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Storie da una Milano di emarginati e freak, «Il cimitero delle macchine» di La Chiusa sul «manifesto»

Storie da una Milano di emarginati e freak, «Il cimitero delle macchine» di La Chiusa sul «manifesto»

di Stefano Zangrando

Quando cinque anni fa Sergio La Chiusa, palermitano d’origine e milanese d’adozione, fu finalista al Premio Calvino e premiato con la Menzione Speciale Treccani per il romanzo I Pellicani, poi pubblicato da Miraggi, ci fu chi ne salutò l’eterodossia rispetto alle forme narrative dominanti. Ispirato a maestri della letteratura umoristica come Gombrowicz e Beckett, quell’esordio in prosa di un ex-poeta attestava in effetti doti stilistiche non comuni, un senso pronunciato dell’assurdo e la capacità di osare senza manierismi il richiamo a certi capisaldi del modernismo letterario. Oggi sappiamo che quel libro fu scritto tra una fase e l’altra del lavoro quasi ventennale a un’opera più ampia, ora proposta con altrettanto coraggio dallo stesso editore torinese: Ilcimiterodellemacchine(Miraggi, pp. 400, euro 26) è un romanzo – mondo esaltante e benefico, perché dimostra come l’arte nata con Rabelais e Cervantes possa ancora esercitarsi in piena libertà.

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ILBELLO è che fa ridere e non spaventa: il protagonista si chiama Ulisse Orsini, la sua peregrinazione estiva nella «città delle opere» (o «della moda e degli eventi») ammicca tanto all’antenato joyciano quanto al progenitore acheo di entrambi, la rete intertestuale è fitta e sfacciata nel chiamare in causa altre pietre miliari della cultura occidentale, letterarie quanto figurative o spirituali, eppure il romanzo non pecca né di grandeur né di epigonismo. Alto e basso vi si amalgamano anzi con una tale divertita disinvoltura da non lasciare dubbi sulle intenzioni dell’autore: abbordare ogni stortura del nostro presente con un mezzo più duttile possibile, sia linguisticamente sia nella composizione, e farlo attraverso un protagonista sfigato per bene, ma privo di una dimensione tragica. Orsini è infatti un quarantenne senza più lavoro, trascurato e depresso di conseguenza, indebitato quanto basta, che vive da solo fra condòmini più o meno molesti e da uno di questi si lascia avviare alla prima tappa del suo smarrimento: nel palazzo fatiscente dove ha sede l’ambulatorio del dottor Klammermann, kafkiano per nome e imperscrutabilità.

È solo l’inizio, ma già qui il narratore s’immischia parlando per sé e il proprio personaggio alla prima persona plurale, con il disincanto di chi sa quando rompere la finzione perché sa anche come ripristinarla, per poi di stazione in stazione concedersi divagazioni, accumuli, proliferazioni a latere che illuminano direttamente aspetti del reale. Il quale per il resto è qui trasfigurato in un cosmo metropolitano ad alto tasso immaginifico, non importa se si tratta di un artista mancato fattosi prete o di una venere dell’immondizia, di un bordello o di un reparto geriatrico: sempre le vicende di Orsini attraversano luoghi e s’imbattono in esseri di sorprendente vividezza e icasticità, e la sorte bislacca e inconcludente che sembra perseguitarlo nella prima parte è solo la premessa della sua avventura centrale – poiché a un eroe dei nostri tempi può toccare, nel migliore dei casi, di finire in una discarica.

È QUESTO IL CIMITERO delle macchine: lo scenario alla periferia di una Milano mai nominata ma ben riconoscibile dove convergono gli estromessi di un sistema votato alla catastrofe. Ci sono i giovani incendiari, che dibattono puerilmente da posizioni ideologiche complementari ma inconciliabili, le antispeciste che indossano la mascherina per non ingerire i moscerini, gli imbrattamuri infoiati, il palestinese in crisi post-traumatica e la

naturista gravida. Ma soprattutto c’è Lazzaro Lanza, guru del «Movimento per la sopravvivenza dell’umanità» nonché imbianchino con l’Ape, capace di affondi profetici sull’oggi come di dialoghi notturni con Lao Tzu e altri «intellettuali insonni», e parente figurale sì di Gesù, giacché toccherà anche a lui una via crucis sui generis con annessa ascensione, ma anche del Franchino di Fantozzi, con pari dignità.

Non è tuttavia tra i rifiuti e gli scarti del capitale che finirà la deriva di Ulisse Orsini, né a Lanza basterà teorizzare ai margini, intenzionato com’è a conquistare il centro urbano con un nutrito seguito di diseredati inneggianti alla rivoluzione. Il trionfo pseudo-apocalittico in cui tutto culmina, prima del congedo di un Orsini sfrattato e spogliato, si sdoppia: ora in due varianti opposte e soltanto sognate di un diluvio che sommerge la città, ora in un ingresso cristico nella medesima che, quando non finisce a manganellate, è la farsa di un anzianotto accolto con ogni onore dalle autorità. Smarrito pure lui, non fosse per un’irresistibile ostia al cioccolato.

QUI l’articolo originale: https://ilmanifesto.it/archivio?autore=Stefano%20Zangrando

Ulisse Orsini e il peso insostenibile della libertà – Angelo Di Liberto su Modus Legendi

Ulisse Orsini e il peso insostenibile della libertà – Angelo Di Liberto su Modus Legendi

di Angelo Di Liberto

Quando nel 1926, in una nota a “Il Castello”, Max Brod divulga la volontà di Franz Kafka di fare terminare il romanzo con la morte dell’agrimensore K. proprio quando dal castello arriva la concessione all’uomo di poterci vivere e lavorare, Kafka apre una questione mai risolta sul rapporto tra essere umano e libertà.

Già nel quinto paragrafo del quinto libro di Fëdor Dostoevskij, “I fratelli Karamazov”, dal titolo “Il Grande Inquisitore”, l’autore russo mette l’Inquisitore nella condizione accusatoria contro il Cristo ritornato, che aveva tentato di portare la libertà a un popolo non in grado di riconoscerla e di usufruirne. In questo al pari di Vasilij Vasil’evič Rozanov, che nel suo “La leggenda del grande inquisitore” analizza quel rapporto in seno al potere ecclesiastico, vero responsabile della deriva nichilistica dell’essere umano, allontanato da se stesso e da Dio.

Perché sei venuto a infastidirci?, dice l’Inquisitore a Cristo, disvelando quell’inquietante verità del bisogno di un’autorità che governi e induca l’illusione di felicità negli uomini, che è una finta libertà, che acquieta e abiura l’incertezza.

La domanda viene ripetuta ancora, è il cardine di un consolidamento di potere, perché è nel binomio potere-libertà che l’Uomo fa i conti con la persecuzione, la solitudine e la colpa dinnanzi all’autorità.

Il terribile e ingegnoso spirito, lo spirito dell’autodistruzione e del non essere, – continua il vecchio, – il grande spirito parlò con Te nel deserto, e ci è stato tramandato nelle scritture che egli Ti avrebbe «tentato».


E prosegue, “I fratelli Karamazov”, col dubbio su chi fosse nel giusto, se Cristo o colui che l’interrogò.

In questa enunciazione vi è la forte opposizione dell’essere e del non essere, che è propria del gioco sottile del potere, che tenta di annientare qualsiasi volontà. L’Uomo acconsente perché il peso della libertà è insopportabile.
L’irresolutezza, secondo l’Inquisitore, condurrà l’essere umano a innalzare una nuova Torre di Babele al posto del Tempio di Dio, in mezzo alla pena, agli affamati, ai torturati, nel ciarpame e nelle discariche del mondo. E in questo inganno consisterà la sofferenza. Nel non trovare un posto nel Castello, nel non poter incontrare Klamm, il sommo funzionario, sfuggente, iperboreo, a cui K. vuole rivolgersi per risolvere la sua situazione. In ceco “klam” significa inganno, illusione, e tale sarà il funzionario, le cui competenze non verranno mai esperite nel romanzo.

Ulisse Orsini invece non ha nessuno a cui rivolgersi. Nella sua innocua nullità non ha nemmeno un Mefistofele moderno che gli insidi l’anima. Ulisse Orsini è un ultimo, un esodato, un rifiuto, una crosta purulenta, un ibrido umanoide senza identità. Ce l’aveva, Ulisse Orsini, ma l’ha persa. È stato costretto, Ulisse Orsini, ad andare via da casa, dal lavoro, dalla società. Ulisse Orsini non esiste più. E al suo creatore, Sergio La Chiusa, non resta altro che regalargli la parte in un romanzo per tenerlo in vita, da cui entra ed esce, con un “tu”, con un “noi”, a seconda di chi lo segue, se i lettori da soli o insieme a lui, il protagonista, lo scrittore e chissà chi.

Calma però, calma: Ulisse non sa d’essere in un romanzo: è un personaggio serio, a suo modo, e invece di perdere tempo mettendo in discussione i ruoli cerca una via d’uscita.

Lo inducono ad andare dal dottor Klammerman, il deus ex machina, in ospedale, che il suo sia un caso clinico?, quest’Ulisse che sragiona, che non sa che farsene della sua libertà, ora che la società non lo vede più.

Ma è l’inizio di un’odissea tra gli antispecisti, tra statue e manichini, in un condominio frequentato da fantasmi, tra incendiari ed enigmisti, con la sua valigia piena di vestiti o di niente, come un moderno “Bad Boy Bubby”, alienato, visionario pronto a tutto, che non è capace di ribellarsi, o per meglio dire, che in una smaniosa, affettata e quanto mai disperata ribellione non trova la felicità.
E allora vaga tra discariche e relitti umani scambiati per guru, mentre Sergio La Chiusa svuota le frasi del superfluo, quei pensieri che a Ulisse Orsini mancano, vanno e vengono si fanno ipotattiche paralisi dinnanzi all’abisso.

Come aveva fatto nei precedenti testi, La Chiusa, “Che ci facevo sulle scale di un caseggiato in rovina? La mia situazione mi sembrava così irreale che sospettai di essermi inventato tutto (“I Pellicani”, pubblicato da Miraggi Edizioni, finalista al Premio Italo Calvino – Menzione Treccani; al Premio Bergamo, al Premio Giuseppe Berto e al Premio Megamark) e “Tali interrogativi mi spaventano e m’allontanano pericolosamente dalla realtà” (“Madre nel cassetto”, pubblicato da Industria & Letteratura), dicevo, come aveva fatto nei precedenti testi, lo scrittore induce il suo protagonista in una realtà deliroide fatta di frasi stroboscopiche sapientemente dosate, che allargano la visione del lettore e la costringono a vedere tutto in primo piano, non esiste più la tridimensionalità, la visione di fondo, ogni cosa è percepibile accanto all’altra, senza soluzioni di continuità ma con forme nitide e riconoscibili nonostante non siano scisse dalle altre.

A La Chiusa non resta che l’ironia, il tragico umorismo come primordiale autocoscienza del personaggio, in questi tempi in-drammatici e non più tragici. E così Cristo torna tra noi, in una versione burlesque e anacronistica alla James Ensor, autore del quadro che lo stesso La Chiusa cita nel romanzo, “L’entrata di Cristo a Bruxelles”, un’opera pittorica del 1889, in cui Gesù è attorniato dalla trasfigurazione epigonale di categorie ridicole. Buffoni, medici, paladini, maschere da ruolo sociale. Quest’opera è da subito ribattezzata “L’ingresso di Cristo nella città della moda e degli eventi nel 2004”, alludendo a Milano, nella sua impostura più spietata, città finta e di superficie.

«Cari concittadini, come potete vedere vi abbiamo riportato Gesù in persona, la nostra giunta comunale ha lavorato a lungo per arrivare a questo risultato che ci ha permesso di vincere un’agguerrita concorrenza internazionale. Tutte le capitali europee se lo contendevano: Parigi, Berlino, perfino Londra, che avrebbe voluto metterlo in coppia con la regina ed esibirli insieme a Buckingham Palace, e più tardi al museo delle cere, e siamo davvero onorati che nonostante le molte proposte alla fine Gesù abbia scelto la capitale morale del Belpaese per ripresentarsi nell’arena pubblica, e ciò è motivo d’orgoglio per la nostra città delle opere, sempre all’avanguardia, sempre un passo avanti… Ma ora basta! Ve l’abbiamo fatto vedere!».

Il Cristo pare vacillare, non è più di questi tempi, il Grande Inquisitore l’ha spodestato, tra palestrati, assessori, imprenditori, tutti a chiedere sciocchezze da talk show, incapaci di focalizzare le questioni essenziali.
Sindaco e Cristo, come ne “I fratelli Karamazov”, solo che ora è una farsa, la farsa dei pomeriggi in tv, degli esperti che vedono talenti dappertutto, anche se il talento è fuggitivo ed è meglio che quello vero si disperda, liquefatto dalla prestazione posticcia di un qualsiasi saltimbanco da circo, fino a distorcere la parabola dei talenti.

Perché oggi si preferisce il fenomeno e tra tutti il morto singolo, fenomeno dei fenomeni, quello empatico, che scippa una lacrima al tizio seduto in poltrona a casa sua.

E chi vuole la verità?

Sono io il vero Ulisse, il signore è un impostore. Un personaggio! Posticcio e inattendibile pure come personaggio!

E avanti il prossimo! Senza peso, senza libertà.

QUI l’articolo originale

Le rovine di La Chiusa. Recensione a «Il cimitero delle macchine» su Nazione Indiana

Le rovine di La Chiusa. Recensione a «Il cimitero delle macchine» su Nazione Indiana

di Giorgio Mascitelli

Il cimitero delle macchine (Torino, Miraggi, 2024, euro 26) è il secondo romanzo di Sergio La Chiusa, anche se, come precisa l’autore nella nota alla fine del libro, la sua ideazione precede I Pellicani risalendo al biennio 2003-05 e avendo poi vissuto una serie di rielaborazioni e riscritture anche in tempi più recenti. In questo romanzo dominano le rovine, le discariche abusive, le costruzioni fatiscenti e per l’appunto i cimiteri di macchine; ora al lettore di La Chiusa un paesaggio del genere non giungerà affatto sorprendente, ma se ne I Pellicani ci troviamo in una generica periferia urbana, in questo romanzo l’azione si svolge a Milano, che nell’immaginario mediatico nazionale è la città patinata e nuova di zecca per eccellenza. Ovviamente, come sa ogni milanese salvo quelli onorari, anche a Milano ci sono posti del genere, del resto l’immaginario futurista della città nasce da quelle tre piazze e quattro vie che oggi ricorrono in tutti gli spot pubblicitari, ma il tema della rappresentazione di La Chiusa non è di ordine geografico né sociale, perlomeno nel senso ristretto e immediato che tale aggettivo prende nella narrativa realistica di denuncia. In La Chiusa la rovina è la concretizzazione spaziale della natura della civiltà contemporanea e della dimensione psichica dei suoi abitanti. Se “La visita delle rovine ci fa fugacemente intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita. E’ un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri e di ricostruzioni, da questo nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine. Un tempo perduto che l’arte riesce talvolta a ritrovare” (Marc Augé), le rovine di La Chiusa in realtà non hanno alcuna funzione di recupero e di rievocazione e non sono nemmeno macerie che non hanno fatto in tempo a diventare rovine, al contrario esse sono perfettamente funzionanti, come dimostra il fatto che sono fittamente popolate. Si direbbe quasi che sono state progettate per essere fatiscenti come i carceri di Piranesi, infatti esse sono regolarmente previste dal funzionamento standard del potere e questo ne rivela la natura allegorica della situazione storica contemporanea, in cui sia le città sia i rapporti tra gli uomini sono malfunzionanti e tendenti al degrado perché sono state progettati e promossi per una finalità diversa da quella di un’armoniosa vita collettiva.

In questo spazio devastato si muove Ulisse Orsini. Egli è un disoccupato, disadattato che appartiene alla stirpe degli Ulissidi, ma più che al capostipite deve qualcosa al fondatore del ramo moderno della famiglia, quel Leopold Bloom di Dublino, con il quale se non altro condivide una qualche propensione a scorgere, nella veglia e nel sonno, epifanie della bellezza in questa realtà desolata. Ulisse incarna il tipo del fuggiasco, è un fuggiasco assoluto per così dire: dapprima resosi conto di essere ormai un emarginato fugge dalle ambigue istituzioni che il mondo predispone per coloro che non ce la fanno oppure è costretto a fuggire da casa sua e da altri luoghi;  quando arriva nel cimitero delle macchine dove trova altri emarginati come lui, non molla mai la valigia e si pensa provvisorio, anche perché scopre a sue spese la verità del vecchio detto di Trotzky che è più facile morire in nome dei proletari, che qui potremmo parafrasare con reietti o appunto emarginati, che viverci assieme. In Ulisse è talmente connaturata la tendenza alla fuga che perfino quando partecipa a una dimostrazione per riformare il mondo, superando per una volta le proprie inclinazioni individualiste, viene messo in fuga dalle forze dell’ordine costituito. E questa tendenza spiega anche il finale, che per comprensibili motivi non posso anticipare qui.

Al protagonista capita di assistere nella discarica ai disperati tentativi di un bassotto di avere un coito con una cagna maremmana, destinato a fallire comicamente nel suo intento per le ostensibili differenze di taglia. In qualche modo in questa immagine vi è condensato lo scarto tra aspirazioni a una vita degna di essere vissuta e opportunità di viverla per davvero. Eppure questa immagine solleva lo spirito di Ulisse perché la vitalità del suo scopo sembra assegnare un senso a un mondo in cui anche il senso appartiene a pieno titolo alle rovine. Analogamente l’entrata di Cristo a Milano non è destinata a riprendere il racconto evangelico, come invece l’entrata a Bruxelles nel dipinto di Ensor che La Chiusa cita esplicitamente nel testo. Qui Cristo è accolto dalle autorità cittadine, trattato come celebrità per il quarto d’ora di sua spettanza e poi rapidamente dimenticato senza bisogno di alcun tradimento o voltafaccia della folla. Il racconto evangelico perde di senso nella società dello spettacolo.

Il romanzo è narrato in terza persona con cambi di focalizzazione e addirittura in alcuni passi con un cambio verso la prima persona plurale, quasi che il narratore onnisciente ci suggerisse la sua identificazione con il protagonista. Inoltre sono presenti inserti metanarrativi in cui il narratore rompe deliberatamente la finzione del racconto apostrofando il lettore. Tutte queste sono procedure, come nei classici del modernismo, volte a creare un rapporto di straniamento. Il problema non è qui fare una storia ben narrata che spieghi un po’ di tutto e un po’ di niente, ma di offrire squarci e agnizioni sul presente, quasi dei flash che illuminano frammenti di paesaggio nella notte e questo spiegherebbe perché in questo autore è presente un forte immaginario pittorico non solo in termini di citazione colta, ma di dialogo con alcuni grandi della nostra tradizione (il già menzionato Ensor, Botticelli, il prediletto da La Chiusa Brughel ecc.). Verrebbe da dire che nel romanzo ciò che conta non è il soggetto, ma lo sguardo doloroso che Ulisse grazie al chiaroscuro della scrittura di La Chiusa volge sulle persone e sugli oggetti senza mai distogliere gli occhi. Tutto questo iscrive Il cimitero delle macchine nel campo della letteratura inattuale, eppure quell’inattualità è la verità della letteratura ossia la capacità di gettare uno sguardo sul presente libero da quelle ipoteche culturali e psicologiche che la società getta su se stessa nella forma dell’ideologia se non della menzogna. E questo libro è oltremodo vero.

QUI l’articolo originale

I Pellicani – recensione di Leonardo Malaguti su LiminaRivista

I Pellicani – recensione di Leonardo Malaguti su LiminaRivista

Sintassi, solitudine e Simmenthal. I Pellicani di Sergio La Chiusa

A cavallo tra Beckett e Lo Sgargabonzi, tra Topolino e Kafka, I Pellicani di Sergio La Chiusa (Miraggi 2020) si snoda come un sogno lucido, un’allucinazione verbale in cui il lettore viene risucchiato e imprigionato in un trilocale claustrofobico assieme al protagonista e al suo (presunto) padre.
L’appartamento dell’anziano Pellicani è assieme stanza, mondo, e l’interno della mente di Pellicani figlio (?), che – narratore prepotente e assolutamente inaffidabile – filtra attraverso la sua logorrea ogni frangente della realtà, rendendola indistinguibile dalle sue fantasie e angosce. 
Il libro è l’appartamento e l’appartamento è il libro, e i protagonisti non possono uscirne perché vorrebbe dire uscire dalla narrazione, staccarsi dalle pagine. 

«Il corpo è la gabbia dalla quale nessuna fuga è ammessa e che ci rende tutti simili […] anche l’immobile fatiscente in cui entrano in contatto i Pellicani potrebbe essere visto come un grande corpo-gabbia, o, meglio, un corpo sociale in rovina – e se un’etica del corpo è rintracciabile nel romanzo va forse cercata nella presa d’atto di questa precarietà e impossibilità di fuga che ci rende tutti simili.» [1]

Questo corpo-gabbia di cui parla La Chiusa, prima ancora di essere «immobile fatiscente», pezzo di carne o costrutto etico-sociale, è il testo stesso. O meglio, è soltanto il testo: la scrittura non s’immerge nella storia e nei personaggi, non si mimetizza, non si fa immagine, ma seguendo un moto inverso che dalla profondità porta alla superficie mette al centro se stessa e le parole, il loro suono, il flusso che creano. Utilizza un italiano eccentrico, desueto e pop, che attraverso un’ipotassi prepotente spinge il testo a perdersi in mille diverse linee di pensiero, voli pindarici senza capo né coda, un vortice senza un centro che col sorriso sotto i baffi fa progressivamente sfaldare il senso del discorso e delle parole. L’incertezza tracotante di Pellicani figlio, l’angoscia muta e scatologica di Pellicani padre, la decadenza marcescente del palazzo, non vengono tanto descritte, quanto letteralmente incarnate dalla prosa stessa. Tutto viene messo in discussione, anche l’identità della voce narrante in prima persona, che – nel momento di massima incertezza semantica e formale – non regge la tensione e, prendendo le distanze da sé e persino dal lettore, muta per qualche paragrafo in una terza persona.

«Il vecchio ci stava ipnotizzando, risucchiando nei vortici del suo naso, e anzi in un certo senso eravamo tutti accucciati lì dentro, rannicchiati, al calduccio, trasportati nel suo mondo, incavernati, per così dire, inselvati tra ruvidi peluzzi e ivi vezzeggiati da una brezzolina […].» 

L’attenzione di La Chiusa alle possibilità espressive della prosa è senza ombra di dubbio l’elemento più originale e riuscito del libro (che non a caso ha ricevuto la Menzione speciale Treccani alla XXXII edizione del Premio Calvino), approccio in controtendenza rispetto un panorama letterario che solitamente privilegia l’eccessiva semplificazione, e che ricorda per certi versi quello (più filologico ma altrettanto fantasioso) di Massimo Roscia, un tour de force linguistico venato di un’ironia nera e surreale. Non sempre però la lettura scorre, non tanto per la lingua, quanto per certi momenti di ridondanza, che, a volte, più che scelte di stile sembrano provare a nascondere una prematura stanchezza drammaturgica. Come nel recente La Madre Assassina di Ermanno Cavazzoni (La Nave di Teseo, 2020) – formalmente opposto, ma dalle tematiche simili, entrambi racconti kafkiani incentrati su protagonisti che mettono in dubbio tutto ciò che vedono e che sono, intrappolati in un mondo ostile ma da cui dipendono, uno che cerca di emanciparsi da una madre/mostro, l’altro da un padre/parassita – l’impressione è che quello che sarebbe stato un racconto incisivo sia stato diluito in un romanzo sì piacevole, ma meno pregnante. 

Con I Pellicani, La Chiusa ha tentato l’impossibile: una summa della trilogia beckettiana – di cui tocca tutti i temi salienti, dall’identità sfaldata, alla solitudine esistenziale, al caos, alla malattia, alla morte, all’incomunicabilità, e di cui rievoca la prosa fiume – ibridata con una vena satirica allucinata che, tra il trash e il nostalgico, tra la Simmenthal e Amleto, racconta di un Paese infantile e senile assieme, che si riconosce soltanto nella pubblicità andata in onda tra un cartone e l’altro quando eravamo piccoli. Un’ambizione mastodontica, insomma, destinata a fallire in partenza: ma La Chiusa sa che, stando a Beckett, il fallimento non è che il risultato ineluttabile di ogni azione umana, il motore che ci muove e paradossalmente ci spinge a vivere, e che, non a caso, è anche il fulcro de I Pellicani; dunque si può tranquillamente affermare che si tratta di un fallimento riuscito. In fondo il sottotitolo del libro è storia di un’emancipazione: emancipazione dalla società, da se stessi, dal falso mito capitalistico del dover “riuscire” per potersi definire umani.

«You must go on. I can’t go on. I’ll go on.» [2]





[1] Intervista a Sergio La Chiusa di Angelo Di Liberto.
[2] da Samuel Beckett, L’innominabile

QUI l’articolo originale:

https://www.liminarivista.it/comma-22/sintassi-solitudine-e-simmenthal-i-pellicani-di-sergio-la-chiusa/?fbclid=IwAR1NUmFm7vo9HFnzW5ERfCfxw0F_7iXWvep4utYeKmaUgrup5hDXEsVkoPs&cli_action=1631806272.318

I Pellicani – recensione di Raffaella Romano su Mangialibri

I Pellicani – recensione di Raffaella Romano su Mangialibri

La sua intenzione non è quella di stabilirsi, di “installarsi” a casa del padre; sta solamente passando per quelle zone -per impegni di lavoro, naturalmente- e sarebbe poco cortese non andare a trovarlo; giusto una visita di cortesia, per educazione. Al massimo potrebbe fermarsi per una notte, certo non di più. Alla fine, si tratta sempre di suo padre. Chissà che faccia farà, pensa Pellicani figlio, dopo vent’anni di assenza. Sarà stupito, sorpreso di vederlo in quel suo completo grigio con la valigetta ben salda in mano. “Affari, un’impresa import-export” gli spiegherà, ponendo ben in mostra la valigetta, mentre il padre si adopererà per mettere a suo agio il figlio, rispettabile uomo in carriera. Certo, il vestito non è perfettamente stirato, appena un po’ sgualcito -ma sono gli effetti dei continui viaggi di lavoro, le trasferte, i voli. Ed è vero, la valigetta contiene solo qualche oggetto di cancelleria di cui Pellicani figlio si è appropriato prima di andarsene dalla sua occupazione precedente e, che altro? Ah sì, una mutanda pulita come ricambio, che non si sa mai. Il palazzo non è, però, come se lo ricordava. Tutta la via, in realtà, si mostra come un cumulo di macerie e pilastri e tubi ed il caseggiato nel quale viveva Pellicani da giovane si staglia come unico edificio sopravvissuto, quasi vergognosamente, tra i resti di altre costruzioni. Pellicani figlio entra nel caseggiato attraverso il portone d’entrata tenuto aperto da un mattone e imbocca le scale…

Partiamo dai fatti: il romanzo in questione è stato finalista alla XXXII edizione del Premio Italo Calvino e in questa occasione ha avuto la Menzione Speciale Treccani: in effetti, l’elemento che forse maggiormente caratterizza e conquista di questo romanzo è l’utilizzo della lingua, puntuale e affascinante. La scrittura è davvero equilibrata, sapiente e il lettore si sente rassicurato, guidato dall’autore cui si affida pienamente: tale precisione e armonia cozzano irrimediabilmente con la storia raccontata, che narra di decadenza sociale, personale, fisica. Il tema centrale è il rapporto fra padre e figlio (o, per la precisione, fra Pellicani figlio e quello che si presume essere suo padre) che implica il conoscersi e il riconoscersi, comprende la necessità di fare i conti con il ciclo della vita, la necessità di dialogo e l’incomunicabilità fra diverse generazioni o ruoli sociali. Mentre i personaggi – limitati, essenziali – sembrano non riuscire a instaurare una comunicazione alla pari, gli oggetti attorno a loro hanno una potenza espressiva e iconica sorprendente (la valigetta, la carne Simmenthal, i fumetti e i giocattoli). Pur svolgendosi effettivamente e quasi completamente entro quattro pareti, il romanzo parla di una realtà (e follia) attualissima e universale, incrociando sensi di colpa e voglia di riscatto, malattia fisica e squilibrio mentale, disagio sociale subito e incapacità di adattarsi alle norme imposte. Un romanzo consigliatissimo.

QUI l’articolo originale:

https://www.mangialibri.com/i-pellicani

I Pellicani – Daniela Morandi intervista Sergio La Chiusa sul Corriere della Sera

I Pellicani – Daniela Morandi intervista Sergio La Chiusa sul Corriere della Sera

Padri tormentati dai figli, tra immaginazione e realtà

La scrittura è fitta. Trascina il lettore in una spirale ossessiva, a tratti claustrofobica. «I Pellicani, cronaca di un’emancipazione» di Sergio La Chiusa si consuma all’interno di un edificio decadente e disabitato. O meglio, un residente c’è: Pellicani padre, anche se l’io narrante del figlio, in visita dopo vent’anni d’assenza, ha qualche dubbio sulla reale paternità. Unica somiglianza? Un naso ingombrante. In un continuo rimando tra realtà, finzione, aspettative, vecchiaia e giovinezza, si assiste all’immobilismo di un giovane uomo alle prese con temi sociali ed esistenziali. Lo scrittore, tra i finalisti del Premio Bergamo, ne parlerà oggi alle 17 sui canali social della manifestazione, intervistato da Maria Tosca Finazzi.

Come nasce il titolo?

«Pellicani è il cognome dei protagonisti, richiama il loro naso ingombrante e ironicamente anche la simbologia cristiana del pellicano: il padre che si sacrifica per i figli, mentre nel romanzo un ipotetico padre è tormentato da un ipotetico figlio».

Il sottotitolo «cronaca di un’emancipazione» è più ironico che reale.

«Sì, gioca con il sentimento del contrario che anima il romanzo. Non si tratta di una cronaca, ma di una continua interpretazione tendenziosa e contraddittoria. Poi le emancipazioni sono parodie di un’emancipazione: il giovane vive confinato nella trappola della propria mente, il vecchio nella trappola del proprio corpo, entrambi nella trappola dell’immobile».

Nel testo si relaziona molto con gli oggetti, valigetta, pantofole, peluche, Pinocchio, mollette… Perché?

«Gli oggetti affollano il romanzo supplendo alla povertà di personaggi. Sono usati come protesi del corpo, simboli, sintomi, indizi e agenti provocatori. Formano una specie d’inconscio fisico e si presentano allo sguardo paranoico di Pellicani come maschere dietro le quali si nasconde qualcosa di minaccioso, enigmatico, ostile. Anche se il rapporto che egli v’instaura ha spesso esiti comici, risultano perturbanti e possono essere visti come fili di un’immensa ragnatela tesa intorno alle nostre esistenze dalla società dei consumi».

L’io narrante afferma che «l’ozio è la forma assoluta della ribellione», «il nullafacente il vero sovversivo dei tempi moderni». Lo crede anche lei?

«No. L’io narrante è un portatore di conflitti, contraddizioni, ambiguità. Non il portavoce dell’autore. In taluni casi però la diserzione, non l’ozio, è la sola forma possibile di ribellione».

Nel romanzo il protagonista afferma che l’inclinazione a scomparire è una prerogativa degli asociali. Lei è sociale o asociale con la tendenza a scomparire nei suoi libri?

«Mi ritengo un essere sociale. Scrivere però è intimamente contraddittorio: un lavoro di solitudine e tuttavia rivolto idealmente a una folla ignota d’individui, sconosciuti gli uni agli altri, distanti nello spazio e nel tempo».

Si ritrova una continua relazione tra realtà e finzione.

«Uno dei temi del libro è il rapporto tra immaginazione e realtà, tra la fabbricazione di un mondo fittizio e la miseria del reale e della nuda vita, con i suoi limiti biologici, e il vecchio, con le sue esigenze di semplice sopravvivenza, rappresenta per il giovane uno specchio deformante che produce ossessioni».

La storia è ambientata in un caseggiato disabitato e decadente. È reale o il labirinto della mente?

«È un caseggiato reale, ma anche metafora d’una società in rovina e soprattutto labirinto mentale, intrico di stanze, scale e corridoi immateriali nel quale si consuma il confronto tra vecchiaia e giovinezza».

QUI l’articolo originale:

I Pellicani – recensione di Giorgia Gatti su Premio Comisso

I Pellicani – recensione di Giorgia Gatti su Premio Comisso

Pellicani figlio si presenta dopo 20 anni alla porta del padre. Non si vedono da quel giorno in cui lui se n’è andato sottraendo al genitore i risparmi che erano in casa.Pellicani arriva e trova un caseggiato disabitato e in rovina, l’unico appartamento ancora abitato sembra essere proprio quello di suo padre, ma al suo interno non trova il genitore, ma un vecchio paralitico, immobilizzato a letto e assistito quotidianamente da una donna, che ogni mattina lo nutre, si occupa della sua igiene e del lavaggio della biancheria.Fin qui tutto normale, tutto plausibile, tutto verosimile, vero?E invece no, non è così. Pellicani figlio racconta in prima persona ogni suo movimento e ogni suo pensiero, ed è così che ci accorgiamo che siamo all’interno di una mente allucinata, che siamo nella mente di un Don Chisciotte al contrario.Un eroico renitente, che con fierezza critica e si sottrae alla società, che non riconosce il padre in quel vecchio paralitico, che vede in ogni gesto umano, in ogni oggetto inanimato intorno a lui, un qualche messaggio diretto a lui, un giudizio, un rimprovero, che lui, da renitente, rifiuta.L’allucinazione è la realtà in cui Pellicani si muove, portando i suoi gesti al grottesco e crudele, verso se stesso e verso il padre, in nome di quel rifiuto della società che lo anima.È un romanzo esilerante, eppure scioccante e doloroso. Sergio La Chiusa è geniale e senza remore varca i limiti del verosimile e del moralmente accettabile, con una capacità narrativa e di pensiero che generano nel lettore un’empatia disturbante.

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I Pellicani – recensione di Giuseppe Di Matteo su Pane e scorpioni

I Pellicani – recensione di Giuseppe Di Matteo su Pane e scorpioni

Stando agli ultimi dati dell’AIE (associazione Italiana Editori), i libri pubblicati nel 2019 sono stati più di 78mila. Una giungla di carta all’interno della quale ci si orienta a fatica. Anche perché i colossi dell’editoria (e non solo) strizzano sempre meno l’occhio alla letteratura e preferiscono affidarsi ai prodotti editoriali, possibilmente partoriti dal personaggio di turno, la cui durata nel tempo, a dispetto del clamore socialmediatico che sono soliti suscitare, è paragonabile a un battito di ciglia.

Insomma, non è facile scovare qualcosa di interessante. Ecco perché vale la pena parlare de I Pellicani – Cronaca di un’emancipazione di Sergio La Chiusa, edito da Miraggi (186 pag., 17 euro). Un romanzo sorprendente e gustosissimo, che prevede molteplici livelli di lettura ed è intriso di quello spessore letterario che è lecito attendersi da uno scrittore. E La Chiusa lo è, non c’è dubbio: la sua parola è levigata e venata di elegante umorismo. Elementi peraltro propizi al suggestivo teatro dei paradossi da lui allestito, che rifugge da qualsiasi pretesa di linearità. A cominciare dai Pellicani, che non hanno niente a che vedere con i volatili che tutti conosciamo. Qui abbiamo invece a che fare con due uomini misteriosi (padre e figlio? forse sì, forse no, ma poco importa), che, dopo vent’anni e vecchie ruggini, si ritrovano quasi magicamente in un tempo e in un luogo indefiniti. Uno, il Pellicani-giovane, ha le fattezze di un bizzarro figuro lontano parente dei dannati di Dostoevskij; l’altro, il Pellicani-anziano, è un ottantenne paralitico bisognoso di cure che si trascina stancamente al pari del vecchio stabile in cui abita e che lo ha incatenato a una triste solitudine.

L’incontro tra i due è il detonatore di una commedia dell’assurdo sapientemente congegnata dai pensieri ad alta voce del Pellicani-giovane, che si diverte con la realtà come Vitangelo Moscarda in Uno, nessuno e centomila di Pirandello fa con il suo io: scompone, ricompone, trasfigura ciò che vede, quasi travolge il lettore con il suo torrenziale flusso di coscienza. E noi non possiamo far altro che star dietro ai suoi soliloqui tragicomici, ma senza illuderci di trovare le giuste corrispondenze tra ciò che è e ciò che appare. Perfino l’evidente asimmetria tra i due personaggi (l’invadenza del Pellicani-giovane fa da contraltare alla remissività del Pellicani-vecchio) si risolve lentamente in un enigmatico gioco di specchi, che si nutre di visioni degne di Sorrentino e lascia intravedere una bizzarra crociata in nome dell’emancipazione di entrambi.

Eppure, mentre ondeggiamo tra sogno e realtà, ci risulta difficile prendere le parti dell’uno o dell’altro. Forse perché i Pellicani sono solo due simpatici inetti a vivere che non si vergognano della loro condizione. O forse perché la stanza in cui si consuma tutta la storia è il palcoscenico con cui, volenti o nolenti, tutti noi dovremo prima o poi fare i conti per sbarazzarci delle nostre paure più profonde.

Il romanzo, finalista alla XXXII edizione del Premio Italo Calvino, è un bijou anche dal punto di vista tecnico, tanto da meritare la “Menzione Speciale Treccani 2019” per l’originalità linguistica e la creatività espressiva. Quello di La Chiusa, infatti, è un esempio ben riuscito di prosa poetica, che mette in vetrina un linguaggio curato nei minimi dettagli e assai distante dalle banalizzazioni con cui vengono imbanditi certi best sellers. Un piccolo poema sul senso della vita capace di trasformare l’apparente fuga dal mondo delle sue creature in un coraggioso atto di ribellione pirandelliana nei confronti della società e delle sue forme statiche.

Ma il lunghissimo monologo del giovane Pellicani, interrotto da scenografici squarci onirici e oscure presenze quasi kafkiane, è anche la cronaca di una convivenza mancata che prova disperatamente a ritrovarsi, anche se nel farlo è essa stessa una nuova impostura. Dieci e lode all’autore. Raramente infatti, per utilizzare le parole di Giulio Mozzi, “la lettura di un romanzo dà tanto piacere per la scrittura in sé”. Senza contare che qui, come del resto lo stesso critico suggerisce, c’è anche altro. Molto altro.

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https://www.panescorpioni.it/referenze/77-i-pellicani-di-sergio-la-chiusa

I Pellicani – Vincenzo Guercio intervista Sergio La Chiusa su L’Eco di Bergamo

I Pellicani – Vincenzo Guercio intervista Sergio La Chiusa su L’Eco di Bergamo

«Racconto il crollo delle certezze»

Sergio La Chiusa presenta il suo libro «I Pellicani» nella cinquina dei finalisti al Premio Bergamo «I protagonisti, incapaci di emanciparsi, si dibattono in una realtà spettrale, inafferrabile, inattendibile» 

I disegni appesi alle pareti «rivelavano una precoce ansia di emancipazione. Bambini volanti, sollevati per aria da grappoli di palloncini colorati, ridevano entusiasti, come solleticati dalla mancanza di gravità, ma invece di prendere il largo e rimpicciolirsi nelle vaste lontananze del cielo, restavano a mezz’aria, tenuti saldamente per una caviglia da certi signori assennati, nerovestiti, regolarmente incravattati e radicati al suolo con smisurate scarpe aziendali».

Penultimo a presentare il suo libro, nella cinquina dei finalisti della XXXVII edizione del Premio Narrativa Bergamo, giovedì 27 maggio, alle ore 17, in streaming sui canali social dell’Associazione, Sergio La Chiusa, con «I Pellicani» (Miraggi, euro 17). Centottantasei pagine di monologo interiore del personaggio che dice Io, forse figlio di un forse padre in una forse ex casa sua.

Dopo vent’anni, e l’indebito prelievo dei suoi risparmi dal comodino, Io, o Pellicani junior, torna a casa del padre: unico, vecchio caseggiato superstite in un paesaggio da Waste Land, mucchi di macerie, detriti e piloni incompiuti, residui del vento della modernità che ha spazzato (quasi) tutto, con la sua «smania di rinnovamento».

Ma, nel letto, trova un vecchio paralitico che è/non è suo padre, glielo ricorda ma, insieme, non può essere lui.

Una straordinaria prova di fantasia-immaginazione, una torrentizia ambiguazione del senso di realtà, identità, e relativi rapporti fondativi.

Un  «parolare» inesausto che assume in sé il crollo delle certezze, per cui l’«erlebte rede», il discorso vissuto, si materia soltanto di ipotesi e contro-ipotesi.

Come si può spiegare il sottotitolo, «Cronaca di un’emancipazione»? Quella che il protagonista sembra perseguire sin dai disegni infantili, vuole rivendicare ossessivamente, quasi «ritmicamente»…?

«Cronaca di un’emancipazione un sottotitolo ironico, che gioca con il sentimento del contrario che anima il romanzo. Innanzitutto perché non si tratta di una cronaca, cioè di un resoconto impersonale di avvenimenti, ma di una continua interpretazione, peraltro tendenziosa e contraddittoria. Poi perché le emancipazioni alle quali si allude sono delle parodie di emancipazione: il giovane Pellicani vive infatti confinato nella trappola della propria mente paranoica, il vecchio nella trappola del proprio corpo paralizzato, ed entrambi nella trappola dell’immobile fatiscente, una specie di corpo sociale in rovina. L’emancipazione che il protagonista tenta di perseguire è inoltre una reazione alla società della prestazione nella quale viviamo, e quella che tenta d’imporre al vecchio l’esito paradossale della sua personale incapacità di emanciparsi».

Il fatto che il padre forse non sia padre, il figlio forse non figlio, la camera dei giochi forse di qualcun altro,   un’iperbole del discorso sull’incertezza identitaria, l’incertezza sulla sostanza reale dei rapporti, anche i più importanti, sull’incertezza, persino, della cosiddetta «realtà»?

«Sì, la realtà nel romanzo risulta incerta, inafferrabile. In parte perché è filtrata dalla parola inattendibile e dallo sguardo allucinato del protagonista, cui la realtà visibile appare come il travestimento di una seconda realtà, enigmatica e minacciosa, e tutte le cose gli si presentano dietro un velo d’impostura, epifenomeni di un più vasto e impenetrabile complotto ordito ai suoi danni. In parte perché la realtà non solo è trasformata dagli occhi di chi guarda, ma ha anche una sua intima natura spettrale. Basta voltarsi indietro: cosa rimane della realtà del nostro passato? Le esperienze più importanti e i rapporti più solidi non risultano a un certo punto come svaporati, illusori, equivoci abbracci di spettri?».

Come nel Pirandello di «Uno, nessuno e centomila», il discorso sulla dissoluzione del senso «solido», granitico, univoco dell’identità, si concentra sul naso (è il naso di mio padre? Di un Pellicani?). Ha elevato a potenza un tema del girgentino?

«La radicalizzazione di un tema pirandelliano che però s’intreccia con molti altri temi: per esempio, per citarne uno particolarmente rilevante, il rapporto tra immaginazione e realtà, che è il tema della letteratura stessa, che viene dal Don Chisciotte e sta alle origini del romanzo moderno. Il protagonista, infatti,   perennemente intento a fabbricarsi una sua realtà immaginaria, alternativa, abitabile, la realtà verbale del romanzo appunto, e in ciò è uno dei molti discendenti del cavaliere errante e dei personaggi creati da quegli autori che hanno saputo trasportare lo spirito di Cervantes nel Novecento; e quindi più ancora che di Moscarda, Pellicani mi pare un parente “povero” dei personagginarratori di Gombrowicz, e di Kien, il protagonista di “Auto da fé”, l’uomo dei libri uscito dall’intelligenza di Canetti».

Il naso è un po’ anche il becco del pellicano in copertina…

«Sì, il becco del teschio di pellicano in copertina richiama il naso particolarmente pronunciato dei due Pellicani e, anche, il Pinocchio di legno che compare allusivo in più parti del romanzo».

Se la «Cognizione del dolore» di Gadda è una lunghissima (auto-) analisi, incentrata sul tema del rapporto con la madre, qui sembra valere qualcosa di simile per il rapporto con il padre…

«La figura del padre rappresenta per il figlio una specie di specchio deformante, e infatti nel vecchio padre paralizzato, il figlio rivede sé stesso proiettato nell’avvenire: è insomma la personificazione della malattia e dell’incombenza della morte. Inoltre, il padre rappresenta anche l’autorità su cui riversare il proprio risentimento di persona incompleta, inadeguata, impotente: una specie di parodico simulacro della società  che regola, pretende, giudica».

Entrambi i «protagonisti» sono due «renitenti-resistenti», alle lusinghe e seduzioni del mercato, agli stili di vita dettati dal mainstream, all’essere solo «consumatori», ecc.: come si intreccia questo tema sociale con quello dell’identità e del senso di irrealtà che sembra promanare dal rapporto fra ospite e ospitato: lontani, incomunicanti, eppure simili in questa loro resistenza/renitenza…?

«Il mercato contamina i rapporti interpersonali e condiziona le nostre identità suggerendoci insistentemente come comportarci, come vestirci, cosa comprare, quali applicazioni scaricare per stare al passo con i tempi, svalutando così le nostre esperienze, facendoci sentire sempre in ritardo, in difetto, insinuandoci un sottile, persecutorio senso di colpa. Le due dimensioni, quella sociale e quella esistenziale, procedono naturalmente insieme, nel romanzo come nella vita reale, perché una condiziona l’altra, e il senso d’irrealtà che sembra promanare dai rapporti tra ospite e ospitato proviene, in parte, dall’esterno. I protagonisti inoltre non sono dei veri “resistenti”, ma delle scorie prodotte dalla società dei consumi, e proprio per questa loro comune natura di scarto sociale si ritrovano, e anche il risentimento del figlio che si trasforma in sadismo nei confronti del padre è in certa misura un prodotto della società».

A proposito: la «modernità» ha distrutto tutto quanto era attorno al condominio dove vivevano i Pellicani. Cittadella superstite perché soprattutto reperto memoriale, sopravvivenza di un passato?

«Un reperto spettrale, sì. Il vecchio Pellicani è il passato, inservibile, e persino molesto, che s’attarda tra le macerie e, maceria anch’egli, intralcia con la sua timida ma cocciuta presenza i piani speculativi della modernità».

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I Pellicani – recensione di Maria Laura Labriola su Cronache di Caserta

I Pellicani – recensione di Maria Laura Labriola su Cronache di Caserta

“I Pellicani”: romanzo allucinato e burlone

Chi sono i Pellicani? Sono realmente ciò che appaiono nelle prime pagine? Vi è una specie di burla e di ricerca d’identità all’inizio del romanzo di Sergio La Chiusa, “I Pellicani” edito da Miraggi edizioni. Un racconto che è arrivato finalista al 32° Premio Calvino con la Menzione Speciale Treccani. Alla maniera di Dino Buzzati, un giovane con la valigetta va a trovare un anziano paralitico in un palazzo fatiscente. Sulla carta, lui dovrebbe essere il giovane Pellicani, e l’anziano suo padre. Ma già dalle prime battute il vecchio non viene riconosciuto, se non che per il naso. “Che ci faceva un tale relitto in casa di mio padre? Come si permetteva di occupare il suo posto?“. Si presenta tutto come un equivoco al lettore, il quale non è certo più di nulla. Una storia vaga, priva di collocazione geografica, di limiti spazio-temporali. Non vi sono nomi propri e vi è un dialogo non dialogo, direi “muto” tra figlio e padre. Kafka e Landolfi vengono evocati in ogni dove con una scrittura allucinata e aliena. Un monologo che non finisce e che avvolge il lettore imbrigliandolo in un vortice di supposizioni, ripetizioni, ipotesi e convinzioni.

Un fiume di parole che denuncia un’inerzia dell’uomo moderno che anela a dominare gli esiti della civiltà. La Chiusa crea mondi inesplorati e al contempo riflessi nel presente, forse all’avanguardia rispetto al patrimonio letterale attuale. Abbiamo una certa etica del corpo che appare certamente al centro del romanzo. Non è solo uno, ma due di cui uno è in movimento e l’altro immobile rinchiusi dalle parole in uno spazio ristretto di un appartamento.

“I Pellicani appaiono come eredi di un teatro di Beckett”, ove personaggi sono costituiti di flussi torrenziali di parole e la cui vecchiaia perde il suo colore e la sua identità nell’infanzia e nel nulla. Tutto il romanzo è pervaso inoltre da un torpore, da una stanchezza fisica e mentale che non permette di raggiungere la verità più intima delle cose.

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I Pellicani – recensione di lesenedelase sul blog Le sere nere della Sere

I Pellicani – recensione di lesenedelase sul blog Le sere nere della Sere

I Pellicani di Sergio La Chiusa è un romanzo che racconta la storia di ribellione al mondo dei Pellicani, padre e figlio che in risposta all’invadenza delle aspettative della società si ritirano in casa come unici inquilini di un immobile pericolante. 

Avevo l’impressione di essere penetrato in un mondo in cui ero il solo sopravvissuto e ciò mi dava una certa importanza agli occhi degli altri.

Un quarantenne, che si definisce un renitente, è appena stato licenziato dall’azienda in cui lavorava come venditore. Una sera decide di tornare a far visita al padre che non vede da diversi anni e fingersi realizzato facendo sfoggio di un completo grigio topo e una valigetta. In realtà il vestito è sgualcito e la valigetta contiene articoli di cancelleria sottratti all’azienda e una mutanda di ricambio per gli appuntamenti importanti.

La situazione che trova non è quella che si aspetta. Il padre, che ricorda come un uomo sempre in movimento e impegnato in piccoli lavoretti di casa, ora vive in un appartamento in stato di abbandono, è molto invecchiato e sta sempre a letto. Il figlio non è sicuro che si tratti del padre, ma nell’uomo riconosce chiare fattezze di famiglia e di sé, nel dubbio lo definisce a volte paralitico, a volte Pellicani e raramente papà.

Il punto debole di Pellicani era l’immobilità, per cui risultava sempre reperibile.

Lo stato della casa e la situazione di vita di Pellicani creano una curiosità morbosa nel figlio, l’idea iniziale di essere solo di passaggio diventa per uno stabilirsi con l’intento di favorire l’emancipazione dell’anziano signore. Convinto che l’uomo si crogioli troppo nell’accidia, il figlio escogita una serie di stimoli per rendere Pellicani indipendente dalle cure della donna di servizio, dalla televisione e persino dal letto e dal cibo.

L’unica lucidità nel figlio pare essere l’accanirsi nel suo piano assurdo di rianimare l’iniziativa di Pellicani, tutto il resto invece è avvolto da dubbi e sospetti: a volte si sente in una rappresentazione teatrale di un regista occulto, la casa in rovina sembra il labirinto della sua mente confusa e l’anziano signore lo specchio del suo immobilismo. Chiudersi in casa e cercare di prendere le distanze da un alter ego impotente pare l’unica risposta dei Pellicani all’insistenza con cui il mondo esterno continua a proporre in loop il sapersi reinventare e l’essere sempre in movimento.

Io stesso avevo sopravvalutato il movimento. Ridacchiavo da solo, completamente soddisfatto della conclusione dei mei ragionamenti.

I Pellicani è tra i cinque libri finalisti dell’edizione 2021 del Premio Nazionale di Narrativa Bergamo.

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I Pellicani – recensione di Giuseppe Lupo su L’Indice

I Pellicani – recensione di Giuseppe Lupo su L’Indice

All’indomani del secondo dopoguerra, discutendo intorno ai testi di giovani autori da inserire nella collana dei “Gettoni”, Vittorini e Calvino trovarono nel termine “allucinato” l’etichetta interpretativa che poteva definire la scrittura di Giovanni Pirelli. Per Vittorini si trattava di una risorsa quella maniera di procedere lungo i sentieri di un raccontare poco definito, spesso involuto, torbido, del tutto privo di linearità. Per Calvino invece rappresentava un segno di una vaghezza che poteva diventare manifestazione di una incapacità nel rappresentare la realtà. L’altro elemento – era questo il testo su cui dibattevano entrambi e che poi, con molte insistenze da parte di Vittorini, fu accolto nelle edizioni Einaudi nel 1952 – conteneva i caratteri di una letteratura allucinata, kafkiana nel senso più autentico di indefinito e assurdo. Quella linea, che tanto piaceva a Vittorini, preesiste a Pirelli e gli va oltre, toccando i nomi di certi visionari: Landolfi, Zavattini, Manganelli, fino ai più recenti Celati e Cavazzoni.

Sergio La Chiusa non sta lontano da questa linea. Il suo libro di esordio, che . arrivato nella rosa dei finalisti del Premio Calvino, ha tutte le carte in regola per essere annoverato in questa schiera: è una storia vaga, infatti, priva di collocazione geografica, di precisazione cronologica, perfino di azione. Ci troviamo di fronte al dialogo (muto) tra figlio e padre. Non sappiamo in che tempo siamo. Quel che possiamo dedurre è solo che il figlio fa di mestiere l’agente di commercio ed è in partenza per la Cina, dove dovrebbe concludere un affare importante. Ma questo sta sullo sfondo delle intenzioni. Il romanzo, infatti, non riguarda il lavoro di questo personaggio, ma la visita che egli fa al suo genitore. Il quale vive in un edificio diroccato, in una città di cui non si fa il nome e in uno stato di infermità, vero o presunto è difficile da dire, ma comunque in condizioni pietose.

Sta tutto qui il cuore del libro: in un viaggio che non avviene e in una permanenza che assume una curva di abbagli, di doppi sensi, di realtà capovolta, in cui quasi sempre il lettore avverte la sensazione di trovarsi nello stesso palazzo in cui Kafka aveva ambientato il Processo: una costruzione di stanze, che immettono in altre stanze, le quali poi, a loro volta, conducono ad altre stanze. Il nome di Kafka non viene qui invocato per puro caso. Il suo fantasma aleggia sul racconto di un io che, da una parte, si trova in mezzo a un vero e proprio guado, tra il rischio di scavalcare l’età della giovinezza (non sappiamo quanti anni ha questo figlio) in nome di quell’emancipazione, richiamata nel sottotitolo del romanzo, e il timore di identificarsi con la figura di questo padre, di cui non conosciamo nemmeno il nome, ma che tuttavia incarna il destino speculare di chi parla e (presumiamo) scrive.

Ne vien fuori un esteso monologo, fatto di supposizioni, di ipotesi, di contraddizioni, di convinzioni; un monologo ossessivo e contorto in cui vengono a fronteggiarsi, in maniera certo camuffata da descrizioni al limite del paranoico, i sentimenti di una civiltà che sta sul crinale del falso e del vero, che insegue la stasi ma non sa rinunciare alla frenesia e alla fuga (“il nullafacente era il vero sovversivo dei tempi moderni”), che è incapace di elaborare la nozione di tempo e tuttavia trascorre la vita nel miraggio di dominarne gli esiti.

Con una scrittura rabdomantica ed elicoidale, visionaria quanto basti per spaventare e sedurre, Sergio La Chiusa ci consegna una storia che potrebbe non finire mai, anzi autoriprodursi come certi organismi che vivono in natura e sembrano appartenere a specie estinte oppure, al contrario, a organismi rari e sconosciuti, prossimi a sferrare il loro attacco alla razza umana.

Di seguito l’articolo originale: