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“Volevo uccidere J.-L. Godard”: la recensione di Diego Gabutti su italiaoggi.it

“Volevo uccidere J.-L. Godard”: la recensione di Diego Gabutti su italiaoggi.it

Diego Gabutti

Un po’ per i loro meriti (sono la nouvelle vague del cinema praghese, dopotutto, e tra loro c’è una futura leggenda del cinema) ma soprattutto per solidarietà col socialismo dal volto umano, che quell’anno sfida i carri armati sovietici, il premio è insomma garantito a uno dei tre (gli altri due vinceranno, è matematico, i festival cinematografici minori). Sono tutti gasatissimi. Cannes è piena di belle ragazze e loro sono i benianimi della stampa e dei colleghi. Menzel concorre con Un’estate capricciosa, Forman con Al fuoco, pompieri e Nemec con La festa e gl’invitati. Non ho visto nessuno di questi film, né allora né dopo, ma su internet e in alcuni libri che pesco (la fortuna mi assiste) negli scaffali dedicati al cinema della mia libreria, tutti ne parlano bene.

Film ironici, sgraditi agli ideologi ufficiali del partito; film della primavera cecoslovacca. Non c’è gara con gli altri film in concorso. Devono vedersela con alcuni dei peggiori film degli anni sessanta. Con l’inqualificabile Grazie zia di Salvatore Samperi: la prima commedia erotica all’italiana con suicidio a piè di lista; con Je t’aime, je t’aime d’Alain Resnais: una scombiccherata storia di viaggi nel tempo, se ricordo bene, anche qui con un suicidio a piè di lista; con Banditi a Milano di Carlo Lizzani: un film sull’ultima rapina della Banda Cavallero (nessun suicidio ma peggio: Don Backy). Forman, Nemec e Menzel sono in concorso col vento della Storia e della Geografia in poppa.

Ed ecco che, mentre tutto sembra procedere per il meglio, a Cannes piomba il re dei guastafeste (e anche un po’, secondo Nemec, dei poveri di spirito): Jean-Luc Godard, che a nome della gauche cinematografica, dei gruppuscoli maoisti e degli studenti parigini che «in questo momento stanno versando il loro sangue per la rivoluzione» stabilisce che il festival dev’essere sospeso.

Ci si mette anche François Truffaut, di solito più moderato. Siamo in pieno Maggio 68, del resto. Persino Claude Lelouch e Louis Malle inneggiano alla rivoluzione e lanciano maledizioni contro André Maulraux (il ministro della cultura gollista che quarant’anni prima, in Cina e in Spagna, ai tempi della Condition humaine e dell’Espoire, aveva cantato ben altre rivoluzioni e guerre civili che quella des étudiants et des travailleurs).

Viene occupato il Palais des festivals et des congrès. Qualcuno lacera a colpi di coltello il telone bianco sul quale Nemec, Forman e Menzel s’accingevano a proiettare i loro film (dopodiché uno di loro avrebbe agguantato la Palma d’Oro e via, tutt’e tre avrebbero goduto d’una fama planetaria). Soldi, ragazze, automobili di lusso. E invece niente: niente festival, nessun premio. In guerra col comunismo sovietico, che s’accingeva a ristabilire l’ordine a Praga, Nemec e i suoi amici finiscono sotto i carri armati del goscismo francese, che tuona contro gl’imperialisti americani, contro il cinema commerciale, contro il perfido De Gaulle e contro il «revisionismo moderno» («à la Dubcek», di cui i tre registi sono les ambassadeurs che portano pena). Nemec lascia la Costa azzurra senza pagare il conto dell’albergo.

Non è la sola storia che il regista ceco racconta nel suo libro. Nemec ne racconta molte altre. Ogni storia un episodio della sua vita, a cominciare da quello più celebre: i venticinque preziosi minuti di riprese che poco tempo dopo Cannes filma nelle strade di Praga invase dall’Armata rossa (il film viene portato fuori dalla Cecoslovacchia da un diplomatico italiano che non osa negare il favore a una bellissima ragazza praghese).

Grazie a quel filmato, che a Nemec costò l’esilio fino al 1989, la propaganda sovietica deve rinunciare a diffondere filmati tarocchi di folle plaudenti che lanciano fiori e baci ai Visitors sovietici. Libro di sostanza, c’è dentro molta tragedia, molta commedia. Divertentissima la storia delle tre prostitute nere del Chelsea Hotel di New York. Bellissima la storia della praghese Ivana Marie Zelnícková, poi Ivana Trump, prima moglie di «The Donald». Straordinaria la storia del ritorno di Dubcek dal «sequestro» russo che si presenta a sorpresa a una festa «di cantanti, musicisti e cineasti» e ancora non ha capito che la battaglia è persa ma tutti lo amano lo stesso.