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Recensione a L’animale nella fossa su Casadeilettori.blogspot.com

Recensione a L’animale nella fossa su Casadeilettori.blogspot.com


Sii tu le rete che raccoglie 

le olive che cadono

io sarò l’ulivo”

La destrutturazione del linguaggio metaforico attraverso l’immagine: è questo il percorso poetico di Gaia Ginevra Giorgi.

Una sperimentazione che la porta a coniugare il dire con il vedere.

Non ci sono fratture tra queste parti e il soggetto finalmente torna intero.

Mente, corpo, parola, percezione in un intreccio lucido, bilanciato, molto espressivo.

“Oggi sono schiuma

sottrazione

cicatrice laterale – roccia

che frana”

La mancanza di punteggiatura, la scelta accurata del fonema creano una musicalità sacra.

E la sacralità è ricerca di geometrie e di linee e di colori.

Le pause sono respiri trattenuti, incanti, fluorescenze.

I ricordi frammenti di pulviscolo, i sogni evocazioni di un immaginario che sconfina nelle solitarie meditazioni.

“L’animale nella fossa”, pubblicato da Miraggi Editore nella Collana “scafiblù” è “il buio primitivo” di un’assenza, “il rischio del varco”, lo strappo.

È il bosco, la lacerazione, la luce del mattino.

È l’ombra, la possibilità, il confine tra selvaggio e domestico.

È la prosa che arriva senza preavviso, il ritmo accelerato della vita, la corsa verso l’irraggiungibile.

Bellissima la prefazione di Tommaso Ottonieri.

Il labirinto nel labirinto.

Di Anna Maria Patti. QUI l’articolo originale: https://casadeilettori.blogspot.com/2024/03/lanimale-nella-fossa-gaia-ginevra.html?m=1

Può un solco senza seme dare frutti?

Può un solco senza seme dare frutti?

Può un solco senza seme dare frutti? Quello di Luca Ragagnin sicuramente: frutti allo stesso tempo dolci e amari, succulenti e un po’ aciduli.

Un solco senza seme è un libro impossibile da classificare e complesso da approcciare. È una raccolta di scritture in versi, come recita il sottotitolo, o, meglio ancora, “scritture con gli a-capo”, come le definisce l’autore stesso. 35 anni di testi (1988-2023) pubblicati e inediti (come Mangimonio), ispirati ad antiche leggende (gli “oracoli caldaici”) o a malattie, sale d’aspetto e corsie d’ospedale, frutto di anni di lavoro di scalpello e continuo rimuginare o scritti di getto “abbarbicato su uno scoglio”.

Il lettore si immerge in questo viaggio nel tempo, un tempo intimo e personale, perché tutto ciò che accade e che il poeta mette in versi, anche se comune e universale, spesso fatto di quotidianità appartenenti a tutti, è filtrato sempre attraverso la propria personalissima esperienza, e naviga tra versi irregolari, scoscesi come pendii alpini, frastagliati come le nostre coste, irruenti come la risacca, rimbalzando tra rime e assonanze mai banali, che cullano e scuotono.

Quello che colpisce immediatamente è proprio la padronanza del verso, della metrica, l’alternarsi continuo di strutture differenti, che dietro l’immediatezza nasconde un elaborato labor limae (come Orazio, e il paragone non risulti blasfemo, che per le prime 10 delle sue Odi utilizzò 10 versi differenti). Spostandosi, così, tra le raccolte (il libro è una raccolta di raccolte, una summa poetica, Lu cunto de li cunti) sentiamo echi di ermetismo e decadentismo, simbolismo e surrealismo, ma anche la musicalità di certi poeti spagnoli (Fosfeni di bianco e poi bianco, scrive Ragagnin; Nel bianco infinito,/ neve, nardo e sale cantava Lorca).

Riemersi annaspando dal mare burrascoso di certi versi, rimaniamo ora abbagliati da improvvise illuminazioni (Radura che il sole attanaglia./La corazza della sorte/sepolta sotto il peso della luce), ora sprofondati in abissi senza fondo, travolti dalla tempesta e sopraffatti dal divino, sperduti nell’immensità del cosmo, annegati nel grembo (materno come della Terra, che tutti ci accoglie), ascoltando echi di tristezze e rimbalzando su silenzi assordanti. Andando avanti nella lettura, siamo costretti a fare i conti con la caducità dei nostri corpi, il nostro essere fatti di atomi esattamente come tutta la realtà che ci circonda, vediamo i segni del tempo e della malattia sulla pelle e sulle ossa, miseri corpi abbandonati e prostrati (la carne ha fatto naufragio in terra straniera), ma anche nelle nostre anime, di cui, al contempo, sondiamo le profondità e ammiriamo le mille sfaccettature, attraversiamo il luogo capovolto della morte. Oscilliamo, assieme all’autore, tra bisogno di amore e d’appartenenza e senso di solitudine (sono solo come un boia al termine del giorno….Peggio sarebbe ritornare ancora/in mezzo alle persone./Ma la mia solitudine/ha un numero da circo) e ci imbattiamo di frequente in inni alla luce, ma soprattutto alla voce, alla parola, strumento principe con cui affrontare le nostre piccole e grandi sfide quotidiane e spesso difesa unica contro i mali del mondo (Si he perdido la vida, el tiempo, todo/lo que tiré, come un anillo, al agua si he perdido la voz en la maleza,/me queda la palabra)[1]. Ma, in fondo, non c’è differenza tra luce e parola, tra buio e silenzio, i sensi si confondono (il nostro canto…si distingueva appena dalle ombre).

Ricerca, scoperta (scavare, cercare viaggiare, navigare, annegare, perdersi in antri oscuri, grotte, recessi) e rimedio (ferite, lame, solchi, fessure, ma poi corde, lacci, suture, incollaggi, cucire le feriterilegatore di anime) sono temi ricorrenti nell’opera, che oscilla, appunto, tra il viaggio, fisico e spirituale, e l’aspirazione a riparare a colpe proprie e altrui. 

E navigando tra le poesie sorge all’improvviso, come uno scoglio non segnalato, un Atto unico, anzi, un Misfatto unico, rappresentazione tragicomica della razionalità portata all’estremo, scevra da ogni contatto con la realtà, scarnificata, ridotta all’essenza del pensiero matematico, ragione pura, sofismo senza sbocco, assassinio del sentimento. J’accuse contro la ricerca esasperata della perfezione fine a stessa, senza limiti e condizioni. Riflessione amara sull’impossibilità di qualsiasi cambiamento, sull’incapacità di comunicare, sull’inevitabile condanna alla solitudine e al vuoto.

Attraverso percorsi sempre privati e personalissimi, che prima dei fatti mostrano un proprio vissuto, le proprie esperienze che appaiono quasi per caso comuni anche a tanti altri, andiamo, poi, alla scoperta, o riscoperta, di titoli e personaggi, che, dallo schermo delle TV, hanno attraversato e raccontato mezzo secolo di storia italiana, perché niente meglio della televisione rispecchia l’evoluzione (o l’involuzione) del nostro Paese e degli italiani nel secondo dopoguerra.

E di qui approdiamo al cinema: schizzi e bozzetti, immagini e musica, di un mondo meraviglioso, popolato da personaggi straordinari, eppure intimamente familiari, ritratti sempre con uno sguardo partecipe.

E la musica a dettare i tempi di ogni strofa, a dare il ritmo a voci e ricordi, un ritmo pieno di variazioni, un alternarsi di arsi e tesi, a trasmettere la sensazione che tutta l’opera sia intrisa di questa passione difficile da tenere a freno e che trova la propria consacrazione nell’ultimo “capitolo” Trentawatt (che a me fa venire in mente un piccolo amplificatore).

Anche la scrittura trova qui la sua apoteosi, in una forma assolutamente originale: brevi saggi in bilico tra versi e prosa.

Un’immersione, dunque, nella musica, sguazzando tra i generi (dal rock alla classica, dal jazz al pop) e al contempo sorvolandoli alla scoperta di suoni e sfumature, trasportati dal ritmo di versi che di volta in volta si adattano all’artista celebrato e dal calore di una passione che non vede cali di tono.

Orazioni che ci lasciano penetrare nelle vite e negli animi di musicisti e movimenti che hanno segnato, ciascuno a suo modo, la propria epoca. Personaggi fuori dal coro, originali, spesso irriverenti, come la scrittura di Ragagnin, sovente contro, come gli Henry Cow. È proprio il brano dedicato a questi ultimi (La calza di lana o di ferro) che rappresenta, almeno per me, appassionato dell’Underground inglese a cavallo tra la fine dei ’60 e i ’70, la vetta più alta toccata dall’autore: una celebrazione senza fronzoli, schietta, al contempo lucida e appassionata, di una band straordinaria.

A quasi cinquant’anni dal loro scioglimento, rimangono i portavoce della libertà mischiata al piacere, i depositari della genialità del rock, i proprietari del vero e sincero donarsi all’udienza con tutti i mezzi tecnici e umani possibili.

[1] Blas de Otero – En el principio

di Fabio Sarno


QUI l’articolo originale: https://www.exlibris20.it/un-solco-senza-seme-di-luca-ragagnin/

Poesie dal campo di concentramento – recensione di Antonella Lucchini su Mangialibri

Poesie dal campo di concentramento – recensione di Antonella Lucchini su Mangialibri

“Rettangolo di muri di pietra / un quadrato di ferro il cancello / serrato dal cielo lontano, / in alto il filo spinato: / questo è il nostro giardino, questo il nostro campo”: così il poeta descrive, con la forza della poesia, la sua prigionia, che non è solo fisica ma interiore, metafora del corpo recluso ma anche della mancata libertà morale, di espressione, giacché il regime nazista era già al potere, e aveva iniziato a colpire gli intellettuali dissidenti. Altro riferimento agli avvenimenti che stavano formando la Storia di quel tempo: “…tu vorresti che questo mondo fosse più felice / che vi si possa discernere il bene / e non dover gridare di terrore…/”, un “tu” generico che prende tra le sue braccia tutti gli individui, un “tu” universale. Sembra esistano due velocità del tempo: “Il tempo si trascina sui miei giorni troppo lento, / così pesante che a terra li schiaccia…niente porta via e indugia/tempo troppo, troppo lento” quando si è rinchiusi in uno spazio circoscritto che rende angusto anche lo scorrere dei giorni mentre, potendo godere della libertà, del lusso di vivere il quotidiano comune la velocità è diversa “Tempo…dov’è il tuo passo feroce…dov’è la fretta e la furia”. Cosa può ristorare questo tempo che va a velocità dimezzata, se non le piccole cose, quelle che seppur minime, toccano e per un istante risollevano l’anima del poeta prigioniero? Anche solo un cielo terso, dove le nuvole sono “visioni di paradiso!…promesse di portenti, peccato però, /peccato che così fuggitive… / si disperdano subito in un niente”, una pausa troppo breve “mentre la miseria senza sponde e fondo / non si disperde, non svanisce, ma quaggiù immota dura”, in un luogo dove anche la poesia sovente perde il suo valore, la sua utilità (Smettila, grillo, con quel tintinnio / cosa cerca qui la tua canzone? / qui, tra le mura della prigione il tuo gaio canto / pace e calma finge ove è rinchiuso muto compianto”)…

Il poeta ceco Josef Ĉapek nasce nel 1887. Artista eclettico, si dedica prima alla pittura (dopo un soggiorno a Parigi dove frequenta l’ambiente del postimpressionismo, tornato in patria è tra i fondatori del gruppo dei Testardi), poi alla scrittura: pubblica qualche racconto e saggio sulla pittura, ma il suo contributo più importante resta il romanzo/trattato Il pellegrino zoppo (1936). Parallelamente diventa redattore del quotidiano “Lidové Noviny”, organo di stampa del partito nazional-liberale da dove mette in guardia dall’avanzata del nazismo. I suoi interventi attirano l’attenzione della Gestapo che, nel settembre 1939, lo arresta. Ĉapek subisce diversi trasferimenti, in prigioni e campi di concentramento. Morirà di tifo nel campo di Bergen-Belsen nel 1945. È proprio durante la sua detenzione che scrive tutte le sue poesie, giunte a noi grazie ai suoi compagni sopravvissuti che le hanno portate con loro una volta liberati. Ciò che colpisce, leggendole, è la grande capacità di far “vedere” i versi, di visualizzare le immagini che descrive, di sentirle parte di una realtà vissuta che, proprio perché vissuta, ha una potenza davvero rilevante. Pur essendo una poesia soprattutto descrittiva, non perde la sua valenza lirica e mantiene un lessico interessante, variegato, non scade nel languido o nel vittimismo. Non è uno stile barocco, l’aggettivazione è dosata. Da sottolineare inoltre l’assenza di versi rivolti agli aguzzini, il centro delle sue poesie è l’uomo, spolpato della sua libertà, immerso nella sporcizia e nel fango dei campi di concentramento, ma ancora capace di stupirsi della natura (vedi la poesia Nuvole), che mantiene ancora la sua dignità perché attento a mantenere la sua anima salda e presente, viva e pulsante. Poesie che restano dentro, come deve essere.

QUI l’articolo originale:

https://www.mangialibri.com/poesie-dal-campo-di-concentramento

Volevamo salvarci – recensione di Roberto R. Corsi

Volevamo salvarci – recensione di Roberto R. Corsi

Petr Hruška, Volevamo salvarci

Un volume di recentissima uscita per i tipi di Miraggi Edizioni ci propone un ampio percorso antologico nell’opera di Petr Hruška (1964), uno dei più importanti poeti cechi. La traduzione e la cura sono affidate a Elisa Bin, che già nel 2017 aveva tradotto lavori di Hruška, e che qui firma un saggio ampio e pregevole a introduzione di queste poesie (selezionate, apprendiamo, dallo stesso Autore) e prose brevi. L’opera di Hruška è caleidoscopica, piacevolmente complessa, e proprio al contributo di Bin rimando per l’approfondimento dei moltissimi leitmotiv e dettagli. In questa sede non posso che limitare la mia analisi ai punti che ho avvertito come più salienti o miei.

Dovessi intanto individuare un fulcro, lo indicherei proprio in quella “collisione”, citata dalla curatrice, tra dettaglio realista e condizione umana. Se l’attenzione del lettore può soffermarsi sulla robusta motrice oggettuale, Williamsiana (“no ideas but in things”), a volte quasi catalogatrice, nei versi, tuttavia già dalla prosa di apertura lo scrittore punta il binocolo verso quel brulicare di esseri umani in azione, “lo sconosciuto affaccendarsi di ciascuno (…) pur di non restare soli, perdio, almeno un momento” che “non smette di incantarmi” (pp. 23-25). Lo sguardo del poeta è lucido nel denunciare, in rapporto e in risalto con la fredda concretezza delle cose e degli ambienti (due volte da Bin definiti “prosaici”, credo nel senso di “ordinari, quotidiani” usato da Hruška a p. 175), l’insignificanza dell’umana industriosità e come questa, alla radice, sia determinata da una enorme antropologica solitudine e senso del vuoto. Il rimedio, o piuttosto il lenimento, non è visto però nel Pascaliano starsene tranquilli nella propria stanza, ma anzi nell’intensificare questo “sentirsi vicini” (p. 147); a costo – Kafka docet – che esso si riveli non più di un “venirsi incontro senza mai incontrarsi” (p. 157). Meritoriamente, i riflettori di Hruška illuminano spesso gli ultimi o gli anonimi, e ciò rende ancora più chiaro il suo istinto solidale.

Sul piano stilistico, Hruška adotta un verso libero e asciutto, antilirico; con una certa attenzione per anafora o ripetizione del verso/stanza, e un marcato interesse poematico: ci sono microcicli (LuglioE ho visto…), e in questa autoantologia compaiono ampi estratti di una raccolta (Di nessuno) incentrata sulla figura di Adam, un archetipo di giovane uomo “mai coordinato con le dinamiche umane” (Bin).

Non mancano alcune suggestioni lusitane: nella poesia Giardino compare la “pioggia obliqua” Pessoana e la prosa L’identico getta idealmente un ponte verso L’uomo duplicato di Saramago.

Tutt’altro che prive di interesse proprio le prose brevi poste prevalentemente in coda al volume. In esse trovano uno spazio maggiore ironia e sarcasmo, ma soprattutto si palesa più chiaramente un atteggiamento combattivo nei confronti di ogni autocompatimento (Disperazione) o assuefazione alla noia (Le scuole); il libro si conclude con la convinzione gnomica che la qualità della vita sia per gran parte determinata dalla nostra capacità di accordarci con ciò che non conosciamo.

*** 

VEDRAI

Voltati
guarda dove hai dormito ieri
e vedrai la provvisorietà più assoluta
la carcassa sottile della coperta
la stropicciata postazione di lavoro
l’acqua sinistramente vecchia nella tazza
vedrai i tuoi sforzi
di essere
e di sopravvivere
e il sogno che tutt’a un tratto
ti ha strattonato
e il deserto che nel frattempo si è allargato
in tutte le direzioni
dal tuo accampamento
e te stesso che ti sei tirato su
e ti sei posto di nuovo
contro la terribile velocità della luce

*

VERSO SERA

Con decisione improvvisa
la mano di un senzatetto
impressa in nero
sul duro peltro del cielo indica


Tanto che dolgono gli occhi
Dove può ancora esserci
un qualche là

*

AL DI LÀ DI TUTTO

furiose case ai margini della città
un cane beve più che un uomo
una recinzione
scorticata come un eczema
nella discarica un mappamondo sfondato a calci

*

FIGLIA

Spero che mi investa un’auto
mentre vado
a prendere il pane!

hai gridato
verso l’interno di casa

Per tutto il tempo
finché non sei tornata
la vita è stata in me ritta e
austera
in stile dorico

Ora mettiti a tavola
prendi il burro
duro e bianco come un muro
e preparati:

sarà un lungo pasto

*

PASSANTE NOTTURNA

La riconosco dall’andatura,
dalle borse.
Arriva fino alla fine della via notturna
e scoppia a ridere
come sopra all’abisso.
Come se sapesse
che non c’è modo di proseguire oltre
e lei stessa
dovrà creare ora
la prosecuzione intera
di questa città folle,
che nel mattino ha un aspetto così convincente.

QUI l’articolo originale:

Pagina bianca – recensione di Gabriele Ottaviani su Convenzionali

Pagina bianca – recensione di Gabriele Ottaviani su Convenzionali

anonimato fantasma fantasma. spettro spettracolare. farsi il pensiero poi ricorda. per mancanza di padre. ricordare il dolore persistente al torace. immagina impossibile. una doccia. fare la spesa. saluta la vicina il marito appena circuiti. diventa di ritornare. cucinare prendere il treno. andare dimesso. dall’ospedale non dover morire ora. peregrinare altrove telecamere stanze a pistoia via firenze rifredi. scorre sotto il cielo una vena sottile sotto la pelle. immaginarsi. più che immaginare. svegliarsi e morire.

Pagina bianca, Gianluca Garrapa, Miraggi. Originale sin dall’impaginazione, Pagina bianca di Garrapa, che collabora con molte testate, come Sul romanzo, Psychiatryonline, Puntocritico, Poetarum Silva, Nazione Indiana, L’immaginazione e Culturificio, è la raccolta di un autore che tra l’altro, evidentemente con pieno merito, si è aggiudicato riconoscimenti prestigiosi in occasione del premio Pagliarani del duemiladiciassette e due anni fa nella cornice del Celan, ed è la riuscita, intensa e policroma rappresentazione simbolica della fragilità umana che si manifesta nella reboante contraddittorietà delle tensioni in cui ogni individuo si imbatte nel corso del proprio cammino esistenziale, volto alla realizzazione. Da leggere.

QUI l’articolo originale:

https://convenzionali.wordpress.com/tag/miraggi/

POESIE CON KATANA – recensione di Federico Preziosi su Exlibris20

POESIE CON KATANA – recensione di Federico Preziosi su Exlibris20

A dispetto della simpatica e tenera copertina, ciò che emerge sin dalle primissime pagine nella lettura di questo libro di poesie targato Alessandra Carnaroli, edito per Miraggi edizioni, è proprio “lo stile katana”, inteso propriamente come una versificazione che affetta, si precisa, non in senso sentimentale.

Non si parla di un’opera infatuata della cultura proveniente dal Paese del Sol Levante e pregna di esotismo, almeno non per quanto riguarda le tematiche tradizionaliste o la cultura tecnologica che ha reso il Giappone appetibile al gusto occidentale. Quella che ci viene presentato da Alessandra Carnaroli è una poesia dal taglio (perdonate il gioco di parole) tagliente, più vicina alle suggestioni della letteratura e del cinema pulp che alla rappresentazione di spietata bellezza tipica della cultura nipponica.


Nell’epoca globale le forme si svuotano di significato, la tradizione perde ulteriori colpi e il parodiare sa essere un’arma di rappresentazione dell’attualità tremendamente efficace, spesso in modo paradossale ben più credibile di forme che amano definirsi serie, dunque in controtendenza a ciò che il Sommo Poeta dichiarava in uno dei suoi celebri Canti: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza». Niente di nuovo su questo, sono ormai secoli di messa in discussione della tradizione in poesia, di rappresentazione del brutto che diventa sublime: lo hanno fatto I Fiori del Male di Baudelaire o l’Impeto incendiario del Palazzeschi futurista, eppure Alessandra Carnaroli mette in atto un’operazione intelligente a cui va dato interesse per l’allusione formale (e quindi non un vero e proprio rimaneggiare) e la freschezza sostanziale dei versi.

Partiamo dalla prima sezione del libro, Carico e scarico, in cui la forma si fa brevissima, tanto essenziale quanto sferzante. Il verso scarno non perde quasi mai efficacia e fa della propria immediatezza un formidabile punto di forza: difficile non richiamare alla mente quelle forme che hanno fatto la fortuna della poesia giapponese, come l’haiku o il tanka, ma qui non c’è bellezza né sublime, non c’è stagione né elemento naturale, soltanto la dura realtà di una prostituta nigeriana costretta a fare la vita di strada in Italia.

26
d’inverno accendiamo
un fuoco
vicino la strada

urlano
vi prende fuoco il culo
allora rispondiamo
vieni a buttare
liquido seminale

30

sei fortunata da
essere in italia
se restavi
in nigeria
avevi la polio

qui mi trombano
sul sedile di una
polo

42
metti il preservativo
hai famiglia

non lo faccio per te
ma per mia moglie incinta

non voglio attaccarle
la tua faccia da banana

fargli venire un
figlio
con una voglia strana

In queste poche “gocce” (ce ne sono ben 127) si scorge uno spiccato e giocoso gusto per la critica diretta alla società italiana, a un maschilismo soffocante e a un sistema di dominio che impedisce il cambiamento della propria condizione di vita, questione che vale per la classe media e che, con maggiore drammaticità, si riflette nei riguardi degli individui ai margini. Nei versi domina un certo sarcasmo che si lascia accompagnare dalla leggerezza pur dissacrando le parvenze: così l’amore a pagamento abbraccia una miseria collettiva in cui l’affermazione personale è strumento di desiderio imprescindibile e irrinunciabile sia per poveri sia per chi gli insoddisfatti dalla vita. Un ritratto non proprio lusinghiero che punta il dito contro l’ipocrisia di tante persone, coloro che amano l’oggetto del disprezzo, a patto di poterlo a possedere. Non c’è spazio per i sentimenti, l’io poetante saggiamente immedesimato non fa del vittimismo: la sua è un’operazione verità focalizzata sul reale senza peli sulla lingua, che in poesia è sempre un grande rischio in quanto il linguaggio e la forma sono tutto. Nonostante tutto, forte di questa ragione e con un incedere diretto e volutamente sghembo, si conquista la fiducia e la simpatia del lettore.

La seconda sezione, “Murini / Inserisci un emoji”, mette in campo altri elementi linguistici e stilistici che si lasciano apprezzare. Innanzitutto vi è l’emulazione di un linguaggio approssimativo tipico dei social network che quotidianamente alimenta lo stucchevole flood di pressappochismo spicciolo o, nella peggiore delle ipotesi, veterocomplottismo in salsa negazionista. Lo scenario su cui si muove la poesia di Alessandra Carnaroli resta sempre la critica alla società, ma stavolta l’io poetante non è vittima, bensì vittimista. I componimenti, inoltre, presentano un elemento espressivo probabilmente inedito e decisamente originale: la descrizione degli emoji, inseriti in alcuni versi, quasi come a voler ridicolizzare ulteriormente il contenuto del testo. Vediamone un esempio:

ci vogliono togliere i figli
lo stato

omicidio legalizzato / diavoletto faccia arrabbiata

verranno quando invecchiamo
a toglierci i figli
che si ammalano

o amputati / due facce spaventate

come guardie zoofile
sulla panda verde
con i cani alla catena
i nostri figli tolti dalla cuccia

per due pulci
sulla schiena / grrr gatto orso coniglio iena


L’espediente del corsivo è godibile alla lettura non solo in senso descrittivo e parodistico, ma soprattutto sonoro (arrabbiata che fa da eco a stato e legalizzato, oppure iena che richiama catena e schiena). Si noti, inoltre, anche un gusto stilistico che nella rapidità trova i propri inceppamenti, tipici di quei contenuti poco ponderati, di pancia, tirati fino al punto di toccare anche questioni insensate. Eppure questo approccio si rivela vincente e dà valore ai versi di Poesie con katanaun lavoro ben calibrato, leggero sì, ma ben curato. Di certo non esprimerà un alto valore morale, ma gli è congeniale uno sguardo peculiare circa il ruolo della poesia civile oggi, nuda e senza retorica.

la vita dei deboli
non ha valore / sigh sigh

si salvano solo gli immigrati
dai barconi

scambieranno i bambini italiani
con i cinesi copiati / alieno alieno

diventeranno un serbatoio di organi
da trapiantare
per il mercato orientale
lacrima lacrima faccina triste occhi cuore spezzato orecchio naso

Qui l’articolo originale:

PAGINA BIANCA – recensione di mariaannapatti su CasaLettori

PAGINA BIANCA – recensione di mariaannapatti su CasaLettori

Giochi di parole che in “Pagina bianca”, pubblicato da Miraggi Edizioni, formano disegni.

La scomposizione del verso crea movimento, non rispetta il rigo, si muove su linee immaginarie.

“È la rima che guasta e la festa si arresta.”

Una sperimentazione linguistica che propone immagini di “gente quanta gente.”

Incontro casuale mentre “la musica alta” individua l’incapacità di comunicare.

Le acque, i castelli, “il fruscio del bosco di pini. e tufo d’antichi desideri”.

La punteggiatura è esercizio senza regole, esperienza di libertà.

Profumi mediterrani che scavano assenze, streghe e sciamani mentre “il cielo è un prato di calendule bianche, da lontano.”

Gianluca Garrapa è un eclettico affabulatore e nella prosa intercalata alla lirica si libera di schemi e figure allegoriche.

La sua è conquista di un linguaggio nuovo che recupera il suono del fonema.

“Stagione in cui tutto resta imprigionato nell’ombra.

Percosse.

Alcolico intruglio.

Schiamazzate di ragazzi col casco infilato sotto il braccio.”

La provincia nelle notti sfrangiate di desideri, nelle stelle che sembrano vicine.

Il dialetto segna il confine del ricordo di una terra amata con quel dolore antico di chi parte.

“Una sedia due ombre l’amore.”

In una frase si concentra la fugacità del sentimento.

Il lettore si perde e si ritrova, segue percorsi interiori, percepisce la malinconia.

“Immaginarsi. più che immaginare.”

È questa la rivoluzione proposta dall’autore, liberarsi da ogni ingombro lessicale e culturale ed entrare nel nucleo profondo dell’essere.

Un libro che riserva molte sorprese, una sfida per tutti noi che non riusciamo a cogliere la differenza tra solitudine e moltitudine.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

E DENTRO LUCCICA – intervista a Giulia Fuso a cura di Antonio Esposito su Rivista Grado Zero

E DENTRO LUCCICA – intervista a Giulia Fuso a cura di Antonio Esposito su Rivista Grado Zero

In questi giorni ho avuto modo di scambiare due chiacchiere con Giulia Fuso, attenta lettrice e autrice di due volumi di poesia, pubblicati per Eretica edizioni e Miraggi edizioni.

Giulia, presentiamoci. Nelle prime pagine del tuo Tu che dismetti mai le cose Jaime Andrés De Castro dichiara che per conoscere bene un poeta non basta leggerne l’opera, ma che bisogna provare a conoscere la persona che sta dietro le parole scritte. Però, ammettiamolo, non a tutti è data questa possibilità, quindi ti chiedo di mettere da subito le cose in chiaro: chi è l’“io” che appare nei tuoi versi? chi il “tu” a cui ti rivolgi? E come possono le parole annullare la possibile distanza tra autore e lettore?

Le parole non annullano in alcun modo la distanza autore lettore, distanza che a mio avviso è necessaria a volte. Perché dovremmo volerla annullare? La mia esperienza poetica è singolare così come lo è la tua. Capire le parole non è capirsi, né tanto meno entrare in sintonia. Al limite arricchirsi aggiungendo contenuto, cosa che ricerco spesso nelle letture che faccio. Da questo punto di vista non risulta necessario nemmeno spiegare il mio “io” e il mio “tu” che sono solo veicoli e hanno spazio marginale. Quello della poesia aperta è un discorso lunghissimo, ma resto convinta del fatto che spiegare non sia necessario, a volte auspicabile, altre decisamente superfluo.

Per questa chiacchierata ho letto entrambe le tue raccolte: E dentro luccica (Miraggi, 2017) e Tu che dismetti mai le cose (Eretica, 2018). In entrambi i casi l’approccio è stato quello del curioso, rimasto però, folgorato dall’immediatezza dei versi, dalle immagini nitide evocate e dalla loro composizione. Oltre ciò mi ritrovo, a malincuore, a dover confessare di non essere un buon lettore di poesie. Le poche volte che mi capita attingo a quella classica e mi oriento male in quella contemporanea – pur vivendo e godendo d’improvvise scoperte. Mi sapresti dire, secondo te, come può orientarsi nel maremagnum editoriale chi non frequenta questa forma? Quali sono le riviste, gli autori e gli editori di riferimento per chi come te pratica poesia oggi?

Qualche giorno fa parlavo con un amico che mi diceva intendere la poesia come una grande baraonda, ecco questo può essere un buon punto di partenza. Parlare di poesia è complesso e io non me ne sento mai in grado perché quando c’è vastità è necessario conoscere e conoscere è sempre fin troppo relativo per i miei gusti. Il mondo social ci ha sicuramente aperto una bella porta, in fondo si tratta di una vetrina a cui tutti accedono. Il rischio ovviamente è di ritrovarsi e leggere di tutto, dove non c’è un “criterio di ammissione” passami il termine, alcune volte viene a mancare la qualità. Questo però è un discorso semplicistico che non mi va di far mio più di tanto perché credo anche che la maggiore quantità di porte aperte diano maggiori scenari da analizzare e del buono si trova sempre. Conoscere così è una bella onda di ritorno.
Si può dire che per chi non ha mai frequentato il meremagnum della poesia sia necessario perdersi per entrare? Io non mi ricordo come ci sono arrivata, non parlerei certo di formazione scolastica però. Credo di aver iniziato ad appassionarmi per caso, comprando un paio di libri che ora non comprerei mai per esempio, ma tutto serve. Impossibile non nominare la Bianca Einaudi se si parla di poesia, a cui si aggiungono case editrici come Nottetempo e Marcos Y Marcos se parliamo di nomi più noti. Eretica, Pietre vive, Interlinea, Interno Poesia, Aguaplano sono altri nomi che mi vengono in mente e da cui attingo spesso.
Vittorio Lingiardi, Dario Bellezza, Giovanni Gandini, Mario Benedetti e Ivano Ferrari sono nomi che mi sento di fare, potresti iniziare da qui ma sono un puntino di partenza piccolo e questo è da intendere. Poi i classici si sa, vanno letti. (Sono un po’ provocatoria).

Nella tua scrittura c’è un rapporto diretto con la realtà: i gesti, gli oggetti, le sensazioni, le emozioni, attingono alla vita di tutti i giorni. E lo fanno in maniera diretta. Alessandra Piccoli ha parlato di “poesie take-away”. Tu come definiresti la tua produzione? C’è una linea di discendenza in cui provi a collocarti? Quali sono i tuoi riferimenti culturali?

Non mi colloco, non riesco ancora. Trovo tutto fin troppo nebuloso quindi evito di star qui a parlare del nulla. Il riuscire a definire la mia produzione è un passo che spero di riuscire a far presto, ma ora non è una necessità.

Nel tuo vocabolario interiore, quale definizione c’è alla voce “quotidianità”?

Per me quotidianità è confidenza. Sono una persona che adopera le mani e che crede fermamente che la misura delle quotidianità sia data dalla confidenza che si riesce a raggiungere con quello che si fa e forse con quello che si è. Il conoscersi è una scala a salire, ma approcciare con noi stessi è ancora l’unico modo che abbiamo per trovare equilibrio. Faccio meditazione e la trovo necessaria per riuscire ad andare avanti.

La tua ultima raccolta poetica risale a due anni fa, eppure chi ti segue sui social sa che stai continuando a scrivere: dove ti stanno portando i nuovi componimenti, hai un altro libro in cantiere?

I due libri che ho pubblicato sono usciti a distanza ravvicinata, ad un anno l’uno dall’altro. Non è stata una scelta, non la definirei tale. Credo piuttosto di averne avuto la necessità perché al tempo andavo veloce.  Non ho mai presentato i miei libri, né il primo né il secondo, non ne ho mai parlato davanti a un gruppo di persone e mi risulta tutt’ora difficile farlo. Quello che mi sono riproposta prima di pubblicare un altro libro è di conoscere meglio me stessa e superare alcuni punti cruciali che mi impediscono di essere come vorrei. Nessun segreto quindi, voglio solo imparare a conoscermi prima che lo facciano gli altri in modo da sentirmi completa.
Sì, c’è un file pronto da essere letto, ci sono tante parole che per il momento però restano dove sono.  Credo che sia un lavoro diverso, spero sia anticamera di una crescita ormai necessaria.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.rivistagradozero.com/2020/06/02/intervista-i-versi-del-quotidiano-di-giulia-fuso/amp/

CARA CATASTROFE – intervista a Felicia Buonomo di Ivana Margarese su Morel Voci dall’isola

CARA CATASTROFE – intervista a Felicia Buonomo di Ivana Margarese su Morel Voci dall’isola

Comincio col chiederti del titolo Cara catastrofe.

Prima di motivare la scelta, vorrei dire che Cara catastrofe è un titolo preso in prestito da un brano di Vasco Brondi, un musicista che amo molto. Abbiamo scelto questo titolo perché la raccolta narra, in versi, di una catastrofe emotiva, che – come di frequente accade – diventa cara, si abbraccia. Spesso, quando si vive il dolore, ci si culla in esso, ci diventa familiare. Ma non è solo questo: cara, perché è solo – io credo – attraversando la sofferenza che la si può superare. Negare il dolore non ci salverà da esso. Lo si deve guardare in faccia, farci i conti. A tal proposito, mi vengono in mente dei versi di Friedrich Hölderlin: «Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva».

Mi è molto piaciuto il riferimento a una geografia emozionale : “m’innamori come il gelo sul lungolago di Mantova, le luci dei lampioni di Milano, le onde sul porto di Genova e la strada oscura dei vicoli di Napoli”.

Come molte persone che fanno – o tentano – l’arte, sono “ossessionata” dalla bellezza. La cerco nelle parole, certo. E nei luoghi, che matericamente la rappresentano. E, mai rinuncio a cercarla nelle persone, che delle parole sono gli autori e dei luoghi gli abitanti. L’immagine utilizzata in questo componimento, tenta di racchiudere il percorso di questa mia ricerca. Metterla in apertura della raccolta, mi sembrava potesse rappresentare una sorta di dichiarazione d’intenti.

In una tua poesia parli dell’inciampare di fronte a chi si ama come se si fosse qualcuno che entra in scena senza avere provato la parte. Questo essere goffi e senza difese mi ha ricordato una poesia di Saffo in cui lei guarda la donna che ama del tutto sopraffatta, la lingua le si spezza, gli occhi non vedono, non sente ed è scossa da tremore.

Tutta la silloge è permeata da questo senso di inadeguatezza dell’io “narrante”.

Tanto nell’inconsapevolezza di ciò che verrà (incarnata nella prima sezione), quando si è scossi dal tremore delle emozioni. Quanto nel momento della presa di coscienza, che con forza cerco di rappresentare nel corpo centrale della raccolta, dove la voce diventa urlata, viscerale. Al centro c’è il tema amoroso, che diventa tuttavia un espediente per raccontare moti interiori, universi emotivi, di fronte a qualcosa che crediamo di non saper governare, che può essere l’amore, ma anche la violenza, o l’esperienza dell’abbandono. Tutte e tre in qualche modo sono esperienze “traumatiche”, capaci di segnare una frattura interiore, che – questo è il mio tentativo – attraverso il linguaggio poetico si tenta di sublimare.

In questa tua raccolta di poesie il legame diventa sottrazione, tormento, punizione, soffocamento. Vorrei un tuo pensiero sul complesso tema della violenza verso le donne.

Con il mio lavoro di giornalista mi sono occupata a più riprese di violenza sulle donne. Quella vissuta dalla “vicina di casa”, che troppo spesso ignoriamo. Ma anche affrontando fenomeni sconosciuti nella nostra cultura, quella occidentale, penso ad esempio alla pratica dei matrimoni forzati. Nella seconda sezione della raccolta, più che altrove, assumo dunque il ruolo di testimone. Raccogliendo alcune testimonianze (in alcuni casi dirette, altre per interposta persona), ho tentato di traslare in versi un certo universo di sofferenza declinata al femminile, per cercare di fare luce su dinamiche di violenza che esistono e che spesso sono macchiate dall’omertà, dal pudore e senso di vergogna della donna stessa, e – spiace dirlo – dai luoghi comuni. Si pensa alla donna che vive dinamiche di violenza domestica come a una donna fragile. La narrazione della violenza sulle donne dovrebbe cambiare: si dovrebbe parlare, invece, della forza di queste donne (e qui cito un’intervista che ho fatto a Lella Palladino, ex presidente della rete D.i.Re – donne in rete contro la violenza) di aver vissuto un tale dolore e della loro capacità di uscirne, di riprendere in mano la propria vita. La terza sezione della mia silloge, infatti, si concentra sull’esperienza dell’abbandono, che è anche un abbandono da qualcosa, per approdare finalmente a se stessi.

Vorrei una tua riflessione sulla parola vittima.

Credo ci siano due terreni di esplorazione teorica (e anche pratica) intorno alla terminologia che ruota interno alla parola “vittima”. Ci si può considerare vittima, e lo si può essere. In una dinamica di amore disfunzionale o violento, spesso la proporzione poggia su una parte che incolpa e nell’altra che si sente immotivatamente responsabile. Nel corpo centrale della raccolta, ho tentato di fare un lungo lavoro sul concetto di colpa. L’occasione per lavorare su questo concetto l’ho avuta ascoltando la storia di Celestine, una ragazza africana, vittima di matrimonio forzato. Ero in Benin per girare un video-reportage, Celestine è una delle tante donne vittime di questa pratica. Quando mi ha raccontato la parte più intima della sua storia, ovvero di aver concepito i suoi tre bambini con la forza, spesso combattendo per opporsi, stringeva tra le mani il crocifisso che aveva al collo; e senza remore mi ha confessato di sentirsi in colpa. Sentiva la colpa di essere vittima del suo carnefice. Ho capito che quando si raggiunge lo zenit della sofferenza si sente la necessità di trovare un colpevole e quanto sia facile trovarlo in se stessi. Ed è qui la disfunzione, la dismorfia dell’amore malato o imposto.

Hai una tua personale definizione di felicità?

La felicità è poter scegliere. Un’esistenza infelice è quella nella quale si è soggiogati; quando l’altro da sé diventa condizione di sé. Si può essere felici solo quando questa condizione di assoggettamento all’estraneo scompare. E lo dico in senso lato. Ho raccontato di pratiche di sfruttamento e schiavitù, qui è evidente incappare in questa sproporzione esistenziale. Ma capita anche in quella che viene definita una regolare vita comune. È frequente rinchiudersi nelle non scelte, credendo di non avere alternative e, ahimè, spesso non avendone.

Le tue poesie offrono uno scavo a tratti lacerante, fisico. Quando hai iniziato a scrivere poesie?

La lacerazione delle mie poesie rappresentano quella voce che spesso si preferisce chetare o è più saggio, per proteggersi, tacere. Volevo che fosse così, volevo che la voce fosse viscerale. È quello che cerco anche nella poesia che leggo e ho letto, penso a voci come quelle della Marina Cvetaeva, Nina Cassian, Alejandra Pizarnik. Ho iniziato a scrivere poesie in età adulta, intorno ai 25 anni. Sentivo la poesia il mio modo di espressione migliore, essendo principalmente, o quasi esclusivamente, lettrice di poesia. Perché mi consente di dire senza “spiegare”, lasciando il lettore libero di posizionarsi negli anfratti emotivi che reputa più confortevoli.

Volevo chiederti come stai vivendo in questo periodo di pandemia.

Vivo questa pandemia, dal punto di vista pratico, in maniera frenetica. Facendo la giornalista e vivendo in Lombardia, la regione più colpita dalla diffusione del Covid-19, ogni giorno testimonio l’emergenza sanitaria. Dal punto di vista emotivo in modo un po’ confuso. Forse per la prima volta da 15 anni a questa parte, da quando ho iniziato a fare la giornalista, non riesco ad avere uno sguardo di prospettiva, ho una capacità di interpretazione e critica della realtà sociale che definirei monca. Come tutti, probabilmente, navigo a vista. Rispetto le indicazioni e attendo che passi.

In conclusione ti domando, anche se come tutti noi al momento stai navigando a vista, a cosa stai lavorando e quali sono i tuoi progetti futuri.

Sto già lavorando alla mia nuova raccolta poetica, sono ancora in fase embrionale, ma la mia idea è quella di parlare di universi emotivi dando a questi una qualificazione soggettiva, inserendo nei versi “personaggi” che qualifichino il moto interiore che voglio esprimere. Ma è troppo presto per parlare della strutturazione del testo. Intanto scrivo e soprattutto leggo, perché come scriveva Borges: “io sono orgoglio delle pagine che ho letto”.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

PENULTIMI – recensione di Maria Anna Patti su Repubblica

PENULTIMI – recensione di Maria Anna Patti su Repubblica

Le poesie di Francesco Forlani, per Miraggi edizioni, parlano di un universo di abitanti silenziosi, tra strade deserte e lo sferragliare dei tram

La strada non è per persone sole, il cammino è sempre e comunque di tutti”.

Penultimi di Francesco Forlani, pubblicato da Miraggi in edizione bilingue, francese e italiano, è lo sguardo attento di un universo sommerso, abitante silenzioso e senza diritti.

“Basta davvero poca cosa, ma preziosa, al penultimo
Per sentirsi seppur minima parte, un pezzo di questo mondo
Così i tre boccioli di rosa, sulla piattaforma, in pieno inverno”.

Il verso è una brezza leggera, ritmata, incessante. Fa intravedere analogie per poi tornare al quotidiano scandito dallo sferragliare dei tram, da “ascensori non verticali ma obliqui”, da strade deserte. Le forme degli oggetti assumono contorni vaghi nel tentativo di esplorare il disagio sociale. Le panchine offrono riparo sostituendo gesti amorevoli che non arriveranno.

Francesco Forlani passa dalla poesia alla prosa mantenendo rigore narrativo. Non deraglia cercando l’aneddoto. La sua scrittura è affollata da volti e voci che dispendono i loro respiri in una nenia dolorosa. Figure che “a schiena dritta” provano a correre continuando ad immaginare un futuro. Esistenze rappresentate da coperte invecchiate, da sacchetti di plastica semi vuoti. Conoscono “la poetica della distanza”, ne sperimentano l’aspra dissonanza che arriva da case illuminate dove la luna ha lo sguardo benevolo.

Le immagini, in bianco e nero, si aprono lasciando spazio ad altre storie immaginate. I tratti decisi mostrano la notte dell’umanità, quella notte che non conoscerà l’alba se non sentiremo “rinascere dentro un soffio di vita nova, il gorgoglìo, la misura della forza”. Ritrovare le parole per urlare insieme: “vita, ehi vita mia, grazie”.

“Fino a quando ci saranno i penultimi questo vorrà dire che c’è ancora margine per l’umanità, che non siamo giunti alla fine del viaggio”.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.repubblica.it/robinson/2020/05/15/news/la_scelta_di_casalettori_penultimi-256647645/?fbclid=IwAR0K3HyHDwJ1shR4ruVydEBhTMJ02-BC5aCXo2h0Ep3bFOm02K2gfDO34yg

PENULTIMI – segnalazione di Giorgio Mecca sul Corriere di Torino

PENULTIMI – segnalazione di Giorgio Mecca sul Corriere di Torino

L’ode ai penultimi di Nesxt

La rassegna ai Docks introduce la poesia nella Settimana dell’arte in programma letture e performance, musica elettronica e proiezioni (29 ott. 2019)

«La poesia non solo non è morta, ma non fa morire. È una terapia d’urto». Francesco Forlani ha appena finito di scrivere la sua ultima raccolta di rime: «Penultimi» (Miraggi edizioni) e sarà uno degli ospiti d’onore della terza edizione di «Nexst», il festival di arte indipendente curato e organizzato da Olga Gambari e Annalisa Russo che da oggi fino a domenica invaderà la città con proiezioni, performance, esposizioni, video, musica elettronica. E poi tanti, tantissimi versi. Quest’anno infatti, la manifestazione avrà un focus dedicato alla poesia come pratica artistica contemporanea e laboratorio di ricerca. Ai Docks Dora di via Valorato 68, che in questi giorni si trasformeranno in una cittadella dell’arte con undici spazi aperti al pubblico, Forlani, che si definisce un artista «prepostumo», presenterà in anteprima il suo volume e la sua personale ode ai penultimi raccontando «l’ultimo avamposto della gentilezza umana: quella dei lavoratori che si ritrovano alle 5 di mattina dentro le carrozze della metro».