A Monza, dentro un’ex fabbrica tessile oggi trasformata in studio d’arte e musica, Margherita parcheggia il camper per incontrare Andy dei Bluvertigo e lo scrittore e musicista Lory Muratti. Qui è nato L’ora delle distanze (Miraggi Edizioni), un romanzo psycho-fantasy illustrato dai quadri fluo di Andy, che diventa anche disco, performance e sogno condiviso. Si parla di sogni da salvare, colori che curano, sinestesia, identità artistiche e parole che diventano musica. E tra una flebo fluorescente e un killer del phon, si ascolta anche un’anteprima sonora dal vivo.
Un romanzo di idee di attualità stringente: Malapace (Miraggi edizioni, 2023) di Francesca Veltri. Tra la Prima guerra mondiale e gli ultimi giorni del regime di Vichy, il romanzo segue un gruppo di amici le cui vite s’intrecciano con le vicende più ampie della Francia di quegli anni. Dalla prigione alleata in cui si trova nel 1944, perché accusato di aver collaborato con il Ministero della Propaganda di Vichy, François – protagonista e voce narrante – ripercorre in flashback vent’anni di esperienze personali e collettive. La storia narra con dolorosa lucidità la decisione di assoluto pacifismo presa da François dopo la morte del padre al fronte nella I guerra mondiale, l’incontro con Martine – figlia di un maestro ebreo socialista –, il legame con Jean-Pierre e il sogno del comunismo, fino alle disillusioni del socialismo reale sovietico. François racconta la propria scelta consapevole ma alla fine sbagliata, l’adesione al Male nel tentativo di perseguire il Bene, mentre il volto di Antoine – recluso nella stessa prigione per crimini di guerra e amico d’infanzia diventato nazista convinto – diventa lo specchio crudele che gli rimanda l’eco di una colpa che partita da fronti opposti li ha portati allo stesso punto di arrivo.
Francesca Veltri (1976) si è diplomata in Studi Filosofici alla Scuola Normale Superiore di Pisa, ha studiato presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales e l’École Normale Supérieure di Parigi ed è docente presso l’Università della Calabria. Autrice di saggi, studiosa di Simone Weil, Malapace è il suo secondo romanzo.
Domanda. La pace e il pacifismo attraversano in questi tempi ogni dibattito e ogni posizione lacerando i partiti, le organizzazioni, le amicizie come non mai. Il tuo romanzo Malapace fin dal titolo va al cuore del problema…
Risposta. ‘Malapace’ è quella pace che diventa il suo contrario, ossia un oggetto di conflitto; a parte i fanatici della ‘guerra sola igiene del mondo’, è difatti quasi scontato essere a favore della pace. Ciò che invece non è scontato – soprattutto in alcuni periodi – è a favore di quale pace essere. I pacifisti europei che spinsero i loro governi, tra cui quello socialista di Léon Blum, a negare l’aiuto militare alla Repubblica spagnola attaccata dai franchisti, speravano di evitare in questo modo l’insorgere di una nuova guerra mondiale. Scelta che li separò da molti dei loro compagni, e che segnò l’inizio di una serie di dilemmi culminanti nei Patti di Monaco del 1938. Sembra strano dirlo ora, ma quando ho finito il romanzo era il 2019. Prima della pandemia, prima dell’invasione dell’Ucraina. Praticamente in un altro mondo. L’ultima volta in cui questioni simili erano arrivate a scuotere l’Europa era stato in Bosnia, negli anni Novanta. Per certi versi, mi rendo conto che proprio questo mi ha permesso di scrivere il romanzo. Se non l’avessi fatto allora, oggi sarei stata troppo coinvolta emotivamente per riuscirci. Avevo bisogno di guardare dall’esterno a quel dilemma, un dilemma tragico perché le ragioni messe in campo da un lato e dall’altro partivano paradossalmente da valori comuni, condivisi. Entrare in conflitto con chi la pensa all’opposto è naturale; farlo con chi è stato tuo compagno ed amico è molto più duro e doloroso. E, una volta che la lotta è finita, è più semplice confrontarsi con chi è stato a tutti gli effetti il nemico, che non con le persone un tempo amate e poi perdute, come accade al protagonista di Malapace.
D. Quando oggi si parla di pace e si elogia la diserzione si pensa per lo più alla Prima guerra mondiale, mentre la Seconda guerra anche per i più convinti pacifisti è invece letta all’insegna della resistenza che va da sé è armata. Il protagonista del tuo romanzo François, la cui intera vita ruota attorno alla scelta del pacifismo è stato storicamente una eccezione?
R. No, non è stato un’eccezione. Come lui ce ne sono stati tanti, ed è proprio questo che mi ha colpito e mi ha fatto venire voglia di raccontarne la storia, che ho scoperto quasi per caso, mentre studiavo per la tesi di dottorato nelle biblioteche di Parigi. L’argomento della mia tesi era il rapporto tra la sinistra francese e l’Unione Sovietica tra gli anni Venti e Trenta. Al momento di predisporre le note biografiche, mi sorprese vedere come molti militanti comunisti o socialisti, nel dopoguerra, fossero stati condannati per aver collaborato con la Repubblica di Vichy. Avevo letto i loro articoli, i loro scambi epistolari, e sapevo che avevano dei valori opposti rispetto a quelli del nazismo; com’era stata possibile una cosa del genere? Sono arrivata così a immergermi nella profonda lacerazione del pacifismo francese, diviso tra chi collaborò con Pétain e chi si schierò con De Gaulle. Parliamo della generazione che aveva visto i propri padri morire nelle trincee della Grande Guerra o tornare sfigurati e invalidi, e per la quale non c’era male peggiore che tornare a combattere. Alcuni tuttavia fecero questa scelta, altri preferirono il compromesso con il nemico, nell’idea che ciò avrebbe preservato più vite umane. C’è anche chi, come Simone Weil, fu pacifista assoluta fino al 1939, per poi aderire al governo gollista in esilio a Londra, che combatteva insieme alle forze alleate.
D. “Il Satana del nostro tempo recita la parte dell’umanista e ha un unico desiderio: salvare il mondo.” Lo scrive I. B. Singer nella sua raccolta di saggi intitolata A che cosa serve la letteratura (Adelphi, 2024). Sei d’accordo?
R. Amo molto i romanzi di Singer, ma non avendo letto il saggio mi è difficile contestualizzare la frase. Se dovessi prenderla in senso del tutto astratto, mi verrebbe da dire che Satana, se esiste, compie il male convinto che sia appunto un male, mentre gli esseri umani generalmente commettono le azioni più atroci nell’idea che esse siano necessarie a un bene superiore, e questo non solo nel nostro tempo, ma da sempre. Che ciò nasconda spesso anche interessi personali è senz’altro vero, ma di fondo anche Hitler o Himmler probabilmente erano convinti di salvare il mondo. Alessandro Manzoni diceva che è più facile fermare l’arma di un nemico che il ferro di un chirurgo: quando gli esseri umani si vedono come chirurghi, è forse allora che sono più pericolosi.
D. Infatti, la cosa che più colpisce nel tuo romanzo è che i personaggi sono mossi dalle più sincere convinzioni e non da trasformismo o dall’interesse personale. Anche Antoine, il compagno di cella di François, nazista convinto e torturatore è onesto con se stesso in relazione alle proprie convinzioni e anzi mette François dolorosamente davanti all’ipocrisia delle sue scelte.
R. Vero. Volevo capire – non giustificare, ma piuttosto, spinozianamente, capire – il punto di vista ‘dell’altra parte’ quella di chi si era trovato a collaborare con i nazisti non perché era il minore dei mali, ma per una decisione ideologica precisa. Il confronto/scontro tra François e Antoine mette in scena due persone di cui una è lacerata dai dubbi, l’altra invece resta fanaticamente attaccata alle proprie convinzioni. Antoine – il nazista – non si pente di ciò che ha fatto, soffre solo per il fatto di essere stato sconfitto. François – il pacifista – rifiuta di trovarsi dalla stessa parte di qualcuno che aderisce a un ideale per lui abietto, eppure è proprio lì che le sue scelte lo hanno portato…
D. In Malapace l’amicizia mi pare molto più importante dell’amore, è così?
R. Direi che dipende dai personaggi. In generale, penso che l’amicizia possa avere un’intensità paragonabile all’amore, pur essendo un sentimento molto diverso. In particolare, il protagonista ha bisogno di sentirsi amato, che sia da un amico o da un amante, ma anche dai compagni di lotta, dalla sua famiglia, eppure li vede allontanarsi tutti, uno per uno, a causa di scelte che la sua morale lo spinge a fare, e che lo condurranno tragicamente a risultati opposti rispetto a quelli che avrebbe voluto ottenere.
D. Al tuo protagonista non risparmi nulla, deve fare i conti anche con il privilegio che non è cosa che ci si scrolla di dosso con un puro atto di volontà…
R. Questo è qualcosa che ho in comune con lui. Spesso mi sono percepita – ed effettivamente sono stata – privilegiata per il contesto in cui sono cresciuta, a livello materiale, culturale e anche morale; quindi capisco il senso di colpa che agita François per qualcosa che non ha commesso, ma che gli è toccato per sorte, e a cui cerca inutilmente di sottrarsi.
D. Malapace è un romanzo in cui la storia delle persone si confronta con la Storia eppure i personaggi non sono dei semplici ‘portatori’ di ideologie, ma, al contrario sono molto dolorosamente lacerati. E mi pare che tu da una parte con nettezza porti fino in fondo la critica alle ideologie e le scelte conseguenti ma dall’altra non infierisci sulle persone di per sé.
R. Non potrei e non vorrei farlo. Per le mie convinzioni morali mi è facile condannare determinati atti e stigmatizzarli insieme alle terribili conseguenze che hanno avuto, ma resta il fatto che non posso sapere che scelte avrei fatto io, se mi fossi trovata nelle stesse condizioni dei personaggi. Non posso saperlo, anche se con il senno del poi è molto evidente quale fosse la parte giusta e quella sbagliata; posso solo augurarmi che avrei scelto l’una piuttosto che l’altra, ma non ne ho la certezza. C’è un’immagine che spesso mi torna in mente, la foto di una manifestazione nazista dove in mezzo a una folla di gente con il braccio alzato ce n’è uno solo che tiene le braccia strette al petto. Tutti noi oggi vorremmo essere stati quell’uno, ma chi può garantircelo?
D. Prima di Malapace hai pubblicato Edipo a Berlino (Divergenze, 2019) in cui il protagonista durante la notte dei cristalli nel 1938 a Berlino, uccide brutalmente un ebreo salvo scoprire poi di essere lui stesso di origine ebraica. Ce ne parli un po’? Perché questo titolo quando nel romanzo non c’è traccia del ‘complesso di Edipo’ freudiano che tutti conoscono?
R. Per fare una battuta, si potrebbe dire che la colpa è di Freud… la cui teoria sul complesso edipico è diventata assai più celebre della tragedia greca cui quel complesso si è ispirato. Nella tragedia di Sofocle, Edipo uccide suo padre e sposa sua madre perché non sa chi sia l’uno e chi sia l’altra; l’intera opera verte sul tema dell’inconsapevolezza umana, che può rivelarsi la peggiore delle maledizioni. Basta infatti che cambi la prospettiva, e le stesse azioni che avevano reso Edipo un uomo rispettato e addirittura un sovrano, lo trasformano in un paria, un reietto, agli occhi propri prima che degli altri. Questo è un po’ il nocciolo sia del mio primo romanzo, Edipo a Berlino, sia di Malapace; l’idea che le stesse azioni considerate giuste agli occhi di chi le ha commesse, possano per un gioco del destino venir percepite come sbagliate e riprovevoli. Edipo a Berlino non narra solo il trauma di scoprire un’identità diversa da quella che si era creduta la propria (grazie al sistema nazista di identificazione, furono in molti a ritrovarsi ebrei senza essersi mai considerati tali), ma anche il progressivo staccarsi da un sistema di norme e valori che gradualmente assumono un aspetto diverso, e addirittura opposto a quello che all’inizio gli era stato attribuito. Un dilemma simile lo vive François, che si ritrova a venir condannato come collaborazionista dei nazisti pur avendo sempre avversato quel tipo di ideologia.
D. Infine, hai una formazione filosofica e storica, sei una docente di sociologia perché hai deciso di scrivere romanzi?
R. Da sempre mi appassiona leggere saggi di storia o di filosofia e sociologia, e ne ho anche scritti, a partire da studi e ricerche; quando invece leggo o scrivo di narrativa, a incuriosirmi è un punto di vista più individualizzato, più interno alle persone che quelle storie e quelle società le hanno vissute. Un punto di vista più microscopico, forse, e anche più libero nell’analizzare le tante sfaccettature dell’esperienza umana.
I cevapčići sono delle polpette di carne tipiche della cucina balcanica caratterizzate da un sapore speziato e deciso, ideali anche per una grigliata!
Così recita uno dei più importanti siti di cucina quando parla del famoso piatto a base di carne tipico della penisola balcanica che è l’ambientazione sullo sfondo delle Straordinarie avventure del professor Toti nel mondo dei cevapčići, primo romanzo dello storico Eric Gobetti. Con il suo libro (edito da Miraggi) Gobetti ritorna nel territorio Jugoslavo, da sempre suo terreno d’elezione per la produzione saggistica (che gli ha causato anche strumentalizzazioni politiche), usando l’ espediente culinario.
I palinsesti televisivi sono ormai invasi dai programmi di cucina, e il protagonista del libro, il Professor Toti, borsista dell’Università di Camerino in “storia dell’alimentazione” viene incaricato da uno di questi programmi di realizzare uno speciale proprio sulla penisola balcanica. Comincia così, in modo quasi inaspettato, un road book che da Bari porta il nostro eroe a risalire tutta la costa Balcanica attraversando mille peripezie e dovendo fronteggiare continui cambi di programma sulla tabella di marcia per assecondare l’instabilità morfologica del territorio e le insidie logistiche proprie dei diversi luoghi che si dipanano dal Montenegro fino a Sarajevo.
La cucina, il cibo, le ricette sono un linguaggio che permette di svelare agli occhi del lettore le mille peculiarità storiche e sociali del territorio martoriato dalla guerra civile degli anni ’90. A quella guerra, chi è sopravvissuto, sovrappone pensieri, idee, rimpianti e antichi dolori. Uno su tutti è quello che vede il protagonista somigliare incredibilmente al Maresciallo Tito, non a caso in copertina troviamo un’immagine del maresciallo con tanto di cappello da Chef.
Il viaggio del professor Toti, si ammanta anche di mistero dal momento che un suo mentore lo incarica di svelare una volta per tutte la leggenda legata al più antico ricettario di cui la letteratura abbia memoria, risalente addirittura ai tempi della scoperta dell’America. Il suo autore, infatti, Solomon Amerovic, sarebbe uno dei componenti della storica spedizione poi riparato nei Balcani.
Come se non bastasse, nel libro di Gobetti, condensato nelle sue novanta pagine, troviamo anche una storia d’amore che lega il sessantenne protagonista a una donna di Sarajevo che durante la fase più acuta del conflitto in Jugoslavia era venuta in Italia a studiare. Alma, infatti, è presente quasi dalla prima pagina nella mente del protagonista che punta a Sarajevo prima di tutto per provare a riallacciare i rapporti con la donna di cui si era innamorato, e mai dichiarato, ai tempi dell’università negli anni ’90.
La scrittura di Gobetti trova i suoi momenti migliori negli spassosi dialoghi tra il protagonista e la vasta fauna di personaggi per lo più improbabili che si incontrano lungo la strada. Il ritorno a Sarajevo, tramite il grimaldello della tradizione culinaria, ci svela una società multiculturale, attraversata da vettori storici e religiosi che affondano le loro radici in secoli lontanissimi. Il sincretismo con l’impero Ottomano contrapposto alle forze centrifughe del centro Europa creano una società in continuo movimento. Non si può tentare di fotografare la penisola Balcanica senza rischiare di averne un’immagine mossa.
Gobetti, da profondo conoscitore della storia dei nostri vicini di casa, riesce tramite una storia piccola a restituirci un quadro molto preciso di cos’è l’Ex Jugoslavia di oggi. Ed è questo che fa la letteratura, entra nella storia con la esse maiuscola grazie a piccoli personaggi, fondamentali a comporre il quadro generale. Degna di nota è anche l’appendice finale con un piccolo ma nutrito ricettario di molte delle pietanze nominate nelle pagine del libro.
Con I vigliacchi, edito in Italia da Miraggi Edizioni, Josef Škvorecký ci regala un romanzo di formazione anomalo, che si muove tra il ritratto generazionale e la critica sociale, senza mai cedere alla retorica eroica. Pubblicato per la prima volta nel 1958 in Cecoslovacchia, il libro è ambientato negli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale e segue un gruppo di giovani della provincia ceca, appassionati di jazz e poco inclini ai grandi gesti patriottici.
Lontano dalle narrazioni classiche di resistenza e coraggio, Škvorecký tratteggia un’umanità sospesa tra il desiderio di libertà e la paura di esporsi. La sua scrittura, ironica e vivace, racconta le contraddizioni di una gioventù che sogna l’America ma vive sotto l’ombra della guerra, facendo del jazz non solo una passione musicale, ma un simbolo di ribellione e di un altrove sognato ma irraggiungibile.
Trama: un attimo prima della libertà
Il romanzo si svolge in una piccola città ceca nel maggio del 1945, proprio mentre le truppe naziste si stanno ritirando e l’arrivo delle forze sovietiche sembra imminente. Il protagonista, Danny Smiřický, è un giovane sassofonista che trascorre le giornate tra la musica, le fantasie amorose e le discussioni con i suoi amici, senza un vero impegno politico o militare.
Danny e il suo gruppo non sono eroi né resistenti, ma nemmeno collaborazionisti: sono semplicemente ragazzi che cercano di capire da che parte stare, mossi più dalla paura e dall’incertezza che da una reale convinzione ideologica. Il titolo stesso, I vigliacchi, suggerisce l’ambiguità di questi giovani che si trovano a vivere un momento storico cruciale senza avere il coraggio o la voglia di essere protagonisti.
Il romanzo si sviluppa come una serie di episodi che oscillano tra il comico e il tragico, mostrando l’assurdità della guerra e la difficoltà di prendere posizione in un mondo in cui le certezze si sgretolano di fronte agli eventi.
Un protagonista antieroico: Danny Smiřický
Danny è un personaggio che si distacca dai classici eroi della letteratura di guerra. Non ha il coraggio di unirsi alla resistenza, ma nemmeno la spietatezza di chi ha abbracciato il nazismo. È un giovane che vorrebbe solo suonare il jazz e conquistare le ragazze, ma che si trova invischiato in una realtà che non può ignorare.
Attraverso il suo sguardo, Škvorecký mostra l’ipocrisia della società dell’epoca. Mentre alcuni si affrettano a dichiararsi partigiani solo quando la vittoria è ormai certa, altri cercano di ripulire la propria immagine per sopravvivere al nuovo regime che sta arrivando.
La grandezza del romanzo sta proprio in questa assenza di giudizio morale. Škvorecký non condanna Danny e i suoi amici, ma li racconta per quello che sono: giovani confusi, pieni di paure e desideri, costretti a confrontarsi con una storia che non hanno scelto di vivere.
Il jazz come simbolo di libertà e disillusione
Uno degli elementi più affascinanti del romanzo è la centralità del jazz, che non è solo la passione di Danny, ma un vero e proprio simbolo della libertà sognata e mai raggiunta.
In una Cecoslovacchia ancora sotto il giogo nazista e presto destinata a cadere sotto il regime sovietico, il jazz rappresenta un anelito di evasione, un collegamento con l’America e con un mondo che sembra così lontano dalla realtà quotidiana. Tuttavia, proprio come Danny e i suoi amici, anche il jazz resta sospeso tra il desiderio e l’impossibilità di realizzarlo pienamente.
Škvorecký, che nella vita reale era un grande appassionato di musica, utilizza il jazz come filo conduttore per esprimere la frustrazione di una generazione privata della possibilità di sognare davvero. La musica diventa un linguaggio alternativo alla guerra e alla politica, un rifugio in cui cercare un’identità in un mondo che sembra non offrirne alcuna.
Stile e tono narrativo: ironia e disincanto
Uno degli elementi distintivi de I vigliacchi è il suo stile narrativo. Škvorecký adotta un tono ironico e a tratti dissacrante, che smonta la retorica eroica tipica delle narrazioni di guerra. Il suo sguardo è disincantato, capace di cogliere la comicità involontaria di certe situazioni senza mai perdere di vista il dramma sottostante.
Il linguaggio è scorrevole, colloquiale, quasi cinematografico. I dialoghi sono vivaci e realistici, e i pensieri di Danny, spesso contraddittori e confusi, contribuiscono a rendere il protagonista estremamente umano e credibile.
Nonostante l’ironia, però, il romanzo lascia addosso un senso di inquietudine e di malinconia. Il lettore sa che la storia non darà a Danny e ai suoi amici la possibilità di vivere la vita che desiderano. L’occupazione nazista sta per finire, ma presto arriverà un’altra oppressione, e i sogni di libertà resteranno, ancora una volta, irrealizzati.
Un romanzo scandaloso e attuale
Alla sua pubblicazione, I vigliacchi suscitò enorme scalpore in Cecoslovacchia. La critica ufficiale lo accusò di essere anti-patriottico e offensivo nei confronti della resistenza. In un’epoca in cui si cercava di costruire una memoria collettiva fondata su atti eroici e sacrifici gloriosi, il ritratto di giovani indecisi e spaventati apparve come una provocazione inaccettabile.
Oggi, però, il romanzo si rivela di straordinaria attualità. In un mondo in cui le guerre e le crisi politiche continuano a mettere le persone di fronte a scelte difficili, I vigliacchi ci ricorda che non tutti sono pronti a essere eroi, e che spesso la storia è fatta anche di esitazioni, paure e compromessi.
U classico del disincanto
In conclusione, con I vigliacchi Josef Škvorecký ci consegna un romanzo che sfida le narrazioni eroiche della storia, offrendo un ritratto sinceroe realistico di una gioventù senza certezze. Grazie a uno stile ironico e coinvolgente, e a un protagonista tanto imperfetto quanto umano, il libro si impone come una lettura fondamentale per chiunque voglia comprendere il lato meno celebrato della guerra: quello di chi ha avuto paura, di chi ha esitato, di chi ha cercato di sopravvivere senza diventare un martire.
Una domanda che risuona nella testa dopo la lettura di un romanzo che penetra, come una sonda, lo spazio e il tempo di una famiglia come altre. Ogni cosa ha il suo tempo, di Petra Soukupová.
La prima cosa che salta all’occhio tenendo fra le mani questo libro è il titolo in lingua originaleche emerge da quello in italiano e il nome della traduttrice,Letizia Kostner, in copertina. È un segno di riconoscimento della casa editrice Miraggi in generale e in particolare della collana NováVlna, dedicata alla letteratura ceca.
In quarta di copertina appare un intero brano scritto in entrambe le lingue, riga per riga a ricordarci che l’autore di un libro tradotto non è mai uno solo. Ma forse ogni libro non ha mai solamente un autore.
La prima cosa che salta all’occhio tenendo fra le mani questo libro è il titolo in lingua originaleche emerge da quello in italiano e il nome della traduttrice,Letizia Kostner, in copertina. È un segno di riconoscimento della casa editrice Miraggi in generale e in particolare della collana NováVlna, dedicata alla letteratura ceca.
In quarta di copertina appare un intero brano scritto in entrambe le lingue, riga per riga a ricordarci che l’autore di un libro tradotto non è mai uno solo. Ma forse ogni libro non ha mai solamente un autore.
Difficilmente in famiglia si parla con chiarezza e sincerità. C’è una dinamica di aspettative e di sottintesi che spesso corre più veloce di noi. Ma a volte può capitare di essere ascoltati: “Tutto qui?” (p. 198) esclama Kája sorpreso di non ricevere punizioni dai genitori dopo aver detto loro che non vuole più nuotare. Mettersi nei panni dell’altro è un esercizio poco praticato, è un esercizio difficile. Più leggiamo e più ce ne accorgiamo. Passando da un punto di vista all’altro, entriamo nella mente dei personaggi e capiamo che non esiste un “cattivo” e “un buono”.
Esistono relazioni e cambiamenti. Esistono egoismi, sussulti di un’io che si scontra col noi. Non è facile costruire una comunità, grande o piccola che sia. È facile che una comunità si disgreghi per far posto ad altre forme di esistenza. Richard pensa alla sua famiglia che “si regge solo per inerzia”, e si chiede: “se invece avessero ancora tutti la possibilità di avere qualcosa di meglio?” (p. 252). “Ormai è tutto una noia”, gli fa eco Alice, “non chiacchierano più di nulla, solo di questioni organizzative” (p. 272). Ma la rottura spaventa, la perdita dell’abitudine, la paura del nuovo. Alice è tormentata tra la noia e la rabbia, fra l’abitudine e il desiderio di vita. “Quasi tutta la giornata trascorre così, rabbia, tristezza, determinazione, rabbia, tristezza, lavoro, pranzo, nel pomeriggio porta di nuovo il cane a fare una passeggiata, senza nemmeno fingere di voler fare giusto due passi. Niente” (p. 275).
Nel susseguirsi dei capitoli, che aprono ogni volta il punto di vista di un personaggio diverso, entriamo nella quotidianità asfittica di una famiglia tradizionale, madre, padre, figlio e figlia, con cui intraprendiamo un viaggio lungo più di trecento pagine, percorriamo un pezzo della loro storia, una storia ordinaria, sviscerata nei minimi dettagli. È come una vivisezione, la dissezione di un corpo vivente per guardarne i meccanismi il più vicino possibile, accorgendoci che la chiave di tutto è sempre il mutamento, l’instabilità (necessaria) che comporta scomposizioni e ricomposizioni, respiri lunghi o tagli netti che permettono a un organismo di rigenerarsi.
“In men che non si dica prende il ritmo che le è più congeniale” (p. 141). Fra scegliere un compromesso e seguire il proprio tempo ci si smarrisce spesso, e si resta in uno spazio indefinito in cui la coppia mal assorbe l’individuo, ne digerisce un po’ e un po’ lo perde. La tenerezza spontanea svanisce e un gesto o uno sguardo insolito provocano ansia, sospetto, perfino fastidio, più che piacere. L’abitudine viene a coronare il malassorbimento, ma le parti indigerite prima o poi tornano a galla. Conosciamo mai veramente chi abbiamo accanto? Quand’è l’ultima volta che siamo stati felici?
I vigliacchi Josef Škvorecký è uno dei grandi classici della letteratura ceca.
Siamo in Boemia agli sgoccioli della seconda guerra mondiale, e gli ultimi giorni, dal 4 all’11 maggio del 1945, sono altrettanti capitoli. La guerra, con le sue atrocità, resta costantemente sullo sfondo, ma è un romanzo in cui vengono celebrate la vita e la giovinezza. Protagonisti sono i ragazzi che suonano in un complesso jazz, stravedono per tutto ciò che è americano e inglese, e a modo loro sono già dei “ribelli” nel confronto del mondo degli adulti: costretti malvolentieri ad arruolarsi in un arrangiato esercito cecoslovacco basato, guardacaso, in una fabbrica di birra, tra ironia e sarcasmo, slanci ideali e comprensibile paura – i tedeschi sono in ritirata incalzati dai sovietici – i loro principali interessi restano la musica e le ragazze. E pensare al futuro, come fanno i giovani di ogni epoca, con atmosfere quasi da film che precorrono gli anni Sessanta.
Scritto nel 1948-49 da uno Škvorecký ventiquattrenne e pubblicato solo nel 1958, era arrivato una prima volta in Italia nel 1969 nella traduzione di Giuseppe Mariano per Rizzoli, condotta, all’epoca, sulla seconda edizione del romanzo (1964), una stesura in parte censurata e in parte riscritta dallo stesso autore perché ne fosse concessa la pubblicazione. Ora il romanzo si può di nuovo leggere integralmente e nella sua forma originaria e più viva.
I vigliacchi si distingue per una lingua e uno stile molto personali che alternano registri bassi e quotidiani a una struttura letteraria articolata. I dialoghi tra amici, diretti e cinematografici, sono pieni di gergo giovanile – non è facile mantenere quella freschezza e immediatezza a distanza di generazioni e di decenni senza indulgere alle mode passeggere del contemporaneo, e senza utilizzare espressioni che in italiano sono regionali. Invece le lunghe elucubrazioni, i sogni a occhi aperti e le riflessioni post-adolescenziali del protagonista Danny (alter ego dell’autore in molti suoi romanzi) sulle ragazze, sulla guerra, ma in fondo sempre sul senso della vita, spesso sono periodi talvolta più lunghi di una pagina. Solo la sapienza letteraria di un autore amante del jazz e del cinema consentono al lettore di non perdersi e percorrere le pagine una dopo l’altra con leggerezza e apparente semplicità.
In Škvorecký la vita, che sia amore o guerra, risuona con i contrappunti del jazz, dello scat, dell’improvvisazione studiata, del ritmo sincopato. E moltissimi sono i verbi che richiamano suoni e rumori, si “sente” la colonna sonora almeno quanto si “vedono” i personaggi: un film su carta. Ma del jazz e del cinema ci sono anche l’abbandono della ragione e della ragionevolezza per le ragioni del cuore, che sono quelle dell’essere giovani, da ragazzi e sempre.
Nei Vigliacchi Josef Škvorecký distilla in otto giorni e in altrettanti capitoli quelle ore sature di potenziale drammatico delle quali parla Stefan Zweig in Momenti fatali, quel progressivo addensarsi di eventi gravidi di fato dopo i quali nulla sarà più come prima. L’azione, situata in una cittadina della Boemia, copre il periodo che va dal 4 all’11 maggio del 1945, durante il quale i nazisti presenti in Cecoslovacchia stanno per essere travolti dall’Armata Rossa. In questi scenari si muove Danny Smiřický, alter ego dell’autore stesso in numerose sue opere, personaggio irriverente e anticonformista, perennemente in bilico fra la noia esistenziale e il vitalismo irrefrenabile. Come Svejk ha la capacità di resistere all’orrore della guerra, facendosi beffe del male. Meno caricaturale e grottesco del buon soldato di Hasek, Danny può ricordare l’Holden di Salinger, e non è un caso considerando che Škvorecký era imbevuto di cultura angloamericana. L’individuazione di un linguaggio perfettamente funzionale alla narrazione è tratto comune. Salinger si esprime alla maniera degli adolescenti americani, con il loro slang e i loro manierismi. La lingua è il grimaldello che scardina l’ipocrisia della società del benessere. La medesima operazione viene messa in atto da Škvorecký, veicolando nel lettore uno straordinario senso di autenticità. La sua critica è rivolta all’ambiente piccolo borghese, che è riuscito a restare a galla persino durante l’occupazione nazista. Su tutto questo si innesta l’andamento musicale della struttura narrativa, la sua ispirazione jazzistica. Non a caso l’apertura e la chiusura del romanzo mostrano Danny impegnato con la sua band. Il jazz rappresenta la rottura con qualsiasi elemento stereotipato, l’aspirazione verso una libertà di espressione totale. Il sax tenore, con il suo chiaro simbolismo sessuale, invita allo sberleffo, all’eccitazione dionisiaca. Da questo punto di vista anche i pensieri di Danny, con il loro continuo oscillare da un estremo all’altro, forniscono l’impressione di una coscienza preda di una musica selvaggia, ancora non completamente formata, alla ricerca di una propria direzione.
Siamo indubbiamente di fronte a un romanzo di formazione. Un’immagine, un ricordo precipitano il protagonista in un caleidoscopio di riflessioni dalla sostanza onirica, perché “il sogno era nella mia natura da tempo immemorabile”. Significativamente ogni capitolo, eccetto l’ultimo, termina con il protagonista che si addormenta, consegnato all’oblio in un sonno senza sogni, oppure popolato di cose che, al risveglio, dimenticherà. L’amore per Irena diviene ossessione a causa del rifiuto della ragazza a concedersi. Un sentimento incerto e illusorio in quanto legato all’apparenza estetica. Fondamentale è vivere, anche se tutto quello che è bello rivela una natura effimera. Momentanee oasi di beatitudine sono garantite dalla musica, come quando Danny si ferma ad ascoltare un’orchestrina russa, con la vibrazione profonda della balalaika che ha del miracoloso. Il piacere sparisce, rapido come è venuto, perché «stavo male per l’impotenza dell’uomo e per un mondo dove tutto era organizzato così male che ogni meraviglia, se mai capita, la si può conoscere così di rado, oppure, una volta conosciuta, si finisce per perderla subito, restando disperati e tristi e con tanta voglia di morire».
Neppure la religione è di conforto. Il dubbio riguardo l’esistenza di Dio dà vita a elucubrazioni contrastanti. Il dramma si manifesta all’improvviso, in un gruppo di ebree appena uscite da un campo di concentramento, pallide come spettri, o in una ragazza tedesca convinta della superiorità della razza ariana fino al fanatismo. Momenti cruciali nella storia europea vengono descritti in maniera peculiare, proprio perché filtrati attraverso lo sguardo disincantato e irriverente di Danny. «Qualche giorno di entusiasmo e poi di nuovo la stessa pappa, sempre uguale, appiccicosa e vischiosa». Un mondo è al tramonto, ma il nuovo appare ugualmente estraneo e ostile. Siamo distanti dalla mitizzazione di un’intera generazione operata ad esempio da Fenoglio nel Partigiano Johnny, dove la resistenza ha una forte motivazione esistenziale. Danny è un antieroe, distante da qualsiasi retorica ideologica e per questo inviso al regime comunista. I liberatori, dei quali non comprende la lingua, gli appaiono: “completamente diversi da me e incredibilmente estranei”. Sin dal titolo, ci troviamo in un sistema di valori totalmente contrario ai dettami del socialismo. L’eroismo di Danny è una posa, una finzione, come dimostra l’episodio della foto con il mitra usata unicamente come esca per le ragazze. Una strana sensazione di vuoto e di inutilità lo minaccia. “Tutti eravamo dei morti viventi”, dice. Con il suo anelito libertario e le sue contraddizioni insolubili, con il suo vitalismo e i suoi ripiegamenti malinconici, Danny è il simbolo dell’irrequieta indole giovanile, della ribellione desiderata e mai del tutto compiuta; in quanto testimone di un’età irripetibile, ci commuove con la sua profonda e imperfetta umanità.
In corsa sull’autostrada, una telefonata dopo l’altra, per darsi un’ultima chance
“Mi faccia capire, sta fuggendo da qualcosa?”, chiede all’improvviso una delle tante voci senza volto presenti in questo libro e, quasi, verrebbe da dire che sta tutto qui, il senso di Non commettere infinito (Miraggi Edizioni), quarto romanzo di Nicola Neri. “Dalla realtà” è la risposta che arriva dall’altro capo del telefono. A rispondere è un uomo che guida come un forsennato nella notte ma sarebbe troppo semplice, finanche riduttivo, liquidare questa storia con l’aneddoto che sta alla base di ogni seduta psicoanalitica. Certo, fuggiamo tutti da qualcosa ma la fuga di Morelli – questo il nome del protagonista – descritta da Neri che, di professione, fa (anche) lo psicologo, è ovviamente un escamotage per celare intrecci e ossessioni. La storia è pressappoco questa: Morelli è un uomo di trentacinque anni e, nonostante amici, colleghi, donne, si sente infinitamente solo. “Sai dove conducono le bugie. Le bugie conducono a incidenti”, si dice a un certo punto. Guida su un’autostrada che sembra infinita e, nel tragitto, fa e riceve una telefonata dopo l’altra. Nelle conversazioni si perde e si ritrova, si confessa, si lascia andare a un flusso ininterrotto di pensieri. Vorrebbe solo schiantar-si, andare a fondo, “al centro della corrente che sembra sul punto di esplodere” ma, prima di farlo, vuole una chance, l’ultima, perché – parole sue – “poi non ce ne sono altre”.
Se la struttura della telefonata-ossessione ha tanti esempi celebri (uno su tutti il Cocteau de La voce umana), l’ambientazione, forse perché lo abbiamo da poco visto al cinema, sembra uscita da Una notte a New York, l’ultimo di Sean Penn e Dakota Johnson, girato interamente in un taxi notturno. “Ho passato tutto il pomeriggio sdraiato a letto. E perché? Il tempo. Ero sdraiato e davanti a me c’era un vecchio orologio a muro, con i secondi. O almeno, io pensavo che fossero secondi”, fa dire Neri al suo io narrante e, senza voler scomodare Proust (che, a proposito, all’improvviso appare in un personaggio, “la proustiana con la madre lontana”) e il suo concetto di tempo cronologico e lineare versus tempo interiore e oggettivo, leggendo Non commettere infinito e analizzandolo in un rapporto spazio-tempo, viene in mente il gioioso caos mentale di Zeno Cosini, soprattutto laddove il protagonista sembra rielaborare il suo passato relazionandolo alla guida tormentata della sua autovettura. Così il Morelli che, come dicevamo, crede di scappare dalla realtà, diventa una metafora del tempo che passa e noi lettori, in fondo, non possiamo fare altro che arrenderci e seguirlo nella sua spericolata avventura alla ricerca di se stesso.
Nicola Neri (classe 1992) ha una scrittura già affilata e chiara e in questo suo romanzo, a proposito di linguaggio, ha deciso di usare una lingua puramente visionaria e cinematografica, evidentemente l’unica possibile a rendere questa lunga seduta psicoanalitica “on the road” lucida e spigolosa. “Le emozioni. Da quando ricordo, io le vivo come… fossero entità esterne. Forze esterne che mi afferra-no”, dice il protagonista, a dimostrazione che il tema cardine del libro è semplicemente l’incomunicabilità con noi stessi e, ovvia conseguenza, con tutto ciò che definisce i nostri confini e che consideriamo il mondo esterno.
Il mondo ha bisogno di colori. E il musicista-pittore Andy e l’artista-scrittore Lory Muratti hanno scelto un modo assai insolito per restituirglieli: L’ora delle distanze, astronave psycho-fantasy basata su un romanzo scritto da Muratti e illustrato con i quadri di Andy (pubblicato dalla casa editrice torinese Miraggi) e su due canzoni (L’ora delle distanze e La caduta), che stasera alle 21 atterra sotto forma di reading musicale a San Salvario, sulla libreria Luna’s Torta.
Articolato nei contenuti e nel mix tra linguaggi, il progetto ha richiesto anche una lunga genesi, a partire «da un giorno del 2009 in cui Lory venne a trovarmi nel mio capannone, racconta Andy. «Eravamo bloccati dalla neve. allora tirai fuori il vecchio soggetto per un corto che era rimasto in un cassetto. Lory ha ampliato l’idea, ispirandosi e dando senso alle mie opere».
Nel romanzo va in scena una sorta di battaglia esistenziale per la salvezza di un pianeta che non sa più sognare. «Di giorno il protagonista, che è una versione di Andy, distribuisce chiazze di colore a un mondo spento, privo di slancio, corrotto», dice Muratti. «Di notte rientra nella sua casa-laboratorio e viaggia nelle “distanze”, un non-luogo in cui incontrai personaggi delle sue opere.
Il colore entra nel corpo dell’eroe attraverso un rito che mescola suggestioni ospedaliere, cyberpunk e da assunzione di stupefacenti. con tubicini che collegano l’uomo a un dipinto e a un sintetizzato re. «L’obiettivo però non è alterarne lo stato di coscienza, ma aiutarlo a una presa di coscienza», precisa Muratti. «Farlo rientrare in contatto con se stesso attraverso una sostanza innocua come il colo-re». «In particolare il fluo, che da sempre è al centro del miei lavori», aggiunge Andy, «L’immagine è senza dubbio forte, con la durezza della flebo e dell’ago in vena, e il video di La caduta che mette in scena il rito è stato bloccato da YouTube. Abbiamo dovuto spiegare il significato dell’opera per sbloccarlo. Un altro segnale dell’ipocrisia in cui viviamo: va bene caricare filmati in cui si picchiano animali, ma non mostrare un colore che entra nel corpo. Per me L’ora delle distanze è un’opera sulla risorsa dell’introspezione. Può aiutare le persone a guardarsi dentro e ritrovare quella moltitudine di colori che oggi rimangono appiattiti».
Sono sbiaditi anche nella musica? In quel Festival di Sanremo che Andy ha conosciuto di persona (nel 2001 e nel 2016 con i Bluvertigo) e che è di nuovo alle porte, per esempio se ne trova ancora traccia? «lo vedo molte chiazze interessanti», risponde il musicista. «Cristicchi, Brunori. Willie Peyote. Giorgia, soprattutto Lucio Corsi per cui farò i tifo. Avrò anche un evento in città. Sanremo è la vetrina più importante ed è riuscita ad abbassare il suo target anagrafico, anche se ci propina i singoli che dovremo sorbirci tutto l’anno. Ma fa parte del gioco e chissenefrega se i Bluvertigo sono arrivati sempre ultimi. Il problema vero della musica è nel suo disfacimento quando ci si focalizza solo sui soldi e il discografico diventa un commercialista. Noi abbiamo avuto la fortuna di emergere in un’epoca in cui si faceva ancora scouting, venivi scoperto nei club, ti davano il tempo di registrare dischi. Oggi tutto è uniforme, la velocità di consumo è allucinante e gli algorit. mi chiudono la proposta in un enorme supermercato. Un’epoca di contraddizioni, perché offre anche un potenziale tecnologico meraviglioso, che ti permette di registrare un album a casa e farlo ascoltare autonomamente in Giappone.
Iper-autonomo e dal respiro indipendente è anche il progetto L’ora delle distanze, che 15 anni dopo la prima scintilla tra la neve della Brianza continua a crescere e mutare forma. «In questo mini-tour proponiamo un reading con sottofondi musicali». dice Murati. «Un’anteprima dello spettacolo teatrale che stiamo preparando per la primavera».
“Per passare meglio la notte, per non avere più paura del buio”. Immaginate di trovarvi in un’ambiente dominato da un grigiore opprimente, in cui le emozioni sono annichilite da un sentimento di rassegnazione angoscioso e angosciante: un luogo non così dissimile da molteplici realtà urbane in cui siamo calati. In questa dimensione, che un tempo sarebbe stata etichettata come distopica, si muove Fluon, uomo tra gli uomini e protagonista di L’ora delle distanze, il nuovo romanzo breve di Lory Muratti illustrato da Andy dei Bluvertigo e uscito a settembre 2024 tramite Miraggi Edizioni assieme a un 45 giri strettamente connesso alla storia raccontata.
Una dimensione distopica in realtà esiste e si rivela nel momento in cui il protagonista rientra a casa la sera ed assume un’identità completamente diversa, variopinta e glamour, proiettandosi proprio nelle Distanze, un luogo che ricorda da vicino il Paese delle Meraviglie in cui si muoveva l’Alice di Lewis Carroll, quanto a bizzarrie di luoghi e personaggi.
Maestro del colore a sua insaputa e creatore delle Distanze, Fluon si trova catapultato ogni notte in questo non luogo dalle tinte accese per ritrovare se stesso e un’umanità perduta che si fa carne in ogni pagina grazie alle illustrazioni vivide di Andy. Il protagonista esplora questo mondo nascosto, imparando a riconnettersi con i frutti della sua mente e con le sue emozioni, a tratti traumaticamente rimosse: saranno i personaggi che incontra lungo intricati corridoi e oltrepassando porte e stanze a guidarlo, e a dargli lezioni di vita da conservare, una volta tornato alla realtà.
In alcuni capitoli incontriamo personalità geniali, come il Killer del Phon, che ci permettono di trovare gli antidoti a una realtà tristemente spenta, sia tramite dialoghi accesi sia tramite passaggi necessariamente dolorosi come nell’Interludio Fucsia, capitolo particolarmente commovente in cui per la prima volta affiora il vissuto di Fluon.
Muratti adotta una prosa variegata e piacevole, mai scontata. Sa raccontare in modo leggero rimanendo denso, tanto che L’ora delle distanze si finisce in un giorno e vien voglia di rileggerlo per trovare al suo interno ulteriori significati. Gradevolissima la scelta editoriale della pagina su due colonne corredate dalle tavole di Andy, come tocco esteticamente accattivante e come invito a spogliarsi delle maschere di cinismo che ci circondano per riscoprirsi vivi.
Andando invece ad ascoltare l’EP che accompagna il romanzo, pubblicato da Riff Records anche in vinile colorato, il primo singolo estratto riprende il titolo del libro e ne descrive il contesto diurno, avvisandoci che verrà presa una nuova consapevolezza ed una nuova direzione. La notte sarà il momento in cui poter ancora sognare e piantare i semi di una ribellione possibile dal punto di vista umano. In La caduta invece i toni sono particolari, finanche pop nel ritornello, capace di imprimersi in testa sin dal primo ascolto. Il sax di Andy crea un’atmosfera noir estremamente piacevole accompagnandoci dentro la controrealtà delle Distanze, con un gusto per gli anni Ottanta riscontrabile anche dall’uso sapiente dei synth.
Lory Muratti, oltre che scrittore e musicista, è anche un visual artist e un attore: chi ha partecipato ai suoi monologhi – concerto sa che ci si può aspettare di essere attratti da tutte le sue declinazioni artistiche. Da qualche giorno, lui ed Andy stanno portando in giro il talk & sounds incentrato sul romanzo: per chi si accosta per la prima volta all’autore sarà una scoperta, per chi conosce già il suo modo di stare sul palco invece sarà un’ottima conferma.
Nasce dal dissenso l’urgenza della scrittrice ceca Radka Denemarková di comporre un romanzo-tempio sulla Cina, dopo viaggi e incontri che l’hanno portata a riflettere sullo scarto tra la percezione di sfaldamento e trasformazione sociale e la rappresentazione di equilibrio e armonia. Le tetre affinità con un’idea di controllo collettivo vissuto nella Cecoslovacchia della normalizzazione producono nella scrittrice un senso di contaminazione, in un “vortice di censura e autocensura”. Voce di spicco del dibattito pubblico ceco, Denemarková è autrice di saggi, opere teatrali, romanzi, e traduttrice di Tokarczuk, Müler e Stavaric.
Ha ottenuto per la quarta volta il prestigioso Magnesia Litera con Ore di piombo, costato il bando perpetuo dalla Cina, anche per la vicinanza con gli attivisti del manifesto Charta 08 (ispirato alla Charta 7 dei dissidenti cecoslovacchi). Definito un romanzo di perenne stupore, di dialoghi socratici, di domande, iniziazioni e variazioni dolorose, è un “peculiare diario di viaggio nell’anima dell’Europa e nell’anima di un pezzo d’Asia”. Con un racconto fluviale strutturato su stratificazioni di storie di soggetti che incarnano visioni agli antipodi e con una narrazione dal passo apparentemente favolistico in cui si avvicendano Scrittrice, Ragazza Cinese, Madre Cinese, Programmatore, Diplomatico, Studentessa Americana, Avvocato, etc., l’opera riflette sugli esiti individuali e collettivi dei totalitarismi. Denemarková si approccia a questo tema faustiano, polisemico, archetipale vestendolo di nuovo”, attraverso lo studio narrativo di “questo animale che chiamiamo società, in un romanzo di concreto realismo e infusa astrazione”. Tra diario di viaggio, romanzo corale, saggio filosofico, studio poetico, indagine sociologica, il romanzo si regge su frammenti ricomposti del dialogo aperto tra Oriente e Occidente da cui emerge una vicinanza di destini per condizionamenti famigliari, alienazione contemporanea, confinamento nella norma, logoramento delle reti sociali canonizzate dalla parvenza coesa. L’opera è intesa come un corpo vivo in trasformazione e risponde a impulsi diversi a seconda dei luoghi e dei tempi che abita. Ala crisi dell’individuo che si riverbera anche nelle arti e, in particolare, nella letteratura, Denemarkova contrappone l’esempio di Václav Havel, a cui si ispira nel misurare il rigore etico di un paese. Tra le influenze il realismo russo; le visioni kafkiane dell’intrico inquieto originato da un cocente smarrimento esistenziale tra incognite spirituali; lo studio dell’anomalia in Bernard, in particolare nelle riflessioni sull’isolamento e l’annientamento dell’essere umano nel racconto della solitudine in rapporto al paesaggio. La peculiare visione del tempo nell’opera, che a tratti abbandona la presa sul contemporaneo in favore di una fratturazione del discorso lirico in movimenti, cela rimandi alla poesia ceca proletaria, surrealista, civile. L’elogio della dissonanza riluce in un’opera maestosa, che si contrae in un’espressività minimalista di gusto orientale nel cogliere sfumature recondite dell’animo, e si espande in un flusso di storie interconnesse, descrizioni urbane, affreschi sull’irrequietezza, dissertazioni ideologiche.
Il titolo omaggia Dickinson e rimanda alla sensazione di scrivere con il piombo intorno ai polsi. Nel bilico tra adesione al noto e aperture fantastiche, la presenza animale evoca una tensione tra libertà e controllo simboleggiata da cornacchie nere, gazze azzurre e gatti sapienti. Il riconoscimento della coesistenza in Cina di socialismo e capitalismo, e la sua definizione come uno splendido campo di concentramento dai confini impermeabili e al contempo un giardino fiorito, passano attraverso l’analisi dell’Europa centrale per riflettere sul significato della propaganda nel trasfigurare gli eventi, e della menzogna come un “camaleonte non rieducabile”. Denemarková riconosce una comunanza tra il ciclo di singole vicende esistenziali e quello della storia dell’umanità, in bilico tra atrocità e rinascite, in una vana ricerca identitaria. Nel confronto tra realtà diverse, la cifra comune è l’impronta patriarcale nei condizionamenti individuali, nelle politiche sociali, nel controllo del concepimento: “Lo Stato si pianta a gambe divaricate davanti a un corpo e decide”. Immortala un’umanità malata di burn-out, infettata da razzismo, antisemitismo, sessismo e zelo patriottico, a cui contrappone l’appiglio fornito dalla scrittura come atto di difesa, come fuga dalla disperazione e come tentativo di decifrare il codice della solitudine delle parole”. L’opera è un ritratto allucinato di paesi dal personale Olocausto, dotati di un subconscio dove prospera la mentalità dei popoli: uno studio che con una lirica cifra visionaria consegna interrogativi su ciò che sostanzia la moralità, sull’autorità della coscienza e sulla fusione della crisi dell’individuo con la crisi dell’umanità.
Con il nome che si ritrova, Ulisse Corsini non può che essere il degno erede di quella tradizione modernista che comprende il Leopold Bloom dello Ulysses joyciano e lo Zeno Cosini della Coscienza di Zeno di Italo Svevo. Nel Cimitero delle macchine di Sergio La Chiusa, tuttavia, si sente anche il peso del secolo che ormai ci separa da questi testi canonici del primo Novecento europeo, cui bisogna perlomeno aggiungere il riferimento kafkiano contenuto nel nome di un altro personaggio, il dottor Klammermann (dal Klamm del Castello). Nel frattempo sono intervenuti, tra gli altri, Buzzati e soprattutto Bianciardi – per la Vita agra, rispetto all’ambientazione milanese del romanzo, dove Milano non è “capitale morale” del Paese, bensì il luogo fantasmagorico e al tempo stesso crudo del titolo: un “cimitero delle macchine” –, come ha notato, tra gli altri Gianni Barone, parlando di un testo che, effettivamente, «gronda letterarietà da ogni pagina».
Questo non significa, d’altra parte, che la scrittura di Sergio La Chiusa manifesti strette affiliazioni epigoniche ai suoi modelli, risultando invece libera dagli stilemi più marcati del modernismo e risolvendosi, anzi, in una pagina che è spesso molto nitida, per quanto costantemente attraversata da potenti tensioni linguistiche. Si tratta, infatti, di una scrittura che tende verso l’orizzonte del nuovo Grande Romanzo Italiano, ma all’interno di una torsione della lingua che rifugge le banalità formali di molta altra prosa, per così dire, “mainstream”, per assestarsi in una zona superficialmente pacificata e in realtà foriera di continue deviazioni, trasgressioni, illuminazioni. Si sta dicendo, in altre parole, di un disegno e di un controllo autoriale già visibile nelle ultime pubblicazioni di La Chiusa – I Pellicani (Miraggi, 2020) e Madre nel cassetto (Industria & Letteratura, 2023) – e che di certo attiene a un progetto autoriale di lunga data, visto che l’ideazione dell’opera viene ricondotta, nelle note finali, al biennio 2003/2005.
Rispetto al precedente libro per Miraggi, Giorgio Mascitelli ha poi osservato, nella sua recensione apparsa su “Nazione Indiana”, che «se ne I Pellicani ci troviamo in una generica periferia urbana, in questo romanzo l’azione si svolge a Milano, che nell’immaginario mediatico nazionale è la città patinata e nuova di zecca per eccellenza». Anche di Milano, in realtà, sono esplorate zone periferiche e marginali – quasi mai rintracciabili con certezza a livello topografico, o sociologico, nella realtà della città lombarda – che finiscono per intaccare la patinatura di capitale “morale”, “degli affari” o “della moda”.
Una di queste è il cimitero delle macchine che dà il titolo al libro e che compare con espressionistica forza in apertura della seconda parte del romanzo come una corte dei miracoli anarcoide e incendiaria nella quale spicca il personaggio di Lazzaro Lanza – figura borderline (e dunque delirante e al tempo stesso umanissima, per nulla caricaturale) del militante rivoluzionario. È sul medesimo livello che resta una possibile interpretazione della politica rappresentata e agita nel testo, con implicazioni più vicine a una sorta di pessimismo umanista che a un vero e proprio nichilismo. Le traiettorie di Ulisse e Lazzaro si sovrappongono per buona parte della seconda sezione, con almeno una scena che si imprime vividamente nell’immaginazione, almeno nella nostra lettura, ovvero con la riproposizione milanese di un novello Cristo a dorso d’asino che replica l’Entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889 di James Ensor.
Capolavoro pre-espressionista, quest’ultimo, la cui presenza para-ecfrastica rinforza le torsioni espressionistiche del linguaggio che si agitano sotto la superficie della pagina, assai ripulita, di La Chiusa. Non è questa, tuttavia, la sola immagine che si può consegnare, in chiusura, del libro: di Ulisse Corsini restano memorabili le disavventure condominiali, sessuali e sanitarie, a completare la figura di un personaggio che a un certo punto, in un passaggio carico non solo di letterarietà ma anche di metaletteratura, viene definito “posticcio e inattendibile”, ma che mostra, proprio per questo, mille sfaccettature (spesso molto materiali, e anche triviali). Ulisse Corsini è senza dubbio un “fuggiasco assoluto”, come ha giustamente osservato Mascitelli, ma sempre umano, umanissimo, al punto da contagiare chi legge con l’insopprimibile desolazione che è tanto sua quanto del cimitero delle macchine che, oggi, si nasconde in ogni nostra città.
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