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Endecascivoli – recensione di Stefano Bonazzi su SATISFICTION

Endecascivoli – recensione di Stefano Bonazzi su SATISFICTION

Mi approccio a questa lettura con colpevole ritardo. Libri e libri che si accumulano sulle mensole e che continuo a rimandare, nel frattempo, come tutti aggiungo e impilo, appunto altre letture che andranno a rimpinguare quello spazio sempre più ridotto ma che resta lì e in qualche modo mi da sicurezza. Il porto sicuro in cui so che potrò attingere ogni volta che ne sentirò il bisogno. Un po’ come i frammenti letterari presenti in questa raccolta, gli “Endecascivoli”, appunto. Memorie luminose e impalpabili che affiorano incontrollate alla superficie, come la marea che torna a bagnare la punta dei piedi, come quelle immagini che ci appaiono davanti agli occhi se li stringiamo forte, con il sole piantato dritto negli occhi.

E allora via di frasi e paragrafi che sono particelle, luminose e sfolgoranti, fragori che si consumano nel tempo di un respiro o, come ci suggerisce l’autore stesso, nell’istante di un vuoto d’aria, come quelli che ci colgono alla sprovvista, dopo aver salito decine di scalini, prima di un salto nel vuoto.

Sessantacinque (come l’anno di nascita dell’autore) sono i racconti presenti in questo pregiato volume edito da Miraggi, editore che da sempre confeziona le sue uscite con una cura a tratti artigianale. La copertina piacevolmente ruvida, con quella carta di un bianco che tende verso il seppia e l’immagine di una manica a vento che emerge da un paio di buffe nuvolette stilizzate, è già la conferma che qui siamo lontani dal territorio delle letture convenzionali.

Racconti brevi, a tratti brevissimi. Schegge di memoria intagliate nella corteccia di una vita policroma di esperienze. Non importa quando ci sia di realmente biografico e quanto sia fiction, o citazione, il focus è tutto spostato verso il substrato emotivo dell’autore: il rapporto con la sua famiglia, le giornate trascorse con il padre, il nonno, gli zii, il alla miniera, il carbone sulla pelle, i cunicoli che toglievano il respiro, le cui pareti d’ombra sono rimaste impresse negli occhi lungo gli anni. E poi i pomeriggi a turno sul muretto con gli amici, indossando i primi Lewis da portare rigorosamente senza giaccone, per sfoggiare l’etichetta. Il ricordo del primo viaggio a Cagliari, in una trattoria che ancora esiste, con Gigi Riva seduto nel tavolo alle spalle. Le distese di sabbie rosse che portano fino al mare, le camminate senza meta, con l’erba nascosta sotto i vestiti e uno zaino sfilacciato sulla spalla, sotto un sole carico di promesse e i confini tutti sbiaditi. Un’epopea onirica in cui la dimensione del sogno non dimentica la crudeltà di una realtà beffarda. Lo capiamo subito, dal primo, brevissimo racconto, deflagrante in tutta la sua spietata lucidità. All’autore bastano poche frasi, una manciata di descrizioni e già siamo lì, al centro della tragedia, sfiniti dal peso di quel corpo dilaniato che a stento riusciamo a reggere. In mezzo al fumo, alle grida, impregnati di quella stessa fuliggine che ritornerà ancora e ancora, lungo tutto l’arco narrativo, come lo spettro di una macchia indelebile. Poi il ritmo rallenta e subito mi torna alla mente quel concetto a me tanto caro di “anemoia”. Il retrogusto nostalgico per una un’epoca mai vissuta ma che in qualche modo mi appartiene, ci appartiene, rendendoci complici inconsapevoli di una grande memoria collettiva. 

Patrizio Zurru è bravo a giocare con un ritmo narrativo che mette a suo agio il lettore. Come se sfogliando questi racconti, l’autore ci sussurrasse all’orecchio di non avere fretta, prenderci i nostri tempi, centellinare la scoperta di questi fotogrammi sospesi tra l’ironia dell’attimo (il reportage ambientato durante il festival letterario Una marina di libri è una chicca per chiunque abbia a che fare con il mondo editoriale) e l’agrodolce malinconia del ricordo.

Il tutto tratteggiato con grande padronanza linguistica e un’umiltà che traspare anche quando l’autore si concede dei piccoli guizzi stilistici (alcuni paragrafi in rima, qualche indovinello sparso). Le immagini si sovrappongono, gli odori si mescolano (la passione per la cucina è evidente) e proprio come la cadenzata costanza di una mareggiata, senza nemmeno accorgercene stiamo scorrendo assieme all’autore quell’immenso album fotografico. Istantanee dai tratti nitidi che sbiadiscono gradualmente fino a dissolversi in un riverbero fuori fuoco. L’aroma del latte bollito, il bruciore del carbone sciolto sulla pelle, l’ebbrezza di una serata trascorsa con i migliori amici, il viaggio e il bisogno di riconoscersi nomade, seppur ancorato a quell’isola preziosa dove la vita è scandita da un tempo diverso. 

Il tempo sospeso, lo stesso di quest’opera. 

QUI l’articolo originale: