggio!) alle lettrici e ai lettori italiani che vogliano cimentarsi con un’opera tanto complessa e stratificata come Trittico. La traduzione della sokolovedka Martina Napolitano, fedele alla sostanza originale della lingua dell’autore, sarà di certo una guida preziosa per apprezzare a pieno la bellezza e la musicalità di questo testo fuori dal comune: un vero e proprio giardino delle delizie.

QUI l’articolo originale: https://www.andergraundrivista.com/2024/05/31/la-conversazione-infinita-trittico-di-sasa-sokolov/

Esercizi di sconcerto in versi volanti

Esercizi di sconcerto in versi volanti

di Mario Caramitti – ALIAS DOMENICA 5 MAGGIO 2024

Quanto è superata la forma mentis del Novecento? Quanto sono distanti da noi relativismo, disintegrazione e disseminazione del senso, panestetismo elitario? Può essere letto come un test in merito il quarto libro (in ottanta anni) del più raffinato e celebrato scrittore russo vivente, Saša Sokolov, Trittico (Triptich, 2011), edito in italiano da Miraggi (traduzione di Martina Napolitano, pp. 240, € 21,00) summa e consuntivo di una intensa parabola creativa della quale, dopo due decenni di silenzio, lo scrittore russo torna a riallacciare i fili, sospesi tra il modernismo faulkneriano (Scuola di scemi), lo sperimentalismo neoavanguardistico (Inter canem et lupum) e il postmodernismo (Palissandreide). 

Trittico si interroga e interroga anche noi su quale sia stata e sia oggi la strada dell’arte, su chi ancora è disposto a credere alla costruzione del bello in sé, svincolato da ogni fazione e mozione. In una Russia già affetta dal putinismo la risposta è stata desolante. Ma anche altrove il ritorno di uno scrittore un tempo leggendario ha avuto flebile eco, tanto che quella di Martina Napolitano, promotrice a livello internazionale del verbo sokoloviano, è la prima traduzione in assoluto. 

Tra prosa e poesia 

Il dubbio esito del test non è comunque ascrivibile al nuovo Sokolov, che non è mai epigono di se stesso e propone una chiave espressiva, fluida, sintetica, resa aerea dal ritmo. Perché, in primo luogo, Trittico è una sfida a cancellare definitivamente i confini tra prosa e poesia: dopo avere messo in tensione, in tutti i suoi libri, la prosa fino a un grado di densità fonico-espressiva così estremo da rallentarne la fruizione ben più che in poesia, lo scrittore russo opta ora per versi liberi meno compressi e esasperati della sua prosa; l’attrito si sposta tra semantica – vaga, astratta, eterea – e ritmo, che avanza a spire, in un afflato pressoché ininterrotto (mai un punto fermo) eppure placido, sobrio, non riconducibile a nessuna tipologia metrica (men che meno al sillabotonico della tradizione russa) ma intenso e trascinante, sacrale per la sacralità intrinseca che ha la parola in Russia e, al tempo stesso, ludico per ineffabile leggerezza.

Trino e uno, quasi a evocare un intrinseco agnosticismo cosmico, il libro è la sommatoria di tre poemetti, uniti e distinti secondo criteri imperscrutabili: il ritmo connotante non cambia, ma nel primo i versi molto lunghi tendono a avvilupparsi, a scorrere gli uni sugli altri, mentre nel secondo sono altrettanto lunghi ma dinamici, quasi volanti, e nel terzo si passa a versi brevi e scanditi. 

Il tessuto poetico è però inconfondibile e omogeneo, contraddistinto da catene allitterative che divengono autentiche macchie d’omofonia estese a più versi: per darne un’idea senza ricorrere alle pur eccellenti doti mimetiche della traduttrice, prendiamo «nelle trattorie di Rimini e Taormina», che è praticamente in italiano nel testo. Allo stesso modo, in assenza quasi totale di personaggi in qualche modo definiti (non ci sono neppure le maiuscole), gli argomenti di un poema sono presenti in misura ridotta negli altri, molti motivi sono trasversali a tutti e tre (e a tutta l’arte di Sokolov, salvo quello del catalogo, elenco, registro, fin tassonomia linneana, che è distintivo di Trittico). 

Il polilinguismo verte prima più sul latino e il greco, poi sul tedesco, infine sullo spagnolo e il sanscrito (sempre per flash, per isole, senza invadenza). Insomma, data la dominante musicale nell’immaginario e nella terminologia, si potrebbero intendere come tre pezzi, tre brani, suscettibili o meno di assemblarsi in sinfonia.

Il primo, Ragionamento, è una scansione pressoché ininterrotta del procedimento del catalogo, in primo luogo di riflessioni, di discorsi, e poi via via di lingue, forme d’arte, errori, o semplicemente fogli e documenti contabili. Superato lo sconcerto iniziale, ci si rende conto di essere entrati in un universo nel quale la comunicazione avviene principalmente in seconda persona, sia singolare che plurale (cui si aggiunge il «voi» russo di rispetto): da un lato il narratario è il soggetto, il «tu» eterno della poesia si autoflette, parla in realtà dell’«io», dall’altro si avvicenda un numero non identificabile né definibile di personaggi, che si chiamano, s’interrompono, si sovrappongono di continuo.

Ragionamenti differiti

La narrazione è straordinariamente fratta, si ha l’impressione di essere in qualche luogo imprecisato assieme a un numero sterminato di persone che dialogano. Il tempo, invece, è quello canonico di Sokolov, del tutto indistintamente presente, passato o futuro, un tempo in cui «la sabbia dispersa nel sahara/ dai sette samurai,/ si sistemerà, si incollerà/si riunirà, tornerà come prima». Al «ragionamento» principale, come prevedibile, mai si arriverà, anche se potremmo inferire che in qualche modo lo sono gli altri due testi. 

Nel secondo poemetto, Gazibo, il luogo è all’apparenza ben definito, il padiglione da giardino del titolo, con grafia modellata sulla pronuncia del termine inglese (che non esiste in russo); altrettanto lo è il tempo, dalle prime stelle al crepuscolo del mattino, durante il quale le voci alle quali siamo ormai abituati, e che in queste circostanze assumono da subito una connotazione ultraterrena, quasi vampiresca, discutono del bello in arte. 

L’intercambiabilità cronotopica assoluta è perciò accompagnata qui da alcune specifiche concrezioni: da una riunione di trovatori del 1111, alla Germania rinascimentale a una cornice tardo ottocentesca. C’è anche un abbozzo di personaggio, il musicista cinquecentesco Antonio Scandello, girovago per le corti tedesche, accostato o assommato all’Ebreo errante, proiettati entrambi sul destino esule del creatore, in termini assoluti e specifici (Sokolov è in emigrazione dal 1975). 

Solo qui troviamo una parvenza di intreccio, plurimo e mutevole, ma estremamente dinamico e coinvolgente: il racconto in prima persona di una vedova di guerra («io» è però ora lei, ora il marito) che dal bacio rituale in chiesa con uno sconosciuto passa senza soluzione di continuità a una maratona erotica quasi ininterrotta, alla quale il partner zoologo e/o musicista aggiunge continui tradimenti con le femmine di bonobo che ha messo a disposizione delle sue ricerche; alla crisi coniugale segue l’ospedale psichiatrico, l’arruolamento in un reggimento musicale e la morte mentre si esibisce in trincea.

La chiusa è un evidente climax, e il terzo testo, Il filornita, riparte da atmosfere più rarefatte, fondamentalmente una rappresentazione teatrale in un museo zoologico nel quale avvengono misteriose apparizioni, in primis di una «secca señora» ispanofona che è la dama-morte visitatrice comune a tutti i testi di Sokolov: l’addio non potrà perciò arrivare se non da un cicerone in gondola che salpa dall’isola di San Michele a Venezia, sacrario degli artisti del Novecento.

In italiano tanto incoercibile fantasia linguistica resta sorprendentemente viva grazie alla molto efficace e raffinata traduzione di Martina Napolitano, capace di reinventare con lecito arbitrio porzioni del tessuto paronimico e di innescare con raffinata sensibilità musicale la fascinazione sommersa del ritmo, che continua, come nell’originale, a trasmettere scosse e vibrazioni: «un contesto, un carattere, un tratto del continuum,/ un arto perso in corsa, un pezzo, volendo, di destino».

QUI l’articolo originale: https://ilmanifesto.it/sasha-sokolov-esercizi-di-sconcerto-per-versi-volanti

Recensione a L’animale nella fossa su Casadeilettori.blogspot.com

di Anna Maria Patti


Sii tu le rete che raccoglie 

le olive che cadono

io sarò l’ulivo”

La destrutturazione del linguaggio metaforico attraverso l’immagine: è questo il percorso poetico di Gaia Ginevra Giorgi.

Una sperimentazione che la porta a coniugare il dire con il vedere.

Non ci sono fratture tra queste parti e il soggetto finalmente torna intero.

Mente, corpo, parola, percezione in un intreccio lucido, bilanciato, molto espressivo.

“Oggi sono schiuma

sottrazione

cicatrice laterale – roccia

che frana”

La mancanza di punteggiatura, la scelta accurata del fonema creano una musicalità sacra.

E la sacralità è ricerca di geometrie e di linee e di colori.

Le pause sono respiri trattenuti, incanti, fluorescenze.

I ricordi frammenti di pulviscolo, i sogni evocazioni di un immaginario che sconfina nelle solitarie meditazioni.

“L’animale nella fossa”, pubblicato da Miraggi Editore nella Collana “scafiblù” è “il buio primitivo” di un’assenza, “il rischio del varco”, lo strappo.

È il bosco, la lacerazione, la luce del mattino.

È l’ombra, la possibilità, il confine tra selvaggio e domestico.

È la prosa che arriva senza preavviso, il ritmo accelerato della vita, la corsa verso l’irraggiungibile.

Bellissima la prefazione di Tommaso Ottonieri.

Il labirinto nel labirinto.

QUI l’articolo originale: https://casadeilettori.blogspot.com/2024/03/lanimale-nella-fossa-gaia-ginevra.html?m=1

Può un solco senza seme dare frutti?

Può un solco senza seme dare frutti?

Può un solco senza seme dare frutti? Quello di Luca Ragagnin sicuramente: frutti allo stesso tempo dolci e amari, succulenti e un po’ aciduli.

Un solco senza seme è un libro impossibile da classificare e complesso da approcciare. È una raccolta di scritture in versi, come recita il sottotitolo, o, meglio ancora, “scritture con gli a-capo”, come le definisce l’autore stesso. 35 anni di testi (1988-2023) pubblicati e inediti (come Mangimonio), ispirati ad antiche leggende (gli “oracoli caldaici”) o a malattie, sale d’aspetto e corsie d’ospedale, frutto di anni di lavoro di scalpello e continuo rimuginare o scritti di getto “abbarbicato su uno scoglio”.

Il lettore si immerge in questo viaggio nel tempo, un tempo intimo e personale, perché tutto ciò che accade e che il poeta mette in versi, anche se comune e universale, spesso fatto di quotidianità appartenenti a tutti, è filtrato sempre attraverso la propria personalissima esperienza, e naviga tra versi irregolari, scoscesi come pendii alpini, frastagliati come le nostre coste, irruenti come la risacca, rimbalzando tra rime e assonanze mai banali, che cullano e scuotono.

Quello che colpisce immediatamente è proprio la padronanza del verso, della metrica, l’alternarsi continuo di strutture differenti, che dietro l’immediatezza nasconde un elaborato labor limae (come Orazio, e il paragone non risulti blasfemo, che per le prime 10 delle sue Odi utilizzò 10 versi differenti). Spostandosi, così, tra le raccolte (il libro è una raccolta di raccolte, una summa poetica, Lu cunto de li cunti) sentiamo echi di ermetismo e decadentismo, simbolismo e surrealismo, ma anche la musicalità di certi poeti spagnoli (Fosfeni di bianco e poi bianco, scrive Ragagnin; Nel bianco infinito,/ neve, nardo e sale cantava Lorca).

Riemersi annaspando dal mare burrascoso di certi versi, rimaniamo ora abbagliati da improvvise illuminazioni (Radura che il sole attanaglia./La corazza della sorte/sepolta sotto il peso della luce), ora sprofondati in abissi senza fondo, travolti dalla tempesta e sopraffatti dal divino, sperduti nell’immensità del cosmo, annegati nel grembo (materno come della Terra, che tutti ci accoglie), ascoltando echi di tristezze e rimbalzando su silenzi assordanti. Andando avanti nella lettura, siamo costretti a fare i conti con la caducità dei nostri corpi, il nostro essere fatti di atomi esattamente come tutta la realtà che ci circonda, vediamo i segni del tempo e della malattia sulla pelle e sulle ossa, miseri corpi abbandonati e prostrati (la carne ha fatto naufragio in terra straniera), ma anche nelle nostre anime, di cui, al contempo, sondiamo le profondità e ammiriamo le mille sfaccettature, attraversiamo il luogo capovolto della morte. Oscilliamo, assieme all’autore, tra bisogno di amore e d’appartenenza e senso di solitudine (sono solo come un boia al termine del giorno….Peggio sarebbe ritornare ancora/in mezzo alle persone./Ma la mia solitudine/ha un numero da circo) e ci imbattiamo di frequente in inni alla luce, ma soprattutto alla voce, alla parola, strumento principe con cui affrontare le nostre piccole e grandi sfide quotidiane e spesso difesa unica contro i mali del mondo (Si he perdido la vida, el tiempo, todo/lo que tiré, come un anillo, al agua si he perdido la voz en la maleza,/me queda la palabra)[1]. Ma, in fondo, non c’è differenza tra luce e parola, tra buio e silenzio, i sensi si confondono (il nostro canto…si distingueva appena dalle ombre).

Ricerca, scoperta (scavare, cercare viaggiare, navigare, annegare, perdersi in antri oscuri, grotte, recessi) e rimedio (ferite, lame, solchi, fessure, ma poi corde, lacci, suture, incollaggi, cucire le feriterilegatore di anime) sono temi ricorrenti nell’opera, che oscilla, appunto, tra il viaggio, fisico e spirituale, e l’aspirazione a riparare a colpe proprie e altrui. 

E navigando tra le poesie sorge all’improvviso, come uno scoglio non segnalato, un Atto unico, anzi, un Misfatto unico, rappresentazione tragicomica della razionalità portata all’estremo, scevra da ogni contatto con la realtà, scarnificata, ridotta all’essenza del pensiero matematico, ragione pura, sofismo senza sbocco, assassinio del sentimento. J’accuse contro la ricerca esasperata della perfezione fine a stessa, senza limiti e condizioni. Riflessione amara sull’impossibilità di qualsiasi cambiamento, sull’incapacità di comunicare, sull’inevitabile condanna alla solitudine e al vuoto.

Attraverso percorsi sempre privati e personalissimi, che prima dei fatti mostrano un proprio vissuto, le proprie esperienze che appaiono quasi per caso comuni anche a tanti altri, andiamo, poi, alla scoperta, o riscoperta, di titoli e personaggi, che, dallo schermo delle TV, hanno attraversato e raccontato mezzo secolo di storia italiana, perché niente meglio della televisione rispecchia l’evoluzione (o l’involuzione) del nostro Paese e degli italiani nel secondo dopoguerra.

E di qui approdiamo al cinema: schizzi e bozzetti, immagini e musica, di un mondo meraviglioso, popolato da personaggi straordinari, eppure intimamente familiari, ritratti sempre con uno sguardo partecipe.

E la musica a dettare i tempi di ogni strofa, a dare il ritmo a voci e ricordi, un ritmo pieno di variazioni, un alternarsi di arsi e tesi, a trasmettere la sensazione che tutta l’opera sia intrisa di questa passione difficile da tenere a freno e che trova la propria consacrazione nell’ultimo “capitolo” Trentawatt (che a me fa venire in mente un piccolo amplificatore).

Anche la scrittura trova qui la sua apoteosi, in una forma assolutamente originale: brevi saggi in bilico tra versi e prosa.

Un’immersione, dunque, nella musica, sguazzando tra i generi (dal rock alla classica, dal jazz al pop) e al contempo sorvolandoli alla scoperta di suoni e sfumature, trasportati dal ritmo di versi che di volta in volta si adattano all’artista celebrato e dal calore di una passione che non vede cali di tono.

Orazioni che ci lasciano penetrare nelle vite e negli animi di musicisti e movimenti che hanno segnato, ciascuno a suo modo, la propria epoca. Personaggi fuori dal coro, originali, spesso irriverenti, come la scrittura di Ragagnin, sovente contro, come gli Henry Cow. È proprio il brano dedicato a questi ultimi (La calza di lana o di ferro) che rappresenta, almeno per me, appassionato dell’Underground inglese a cavallo tra la fine dei ’60 e i ’70, la vetta più alta toccata dall’autore: una celebrazione senza fronzoli, schietta, al contempo lucida e appassionata, di una band straordinaria.

A quasi cinquant’anni dal loro scioglimento, rimangono i portavoce della libertà mischiata al piacere, i depositari della genialità del rock, i proprietari del vero e sincero donarsi all’udienza con tutti i mezzi tecnici e umani possibili.

[1] Blas de Otero – En el principio

di Fabio Sarno


QUI l’articolo originale: https://www.exlibris20.it/un-solco-senza-seme-di-luca-ragagnin/

Poesie dal campo di concentramento – recensione di Antonella Lucchini su Mangialibri

Poesie dal campo di concentramento – recensione di Antonella Lucchini su Mangialibri

“Rettangolo di muri di pietra / un quadrato di ferro il cancello / serrato dal cielo lontano, / in alto il filo spinato: / questo è il nostro giardino, questo il nostro campo”: così il poeta descrive, con la forza della poesia, la sua prigionia, che non è solo fisica ma interiore, metafora del corpo recluso ma anche della mancata libertà morale, di espressione, giacché il regime nazista era già al potere, e aveva iniziato a colpire gli intellettuali dissidenti. Altro riferimento agli avvenimenti che stavano formando la Storia di quel tempo: “…tu vorresti che questo mondo fosse più felice / che vi si possa discernere il bene / e non dover gridare di terrore…/”, un “tu” generico che prende tra le sue braccia tutti gli individui, un “tu” universale. Sembra esistano due velocità del tempo: “Il tempo si trascina sui miei giorni troppo lento, / così pesante che a terra li schiaccia…niente porta via e indugia/tempo troppo, troppo lento” quando si è rinchiusi in uno spazio circoscritto che rende angusto anche lo scorrere dei giorni mentre, potendo godere della libertà, del lusso di vivere il quotidiano comune la velocità è diversa “Tempo…dov’è il tuo passo feroce…dov’è la fretta e la furia”. Cosa può ristorare questo tempo che va a velocità dimezzata, se non le piccole cose, quelle che seppur minime, toccano e per un istante risollevano l’anima del poeta prigioniero? Anche solo un cielo terso, dove le nuvole sono “visioni di paradiso!…promesse di portenti, peccato però, /peccato che così fuggitive… / si disperdano subito in un niente”, una pausa troppo breve “mentre la miseria senza sponde e fondo / non si disperde, non svanisce, ma quaggiù immota dura”, in un luogo dove anche la poesia sovente perde il suo valore, la sua utilità (Smettila, grillo, con quel tintinnio / cosa cerca qui la tua canzone? / qui, tra le mura della prigione il tuo gaio canto / pace e calma finge ove è rinchiuso muto compianto”)…

Il poeta ceco Josef Ĉapek nasce nel 1887. Artista eclettico, si dedica prima alla pittura (dopo un soggiorno a Parigi dove frequenta l’ambiente del postimpressionismo, tornato in patria è tra i fondatori del gruppo dei Testardi), poi alla scrittura: pubblica qualche racconto e saggio sulla pittura, ma il suo contributo più importante resta il romanzo/trattato Il pellegrino zoppo (1936). Parallelamente diventa redattore del quotidiano “Lidové Noviny”, organo di stampa del partito nazional-liberale da dove mette in guardia dall’avanzata del nazismo. I suoi interventi attirano l’attenzione della Gestapo che, nel settembre 1939, lo arresta. Ĉapek subisce diversi trasferimenti, in prigioni e campi di concentramento. Morirà di tifo nel campo di Bergen-Belsen nel 1945. È proprio durante la sua detenzione che scrive tutte le sue poesie, giunte a noi grazie ai suoi compagni sopravvissuti che le hanno portate con loro una volta liberati. Ciò che colpisce, leggendole, è la grande capacità di far “vedere” i versi, di visualizzare le immagini che descrive, di sentirle parte di una realtà vissuta che, proprio perché vissuta, ha una potenza davvero rilevante. Pur essendo una poesia soprattutto descrittiva, non perde la sua valenza lirica e mantiene un lessico interessante, variegato, non scade nel languido o nel vittimismo. Non è uno stile barocco, l’aggettivazione è dosata. Da sottolineare inoltre l’assenza di versi rivolti agli aguzzini, il centro delle sue poesie è l’uomo, spolpato della sua libertà, immerso nella sporcizia e nel fango dei campi di concentramento, ma ancora capace di stupirsi della natura (vedi la poesia Nuvole), che mantiene ancora la sua dignità perché attento a mantenere la sua anima salda e presente, viva e pulsante. Poesie che restano dentro, come deve essere.

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Volevamo salvarci – recensione di Roberto R. Corsi

Volevamo salvarci – recensione di Roberto R. Corsi

Petr Hruška, Volevamo salvarci

Un volume di recentissima uscita per i tipi di Miraggi Edizioni ci propone un ampio percorso antologico nell’opera di Petr Hruška (1964), uno dei più importanti poeti cechi. La traduzione e la cura sono affidate a Elisa Bin, che già nel 2017 aveva tradotto lavori di Hruška, e che qui firma un saggio ampio e pregevole a introduzione di queste poesie (selezionate, apprendiamo, dallo stesso Autore) e prose brevi. L’opera di Hruška è caleidoscopica, piacevolmente complessa, e proprio al contributo di Bin rimando per l’approfondimento dei moltissimi leitmotiv e dettagli. In questa sede non posso che limitare la mia analisi ai punti che ho avvertito come più salienti o miei.

Dovessi intanto individuare un fulcro, lo indicherei proprio in quella “collisione”, citata dalla curatrice, tra dettaglio realista e condizione umana. Se l’attenzione del lettore può soffermarsi sulla robusta motrice oggettuale, Williamsiana (“no ideas but in things”), a volte quasi catalogatrice, nei versi, tuttavia già dalla prosa di apertura lo scrittore punta il binocolo verso quel brulicare di esseri umani in azione, “lo sconosciuto affaccendarsi di ciascuno (…) pur di non restare soli, perdio, almeno un momento” che “non smette di incantarmi” (pp. 23-25). Lo sguardo del poeta è lucido nel denunciare, in rapporto e in risalto con la fredda concretezza delle cose e degli ambienti (due volte da Bin definiti “prosaici”, credo nel senso di “ordinari, quotidiani” usato da Hruška a p. 175), l’insignificanza dell’umana industriosità e come questa, alla radice, sia determinata da una enorme antropologica solitudine e senso del vuoto. Il rimedio, o piuttosto il lenimento, non è visto però nel Pascaliano starsene tranquilli nella propria stanza, ma anzi nell’intensificare questo “sentirsi vicini” (p. 147); a costo – Kafka docet – che esso si riveli non più di un “venirsi incontro senza mai incontrarsi” (p. 157). Meritoriamente, i riflettori di Hruška illuminano spesso gli ultimi o gli anonimi, e ciò rende ancora più chiaro il suo istinto solidale.

Sul piano stilistico, Hruška adotta un verso libero e asciutto, antilirico; con una certa attenzione per anafora o ripetizione del verso/stanza, e un marcato interesse poematico: ci sono microcicli (LuglioE ho visto…), e in questa autoantologia compaiono ampi estratti di una raccolta (Di nessuno) incentrata sulla figura di Adam, un archetipo di giovane uomo “mai coordinato con le dinamiche umane” (Bin).

Non mancano alcune suggestioni lusitane: nella poesia Giardino compare la “pioggia obliqua” Pessoana e la prosa L’identico getta idealmente un ponte verso L’uomo duplicato di Saramago.

Tutt’altro che prive di interesse proprio le prose brevi poste prevalentemente in coda al volume. In esse trovano uno spazio maggiore ironia e sarcasmo, ma soprattutto si palesa più chiaramente un atteggiamento combattivo nei confronti di ogni autocompatimento (Disperazione) o assuefazione alla noia (Le scuole); il libro si conclude con la convinzione gnomica che la qualità della vita sia per gran parte determinata dalla nostra capacità di accordarci con ciò che non conosciamo.

*** 

VEDRAI

Voltati
guarda dove hai dormito ieri
e vedrai la provvisorietà più assoluta
la carcassa sottile della coperta
la stropicciata postazione di lavoro
l’acqua sinistramente vecchia nella tazza
vedrai i tuoi sforzi
di essere
e di sopravvivere
e il sogno che tutt’a un tratto
ti ha strattonato
e il deserto che nel frattempo si è allargato
in tutte le direzioni
dal tuo accampamento
e te stesso che ti sei tirato su
e ti sei posto di nuovo
contro la terribile velocità della luce

*

VERSO SERA

Con decisione improvvisa
la mano di un senzatetto
impressa in nero
sul duro peltro del cielo indica


Tanto che dolgono gli occhi
Dove può ancora esserci
un qualche là

*

AL DI LÀ DI TUTTO

furiose case ai margini della città
un cane beve più che un uomo
una recinzione
scorticata come un eczema
nella discarica un mappamondo sfondato a calci

*

FIGLIA

Spero che mi investa un’auto
mentre vado
a prendere il pane!

hai gridato
verso l’interno di casa

Per tutto il tempo
finché non sei tornata
la vita è stata in me ritta e
austera
in stile dorico

Ora mettiti a tavola
prendi il burro
duro e bianco come un muro
e preparati:

sarà un lungo pasto

*

PASSANTE NOTTURNA

La riconosco dall’andatura,
dalle borse.
Arriva fino alla fine della via notturna
e scoppia a ridere
come sopra all’abisso.
Come se sapesse
che non c’è modo di proseguire oltre
e lei stessa
dovrà creare ora
la prosecuzione intera
di questa città folle,
che nel mattino ha un aspetto così convincente.

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Pagina bianca – recensione di Gabriele Ottaviani su Convenzionali

Pagina bianca – recensione di Gabriele Ottaviani su Convenzionali

anonimato fantasma fantasma. spettro spettracolare. farsi il pensiero poi ricorda. per mancanza di padre. ricordare il dolore persistente al torace. immagina impossibile. una doccia. fare la spesa. saluta la vicina il marito appena circuiti. diventa di ritornare. cucinare prendere il treno. andare dimesso. dall’ospedale non dover morire ora. peregrinare altrove telecamere stanze a pistoia via firenze rifredi. scorre sotto il cielo una vena sottile sotto la pelle. immaginarsi. più che immaginare. svegliarsi e morire.

Pagina bianca, Gianluca Garrapa, Miraggi. Originale sin dall’impaginazione, Pagina bianca di Garrapa, che collabora con molte testate, come Sul romanzo, Psychiatryonline, Puntocritico, Poetarum Silva, Nazione Indiana, L’immaginazione e Culturificio, è la raccolta di un autore che tra l’altro, evidentemente con pieno merito, si è aggiudicato riconoscimenti prestigiosi in occasione del premio Pagliarani del duemiladiciassette e due anni fa nella cornice del Celan, ed è la riuscita, intensa e policroma rappresentazione simbolica della fragilità umana che si manifesta nella reboante contraddittorietà delle tensioni in cui ogni individuo si imbatte nel corso del proprio cammino esistenziale, volto alla realizzazione. Da leggere.

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POESIE CON KATANA – recensione di Federico Preziosi su Exlibris20

POESIE CON KATANA – recensione di Federico Preziosi su Exlibris20

A dispetto della simpatica e tenera copertina, ciò che emerge sin dalle primissime pagine nella lettura di questo libro di poesie targato Alessandra Carnaroli, edito per Miraggi edizioni, è proprio “lo stile katana”, inteso propriamente come una versificazione che affetta, si precisa, non in senso sentimentale.

Non si parla di un’opera infatuata della cultura proveniente dal Paese del Sol Levante e pregna di esotismo, almeno non per quanto riguarda le tematiche tradizionaliste o la cultura tecnologica che ha reso il Giappone appetibile al gusto occidentale. Quella che ci viene presentato da Alessandra Carnaroli è una poesia dal taglio (perdonate il gioco di parole) tagliente, più vicina alle suggestioni della letteratura e del cinema pulp che alla rappresentazione di spietata bellezza tipica della cultura nipponica.


Nell’epoca globale le forme si svuotano di significato, la tradizione perde ulteriori colpi e il parodiare sa essere un’arma di rappresentazione dell’attualità tremendamente efficace, spesso in modo paradossale ben più credibile di forme che amano definirsi serie, dunque in controtendenza a ciò che il Sommo Poeta dichiarava in uno dei suoi celebri Canti: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza». Niente di nuovo su questo, sono ormai secoli di messa in discussione della tradizione in poesia, di rappresentazione del brutto che diventa sublime: lo hanno fatto I Fiori del Male di Baudelaire o l’Impeto incendiario del Palazzeschi futurista, eppure Alessandra Carnaroli mette in atto un’operazione intelligente a cui va dato interesse per l’allusione formale (e quindi non un vero e proprio rimaneggiare) e la freschezza sostanziale dei versi.

Partiamo dalla prima sezione del libro, Carico e scarico, in cui la forma si fa brevissima, tanto essenziale quanto sferzante. Il verso scarno non perde quasi mai efficacia e fa della propria immediatezza un formidabile punto di forza: difficile non richiamare alla mente quelle forme che hanno fatto la fortuna della poesia giapponese, come l’haiku o il tanka, ma qui non c’è bellezza né sublime, non c’è stagione né elemento naturale, soltanto la dura realtà di una prostituta nigeriana costretta a fare la vita di strada in Italia.

26
d’inverno accendiamo
un fuoco
vicino la strada

urlano
vi prende fuoco il culo
allora rispondiamo
vieni a buttare
liquido seminale

30

sei fortunata da
essere in italia
se restavi
in nigeria
avevi la polio

qui mi trombano
sul sedile di una
polo

42
metti il preservativo
hai famiglia

non lo faccio per te
ma per mia moglie incinta

non voglio attaccarle
la tua faccia da banana

fargli venire un
figlio
con una voglia strana

In queste poche “gocce” (ce ne sono ben 127) si scorge uno spiccato e giocoso gusto per la critica diretta alla società italiana, a un maschilismo soffocante e a un sistema di dominio che impedisce il cambiamento della propria condizione di vita, questione che vale per la classe media e che, con maggiore drammaticità, si riflette nei riguardi degli individui ai margini. Nei versi domina un certo sarcasmo che si lascia accompagnare dalla leggerezza pur dissacrando le parvenze: così l’amore a pagamento abbraccia una miseria collettiva in cui l’affermazione personale è strumento di desiderio imprescindibile e irrinunciabile sia per poveri sia per chi gli insoddisfatti dalla vita. Un ritratto non proprio lusinghiero che punta il dito contro l’ipocrisia di tante persone, coloro che amano l’oggetto del disprezzo, a patto di poterlo a possedere. Non c’è spazio per i sentimenti, l’io poetante saggiamente immedesimato non fa del vittimismo: la sua è un’operazione verità focalizzata sul reale senza peli sulla lingua, che in poesia è sempre un grande rischio in quanto il linguaggio e la forma sono tutto. Nonostante tutto, forte di questa ragione e con un incedere diretto e volutamente sghembo, si conquista la fiducia e la simpatia del lettore.

La seconda sezione, “Murini / Inserisci un emoji”, mette in campo altri elementi linguistici e stilistici che si lasciano apprezzare. Innanzitutto vi è l’emulazione di un linguaggio approssimativo tipico dei social network che quotidianamente alimenta lo stucchevole flood di pressappochismo spicciolo o, nella peggiore delle ipotesi, veterocomplottismo in salsa negazionista. Lo scenario su cui si muove la poesia di Alessandra Carnaroli resta sempre la critica alla società, ma stavolta l’io poetante non è vittima, bensì vittimista. I componimenti, inoltre, presentano un elemento espressivo probabilmente inedito e decisamente originale: la descrizione degli emoji, inseriti in alcuni versi, quasi come a voler ridicolizzare ulteriormente il contenuto del testo. Vediamone un esempio:

ci vogliono togliere i figli
lo stato

omicidio legalizzato / diavoletto faccia arrabbiata

verranno quando invecchiamo
a toglierci i figli
che si ammalano

o amputati / due facce spaventate

come guardie zoofile
sulla panda verde
con i cani alla catena
i nostri figli tolti dalla cuccia

per due pulci
sulla schiena / grrr gatto orso coniglio iena


L’espediente del corsivo è godibile alla lettura non solo in senso descrittivo e parodistico, ma soprattutto sonoro (arrabbiata che fa da eco a stato e legalizzato, oppure iena che richiama catena e schiena). Si noti, inoltre, anche un gusto stilistico che nella rapidità trova i propri inceppamenti, tipici di quei contenuti poco ponderati, di pancia, tirati fino al punto di toccare anche questioni insensate. Eppure questo approccio si rivela vincente e dà valore ai versi di Poesie con katanaun lavoro ben calibrato, leggero sì, ma ben curato. Di certo non esprimerà un alto valore morale, ma gli è congeniale uno sguardo peculiare circa il ruolo della poesia civile oggi, nuda e senza retorica.

la vita dei deboli
non ha valore / sigh sigh

si salvano solo gli immigrati
dai barconi

scambieranno i bambini italiani
con i cinesi copiati / alieno alieno

diventeranno un serbatoio di organi
da trapiantare
per il mercato orientale
lacrima lacrima faccina triste occhi cuore spezzato orecchio naso

Qui l’articolo originale:

PAGINA BIANCA – recensione di mariaannapatti su CasaLettori

PAGINA BIANCA – recensione di mariaannapatti su CasaLettori

Giochi di parole che in “Pagina bianca”, pubblicato da Miraggi Edizioni, formano disegni.

La scomposizione del verso crea movimento, non rispetta il rigo, si muove su linee immaginarie.

“È la rima che guasta e la festa si arresta.”

Una sperimentazione linguistica che propone immagini di “gente quanta gente.”

Incontro casuale mentre “la musica alta” individua l’incapacità di comunicare.

Le acque, i castelli, “il fruscio del bosco di pini. e tufo d’antichi desideri”.

La punteggiatura è esercizio senza regole, esperienza di libertà.

Profumi mediterrani che scavano assenze, streghe e sciamani mentre “il cielo è un prato di calendule bianche, da lontano.”

Gianluca Garrapa è un eclettico affabulatore e nella prosa intercalata alla lirica si libera di schemi e figure allegoriche.

La sua è conquista di un linguaggio nuovo che recupera il suono del fonema.

“Stagione in cui tutto resta imprigionato nell’ombra.

Percosse.

Alcolico intruglio.

Schiamazzate di ragazzi col casco infilato sotto il braccio.”

La provincia nelle notti sfrangiate di desideri, nelle stelle che sembrano vicine.

Il dialetto segna il confine del ricordo di una terra amata con quel dolore antico di chi parte.

“Una sedia due ombre l’amore.”

In una frase si concentra la fugacità del sentimento.

Il lettore si perde e si ritrova, segue percorsi interiori, percepisce la malinconia.

“Immaginarsi. più che immaginare.”

È questa la rivoluzione proposta dall’autore, liberarsi da ogni ingombro lessicale e culturale ed entrare nel nucleo profondo dell’essere.

Un libro che riserva molte sorprese, una sfida per tutti noi che non riusciamo a cogliere la differenza tra solitudine e moltitudine.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

E DENTRO LUCCICA – intervista a Giulia Fuso a cura di Antonio Esposito su Rivista Grado Zero

E DENTRO LUCCICA – intervista a Giulia Fuso a cura di Antonio Esposito su Rivista Grado Zero

In questi giorni ho avuto modo di scambiare due chiacchiere con Giulia Fuso, attenta lettrice e autrice di due volumi di poesia, pubblicati per Eretica edizioni e Miraggi edizioni.

Giulia, presentiamoci. Nelle prime pagine del tuo Tu che dismetti mai le cose Jaime Andrés De Castro dichiara che per conoscere bene un poeta non basta leggerne l’opera, ma che bisogna provare a conoscere la persona che sta dietro le parole scritte. Però, ammettiamolo, non a tutti è data questa possibilità, quindi ti chiedo di mettere da subito le cose in chiaro: chi è l’“io” che appare nei tuoi versi? chi il “tu” a cui ti rivolgi? E come possono le parole annullare la possibile distanza tra autore e lettore?

Le parole non annullano in alcun modo la distanza autore lettore, distanza che a mio avviso è necessaria a volte. Perché dovremmo volerla annullare? La mia esperienza poetica è singolare così come lo è la tua. Capire le parole non è capirsi, né tanto meno entrare in sintonia. Al limite arricchirsi aggiungendo contenuto, cosa che ricerco spesso nelle letture che faccio. Da questo punto di vista non risulta necessario nemmeno spiegare il mio “io” e il mio “tu” che sono solo veicoli e hanno spazio marginale. Quello della poesia aperta è un discorso lunghissimo, ma resto convinta del fatto che spiegare non sia necessario, a volte auspicabile, altre decisamente superfluo.

Per questa chiacchierata ho letto entrambe le tue raccolte: E dentro luccica (Miraggi, 2017) e Tu che dismetti mai le cose (Eretica, 2018). In entrambi i casi l’approccio è stato quello del curioso, rimasto però, folgorato dall’immediatezza dei versi, dalle immagini nitide evocate e dalla loro composizione. Oltre ciò mi ritrovo, a malincuore, a dover confessare di non essere un buon lettore di poesie. Le poche volte che mi capita attingo a quella classica e mi oriento male in quella contemporanea – pur vivendo e godendo d’improvvise scoperte. Mi sapresti dire, secondo te, come può orientarsi nel maremagnum editoriale chi non frequenta questa forma? Quali sono le riviste, gli autori e gli editori di riferimento per chi come te pratica poesia oggi?

Qualche giorno fa parlavo con un amico che mi diceva intendere la poesia come una grande baraonda, ecco questo può essere un buon punto di partenza. Parlare di poesia è complesso e io non me ne sento mai in grado perché quando c’è vastità è necessario conoscere e conoscere è sempre fin troppo relativo per i miei gusti. Il mondo social ci ha sicuramente aperto una bella porta, in fondo si tratta di una vetrina a cui tutti accedono. Il rischio ovviamente è di ritrovarsi e leggere di tutto, dove non c’è un “criterio di ammissione” passami il termine, alcune volte viene a mancare la qualità. Questo però è un discorso semplicistico che non mi va di far mio più di tanto perché credo anche che la maggiore quantità di porte aperte diano maggiori scenari da analizzare e del buono si trova sempre. Conoscere così è una bella onda di ritorno.
Si può dire che per chi non ha mai frequentato il meremagnum della poesia sia necessario perdersi per entrare? Io non mi ricordo come ci sono arrivata, non parlerei certo di formazione scolastica però. Credo di aver iniziato ad appassionarmi per caso, comprando un paio di libri che ora non comprerei mai per esempio, ma tutto serve. Impossibile non nominare la Bianca Einaudi se si parla di poesia, a cui si aggiungono case editrici come Nottetempo e Marcos Y Marcos se parliamo di nomi più noti. Eretica, Pietre vive, Interlinea, Interno Poesia, Aguaplano sono altri nomi che mi vengono in mente e da cui attingo spesso.
Vittorio Lingiardi, Dario Bellezza, Giovanni Gandini, Mario Benedetti e Ivano Ferrari sono nomi che mi sento di fare, potresti iniziare da qui ma sono un puntino di partenza piccolo e questo è da intendere. Poi i classici si sa, vanno letti. (Sono un po’ provocatoria).

Nella tua scrittura c’è un rapporto diretto con la realtà: i gesti, gli oggetti, le sensazioni, le emozioni, attingono alla vita di tutti i giorni. E lo fanno in maniera diretta. Alessandra Piccoli ha parlato di “poesie take-away”. Tu come definiresti la tua produzione? C’è una linea di discendenza in cui provi a collocarti? Quali sono i tuoi riferimenti culturali?

Non mi colloco, non riesco ancora. Trovo tutto fin troppo nebuloso quindi evito di star qui a parlare del nulla. Il riuscire a definire la mia produzione è un passo che spero di riuscire a far presto, ma ora non è una necessità.

Nel tuo vocabolario interiore, quale definizione c’è alla voce “quotidianità”?

Per me quotidianità è confidenza. Sono una persona che adopera le mani e che crede fermamente che la misura delle quotidianità sia data dalla confidenza che si riesce a raggiungere con quello che si fa e forse con quello che si è. Il conoscersi è una scala a salire, ma approcciare con noi stessi è ancora l’unico modo che abbiamo per trovare equilibrio. Faccio meditazione e la trovo necessaria per riuscire ad andare avanti.

La tua ultima raccolta poetica risale a due anni fa, eppure chi ti segue sui social sa che stai continuando a scrivere: dove ti stanno portando i nuovi componimenti, hai un altro libro in cantiere?

I due libri che ho pubblicato sono usciti a distanza ravvicinata, ad un anno l’uno dall’altro. Non è stata una scelta, non la definirei tale. Credo piuttosto di averne avuto la necessità perché al tempo andavo veloce.  Non ho mai presentato i miei libri, né il primo né il secondo, non ne ho mai parlato davanti a un gruppo di persone e mi risulta tutt’ora difficile farlo. Quello che mi sono riproposta prima di pubblicare un altro libro è di conoscere meglio me stessa e superare alcuni punti cruciali che mi impediscono di essere come vorrei. Nessun segreto quindi, voglio solo imparare a conoscermi prima che lo facciano gli altri in modo da sentirmi completa.
Sì, c’è un file pronto da essere letto, ci sono tante parole che per il momento però restano dove sono.  Credo che sia un lavoro diverso, spero sia anticamera di una crescita ormai necessaria.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.rivistagradozero.com/2020/06/02/intervista-i-versi-del-quotidiano-di-giulia-fuso/amp/

CARA CATASTROFE – intervista a Felicia Buonomo di Ivana Margarese su Morel Voci dall’isola

CARA CATASTROFE – intervista a Felicia Buonomo di Ivana Margarese su Morel Voci dall’isola

Comincio col chiederti del titolo Cara catastrofe.

Prima di motivare la scelta, vorrei dire che Cara catastrofe è un titolo preso in prestito da un brano di Vasco Brondi, un musicista che amo molto. Abbiamo scelto questo titolo perché la raccolta narra, in versi, di una catastrofe emotiva, che – come di frequente accade – diventa cara, si abbraccia. Spesso, quando si vive il dolore, ci si culla in esso, ci diventa familiare. Ma non è solo questo: cara, perché è solo – io credo – attraversando la sofferenza che la si può superare. Negare il dolore non ci salverà da esso. Lo si deve guardare in faccia, farci i conti. A tal proposito, mi vengono in mente dei versi di Friedrich Hölderlin: «Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva».

Mi è molto piaciuto il riferimento a una geografia emozionale : “m’innamori come il gelo sul lungolago di Mantova, le luci dei lampioni di Milano, le onde sul porto di Genova e la strada oscura dei vicoli di Napoli”.

Come molte persone che fanno – o tentano – l’arte, sono “ossessionata” dalla bellezza. La cerco nelle parole, certo. E nei luoghi, che matericamente la rappresentano. E, mai rinuncio a cercarla nelle persone, che delle parole sono gli autori e dei luoghi gli abitanti. L’immagine utilizzata in questo componimento, tenta di racchiudere il percorso di questa mia ricerca. Metterla in apertura della raccolta, mi sembrava potesse rappresentare una sorta di dichiarazione d’intenti.

In una tua poesia parli dell’inciampare di fronte a chi si ama come se si fosse qualcuno che entra in scena senza avere provato la parte. Questo essere goffi e senza difese mi ha ricordato una poesia di Saffo in cui lei guarda la donna che ama del tutto sopraffatta, la lingua le si spezza, gli occhi non vedono, non sente ed è scossa da tremore.

Tutta la silloge è permeata da questo senso di inadeguatezza dell’io “narrante”.

Tanto nell’inconsapevolezza di ciò che verrà (incarnata nella prima sezione), quando si è scossi dal tremore delle emozioni. Quanto nel momento della presa di coscienza, che con forza cerco di rappresentare nel corpo centrale della raccolta, dove la voce diventa urlata, viscerale. Al centro c’è il tema amoroso, che diventa tuttavia un espediente per raccontare moti interiori, universi emotivi, di fronte a qualcosa che crediamo di non saper governare, che può essere l’amore, ma anche la violenza, o l’esperienza dell’abbandono. Tutte e tre in qualche modo sono esperienze “traumatiche”, capaci di segnare una frattura interiore, che – questo è il mio tentativo – attraverso il linguaggio poetico si tenta di sublimare.

In questa tua raccolta di poesie il legame diventa sottrazione, tormento, punizione, soffocamento. Vorrei un tuo pensiero sul complesso tema della violenza verso le donne.

Con il mio lavoro di giornalista mi sono occupata a più riprese di violenza sulle donne. Quella vissuta dalla “vicina di casa”, che troppo spesso ignoriamo. Ma anche affrontando fenomeni sconosciuti nella nostra cultura, quella occidentale, penso ad esempio alla pratica dei matrimoni forzati. Nella seconda sezione della raccolta, più che altrove, assumo dunque il ruolo di testimone. Raccogliendo alcune testimonianze (in alcuni casi dirette, altre per interposta persona), ho tentato di traslare in versi un certo universo di sofferenza declinata al femminile, per cercare di fare luce su dinamiche di violenza che esistono e che spesso sono macchiate dall’omertà, dal pudore e senso di vergogna della donna stessa, e – spiace dirlo – dai luoghi comuni. Si pensa alla donna che vive dinamiche di violenza domestica come a una donna fragile. La narrazione della violenza sulle donne dovrebbe cambiare: si dovrebbe parlare, invece, della forza di queste donne (e qui cito un’intervista che ho fatto a Lella Palladino, ex presidente della rete D.i.Re – donne in rete contro la violenza) di aver vissuto un tale dolore e della loro capacità di uscirne, di riprendere in mano la propria vita. La terza sezione della mia silloge, infatti, si concentra sull’esperienza dell’abbandono, che è anche un abbandono da qualcosa, per approdare finalmente a se stessi.

Vorrei una tua riflessione sulla parola vittima.

Credo ci siano due terreni di esplorazione teorica (e anche pratica) intorno alla terminologia che ruota interno alla parola “vittima”. Ci si può considerare vittima, e lo si può essere. In una dinamica di amore disfunzionale o violento, spesso la proporzione poggia su una parte che incolpa e nell’altra che si sente immotivatamente responsabile. Nel corpo centrale della raccolta, ho tentato di fare un lungo lavoro sul concetto di colpa. L’occasione per lavorare su questo concetto l’ho avuta ascoltando la storia di Celestine, una ragazza africana, vittima di matrimonio forzato. Ero in Benin per girare un video-reportage, Celestine è una delle tante donne vittime di questa pratica. Quando mi ha raccontato la parte più intima della sua storia, ovvero di aver concepito i suoi tre bambini con la forza, spesso combattendo per opporsi, stringeva tra le mani il crocifisso che aveva al collo; e senza remore mi ha confessato di sentirsi in colpa. Sentiva la colpa di essere vittima del suo carnefice. Ho capito che quando si raggiunge lo zenit della sofferenza si sente la necessità di trovare un colpevole e quanto sia facile trovarlo in se stessi. Ed è qui la disfunzione, la dismorfia dell’amore malato o imposto.

Hai una tua personale definizione di felicità?

La felicità è poter scegliere. Un’esistenza infelice è quella nella quale si è soggiogati; quando l’altro da sé diventa condizione di sé. Si può essere felici solo quando questa condizione di assoggettamento all’estraneo scompare. E lo dico in senso lato. Ho raccontato di pratiche di sfruttamento e schiavitù, qui è evidente incappare in questa sproporzione esistenziale. Ma capita anche in quella che viene definita una regolare vita comune. È frequente rinchiudersi nelle non scelte, credendo di non avere alternative e, ahimè, spesso non avendone.

Le tue poesie offrono uno scavo a tratti lacerante, fisico. Quando hai iniziato a scrivere poesie?

La lacerazione delle mie poesie rappresentano quella voce che spesso si preferisce chetare o è più saggio, per proteggersi, tacere. Volevo che fosse così, volevo che la voce fosse viscerale. È quello che cerco anche nella poesia che leggo e ho letto, penso a voci come quelle della Marina Cvetaeva, Nina Cassian, Alejandra Pizarnik. Ho iniziato a scrivere poesie in età adulta, intorno ai 25 anni. Sentivo la poesia il mio modo di espressione migliore, essendo principalmente, o quasi esclusivamente, lettrice di poesia. Perché mi consente di dire senza “spiegare”, lasciando il lettore libero di posizionarsi negli anfratti emotivi che reputa più confortevoli.

Volevo chiederti come stai vivendo in questo periodo di pandemia.

Vivo questa pandemia, dal punto di vista pratico, in maniera frenetica. Facendo la giornalista e vivendo in Lombardia, la regione più colpita dalla diffusione del Covid-19, ogni giorno testimonio l’emergenza sanitaria. Dal punto di vista emotivo in modo un po’ confuso. Forse per la prima volta da 15 anni a questa parte, da quando ho iniziato a fare la giornalista, non riesco ad avere uno sguardo di prospettiva, ho una capacità di interpretazione e critica della realtà sociale che definirei monca. Come tutti, probabilmente, navigo a vista. Rispetto le indicazioni e attendo che passi.

In conclusione ti domando, anche se come tutti noi al momento stai navigando a vista, a cosa stai lavorando e quali sono i tuoi progetti futuri.

Sto già lavorando alla mia nuova raccolta poetica, sono ancora in fase embrionale, ma la mia idea è quella di parlare di universi emotivi dando a questi una qualificazione soggettiva, inserendo nei versi “personaggi” che qualifichino il moto interiore che voglio esprimere. Ma è troppo presto per parlare della strutturazione del testo. Intanto scrivo e soprattutto leggo, perché come scriveva Borges: “io sono orgoglio delle pagine che ho letto”.

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