Ott 29, 2019 | INTERVISTE
1) Michele, Sandra e il nome impronunciabile della figlia deciso tramite la Rete. Marco Lazzarotto ma tu cosa pensi dei social oggi? Insomma, a cosa stai pensando?
Sto pensando che i tre personaggi che hai nominato incarnano il mio rapporto con i social. Da un lato c’è la diffidenza di Michele, che nonostante sia iscritto a diversi social non li usa perché dubita della loro utilità – o quantomeno, all’inizio del romanzo. Poi c’è Sandra, invece, che è ossessionata dal numero dei mipiace e crede che prima o poi possano cambiarle la vita, ma per il momento si limita a invidiare il successo (cioè i tanti mipiace) altrui. Infine, il fatto che il nome della loro figlia sia stato deciso da un sondaggio online rappresenta l’importanza che oggi ha la rete, di come il virtuale confermi il reale – insomma, quante volte mi è capitato a un concerto di voler condividere una foto, altrimenti avevo l’impressione di non esserci stato davvero?
2) Un giorno, mentre sta attraversando le strisce pedonali, Michele rischia di essere travolto da un’auto di passaggio. Non succede nulla, ma lui ha una reazione violenta e, trovato un sampietrino per terra, lo scaglia contro la vettura. È un po’ la rabbia inaspettata dei buoni?
Spesso mi è capitato di leggere romanzi che culminavano in un gesto violento ed estremo del protagonista, più o meno inaspettato. A cosa stai pensando invece è proprio così che comincia, rovesciando il meccanismo. La reazione di Michele è la rabbia inaspettata di chi crede di essere buono, ma che da quel momento in avanti passerà le giornate a domandarsi chi sia veramente. È stato un episodio, o dentro Michele si nasconde qualcos’altro, o qualcun altro? Messa così, il romanzo potrebbe sembrare un horror, ma niente di più lontano: si tratta di una commedia.
3) MorganaScrive, la blogger nemica, è un po’ la voce della coscienza, anche se noir, e animata più dalla sete di scoop che da quella di verità. Il tema dell’alter ego nei tuoi libri è la tua personalissima chiave per indicarci le sfaccettature delle umane personalità?
È un tema che ho già affrontato nel Ministero della Bellezza, ma lì i social non c’erano; in A cosa stai pensando sì, e infatti Michele non ha un solo alter ego ma, creando diversi profili falsi per cavarsi d’impaccio da situazioni complicate, fa sì che la sua personalità si moltiplichi, si rifranga, permettendogli di sperimentare nuovi lati di se stesso.
4) Tre aggettivi tre per descrivere il tuo romanzo?
Vorrei che il mio romanzo fosse divertente e inquietante. Di sicuro è social.
Grazie, a presto!
Ott 23, 2019 | INTERVISTE
1) Re Eremita figura leggendaria che ha origine nella Magna Grecia, diventa qui il punto di partenza di una favole nera. Da dove nasce questa idea?
Il Re Eremita in realtà non esiste, né lui né la leggenda. Tutto prende vita da un racconto di mia madre su un lontano parente che si ritirò fra i monti a fare “‘u remita” dispensando opere di bene tanto che ci sono pellegrinaggi verso i suoi luoghi in cerca di miracoli. Il collegamento fra questa figura positiva realmente esistita e le figure legate alla ‘ndrangheta che utilizzano comunque i contrafforti della Sila come rifugio è stato automatico anche se paradossale.
2) Il tuo romanzo è sicuramente una voce corale al femminile, un femminile che protegge, nasconde e accomuna. Sono unite, nella tua anima, esclusivamente per la necessità di tutelarsi o anche per la forza che l’unione femminile può fornire?
Bella domanda. La verità è che quella unione è quella da me auspicata, perché in Calabria, la Calabria che io conosco, c’è questo strano dualismo tra complicità femminile e assoluto egoismo. Si paga il prezzo di un retaggio antico, in cui le donne solidarizzavano solo per certe faccende, per il resto era l’uomo di casa a dettare le regole. Certe forme di omertà ne sono l’esempio. Poi è anche vero che le lotte più importanti, quelle che possono cambiare la sostanza della vita, si verificano all’interno di nuclei familiari allargati, dove le donne si sostengono e si ribellano, ma c’è ancora molta strada da fare.
3) Una sola figura maschile appare nei passaggi significativi del romanzo: Giuseppe Esposito, che altri non è se non l’anima nera di Sant’Eustachio Belvedere. Paradossale e reale protagonista della narrazione. Io sono Calabrese come te. Quanto c’è della nostra Calabria nella descrizione dei luoghi?
C’è molto. Sant’Eustachio non esiste – almeno che io sappia – ma per la descrizione io mi sono ispirata al mio paese di nascita che somiglia a tanti, tantissimi paesi della costa ionica. L’abusivismo edilizio, i servizi non funzionanti, le amministrazioni colluse. Tre mesi dopo aver finito la prima stesura del romanzo c’è stata l’operazione Stige…
Giuseppe Esposito rappresenta la somma di tante nefandezze che la criminalità organizzata calabrese continua a perpetrare, nascoste da un perbenismo di facciata necessario alla sopravvivenza. Questa estate mi è capitato di passeggiare per le strade del mio paese e sentire gente che di lamentava del fatto che il “lavoro” avesse risentito di tutti gli arresti eccellenti che ci sono stati. Le cose stanno ancora così.
4) Tre aggettivi tre per descrivere il tuo romanzo.
È sempre difficile trovare aggettivi per un romanzo, figuriamoci tre! Dovendolo fare direi doloroso, paradossale, liberatorio.
Ott 10, 2019 | INTERVISTE
1) “Musica solida”, cioè la musica incisa su supporto fisico, che sia ceralacca, vinile o cd, contrapposta a quella attuale, liquida o, come uno dei discografici intervistati nel volume la definisce efficacemente, gassosa. Quanto presente c’ è nella musica del passato?
Direi che nella musica del passato c’è tanto del presente: basta andare in un’edicola e vedere quante collane di ristampe di dischi in vinile ci sono, alcune con molto successo di vendite. C’è quindi da un lato la riscoperta (e per i giovani la scoperta) del repertorio dei grandi gruppi e solisti del passato, e dall’altro il rilancio di un supporto, il disco in vinile, che negli anni ’90 si pensava definitivamente morto e sepolto e che per molti motivi, non tutti strettamente musicali, sembra che stia tornando in auge, in primis nei paesi anglosassoni. E pare che non ci si stia fermando qui, visto che sta iniziando anche la riscoperta delle audiocassette. A questo punto, mi aspetto la rivincita dei nastri Stereo 8.
2) E’ un lavoro antologico il tuo. Quanto tempo ti ha richiesto?
Contando la ricerca delle fonti, sia cartacee che orali (interviste a vari personaggi che, in ruoli diversi, hanno vissuto il periodo d’oro della discografia italiana), dieci anni esatti. Invece il lavoro di scrittura vera e propria è durato poco meno di un anno.
3) Raccontaci l’aneddoto più divertente e quello più malinconico collegato alle storie che hai raccontato in Musica Solida
Purtroppo di aneddoti malinconici ce ne sono, perché alcuni dei personaggi intervistati, già avanti in età, dopo poco tempo sono scomparsi: mi vengono in mente nomi come Alberto Testa, Giorgio Calabrese, Franco Cassano e Alfredo Rossi. Proprio quest’ultimo mi ha raccontato il motivo per cui, alla fine degli anni ’80, mise in vendita l’Ariston, ed è legato a un suo problema di salute che non aveva mai raccontato prima. Sempre ad Alfredo Rossi è legato un aneddoto divertente: quando alla fine degli anni ’50 lanciarono, in collaborazione con le Cartiere Fedrigoni, le Fonocartoline, con lo slogan “la cartolina che canta”, dopo qualche tempo furono costretti a interrompere la pubblicazione perché avevano smarrito la formula di questa carta particolare e, inoltre, non avevano pensato di brevettarla.
4) Se dovessi descrivere Musica solida con tre aggettivi?
Tre aggettivi sono veramente pochi…mi vengono in mente: appassionante, rigoroso, leggero (come la musica).
Set 19, 2019 | INTERVISTE
1) Uno di noi è il resoconto di una fine, strutturato come se fosse una tragedia greca. Quattro amici di vecchia data, al termine di una partita di calcetto, decidono di dare fuoco a una baraccopoli. Sono uomini mediocri, padri di famiglia, essere umani rabbiosi.
Leggendolo mi è sembrato di riscontrare i loro volti nel quotidiano. Mi vuoi dare una tua visione su di loro? Chi sono?
Sono persone ordinarie divorate da alcuni dispositivi retorici estremamente persuasivi. Roba del tipo “prima gli italiani”, “padroni a casa nostra”, “fermiamo l’invasione”, “stop buonismo”, ho omesso i punti esclamativi per rispetto dell’intelligenza dei lettori.
Grazie a questi slogan, molti di loro si sentono arruolati in un’enorme guerra immaginaria contro chiunque sia diverso, chiunque, cioè, non rientri in quel “noi” immaginario che spacciano per identità.
Da fuori sembrano persone ordinarie, conducono vite ordinarie – giocano a calcetto, tornano a casa dalla compagna, si riscaldano la cena, rimboccano le coperte ai loro figli – in realtà agiscono, pensano, combattono come dei soldati.
Sono in trincea. Hanno l’ordine di sparare su qualunque cosa si muova.
E in guerra, secondo la loro logica, tutto è permesso, compreso infliggere ogni tipo di dolore al nemico.
Siamo tutti vittime di un uso politico spregiudicato della crudeltà. La crudeltà viene esibita in ogni modo possibile nel tentativo di creare consenso. Le vicende della Diciotti, della Sea Watch, dello sgombero di Primavalle, delle barricate di Casal Bruciato hanno legittimato e propagandato un’idea disumana di convivenza, sono state dei veri e propri spartiacque. L’Italia che stiamo vivendo è una delle italie peggiori di sempre.
Uno di noi è il tentativo di raccontare tutto questo in prima persona e dal punto di vista di chi fa le barricate contro gli ultimi.
2. “Lì proprio in quel punto X c’era una bambina”. Forse, di tutto il testo, questo è il punto che mi ha richiesto un momento di pausa per l’estrema veridicità dell’immagine della scena, probabilmente anche alla luce del periodo storico che stiamo vivendo. Qual è stato il passo più duro da scrivere?
Raccontare il dolore del padre della vittima.
Sono padre anch’io, ho due figli, mi sono immedesimato col suo dolore, col suo smarrimento, col buco nero che una vicenda di questo tipo spalanca nel cuore di un genitore. Non è stato facile. Non è stato per niente facile. Nel libro è l’unico punto in cui ho dovuto prendere delle pause per respirare, calmarmi, provare ad andare avanti.
3. Come descriveresti Uno di noi con tre parole, tre?
Uno di noi, purtroppo.
4. Che messaggio vorresti restasse nel cuore e nella testa di chi legge?
Ama i libri, odia il fascismo.
Lug 3, 2019 | SPECIAL
Dalla stessa autrice di IL LAGO
È seduto a tavola, guarda il suo piatto e tace.
“Che hai fatto oggi?”, chiedo come se non lo sapessi.
Scrolla le spalle e risponde che non ha fatto niente di speciale.
“Domani allora potremmo andare a funghi”, dico, e lui scrolla di nuovo le spalle.
“Mh”.
“Oppure a pesca?”
“Mh”.
È qui da una settimana, e aspetto ancora il suo sorriso. Ora capisco perché Adéle sia tanto preoccupata. È triste vedere questo ragazzo così privo di vita. L’estate scorsa, quando è venuto in vacanza da me per una settimana, era un ragazzo allegro, normale. Si tuffava di testa nella pozza sotto la diga, dove da bambino lanciava sassi e bastoncini. Gli stava cambiando la voce, si stava trasformando in uomo, ma era ancora il nostro Tobiáš. Adesso mi ritrovo in cucina questo musone che non smette mai di tener d’occhio il cellulare e appena finisce di mangiare torna a stendersi sul letto con le cuffiette alle orecchie, fino al pasto successivo. “È una vera e propria depressione” mi ha informato Adéle, sottolineando le parole vera e propria, come a voler allontanare ogni mio eventuale dubbio. “Nessuna angoscia o malumore. Ha una diagnosi di depressione e prende un leggero antidepressivo”.
Ha fatto una pausa di silenzio, voleva capire se le sue parole avevano colpito nel segno. Sono rimasto zitto anch’io. Ovviamente sapevo della diagnosi, ma da sempre sono convinto che per questo genere di cose non ci sia niente di meglio che passare un po’ di tempo a ripulire il cortile dal letame, o farsi una corsetta di qualche chilometro.
“Va anche da una psicologa. Ma d’estate è in ferie, allora deve farcela anche senza. Dovresti cercare di parlargli molto”.
Annuisco.
“Non sono così sicura di potertelo lasciare”, sospira Adéle. “Mi fa così paura vederlo così”.
Annuisco.
“Devi fare molta attenzione, papà. Ogni tanto gli vengono pensieri suicidi”.
Questa cosa mi spaventa un po’, ovviamente.
“È così fragile!”. Adéle scuote la testa, con le lacrime agli occhi. “A volte mi sembra quasi che stia bene, allora il cuore si alleggerisce di un peso enorme. Poi però riprecipita nel buco nero ed è come se mi trascinasse con sé. Mi sembra di dover svuotare una barca che affonda”. “Ma non sarà solo innamorato?”, domando.
Adéle mi guarda incredula attraverso le lacrime, io dico solo “scusa”.
“Non la prendere alla leggera, per piacere. Ho bisogno di sapere che non sottovaluti la cosa, papà. Se pensi di non potertene occupare a tempo pieno me lo riporto a casa”.
“No, stai tranquilla, Adéle, ci starò attento. Non lo perderò mai di vista, non preoccuparti”.
La abbraccio. Piange.
“Ho paura per lui”, singhiozza sulla mia camicia. Le accarezzo i capelli.
“Vai tranquilla. Ora mi preoccuperò io al posto tuo”.
Mia figlia. Non è facile diventare intimi con una figlia. È di fatto una battaglia che dura tutta la vita, un rapporto fragile come un guscio d’uovo. La prima volta che l’ho vista sono scoppiato in una risata isterica. Mia moglie me l’ha mostrata attraverso il vetro del reparto maternità e Adéle era pelosa come un orangotango, brutta. Ma man mano che gli anni passano cominci ad abituarti a quell’esserino. E quando poi cominci a renderti conto che è la cosa più preziosa che hai, arriva un ragazzo e te la porta via, e ti rimangono solo le foto sotto l’albero di Natale, di lei che abbraccia il suo orso di peluche. Per un paio di anni il ragazzo se la tiene tutta per sé, poi le spezza il cuore e lei ritorna tra le tue braccia, anche se solo metaforicamente, ovvio.
E comunque le cose continuano a non andare come dovrebbero, ci rendiamo conto di quanto siamo lontani, a volte passiamo intere ore in silenzio perché non riusciamo a trovare un punto di interesse comune, oppure farfugliamo una banalità dietro l’altra. Sul tempo per esempio, che nessuno dei due sopporta. Oppure ascoltiamo al notiziario che nel carcere di Guantanamo usano la musica dei Bee Gees o di Eminem come strumento di tortura e lei ti sgrana gli occhi addosso, come può essere la musica una tortura? Che tortura è? La musica è una cosa bella, anche se non ti piace ti ci abitui, no? Me la chiami tortura? Le dico che sì, può essere una tortura anche se ti mettono alle orecchie delle cuffie che non puoi toglierti e per trenta ore di seguito continuano a mandarti a tutto volume sempre la stessa canzone, che magari ti fa schifo. Scuote la testa e dice che lei non avrebbe problemi ad abituarsi. O al limite quelle dannate cuffie se le toglierebbe e basta. Se le togliessero no, non può essere così impossibile. Tobiáš si intromette nel discorso e dice: “Mamma, stiamo parlando della Cia, lo capisci?”. E intanto mi guarda con un’espressione rassegnata. Ci scambiamo uno sguardo come a dire che è incorreggibile, e per un attimo ci sentiamo due cospiratori.
Quando Adéle e Tobiáš si salutano lei lo abbraccia forte, e lui le sta appiccicato come se da quella stretta dipendesse il destino del mondo. Sembra un po’ ritardato. Ma appena Adéle si siede in macchina e accende il motore, Tobiáš è già di nuovo incollato al telefono.
Non saprei dire se sono contento o meno di averlo qui. Sono abituato a vivere da solo e i calzini di un altro uomo sparsi per casa mi danno un po’ fastidio. Anche dover sempre cucinare. Adéle si è raccomandata di preparare pasti nutrizionalmente validi (ha detto proprio così!), soprattutto niente salumi, escludendo in tal modo più o meno la metà dei cibi che normalmente consumo… e oltretutto sono sempre lì a preoccuparmi se mangerà o non mangerà una determinata cosa, che di solito in effetti non mangia mai. Ma per il resto è bello avere qualcuno a cui augurare il buongiorno e la buonanotte, Tobiáš non parla molto, ma l’educazione non gli manca.
“Quegli stupidi rospi fanno un tale casino di notte che non riesco a dormire. Non ti dà fastidio?”
È uno dei miei tentativi di chiacchierare con lui.
“Che rospi?”, chiede, attraversandomi con lo sguardo.
Un giorno si distrae e lascia il telefono sul lavandino del bagno. Sul display vedo la foto di una ragazza. Lunghi capelli biondi e un aspetto ordinario. Un bel sorriso, anche se un po’ forzato. Di certo non una femme fatale, per i miei gusti, ma non ho alcuna intenzione di dirglielo. Faccio appena in tempo a riappoggiare il telefono dov’era.
“Quanti giorni sono che ti metti quella maglietta?”, mi affretto a chiedere.
Tobiáš mi guarda come se parlassi una lingua straniera, poi scrolla le spalle.
Il pomeriggio andiamo a guardare una gara di macchine, appena fuori città. Tobiáš indossa una maglietta pulita e si è persino pettinato. Il ciuffo è sistemato sulla fronte, a coprire i brufoli. Per un attimo il suo interesse è catturato da qualcosa che vada oltre il suo campo visivo. Continua a ripetere che è uno sport da dementi, ma intanto segue con attenzione le auto che sfrecciano sulle curve. Gioca con una moneta, gli riesce davvero bene, la moneta scivola su e giù tra le dita, non si ferma nemmeno un attimo, gli gira e rigira all’infinito per il palmo della mano.
“Mi stai facendo diventare nervoso. Non potresti smettere almeno per un secondo?”, protesto.
Scrolla le spalle e si interrompe diligentemente per qualche istante, poi però ricomincia.
“Sai quante possibilità ci sono che l’auto esca di pista e investa uno spettatore?”, mi chiede.
“Non lo so”.
“Una su mille e seicento”.
Mi sembra una stupidaggine, ma fischio sorpreso. “Non sono mica così poche, eh?”
“Mh” annuisce orgoglioso, facendo sparire la moneta. Bisogna riconoscere che con le mani
è un vero mago.
Di ritorno a casa mangia due porzioni di polpettone. Sono soddisfatto, mi pare un buon segno. Gli verso mezza bottiglia di birra in un bicchiere e beve senza commentare. Telefono ad Adéle e le dico che oggi con Tobiáš è andata molto bene. È felice.
Gli chiedo se abbia voglia di guardare un film. Lui scrolla le spalle. Allora metto The Doors, del ’91. È in lingua originale, quindi ogni tanto, quando non capisco qualcosa, chiedo a Tobiáš. Tobiáš non si mostra di certo entusiasta nei confronti del film, però lo guarda fino alla fine, non si alza nemmeno per andare al bagno. Finito il film prendo la biografia di Jim Morrison Nessuno uscirà vivo di qui e la sfoglio un po’. Poi faccio finta di dimenticarlo sul tavolo.
Al mattino vedo che il libro è un po’ spostato.
È presto, ma fa già caldo. Gli propongo di andare a fare il bagno nella Nežárka. Scrolla le spalle, dice che è troppo afoso. Che posso fare? Sforzandomi di pronunciare la frase con una certa perentorietà gli dico di andare a prendere il costume, che io lo aspetto in macchina. Lui non protesta. Quando esce dalla porta il motore è già acceso. Alla radio c’è una vecchietta che sta raccontando della sua infanzia. Mi aspetto che Tobiáš cambi stazione, invece la lascia lì, anche se finge di non ascoltare. La signora racconta che da piccola si è seduta su un ago e hanno dovuto operarla per estrarre l’ago dal suo corpo prima che raggiungesse il cuore, e poi che a cavallo tra i due secoli suo nonno commerciava lana e formaggio di pecora nei Balcani. Mi fermo in un luogo poco frequentato, così non dovrò preoccuparmi che qualcuno mi guardi la pancia o la pelle, ormai assai poco sexy. Tobiáš vola in acqua direttamente dalla macchina, lasciando cadere in corsa i vestiti sull’erba, quando si tuffa è nudo (e uscendo si ricorda all’improvviso del senso di pudore e cerca di coprirsi con gesti quasi commoventi). L’acqua è ghiacciata e urla come se lo stessero squartando. Io tasto cautamente le pietre coi piedi. Non percepisco il freddo dell’acqua. Quando esco mi sdraio contento sulla vecchia coperta che porto sempre con me nel portabagagli. Tobiáš osserva che era la coperta di Fred. Sono sorpreso che se ne ricordi e glielo dico. Non è affatto strano, risponde Tobiáš, visto che la coperta puzza ancora di cane e ci sono ancora attaccati i suoi peli. Sulla strada di ritorno compriamo un cocomero e lo mangiamo tutto. Fino a sentirci male.
A casa Tobiáš mi insegna a usare i tasti di scelta rapida. Poi mi chiede di mettere un programma di cucina che guarda ogni tanto sua madre. Lo guardiamo anche noi, scrollando la testa. Due disperati senza il minimo di inventiva si stanno cimentando in una crema sfaldabile di cavolo e crescione. “Sai che goduria!”. Tobiáš ride per la prima volta. Gli propongo di fare un nostro programma culinario, io e lui.
Preparo gli ingredienti e intanto Tobiáš filma col cellulare. Tra il giornale e un barattolo di senape poggio sul tavolo sei uova esattamente nello stato in cui mi sono state consegnate dalla vicina, con lo sterco di gallina e le piume attaccate al guscio. Poi un sacchetto strappato di farina e un bicchiere sudicio pieno di latte. Tobiáš continua a filmare e ridacchia. Apro le uova nella ciotola come lo scimpanzé ammaestrato di Sei orsi e il clown Cipollina. Poi mescolo l’impasto e comincio a friggere le crêpes. Mentre ne lancio una nel tentativo di girarlo mi cimento in una piroetta. Ma perdo l’equilibrio, devo aggrapparmi al tavolo. Fortunatamente Tobiáš si sta dando da fare per il recupero della crêpe caduta e non se ne accorge. Poi gli trilla il cellulare. Lo guarda per un attimo e per il resto del tempo è come se non ci fosse. Si limita a sbocconcellare la crêpe senza entusiasmo. “Grazie, ma non mi va più”, dice. Si alza da tavola e si allontana come se andasse alla ghigliottina.
“Che è successo, ragazzo?”, grido, pur sapendo che è inutile.
“Niente”, risponde senza nemmeno girarsi. Mi massaggio le cosce. Arriva una telefonata di Adéle e lascio squillare il telefono. Sento ancora quel maledetto cocomero sullo stomaco. Guardo nel vuoto, continuo a massaggiarmi le gambe. Mi formicolano come se avessi preso una scossa.
Lascio passare un’ora, poi mi alzo e mi dirigo verso la camera del ragazzo. Busso, ma non risponde. Allora apro la porta. È steso sul letto, girato verso il muro, e non si muove.
“Toby”.
Trattengo il respiro. Mi avvicino e lo giro verso di me. Ha il viso pieno di sangue.
“Oddio!”
Mi guarda attraverso le fessure degli occhi.
“Che ti è successo, ragazzo?”
Scuote la testa.
“Tirati su”.
Di malavoglia si siede. Ha il sangue sparso ovunque, sul naso, sotto il naso, sulle guance,
intorno agli occhi. Lo tocco, è quasi secco. Immagino che Adéle ci trovi così e mi assale un’ondata di calore.
“Toby, perché sei tutto insanguinato?”
“Che?”, mi guarda confuso.
Gli mostro le mie dita sporche di sangue. Lui si imbroncia e scrolla le spalle.
“Non lo so”, scrolla ancora le spalle. “Mi sarà uscito dal naso. Pensavo che fossero lacrime”.
“Hai pianto?”
Scrolla di nuovo le spalle. È seduto sul letto, guarda il pavimento.
“Ehi, non voglio forzarti, ma non ti andrebbe di parlare un po’?”
Scuote la testa. Mi torna in mente Adéle, quando mi ha detto che le sembrava di dover svuotare una barca che affonda.
“Si tratta di una ragazza, vero?”
Ricomincia a piangere. Singhiozza senza far rumore, le spalle che tremano. Pian piano si appoggia a me, e lo abbraccio.
Piove, Vivien, piove tutto il giorno. Cominciava così una poesia che ho scritto a diciassette anni.
Era una pioggia diversa, metaforica, malinconica. Mi ero innamorato per la prima volta ed ero in una tempesta di pioggia e nebbia, sognavo l’amore, una ragazza sfuggente. Era un sentimento ingenuo e romantico e in quel momento non mi accorgevo di essere felice. Io ormai non posso più sperare di spiccare il volo, è questa la cosa che invidio di più a Tobiáš. E non posso nemmeno dirglielo. Non mi crederebbe.
“Come si chiama?”
“Karolína”, risponde con la voce che cede, perché la sua muta vocale non si è ancora conclusa del tutto.
“Mh”, dico. Poi non so come andare avanti.
Lo abbraccio intorno alle spalle, dispiaciuto di non saperlo proteggere.
“Lo so che sono uno scemo”, sospira Tobiáš. Il suo cellulare trilla di nuovo.
“Non lo leggi?”, chiedo. Scuote la testa, prende il cellulare e lo getta in un angolo.
“Lo so che i miei problemi sono stupidissimi. Confronto ai tuoi, per esempio”.
Ora sono io a restare ammutolito. “Che intendi?”, chiedo poi.
“Ma dai”, sventola la mano. “Pensi che non lo sappia? Della neuropatia?”
“Come l’hai…”
“Lo vedo no? Prendi B-komplex e Lyrica, inciampi di continuo e non fai che massaggiarti le gambe. Cos’altro potrebbe essere?”
“Hai guardato su internet?”
Annuisce. Si accosta un po’ a me. Poi mi stringe la mano.
“Qual è la prognosi?” chiede.
“Indefinita”, scrollo le spalle.
“Mh”, risponde Tobiáš. “E che significa?”, chiede poi con tono di scusa.
“Che non si sa. Potrei andare avanti così per vent’anni oppure ritrovarmi fra un anno a camminare con le stampelle o addirittura in carrozzina”.
Tobiáš annuisce serioso. Restiamo in silenzio, ci abbracciamo, guardiamo il pavimento.
“L’hai preso oggi lo Zoloft?”, chiedo poi, per non interrompere il discorso.
“Fanculo le medicine”, dice Tobiáš un po’ incerto. Gli stringo la spalla, come per dire che ha preso la decisione giusta, e lui si raddrizza.
“Bene allora”, dico.
“Tanto non servivano a niente”.
“Già”, dico io.
“La mamma andrà fuori di testa”.
“Sicuro”.
Traduzione di Laura Angeloni.
Foto di Marta Režová