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Luca Quarin – Ambasciatore Miraggi legge Pontescuro di Luca Ragagnin

Luca Quarin – Ambasciatore Miraggi legge Pontescuro di Luca Ragagnin

Ci racconti in dieci righe la tua prima impressione di lettura?

1922, un punto imprecisato della bassa padana, a ridosso del Po. Una ragazza di nome Dafne, la figlia del signorotto locale, viene trovata morta in un fossato. La nebbia, il fiume, la ghiandaia, la blatta, sanno chi è stato a ucciderla. Il lettore lo scopre pagina dopo pagina, accompagnato dalla scrittura musicale di Luca Ragagnin. Un romanzo che sembra una ballata di Nick Cave o di Mark Lanegan o di P.J. Harvey, dove una pulsazione sorda scuote tutti i personaggi, facendo emergere l’oscurità nascosta dentro di loro. Oppure un dipinto di Bacon, o di Kirchner o di Clemente, dove il pennello dell’autore rende visibile quello che attendeva sotto la tela di essere smascherato. Un romanzo con dentro un altro romanzo. Un racconto scuro che contiene un racconto ancora più scuro, quello delle paure che non sappiamo come affrontare, delle miserie che cerchiamo di nascondere, dei vizi che vorremmo lontani da noi.

Perché consiglieresti di leggere questo libro?

E’ una fiaba che ha la forza della verità.

Definisci questo libro con un aggettivo?

Ipnotico

Pensi sia utile far leggere nelle scuole questo libro?

Un libro perfetto per far comprendere ai ragazzi come il male possa annidarsi anche nelle relazioni sociali, nei rapporti familiari, nelle abitudini consolidate, e sia necessario guardare le cose da lontano, come la blatta e la ghiandaia, per intravedere in mezzo alla nebbia il riflesso maligno della verità.

Natalia Ceravolo intervista Simone Ghelli e il suo “moltiplicarsi”!

Natalia Ceravolo intervista Simone Ghelli e il suo “moltiplicarsi”!

  1. Simone Ghelli, il panorama letterario italiano e i racconti… Parliamone.

Parliamone, ma evitando di cadere nei soliti luoghi comuni. Ad esempio che il racconto sia una sorta di palestra per arrivare al romanzo. Come se, per allenarsi a una maratona, un atleta si mettesse a correre i cento metri. Le riviste e i blog di racconti sono una vetrina per chi aspira a pubblicare il suo grande romanzo? Sicuramente possono dare visibilità, ci sarà qualche addetto ai lavori che legge in cerca di talenti, ma aver scritto un buon racconto non significa automaticamente saper scrivere un buon romanzo. La pubblicazione su una rivista dovrebbe essere un punto di arrivo, altro che trampolino.

Detto questo, in Italia si scrivono tanti racconti e di spazi in cui pubblicarli ne nascono e muoiono in continuazione. Il mercato sembra però prediligere il romanzo, motivo per cui il racconto continua ad essere territorio fecondo per la sperimentazione.

  1. Dieci storie di uomini che non si arrendono alla realtà: un figlio costretto dalla madre a suonare il pianoforte; un uomo la cui moglie è scomparsa da ogni fotografia; un postino che non ha più la forza di consegnare le lettere. Dieci uomini fragili e al tempo stesso ostinati. Una scelta tutta al maschile. Perché?

Bella domanda. Credo che dipenda dal fatto che questi racconti escono dal mio inconscio. Sono una specie di proiezione, dieci possibili declinazioni del mio mondo interiore. Detto questo, la realtà è che il femminile è presente in molte di queste pagine. In due racconti il femminile è addirittura descritto nel suo ritrarsi, come forza vitale rincorsa dai protagonisti.

  1. La vita moltiplicata è più voglia di desiderare o paura che certi desideri si avverino?

Credo entrambe le cose. È una possibilità, la vita in potenza. Il fatto è che, nonostante tutto, non riesco a smettere di credere nella scrittura, nella capacità che mi offre di aprire delle ferite dentro cui guardare – ferite che sono anche aperture.

  1. Tre aggettivi tre per descrivere la tua opera.

Onirica, inattuale, ambiziosa

Natalia Ceravolo intervista quel “santo, poeta e commissario tecnico…” di Angelo Orlando Meloni

Natalia Ceravolo intervista quel “santo, poeta e commissario tecnico…” di Angelo Orlando Meloni

  1. Angelo, spiegaci un po’ il titolo Santi, poeti e commissari tecnici.

Il titolo della mia raccolta è anche il titolo del primo racconto, che poi è l’ultimo che ho scritto, e l’ultimo figlio è quello a cui vogliamo più bene. Ma è un racconto che non parla davvero di calcio, credetemi. Parla di donne, d’odio e d’amore, di quanto noi uomini siamo schifosi, anche se tutto ciò viene fuori a poco a poco, tra un gol, una risata amara e un calcio d’angolo. Ditemi un po’, questo paese popolato da santi guaritori, poeti pubblicati a pagamento e commissari tecnici da bar, da masnadieri che sanno solo fischiare i calciatori di colore, non ha stufato pure voi?

  1. Abbiamo spesso il mito tutto italiano del “campionato più bello del mondo” : perché secondo te ci si identifica in vite così lontane dalle nostre?

Bella domanda, ma io sono un ex tifoso, ho raggiunto la pace dei sensi. La verità, secondo me, è che questa è una religione con tutti i relativi apparati, leggende, storielle e supereroi, tra cui anche il mito del campionato più bello del mondo. Gli italiani non sono cattolici, quella è un’abitudine; e dopotutto non conosco quasi nessuno che abbia letto la Bibbia. Ma se quasi nessuno di noi ha mai letto la Bibbia, come possiamo definirci cristiani? L’unica vera religione italiana è il calcio. Non è solo identificazione, è idolatria vera e propria. È una fede. Il tifoso non tradisce la squadra, ma tradisce la moglie o la fidanzata. Io invece ho tradito un sacco di squadre e nel corso di questi anni, per esempio, ho tifato per tutte quelle allenate da Znedek Zeman l’eretico e non ho sensi di colpa.

  1. Raccontaci il goal mancato e il sogno infranto che ti hanno fatto soffrire di più.

Avrei dovuto fare studi scientifici e perseguire i miei veri interessi e la mia vera natura. Invece ho ripiegato sulla cultura umanistica, sulla noia intesa come moralità, sul sacrificio per motivi risibili, sulla brutta letteratura fatta di “bello scrivere”… poi per fortuna a un certo punto mi sono imbattuto nel mio amore di gioventù, la fantascienza, l’horror, il fantastico in generale, da Tommaso Landolfi a Terry Pratchett passando per tanti altri autori non del tutto canonici, e la vita è diventata meno tetra.

  1. Tre aggettivi tre con cui descriveresti la tua opera.

Sexy, immarcabile e sincera.

Natalia Ceravolo intervista Marco Lazzarotto sul suo nuovo romanzo Social: A cosa stai pensando…

Natalia Ceravolo intervista Marco Lazzarotto sul suo nuovo romanzo Social: A cosa stai pensando…

1) Michele, Sandra e il nome impronunciabile della figlia deciso tramite la Rete. Marco Lazzarotto ma tu cosa pensi dei social oggi? Insomma, a cosa stai pensando?

Sto pensando che i tre personaggi che hai nominato incarnano il mio rapporto con i social. Da un lato c’è la diffidenza di Michele, che nonostante sia iscritto a diversi social non li usa perché dubita della loro utilità – o quantomeno, all’inizio del romanzo. Poi c’è Sandra, invece, che è ossessionata dal numero dei mipiace e crede che prima o poi possano cambiarle la vita, ma per il momento si limita a invidiare il successo (cioè i tanti mipiace) altrui. Infine, il fatto che il nome della loro figlia sia stato deciso da un sondaggio online rappresenta l’importanza che oggi ha la rete, di come il virtuale confermi il reale – insomma, quante volte mi è capitato a un concerto di voler condividere una foto, altrimenti avevo l’impressione di non esserci stato davvero?

2) Un giorno, mentre sta attraversando le strisce pedonali, Michele rischia di essere travolto da un’auto di passaggio. Non succede nulla, ma lui ha una reazione violenta e, trovato un sampietrino per terra, lo scaglia contro la vettura. È un po’ la rabbia inaspettata dei buoni?

Spesso mi è capitato di leggere romanzi che culminavano in un gesto violento ed estremo del protagonista, più o meno inaspettato. A cosa stai pensando invece è proprio così che comincia, rovesciando il meccanismo. La reazione di Michele è la rabbia inaspettata di chi crede di essere buono, ma che da quel momento in avanti passerà le giornate a domandarsi chi sia veramente. È stato un episodio, o dentro Michele si nasconde qualcos’altro, o qualcun altro? Messa così, il romanzo potrebbe sembrare un horror, ma niente di più lontano: si tratta di una commedia.

3) MorganaScrive, la blogger nemica, è un po’ la voce della coscienza, anche se noir, e animata più dalla sete di scoop che da quella di verità. Il tema dell’alter ego nei tuoi libri è la tua personalissima chiave per indicarci le sfaccettature delle umane personalità?

È un tema che ho già affrontato nel Ministero della Bellezza, ma lì i social non c’erano; in A cosa stai pensando sì, e infatti Michele non ha un solo alter ego ma, creando diversi profili falsi per cavarsi d’impaccio da situazioni complicate, fa sì che la sua personalità si moltiplichi, si rifranga, permettendogli di sperimentare nuovi lati di se stesso.

4) Tre aggettivi tre per descrivere il tuo romanzo?

Vorrei che il mio romanzo fosse divertente e inquietante. Di sicuro è social.

Grazie, a presto!

“Quando i padri camminavano nel vuoto” recensione del super libraio Carlo Borgogno della libreria Milton di Alba

“Quando i padri camminavano nel vuoto” recensione del super libraio Carlo Borgogno della libreria Milton di Alba

Leggere Piergianni Curti oggi è un ottimo modo per capire il presente. La narrazione sviluppata a partire dall’immediato dopoguerra ci restituisce un’Italia giovane, confusa, in perenne ricerca di un proprio centro di gravità. Un’Italia povera ma elegante, comunista e democristiana, rabbiosa e impaurita. Il “Mio Padre” di Curti è un po’ il padre di tutti noi, un uomo coraggioso e idealista che nasconde grandi contraddizioni e fragilità tra le mura domestiche.
Il libro è scritto superbamente, le numerosi divagazioni e riflessioni (a volte vere e proprie perle) non inficiano la godibilità del tessuto narrativo. È molto divertente trovare luoghi comuni che si perpetrano ai giorni nostri come quando il Padre studia una conferenza su “questi giovani che non si impegnano più”. Siamo negli anni ’50, pensate a quante frotte di persone non si sono più impegnate da allora…
Quando i padri camminavano nel vuoto, sabato 26 novembre 2019, sarà nella nostra libreria e sarei molto felice di trovarmi davanti un pubblico il più eterogeneo possibile; mi piacerebbe veder scorrere negli occhi dei settantenni una pellicola della loro infanzia, nei ricordi dei cinquantenni racconti ormai leggermente sbiaditi dal tempo e nei più giovani l’invidia di un tempo che ci assomiglia così tanto, ma che forse aveva più TEMPO per raccontarsi e starsi a sentire.
Sarà un vero piacere conoscere PierGianni, perchè se la sua ironia è pari a quella che trasuda dalle pagine che ho appena letto ci sarà da divertirsi.
carlo
Libreria Milton
Via Pertinace 9/c
12051 Alba (Cn)
+39 0173 293444
Natalia Ceravolo intervista Cetta De Luca per l’anteprima del suo nuovo romanzo “La leggenda del Re Eremita”

Natalia Ceravolo intervista Cetta De Luca per l’anteprima del suo nuovo romanzo “La leggenda del Re Eremita”

1) Re Eremita figura leggendaria che ha origine nella Magna Grecia, diventa qui il punto di partenza di una favole nera. Da dove nasce questa idea?

Il Re Eremita in realtà non esiste, né lui né la leggenda. Tutto prende vita da un racconto di mia madre su un lontano parente che si ritirò fra i monti a fare “‘u remita” dispensando opere di bene tanto che ci sono pellegrinaggi verso i suoi luoghi in cerca di miracoli. Il collegamento fra questa figura positiva realmente esistita e le figure legate alla ‘ndrangheta che utilizzano comunque i contrafforti della Sila come rifugio è stato automatico anche se paradossale.

2) Il tuo romanzo è sicuramente una voce corale al femminile, un femminile che protegge, nasconde e accomuna. Sono unite, nella tua anima, esclusivamente per la necessità di tutelarsi o anche per la forza che l’unione femminile può fornire?

Bella domanda. La verità è che quella unione è quella da me auspicata, perché in Calabria, la Calabria che io conosco, c’è questo strano dualismo tra complicità femminile e assoluto egoismo. Si paga il prezzo di un retaggio antico, in cui le donne solidarizzavano solo per certe faccende, per il resto era l’uomo di casa a dettare le regole. Certe forme di omertà ne sono l’esempio. Poi è anche vero che le lotte più importanti, quelle che possono cambiare la sostanza della vita, si verificano all’interno di nuclei familiari allargati, dove le donne si sostengono e si ribellano, ma c’è ancora molta strada da fare.

3) Una sola figura maschile appare nei passaggi significativi del romanzo: Giuseppe Esposito, che altri non è se non l’anima nera di Sant’Eustachio Belvedere. Paradossale e reale protagonista della narrazione. Io sono Calabrese come te. Quanto c’è della nostra Calabria nella descrizione dei luoghi?

C’è molto. Sant’Eustachio non esiste – almeno che io sappia – ma per la descrizione io mi sono ispirata al mio paese di nascita che somiglia a tanti, tantissimi paesi della costa ionica. L’abusivismo edilizio, i servizi non funzionanti, le amministrazioni colluse. Tre mesi dopo aver finito la prima stesura del romanzo c’è stata l’operazione Stige…

Giuseppe Esposito rappresenta la somma di tante nefandezze che la criminalità organizzata calabrese continua a perpetrare, nascoste da un perbenismo di facciata necessario alla sopravvivenza. Questa estate mi è capitato di passeggiare per le strade del mio paese e sentire gente che di lamentava del fatto che il “lavoro” avesse risentito di tutti gli arresti eccellenti che ci sono stati. Le cose stanno ancora così.

4) Tre aggettivi tre per descrivere il tuo romanzo.

È sempre difficile trovare aggettivi per un romanzo, figuriamoci tre! Dovendolo fare direi doloroso, paradossale, liberatorio.

Natalia Ceravolo intervista Vito Vita e il suo gigantesco capolavoro sulla storia del Vinile “Musica Solida”

Natalia Ceravolo intervista Vito Vita e il suo gigantesco capolavoro sulla storia del Vinile “Musica Solida”

Link al libro > Musica Solida

1) “Musica solida”, cioè la musica incisa su supporto fisico, che sia ceralacca, vinile o cd, contrapposta a quella attuale, liquida o, come uno dei discografici intervistati nel volume la definisce efficacemente, gassosa. Quanto presente c’ è nella musica del passato?

Direi che nella musica del passato c’è tanto del presente: basta andare in un’edicola e vedere quante collane di ristampe di dischi in vinile ci sono, alcune con molto successo di vendite. C’è quindi da un lato la riscoperta (e per i giovani la scoperta) del repertorio dei grandi gruppi e solisti del passato, e dall’altro il rilancio di un supporto, il disco in vinile, che negli anni ’90 si pensava definitivamente morto e sepolto e che per molti motivi, non tutti strettamente musicali, sembra che stia tornando in auge, in primis nei paesi anglosassoni. E pare che non ci si stia fermando qui, visto che sta iniziando anche la riscoperta delle audiocassette. A questo punto, mi aspetto la rivincita dei nastri Stereo 8.

2) E’ un lavoro antologico il tuo. Quanto tempo ti ha richiesto?

Contando la ricerca delle fonti, sia cartacee che orali (interviste a vari personaggi che, in ruoli diversi, hanno vissuto il periodo d’oro della discografia italiana), dieci anni esatti. Invece il lavoro di scrittura vera e propria è durato poco meno di un anno.

3) Raccontaci l’aneddoto più divertente e quello più malinconico collegato alle storie che hai raccontato in Musica Solida

Purtroppo di aneddoti malinconici ce ne sono, perché alcuni dei personaggi intervistati, già avanti in età, dopo poco tempo sono scomparsi: mi vengono in mente nomi come Alberto Testa, Giorgio Calabrese, Franco Cassano e Alfredo Rossi. Proprio quest’ultimo mi ha raccontato il motivo per cui, alla fine degli anni ’80, mise in vendita l’Ariston, ed è legato a un suo problema di salute che non aveva mai raccontato prima. Sempre ad Alfredo Rossi è legato un aneddoto divertente: quando alla fine degli anni ’50 lanciarono, in collaborazione con le Cartiere Fedrigoni, le Fonocartoline, con lo slogan “la cartolina che canta”, dopo qualche tempo furono costretti a interrompere la pubblicazione perché avevano smarrito la formula di questa carta particolare e, inoltre, non avevano pensato di brevettarla.

4) Se dovessi descrivere Musica solida con tre aggettivi?

Tre aggettivi sono veramente pochi…mi vengono in mente: appassionante, rigoroso, leggero (come la musica).

Natalia Ceravolo intervista Daniele Zito – Nuovo libro “Uno di noi” nella collana #scafiblu

Natalia Ceravolo intervista Daniele Zito – Nuovo libro “Uno di noi” nella collana #scafiblu

1) Uno di noi è il resoconto di una fine, strutturato come se fosse una tragedia greca. Quattro amici di vecchia data, al termine di una partita di calcetto, decidono di dare fuoco a una baraccopoli. Sono uomini mediocri, padri di famiglia, essere umani rabbiosi.
Leggendolo mi è sembrato di riscontrare i loro volti nel quotidiano. Mi vuoi dare una tua visione su di loro? Chi sono?

Sono persone ordinarie divorate da alcuni dispositivi retorici estremamente persuasivi. Roba del tipo “prima gli italiani”, “padroni a casa nostra”, “fermiamo l’invasione”, “stop buonismo”, ho omesso i punti esclamativi per rispetto dell’intelligenza dei lettori.
Grazie a questi slogan, molti di loro si sentono arruolati in un’enorme guerra immaginaria contro chiunque sia diverso, chiunque, cioè, non rientri in quel “noi” immaginario che spacciano per identità.
Da fuori sembrano persone ordinarie, conducono vite ordinarie – giocano a calcetto, tornano a casa dalla compagna, si riscaldano la cena, rimboccano le coperte ai loro figli –  in realtà agiscono, pensano, combattono come dei soldati.
Sono in trincea. Hanno l’ordine di sparare su qualunque cosa si muova.  

E in guerra, secondo la loro logica, tutto è permesso, compreso infliggere ogni tipo di dolore al nemico.

Siamo tutti vittime di un uso politico spregiudicato della crudeltà. La crudeltà viene esibita in ogni modo possibile nel tentativo di creare consenso. Le vicende della Diciotti, della Sea Watch, dello sgombero di Primavalle, delle barricate di Casal Bruciato hanno legittimato e propagandato un’idea disumana di convivenza, sono state dei veri e propri spartiacque. L’Italia che stiamo vivendo è una delle italie peggiori di sempre.
Uno di noi è il tentativo di raccontare tutto questo in prima persona e dal punto di vista di chi fa le barricate contro gli ultimi.

2. “Lì proprio in quel punto X c’era una bambina”. Forse, di tutto il testo, questo è il punto che mi ha richiesto un momento di pausa per l’estrema veridicità dell’immagine della scena, probabilmente anche alla luce del periodo storico che stiamo vivendo. Qual è stato il passo più duro da scrivere?

Raccontare il dolore del padre della vittima. 

Sono padre anch’io, ho due figli, mi sono immedesimato col suo dolore, col suo smarrimento, col buco nero che una vicenda di questo tipo spalanca nel cuore di un genitore. Non è stato facile. Non è stato per niente facile. Nel libro è l’unico punto in cui ho dovuto prendere delle pause per respirare, calmarmi, provare ad andare avanti.

3. Come descriveresti Uno di noi con tre parole, tre?

Uno di noi, purtroppo.

4. Che messaggio vorresti restasse nel cuore e nella testa di chi legge?

Ama i libri, odia il fascismo.

POEMA PER VOCE SOLA su Il Pickwick – Scritto da Alida Airaghi

POEMA PER VOCE SOLA su Il Pickwick – Scritto da Alida Airaghi

La voce narrante di questo Poema bianco di Pasquale Panella è femminile (come dichiara in apertura l’autore), e scandisce in tre sezioni di versi liberi una lunga e silenziosa riflessione in cui si confondono rimpianto e ironia, elegia e sarcasmo, logicità e insensatezza: a sottolineare una storia di amore e disamore, fedeltà e stanchezza, nel suo nascere crescere finire. Non assistiamo a una pièce teatrale destinata a un pubblico di spettatori, né a un dialogo che attenda risposte da un interlocutore privilegiato. Piuttosto rileviamo la volontà esplicita di districare, in un soliloquio lucidamente controllato, i fili aggrovigliati della mente, illuminando zone oscure del cuore e della memoria.

Il bianco citato nel titolo rimanda sia al candore sia al vuoto, alla pagina ancora da scrivere come a quella cancellata, a un’esigenza di chiarezza interiore o al bisogno di silenzio. Il poema pare invece riferirsi alla forma che assume sulla pagina questo monologo, un vero e proprio flusso continuo di versi, in cui i segni di interpunzione sono dati da virgole-virgolette-parentesi, e assidui, incalzanti punti di domanda. Nessun esclamativo, e un unico punto fermo conclusivo, dopo la parola “Fine”.
Pasquale Panella, che nella sua vita artistica ha consegnato parole importanti a musiche altrettanto importanti, sembra anche qui voler dar voce a una sonorità di base che, sviluppandosi da armonie attutite e terse, si spezzano frequentemente in improvvise dissonanze, in brusche alzate di accenti, in ribadite sottolineature. Così il tono colloquiale, lo scherno, la battuta ironica irrompono ad alterare o prosaicizzare il carattere più delicato e nostalgico della profferta amorosa rivolta a un assente.
In un lunedì sera piovoso di un mese imprecisato, alle otto meno dieci, una “lei” parla a se stessa e di se stessa, parla a un “lui” e parla di lui, pur diffidando di qualsiasi possibilità di comunicazione, in un rapporto che per entrambi è diventato indifferenza, incomprensione, accusa reciproca, rancore: “Quando il telefono non squilla / sei sempre tu / che non mi chiami”, “Tutto accade quando tutto è finito / Anzi, prima di finire / non è nemmeno tutto, / diventa tutto quando / è finito tutto, appunto”, “Noi, ci siamo mai dati del Noi?”.
L’amore c’è stato, e affiorano i ricordi (“Ma quante ombre / abbiamo fatto insieme”, “Respiravamo e basta / Le mani come il vento che si calma / sul ventre, su una coscia, su una spalla / Il viso ritornava a fare il viso, / il profilo la prora / di una barca incagliata”), insieme alle tracce di un passato che si intende smitizzare attraverso un uso giocoso della lingua, con l’utilizzo di ripetizioni, assonanze, calembour: “Io ero la tua vita nella mia vita / che era la tua vita / Ero quella parola che ti volevo dire / Ero il mio amore / E tu eri l’amore mio / Insomma tu eri io”.
L’idea platonica di fusione di due corpi e due anime torna a tentare insidiosamente il personaggio narrante, ma viene respinta beffardamente come lusinga ingannatrice: “Parlarsi da vicino come quando / parliamo da soli / a chi siamo, noi, l’altro / (ecco il Noi, lontano) / che non c’è (ma lo siamo)”.
Ingannevole appare anche lo scambio di ruoli sessuali programmato dall’autore del testo, e svelato da chi si proclama donna sapendo di non esserlo: “La voce è femminile, certo, / perché tu sei vile / Ti scrivi come se io / ti avessi scritto / Poi credi che l’abbia fatto per davvero”, “noi siamo fatti / di contraddizione e corpo umano”. Le contraddizioni, le incoerenze, le insicurezze che minano il rapporto tra due amanti svelano il sospetto nutrito nei riguardi di tutta la realtà (“Non è questione di realtà, / l’esistenza / È questione di credulità”), e addirittura del linguaggio: “Dalla sfiducia nelle parole / nasce la sperimentazione / o il loro gioco”, “C’è questo difetto / nella descrizione: / che sembra sempre / un compito copiato”.
Il poeta con voce di donna si diverte a usare gli strumenti del mestiere soprattutto quando ironizza sull’uso-abuso della rima, artificio cui i versi e le canzoni ricorrono da sempre per blandire occhio e orecchio di chi legge o ascolta: “Mi piacciono le rime con gli accenti / alla fine, baciate, per esempio: me con te”, “(le rime facili, sì, che sono rime, / le difficili, sì, che sono fisime)”, “(La facilità delle rime / è dovuta alla spontaneità delle parole in ente)”, “O è colpa delle rime: / le rime, penso,/ spesso fanno il senso”.
Alla “storia” raccontata nella prima sezione del Poema bianco segue “l’antistoria” della seconda parte (aggiunta dieci anni dopo la prima pubblicazione: “Versi esclusi, inclusi / qui / per togliermeli di torno”), un redde rationem in cui Pasquale Panella ritrova, passata la pioggia, il sole; dopo il lamento e la recriminazione, il sorriso indulgente e la leggerezza del divertissement. Un addio al dolore sentimentale, con la decisione di rivolgere le proprie attenzioni più alla scrittura e alla sua diffusione che ai tormenti del cuore (“L’amore era l’amore, / adesso è il mio editore”, è scritto in epigrafe). L’esperienza di coppia vissuta diventa terreno di riflessione disincantata e graffiante, riconsiderata nei suoi momenti di noia, delusione e incomprensione reciproca: “E siamo al romanzesco coniugale / (che non se ne può più recentemente) / tutto cavilli, distinguo inguinali, / pignolerie meticolose orali anali, / tutto un detto stradetto e ritrattato”. La liberazione dai ricatti affettivi si compie quindi proprio sulla pagina scritta, e nella terza sezione del Poema Panella conclude “Che scrivere è farla / finita con la storia”, una sorta di terapia programmata per guarire dal mal d’amour, esorcizzando fantasmi e sensi di colpa, e riproponendo un foglio vergine su cui vergare parole nuove.
“Il rischio dello scrivere è uno solo: / essere letti / Lo dicevi anche tu / Anche tu chi? Tu, io // E allora finiamoci, / o lettrice, / amore mio, / mia lacrima / di lettura fuor degli occhi // E fine”.
Rimangono ancora i rumori, nella conclusione del libro, quelli prodotti e ascoltati da chi si muove nella solitudine di un appartamento dopo che il compagno o la compagna se ne è andato: i passi sul pavimento, la doccia, le sedie spostate, il frigo aperto, la pasta che si cuoce nella pentola. Rumori che sono echi di una presenza eclissata, quando le parole non servono più a niente, e si riducono a un’impalpabile esalazione di fiato: “Il soliloquio, questa intima piazzata, questo comizio, questo convenire, qui, di un’oratrice che ha solo se stessa a ascoltarla, a ascoltarsi, a sentirsi regnante sul silenzio”.
Eppure anche le parole della donna solitaria a cui Pasquale Panella ha prestato voce ci hanno fatto compagnia, prima di dissolversi nel fumo: “vedi il fumo di tutte le parole / (vedilo, fa’ il favore).

Pasquale Panella
Poema bianco
Miraggi Edizioni, Torino, 2018
pp. 144

Pubblicato in Letteratura
“Matelda cammina lieve sull’acqua” finalista Un libro per il cinema19 – Le interviste di LiveCinema&Libri – Daniela Cicchetta

“Matelda cammina lieve sull’acqua” finalista Un libro per il cinema19 – Le interviste di LiveCinema&Libri – Daniela Cicchetta

Buongiorno Daniela! Grazie di essere con noi di LiveCinema&Libri; le congratulazioni sono d’obbligo, per il bellissimo risultato di essere arrivata in finale con il tuo romanzo Matelda cammina lieve sull’acqua, al premio Un libro per il cinema, edizione 2019. Vorremmo conoscere tutto di te, della tua vita da scrittrice, o almeno il possibile, adesso: perciò, che cosa ti ha spinto a diventare scrittrice? Qual è stata la scintilla che ti ha messo davanti un foglio di carta, o una tastiera del PC per cominciare a scrivere?

Buongiorno Loredana! Sì, sono molto felice di questo risultato raggiunto, non mi sembra ancora vero, sono veramente molto emozionata. Grazie per questa bellissima domanda: che cosa mi ha spinto a diventare scrittrice? Credo che scrivere sia una necessità che nasce con noi, e che va comunque di pari passo con la lettura. Io sono sempre stata una lettrice molto esigente; le mie letture sono cresciute con me: da cose più semplici, fino ad arrivare poi a tutti i testi dei mostri sacri che mi hanno fatto venire voglia di provare a mettere sulla carta emozioni che loro riuscivano a scatenare. Ho sempre letto quello che mi capitava; per questo parlo di crescita parallela a me.

Hai fatto bene a nominare la carta, perché scrivere per me presuppone questo passaggio importantissimo: è sulla carta che nascono i personaggi, è lì che devo sentire l’odore dell’inchiostro, il pigiare sulla penna a seconda delle emozioni che mi arrivano. Soprattutto le prime volte che scrivi qualcosa, non è facile mostrarlo; è per questo che ci ho messo un bel po’ di tempo a farlo, pur scrivendo da bambina. E se guardo le prime cose che scrivevo, mi sembrano molto semplici, ma all’epoca rappresentavano quella che ero, perché, poi, per crescere ho dovuto studiare moltissimo. È vero che è importante che ci sia la passione, una certa dote, ma tutto questo, senza la tecnica, non sta in piedi. Esistono anche casi eccezionali, pochissimi, che senza aver studiato niente riescono comunque a scrivere dei capolavori… ma per quanto mi riguarda, c’è bisogno che qualcuno ti metta sui binari giusti. Questa passione di scrivere mi spinge poi verso la tastiera, e quando sono lì sono certa di avere in testa tutto lo storyboard di quello che voglio dire, le parole vengono fuori da sole, e i personaggi si creano, mi prendono per mano e, in realtà, mi portano dove vogliono loro.

È molto bello quello che dici perché c’è molto spazio: leggere e scrivere, per te, sono soprattutto crescere. Da quello che ho compreso la lettura è stata importante per te, poiché siete cresciute insieme, ma anche lo scrivere. Leggere e scrivere sembrano due attività opposte, in apparenza, ma sono strettamente legate. Che apporto ha dato la lettura alla tua crescita, e quale la scrittura?

Di sicuro, a scoprire nuovi mondi, a ritrovare il passato o leggere scrittori che ipotizzano il futuro. Io adoro i classici, e anche la letteratura contemporanea; mi piacciono quegli autori che rompono gli schemi e quelli che raccontano fedelmente il loro tempo. Per migliorarmi, crescere interiormente, non ho fatto solo corsi di scrittura, pur avendo frequentato diverse scuole. A posteriori, posso dirti che il personaggio di riferimento è sicuramente il mio mentore, Paolo Restuccia, regista, autore e mio maestro; è la figura con mi sono trovata meglio e con cui continuo a confrontarmi. Non ho solo utilizzato queste, ma anche molta scuola di recitazione, con il metodo Stanislawski, che ti aiuta a cercare i personaggi e le emozioni dentro di te. Dentro di noi, c’è tutto, il personaggio iper romantico e, perché no, anche il serial killer: c’è un arcobaleno di emozioni immenso, e se guardi bene, puoi riuscire veramente a trovare tutto quello che ti serve. Ho fatto, poi, anche due anni di doppiaggio e quella è stata un’altra esperienza che ha mi ha fatto approfondire ancora di più questa ricerca. Dover incollare, attraverso le parole, le tue emozioni ad un già recitato, mi ha dato un ulteriore scatto, come frequentare dei Master con Mamadou Dioume, un personaggio molto vicino a Peter Brook, che fa master bellissimi dove ritrovare il contatto con te, guardandoti dentro, quasi come se fosse una forma di meditazione. La meditazione è qualcosa cui mi dedico da quasi trent’anni. In tutto questo, ovvero il desiderio di migliorarmi nello scrivere, la voglia di comprendere gli scritti mi è sempre rimasta, tant’è che una delle cose cui tengo di più è fare da relatore per altri scrittori. Il fatto di essere una scrittrice mi aiuta molto ad entrare nella psicologia del romanzo che poi devo presentare… per riassumere, sì, lettura e scrittura sono sicuramente strettamente collegate. Non conosco nessuno scrittore, del resto, che non abbia un buon bagaglio di lettura. Il resto, non vorrei che sembrasse come una cosa presuntuosa, è vocazione, un desiderio che nasce da dentro. E se anche all’inizio puoi dire di no a questo desiderio, arriva un momento in cui non ci riesci più: questo significa che quella è la tua strada. Se poi ti porta ad avere dei buoni risultati, molto bene per te, ma di sicuro ti porta verso te stesso, e questo, per me, è già molto, molto importante.

Si può dire che tu sei entrata davvero nel libro, e non solo come creatura di carta, con la lettura, la scrittura, la presentazione, ma sei entrata in tantissime sfumature di quello che vuol dire leggere e scrivere, raccontare, narrare, attraverso anche altre strade che sembrano lontanissime, come il doppiaggio, o il teatro. Sono entrambe esperienze bellissime, davvero. Partiamo da qui, da questo ambito sfumato, dove due arti diverse, ma simili, come due sorelle, come la narrazione attraverso i libri, e quella attraverso i film, si incontrano; come vedi il rapporto tra cinema e libri, l’arte di narrare con le immagini e quella che usa carta, inchiostro, macchina da scrivere, PC?

Sì, mi piace l’idea di assimilarle a due sorelle che si tengono per mano, narrare con i libri e con i cinema. Come vedo questo rapporto? Non credo sia molto facile fare una trasposizione di un libro, per quanto ci siano esempi eccellenti… tanto per fare un esempio italiano e uno straniero, io ho amato moltissimo la trasposizione de La macchia umana di Philip Roth, peraltro uno scrittore che mi suscita sempre tantissime emozioni, e dove si affrontava un argomento veramente importante. Ovviamente la trasposizione è stata facilitata da due mostri sacri come Nicole Kidman e Anthony Hopkins, e quello è stato un caso. In seguito mi ha veramente colpito, per la cinematografia italiana, Non ti muovere di Margaret Mazzantini. A parte qualche piccolo cambiamento, senza entrare nel particolare, credo che sia stata davvero eccezionale. È anche vero che i due hanno un rapporto parentale molto stretto, poiché Sergio Castellito è il marito di Margaret Mazzantini e ha saputo rappresentare esattamente quello che lei voleva trasmettere. C’è anche da considerare il ruolo di Penelope Cruz che, non so se è vero o una leggenda, si presentò al provino già calata nei panni di Italia, un personaggio particolare, fragile, che scatena una vera tempesta nella vita dell’uomo. È un lavoro estremamente difficile tirare fuori un film da un libro, ma per farlo esistono anche figure estremamente competenti, che riescono a far emergere spunti e idee interessanti nella stesura della sceneggiatura. Esistono anche dei casi in cui la trasposizione cinematografica non è andata a buon fine, e qui preferirei non fare nomi…

E come due sorelle, ogni tanto possono avere dei contrasti, possono litigare o possono magari dire la stessa cosa in modo diverso, senza rendersene conto. Hai parlato di due grandi esempi di trasposizioni cinematografiche che ti sono rimaste dentro, e si tratta di due grandi titoli, due grandi autori, da cui si sono ottenuti film giganteschi. Esiste, invece un libro che tu avresti voluto vedere sullo schermo e che per qualche motivo non ci è ancora arrivato? Uno o più di uno, s’intende…

Intanto, vorrei partire dal fatto che per me tutti i libri sono film: mentre leggo me li vedo proiettati nello schermo della mia mente. Io amo quei libri dove non definiscono del tutto un personaggio, perché mi piace immaginarlo. Ed è qualcosa che cerco anch’io di fare, quando scrivo. Se penso ad un titolo, me ne viene in mente uno di letteratura indipendente che amo molto: Eudeamon, di Erika Moak, un’autrice americana, pubblicata da Zero91. Questo libro parla di un futuro distopico, in cui i criminali non venivano rinchiusi nelle classiche prigioni, ma ricoperti di una tuta di latex che li rendeva tutti uguali e non potevano comunicare con il resto della società. Questa cosa all’inizio era molto forte, molto crudele: se ci pensi è veramente crudele non poter aver contatti con nessuno ed essere praticamente invisibili. Ma in questi personaggi, questa pena destava un contatto veramente fortissimo con sé stessi. Nel libro si parla di una giornalista che voleva capire come mai, tutte queste persone, allo scadere della loro pena, facevano in modo di rinnovarla, commettendo di nuovo qualche reato. Perciò si rende colpevole di un piccolo misfatto, si fa imprigionare in questa tuta di latex e in questo modo scopre che questo isolamento forzato la porta al contatto vero e proprio con sé stessa, fino a trovare una grandissima pace interiore. Un altro libro che vedrei benissimo come film è Ogni coincidenza ha un’anima, di Fabio Stassi, edito da Sellerio, che ho avuto l’onore di presentare. È un libro che ho voluto moltissimo perché volevo parlare con lui del suo personaggio principale, un biblioterapeuta che di lavoro ascolta le persone consigliando libri che possano aiutarli nel percorso per risolvere le loro problematiche. Parte da un personaggio particolare, la sorella di un uomo malato di Alzheimer, che dice che il fratello ha solo pochissimi e ricordi. In questa occasione lui comincia a chiedersi: nel caso ci venisse a mancare la memoria, qual è il ricordo che vorremmo fortemente conservare, quella cosa che ci è vitale? E andando a fondo nella storia, scoprendo tramite dei passaggi molto interessanti la vita e i rapporti di questo uomo, il biblioterapeuta imparerà a conoscere sé stesso, perché è questo il vero discorso alla base del libro. A volte mi domando se leggendo si vogliano cercare risposte che non si riescono a trovare da soli… è vero che questo accade con la scrittura perché scrivere è un elaborare a voce alta.

Meraviglioso! Dobbiamo davvero leggerlo e… poi chissà, trasformarlo in un film, vedremo! Ora, siamo arrivati all’ultima domanda. Matelda cammina lieve sull’acqua: la facciamo camminare lievemente verso un film? Che cosa renderebbe particolarmente idonea Matelda e la sua camminata lieve ad essere trasposta in un film, secondo te?

Questa forse è la domanda più difficile, perché mi riguarda da vicino. La storia di Matelda ci parla di conflitti generazionali: il bisogno di difendere i propri spazi e le proprie idee e di mettere in discussione i pregiudizi, che sono spesso legati al sesso e all’età. Ci ricorda di come gli anziani di oggi sono stati i ragazzi di ieri e sono cresciuti attraverso le stesse complicazioni e i conflitti delle generazioni attuali. Si sottolinea come tutti abbiamo il diritto quasi di sbagliare, se poi, attraverso l’elaborazione dei nostri errori, arriviamo a crescere interiormente. E torna quell’argomento che mi è così caro. Matelda cammina lieve sull’acqua percorre tutto il secolo, quindi prende visione di tutto quello che accade: si passa dalle difficoltà della Seconda Guerra Mondiale, al boom della ripresa economica italiana. Con Matelda si scopre la televisione, si va al concerto dei Beatles come evento internazionale, si assiste alla conquista della Luna… si osserva proprio il cambiamento del ruolo della donna e si abbattono tutti quei tabù legati alla non conoscenza, ma sempre passando attraverso quella famosa ricerca di sé che mi è così cara. Diciamo che è un libro che ci coinvolge in un percorso che riconcilia le generazioni, ricordandoci di come spesso si sia presuntuosi della propria giovane età, della propria saggezza, e magari ci si dimentica della propria ribellione. Il libro è ambientato interamente a Roma e ci racconta, appunto di tutti i cambiamenti sociali, politici, economici dell’intero territorio. Matelda è un personaggio che amo molto perché è un personaggio imperfetto; si arma delle proprie debolezze per raggiungere la consapevolezza. Ha tre figli, un marito… non tutto è come desideriamo ma, come dicevo prima, se ci si guarda dentro si può scoprire una grande forza. È la forza del nostro pensiero, del desiderio di quello che vogliamo diventare che rende tutto possibile. È una storia commovente, per certi versi, ma è anche la storia di grandi personalità e della storia della vita. Il titolo, tra le altre cose, ha un riferimento alla Matelda della Divina Commedia, che accompagnerà Dante da Beatrice attraverso il fiume Lete. La Matelda del libro è una nuotatrice, non solo nelle acque del Tevere, ma anche in quelle della vita, che percorrerà controcorrente. Soffrirà, gioirà, e soffrirà di nuovo, ma scoprirà presto di aver ricevuto in dono una vita piena d’amore.

Grazie di questo racconto gioioso di te e del tuo personaggio: in bocca al lupo per la finale del premio, e arrivederci a presto!

Grazie a voi e a prestissimo!

Piove, Vivien – Il racconto inedito di Bianca Bellová su Reportage di Riccardo De Gennaro

Piove, Vivien – Il racconto inedito di Bianca Bellová su Reportage di Riccardo De Gennaro

Qui tutto ciò che c’è da sapere sul nuovo numero di REPORTAGE > https://www.ilreportage.eu/prodotto/numero-39/

Dalla stessa autrice di IL LAGO

 

È seduto a tavola, guarda il suo piatto e tace.

“Che hai fatto oggi?”, chiedo come se non lo sapessi.

Scrolla le spalle e risponde che non ha fatto niente di speciale.

“Domani allora potremmo andare a funghi”, dico, e lui scrolla di nuovo le spalle.

“Mh”.

“Oppure a pesca?”

“Mh”.

È qui da una settimana, e aspetto ancora il suo sorriso. Ora capisco perché Adéle sia tanto preoccupata. È triste vedere questo ragazzo così privo di vita. L’estate scorsa, quando è venuto in vacanza da me per una settimana, era un ragazzo allegro, normale. Si tuffava di testa nella pozza sotto la diga, dove da bambino lanciava sassi e bastoncini. Gli stava cambiando la voce, si stava trasformando in uomo, ma era ancora il nostro Tobiáš. Adesso mi ritrovo in cucina questo musone che non smette mai di tener d’occhio il cellulare e appena finisce di mangiare torna a stendersi sul letto con le cuffiette alle orecchie, fino al pasto successivo. “È una vera e propria depressione” mi ha informato Adéle, sottolineando le parole vera e propria, come a voler allontanare ogni mio eventuale dubbio. “Nessuna angoscia o malumore. Ha una diagnosi di depressione e prende un leggero antidepressivo”.

Ha fatto una pausa di silenzio, voleva capire se le sue parole avevano colpito nel segno. Sono rimasto zitto anch’io. Ovviamente sapevo della diagnosi, ma da sempre sono convinto che per questo genere di cose non ci sia niente di meglio che passare un po’ di tempo a ripulire il cortile dal letame, o farsi una corsetta di qualche chilometro.

“Va anche da una psicologa. Ma d’estate è in ferie, allora deve farcela anche senza. Dovresti cercare di parlargli molto”.

Annuisco.

“Non sono così sicura di potertelo lasciare”, sospira Adéle. “Mi fa così paura vederlo così”.

Annuisco.

“Devi fare molta attenzione, papà. Ogni tanto gli vengono pensieri suicidi”.

Questa cosa mi spaventa un po’, ovviamente.

“È così fragile!”. Adéle scuote la testa, con le lacrime agli occhi. “A volte mi sembra quasi che stia bene, allora il cuore si alleggerisce di un peso enorme. Poi però riprecipita nel buco nero ed è come se mi trascinasse con sé. Mi sembra di dover svuotare una barca che affonda”. “Ma non sarà solo innamorato?”, domando.

Adéle mi guarda incredula attraverso le lacrime, io dico solo “scusa”.

“Non la prendere alla leggera, per piacere. Ho bisogno di sapere che non sottovaluti la cosa, papà. Se pensi di non potertene occupare a tempo pieno me lo riporto a casa”.

“No, stai tranquilla, Adéle, ci starò attento. Non lo perderò mai di vista, non preoccuparti”.

La abbraccio. Piange.

“Ho paura per lui”, singhiozza sulla mia camicia. Le accarezzo i capelli.

“Vai tranquilla. Ora mi preoccuperò io al posto tuo”.

Mia figlia. Non è facile diventare intimi con una figlia. È di fatto una battaglia che dura tutta la vita, un rapporto fragile come un guscio d’uovo. La prima volta che l’ho vista sono scoppiato in una risata isterica. Mia moglie me l’ha mostrata attraverso il vetro del reparto maternità e Adéle era pelosa come un orangotango, brutta. Ma man mano che gli anni passano cominci ad abituarti a quell’esserino. E quando poi cominci a renderti conto che è la cosa più preziosa che hai, arriva un ragazzo e te la porta via, e ti rimangono solo le foto sotto l’albero di Natale, di lei che abbraccia il suo orso di peluche. Per un paio di anni il ragazzo se la tiene tutta per sé, poi le spezza il cuore e lei ritorna tra le tue braccia, anche se solo metaforicamente, ovvio.

E comunque le cose continuano a non andare come dovrebbero, ci rendiamo conto di quanto siamo lontani, a volte passiamo intere ore in silenzio perché non riusciamo a trovare un punto di interesse comune, oppure farfugliamo una banalità dietro l’altra. Sul tempo per esempio, che nessuno dei due sopporta. Oppure ascoltiamo al notiziario che nel carcere di Guantanamo usano la musica dei Bee Gees o di Eminem come strumento di tortura e lei ti sgrana gli occhi addosso, come può essere la musica una tortura? Che tortura è? La musica è una cosa bella, anche se non ti piace ti ci abitui, no? Me la chiami tortura? Le dico che sì, può essere una tortura anche se ti mettono alle orecchie delle cuffie che non puoi toglierti e per trenta ore di seguito continuano a mandarti a tutto volume sempre la stessa canzone, che magari ti fa schifo. Scuote la testa e dice che lei non avrebbe problemi ad abituarsi. O al limite quelle dannate cuffie se le toglierebbe e basta. Se le togliessero no, non può essere così impossibile. Tobiáš si intromette nel discorso e dice: “Mamma, stiamo parlando della Cia, lo capisci?”. E intanto mi guarda con un’espressione rassegnata. Ci scambiamo uno sguardo come a dire che è incorreggibile, e per un attimo ci sentiamo due cospiratori.

Quando Adéle e Tobiáš si salutano lei lo abbraccia forte, e lui le sta appiccicato come se da quella stretta dipendesse il destino del mondo. Sembra un po’ ritardato. Ma appena Adéle si siede in macchina e accende il motore, Tobiáš è già di nuovo incollato al telefono.

Non saprei dire se sono contento o meno di averlo qui. Sono abituato a vivere da solo e i calzini di un altro uomo sparsi per casa mi danno un po’ fastidio. Anche dover sempre cucinare. Adéle si è raccomandata di preparare pasti nutrizionalmente validi (ha detto proprio così!), soprattutto niente salumi, escludendo in tal modo più o meno la metà dei cibi che normalmente consumo… e oltretutto sono sempre lì a preoccuparmi se mangerà o non mangerà una determinata cosa, che di solito in effetti non mangia mai. Ma per il resto è bello avere qualcuno a cui augurare il buongiorno e la buonanotte, Tobiáš non parla molto, ma l’educazione non gli manca.

“Quegli stupidi rospi fanno un tale casino di notte che non riesco a dormire. Non ti dà fastidio?”

È uno dei miei tentativi di chiacchierare con lui.

“Che rospi?”, chiede, attraversandomi con lo sguardo.

Un giorno si distrae e lascia il telefono sul lavandino del bagno. Sul display vedo la foto di una ragazza. Lunghi capelli biondi e un aspetto ordinario. Un bel sorriso, anche se un po’ forzato. Di certo non una femme fatale, per i miei gusti, ma non ho alcuna intenzione di dirglielo. Faccio appena in tempo a riappoggiare il telefono dov’era.

“Quanti giorni sono che ti metti quella maglietta?”, mi affretto a chiedere.

Tobiáš mi guarda come se parlassi una lingua straniera, poi scrolla le spalle.

Il pomeriggio andiamo a guardare una gara di macchine, appena fuori città. Tobiáš indossa una maglietta pulita e si è persino pettinato. Il ciuffo è sistemato sulla fronte, a coprire i brufoli. Per un attimo il suo interesse è catturato da qualcosa che vada oltre il suo campo visivo. Continua a ripetere che è uno sport da dementi, ma intanto segue con attenzione le auto che sfrecciano sulle curve. Gioca con una moneta, gli riesce davvero bene, la moneta scivola su e giù tra le dita, non si ferma nemmeno un attimo, gli gira e rigira all’infinito per il palmo della mano.

“Mi stai facendo diventare nervoso. Non potresti smettere almeno per un secondo?”, protesto.

Scrolla le spalle e si interrompe diligentemente per qualche istante, poi però ricomincia.

“Sai quante possibilità ci sono che l’auto esca di pista e investa uno spettatore?”, mi chiede.

“Non lo so”.

“Una su mille e seicento”.

Mi sembra una stupidaggine, ma fischio sorpreso. “Non sono mica così poche, eh?”

“Mh” annuisce orgoglioso, facendo sparire la moneta. Bisogna riconoscere che con le mani

è un vero mago.

Di ritorno a casa mangia due porzioni di polpettone. Sono soddisfatto, mi pare un buon segno. Gli verso mezza bottiglia di birra in un bicchiere e beve senza commentare. Telefono ad Adéle e le dico che oggi con Tobiáš è andata molto bene. È felice.

Gli chiedo se abbia voglia di guardare un film. Lui scrolla le spalle. Allora metto The Doors, del ’91. È in lingua originale, quindi ogni tanto, quando non capisco qualcosa, chiedo a Tobiáš. Tobiáš non si mostra di certo entusiasta nei confronti del film, però lo guarda fino alla fine, non si alza nemmeno per andare al bagno. Finito il film prendo la biografia di Jim Morrison Nessuno uscirà vivo di qui e la sfoglio un po’. Poi faccio finta di dimenticarlo sul tavolo.

Al mattino vedo che il libro è un po’ spostato.

È presto, ma fa già caldo. Gli propongo di andare a fare il bagno nella Nežárka. Scrolla le spalle, dice che è troppo afoso. Che posso fare? Sforzandomi di pronunciare la frase con una certa perentorietà gli dico di andare a prendere il costume, che io lo aspetto in macchina. Lui non protesta. Quando esce dalla porta il motore è già acceso. Alla radio c’è una vecchietta che sta raccontando della sua infanzia. Mi aspetto che Tobiáš cambi stazione, invece la lascia lì, anche se finge di non ascoltare. La signora racconta che da piccola si è seduta su un ago e hanno dovuto operarla per estrarre l’ago dal suo corpo prima che raggiungesse il cuore, e poi che a cavallo tra i due secoli suo nonno commerciava lana e formaggio di pecora nei Balcani. Mi fermo in un luogo poco frequentato, così non dovrò preoccuparmi che qualcuno mi guardi la pancia o la pelle, ormai assai poco sexy. Tobiáš vola in acqua direttamente dalla macchina, lasciando cadere in corsa i vestiti sull’erba, quando si tuffa è nudo (e uscendo si ricorda all’improvviso del senso di pudore e cerca di coprirsi con gesti quasi commoventi). L’acqua è ghiacciata e urla come se lo stessero squartando. Io tasto cautamente le pietre coi piedi. Non percepisco il freddo dell’acqua. Quando esco mi sdraio contento sulla vecchia coperta che porto sempre con me nel portabagagli. Tobiáš osserva che era la coperta di Fred. Sono sorpreso che se ne ricordi e glielo dico. Non è affatto strano, risponde Tobiáš, visto che la coperta puzza ancora di cane e ci sono ancora attaccati i suoi peli. Sulla strada di ritorno compriamo un cocomero e lo mangiamo tutto. Fino a sentirci male.

A casa Tobiáš mi insegna a usare i tasti di scelta rapida. Poi mi chiede di mettere un programma di cucina che guarda ogni tanto sua madre. Lo guardiamo anche noi, scrollando la testa. Due disperati senza il minimo di inventiva si stanno cimentando in una crema sfaldabile di cavolo e crescione. “Sai che goduria!”. Tobiáš ride per la prima volta. Gli propongo di fare un nostro programma culinario, io e lui.

Preparo gli ingredienti e intanto Tobiáš filma col cellulare. Tra il giornale e un barattolo di senape poggio sul tavolo sei uova esattamente nello stato in cui mi sono state consegnate dalla vicina, con lo sterco di gallina e le piume attaccate al guscio. Poi un sacchetto strappato di farina e un bicchiere sudicio pieno di latte. Tobiáš continua a filmare e ridacchia. Apro le uova nella ciotola come lo scimpanzé ammaestrato di Sei orsi e il clown Cipollina. Poi mescolo l’impasto e comincio a friggere le crêpes. Mentre ne lancio una nel tentativo di girarlo mi cimento in una piroetta. Ma perdo l’equilibrio, devo aggrapparmi al tavolo. Fortunatamente Tobiáš si sta dando da fare per il recupero della crêpe caduta e non se ne accorge. Poi gli trilla il cellulare. Lo guarda per un attimo e per il resto del tempo è come se non ci fosse. Si limita a sbocconcellare la crêpe senza entusiasmo. “Grazie, ma non mi va più”, dice. Si alza da tavola e si allontana come se andasse alla ghigliottina.

“Che è successo, ragazzo?”, grido, pur sapendo che è inutile.

“Niente”, risponde senza nemmeno girarsi. Mi massaggio le cosce. Arriva una telefonata di Adéle e lascio squillare il telefono. Sento ancora quel maledetto cocomero sullo stomaco. Guardo nel vuoto, continuo a massaggiarmi le gambe. Mi formicolano come se avessi preso una scossa.

Lascio passare un’ora, poi mi alzo e mi dirigo verso la camera del ragazzo. Busso, ma non risponde. Allora apro la porta. È steso sul letto, girato verso il muro, e non si muove.

“Toby”.

Trattengo il respiro. Mi avvicino e lo giro verso di me. Ha il viso pieno di sangue.

“Oddio!”

Mi guarda attraverso le fessure degli occhi.

“Che ti è successo, ragazzo?”

Scuote la testa.

“Tirati su”.

Di malavoglia si siede. Ha il sangue sparso ovunque, sul naso, sotto il naso, sulle guance,

intorno agli occhi. Lo tocco, è quasi secco. Immagino che Adéle ci trovi così e mi assale un’ondata di calore.

“Toby, perché sei tutto insanguinato?”

“Che?”, mi guarda confuso.

Gli mostro le mie dita sporche di sangue. Lui si imbroncia e scrolla le spalle.

“Non lo so”, scrolla ancora le spalle. “Mi sarà uscito dal naso. Pensavo che fossero lacrime”.

“Hai pianto?”

Scrolla di nuovo le spalle. È seduto sul letto, guarda il pavimento.

“Ehi, non voglio forzarti, ma non ti andrebbe di parlare un po’?”

Scuote la testa. Mi torna in mente Adéle, quando mi ha detto che le sembrava di dover svuotare una barca che affonda.

“Si tratta di una ragazza, vero?”

Ricomincia a piangere. Singhiozza senza far rumore, le spalle che tremano. Pian piano si appoggia a me, e lo abbraccio.

Piove, Vivien, piove tutto il giorno. Cominciava così una poesia che ho scritto a diciassette anni.

Era una pioggia diversa, metaforica, malinconica. Mi ero innamorato per la prima volta ed ero in una tempesta di pioggia e nebbia, sognavo l’amore, una ragazza sfuggente. Era un sentimento ingenuo e romantico e in quel momento non mi accorgevo di essere felice. Io ormai non posso più sperare di spiccare il volo, è questa la cosa che invidio di più a Tobiáš. E non posso nemmeno dirglielo. Non mi crederebbe.

“Come si chiama?”

“Karolína”, risponde con la voce che cede, perché la sua muta vocale non si è ancora conclusa del tutto.

“Mh”, dico. Poi non so come andare avanti.

Lo abbraccio intorno alle spalle, dispiaciuto di non saperlo proteggere.

“Lo so che sono uno scemo”, sospira Tobiáš. Il suo cellulare trilla di nuovo.

“Non lo leggi?”, chiedo. Scuote la testa, prende il cellulare e lo getta in un angolo.

“Lo so che i miei problemi sono stupidissimi. Confronto ai tuoi, per esempio”.

Ora sono io a restare ammutolito. “Che intendi?”, chiedo poi.

“Ma dai”, sventola la mano. “Pensi che non lo sappia? Della neuropatia?”

“Come l’hai…”

“Lo vedo no? Prendi B-komplex e Lyrica, inciampi di continuo e non fai che massaggiarti le gambe. Cos’altro potrebbe essere?”

“Hai guardato su internet?”

Annuisce. Si accosta un po’ a me. Poi mi stringe la mano.

“Qual è la prognosi?” chiede.

“Indefinita”, scrollo le spalle.

“Mh”, risponde Tobiáš. “E che significa?”, chiede poi con tono di scusa.

“Che non si sa. Potrei andare avanti così per vent’anni oppure ritrovarmi fra un anno a camminare con le stampelle o addirittura in carrozzina”.

Tobiáš annuisce serioso. Restiamo in silenzio, ci abbracciamo, guardiamo il pavimento.

“L’hai preso oggi lo Zoloft?”, chiedo poi, per non interrompere il discorso.

“Fanculo le medicine”, dice Tobiáš un po’ incerto. Gli stringo la spalla, come per dire che ha preso la decisione giusta, e lui si raddrizza.

“Bene allora”, dico.

“Tanto non servivano a niente”.

“Già”, dico io.

“La mamma andrà fuori di testa”.

“Sicuro”.

Traduzione di Laura Angeloni.

Foto di Marta Režová

Pontescuro di Luca Ragagnin è un libro che ho divorato! – Recensione di La lettrice controcorrente.

Pontescuro di Luca Ragagnin è un libro che ho divorato! – Recensione di La lettrice controcorrente.

RECENSIONE: Pontescuro (Luca Ragagnin)

RECENSIONE: Pontescuro (Luca Ragagnin)Valutazione: four-stars

Pontescuro di Luca Ragagnin
Illustratore: Enrico Remmert
Pubblicato da: Miraggi Edizioni il 15 febbraio 2019
Genere: Fiction, General, Narrativa italiana, Narrativa contemporanea
Pagine: 160
ISBN: 9788833860411
ASIN: B07NQ4BT76

La trama

C’era una volta, nella bassa padana, un pontescuro costruito con pietre, sangue e nebbia, in mezzo al vuoto dei campi. Intorno al ponte, sulle due rive che annoda, sono sorti poi un castello, dove abitano da sempre i padroni, e un villaggio

– Poesia – 

Presentazione Pontescuro di Luca Ragagnin - Miraggi edizioniPontescuro di Luca Ragagnin (Miraggi edizioni) è un libro che ho divorato. Durante la presentazione a Una Marina di libri sono rimasta molto colpita da Pontescuro. L’autore, presentato da Angelo Di Liberto, ha letto dei passi del romanzo e la natura, le foglie e gli uccelli, hanno accompagnato la lettura. Un momento che non scorderò.

Quando ho cominciato il libro, terminato in un solo giorno perché nulla poteva distogliermi dalla storia, da quelle voci che non potevo ignorare, me lo aspettavo proprio così: intenso, dalla prima all’ultima riga.

Ho vissuto sensazioni molto diverse. Da una parte sono stata cullata da una prosa che è poesia, e dall’altra mi sentivo costantemente turbata.  Proverò a raccontarvi Pontescuro  anche se non sarà facile.

Avete presente la nebbia? Dicono che faccia del male alle persone. Sono quelle dicerie che nascono un giorno, non si sa come, e poi quel giorno si perde nel tempo. Nella notte del tempo, anzi, nella nebbia del tempo. E così le origini di un’affermazione così forte, così perentoria, svaniscono, come dire, nel tempo.

Pontescuro - Luca Ragagnin - Miraggi edizioniPontescuro è un luogo in cui ogni elemento ha la sua voce. A chi piace pensare che le cose che abbiamo toccato, vissuto,  conservino tracce di noi?  A me sicuramente. Questo è un argomento che mi sta molto a cuore e che mi fa tornare in mente Pavese e la sua famosa citazione sui paesi che restano ad aspettarti perché hanno qualcosa di tuo, persino l’erba si ricorda di te. E a Pontescuro è così: i ponti, gli alberi, gli uccelli e persino gli scarafaggi hanno una storia da raccontare. Ed è proprio la natura a descriverci l’atmosfera che si respira in quel paese  di campagna nel 1922. Ed è sempre l’ambiente circostante a dare una lezione agli abitanti e a noi…

Dafne è troppo diversa dagli abitanti di Pontescuro che sono grigi, ignavi, schiavi della mediocrità. Prigionieri di loro stessi non comprenderanno mai che la bella Dafne si concede a tutti per disprezzo. E’ un concetto che non li sfiora nemmeno lontanamente. Perché? Perché sono incapaci di immedesimarsi, l’empatia non esiste.  (Vi ricorda qualcosa?)

«Mi chiamo Dafne Casadio e avrò per sempre ventiquattro anni.
«Sono morta da sette ore.
«No, non quel sentiero, prendete a destra. Sì,  questo. Fate attenzione, si scivola. No, non è ancora acqua, gli argini del fiume tengono bene. E anche se mi piacerebbe, se farebbe di me ciò che in vita non sono riuscita ad essere, non sono nemmeno le mie lacrime. È la nebbia che se ne va, sbavando. Tra poco sarà chiaro e qualcuno mi troverà. Con il mio nastro rosso stretto intorno al collo. È così che sono morta: con un nastro rosso  stretto intorno al collo. Strangolata, diranno. E non è nemmeno di seta, diranno. D’altronde la seta non le sia addiceva. Quella sgualdrina.»

Dafne però non è sola. E’ vero, quando ci racconta la sua storia è già morta, ma non ci sono solo elementi negativi. E’ amica di Ciaccio: lo scemo del villaggio. A Ciaccio voglio bene subito. E’ stato abbandonato da neonato sulla riva del fiume e il suo nome glielo dà il verso degli uccelli (galeotto fu il passo letto a Palermo che mi ha fatto innamorare) . E’ ritardato ma ha il cuore buono e Dafne se ne accorge. La loro amicizia viene descritta con  purezza e incanto. La stessa che adopera Ciaccio per addobbare gli alberi:

Visti da lontano assomigliavamo a un quadro, che per qualche diavoleria si fosse improvvisamente animato. Uno di quei quadri esposti nelle gallerie importanti delle grandi città.

Incuranti delle etichette, felici di abbellire gli alberi con i pezzi di stoffa, Ciaccio e Dafne colorano e stravolgono Pontescuro. Incantano la nebbia, il fiume e tutto ciò che toccano.

Finché… finché Dafne non viene trovata morta. Ovviamente è stato Ciaccio, poteva essere soltanto lo scemo del villaggio. Lo sanno i preti, le pettegole, persino l’investigatore inviato da Roma. Perché farsi ulteriori domande?

Caso chiuso, anche per noi lettori. D’altra parte il punto non è trovare o non trovare l’assassino, far andare d’accordo la realtà dei fatti con quella degli abitanti. L’intento di Ragagnin è un altro. E’ il racconto delle azioni incompiute, delle strade non intraprese,  delle possibilità dimenticate. Ragagnin ci ha descritto l’incompiuto, l’immobilità dell’essere umano.  E alla fine scopriamo che il colpevole lo conoscevamo già dalle prime righe: l’invidia  (sociale, sessuale, sentimentale) accompagnata dalla pigrizia.

Pontescuro di Luca Ragagnin è…

Pontescuro - Luca Ragagnin - Miraggi edizioniPoesia, racconto, riflessione. Ragagnin ci stupisce mescolando elementi diversi: ci sono frasi simili a versi, rumori che rimandano a canzoni… tenerezze e descrizioni che mi hanno fatto pensare ai racconti per bambini ( tra l’altro la storia è accompagnata dalle illustrazioni di Enrico Remmert) e riflessioni dal sapore del saggio. Primo libro che leggo di Ragagnin e di Miraggi, credo che non potessi aspettarmi di meglio.

In Pontescuro ci sono tantissimi temi, è vero la storia è ambientata nel 1922 ma guardando più a fondo si nota che Pontescuro è il luogo oscuro di ognuno di noi. E’ il rovescio della medaglia dei social, è la vita nei paesi ristretti e bigotti, è la malignità che si affaccia ogni tanto dentro di noi. Siamo fatti di azioni incompiute, spesso di ignavia, e  meno male che ogni tanto la natura riesce a riportarci sulla retta via.

Consigliato per chi ha voglia di immergersi in un mondo solo all’apparenza lontanissimo. Per chi ha voglia di tuffarsi in una storia senza pregiudizi. Pronti a lasciarvi togliere la maschera da Ragagnin?

 

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Luca RagagninLuca Ragagnin (Torino, 1965) è uno scrittore e paroliere italiano.
Incomincia a scrivere racconti e poesie nei primi anni ’80 e a pubblicare su rivista all’inizio dei ’90. Nel 1992 il testo teatrale “Eclisse del corpo” viene rappresentato a Torino e a Bologna presso il Teatro di Leo de Berardinis. Dal 1994 collabora come paroliere con musicisti di varia estrazione. Nel 1995 vince il Premio Montale per la poesia con una silloge inedita, letta nello stesso anno da Vittorio Gassman nel ciclo televisivo “Cammin leggendo” e pubblicata l’anno successivo dall’editore Scheiwiller. Nel 1996 viene invitato al Festival Internazionale di Poesia di Bar, in Montenegro, e un’antologia di sue poesie viene tradotta in serbocroato. Collabora con quotidiani e riviste di vario genere e, dal 1998 al 2003, ha tenuto una rubrica fissa su “Duel”, mensile di cinema e cultura dell’immagine. Nel 2007, insieme a Enrico Remmert, adatta per ii teatro il libro Elogio della sbronza consapevole”. Lo spettacolo viene portato in tournée in Italia e in Francia da Assemblea Teatro. Nel 2009, sempre con Enrico Remmert, scrive “2984”, testo teatrale ispirato a “1984” di George Orwell. Lo spettacolo debutta al Festival delle Scienze di Genova con la regia di Emanuele Conte e la produzione del Teatro della Tosse. Nel 2011 collabora alla stesura di “Operetta in nero”, testo teatrale scritto e musicato da Andrea Liberovici e scrive, con Michele Di Mauro, “Alla fine di un nuovo giorno”, spettacolo commissionato da Torino Spiritualità e portato in scena dallo stesso Di Mauro e dal compositore messicano Murcof. Nel 2012 scrive per Lella Costa “Elsa Shocking”, monologo basato sull’autobiografia di Elsa Schiaparelli Shocking Life, che va in scena il 20 ottobre al Teatro Carignano di Torino. Nel 2014 scrive per Angela Baraldi lo spettacolo “The Wedding Singers”, che debutta al Teatro della Tosse di Genova, con la regia di Emanuele Conte. Le sue poesie sono tradotte in Francia, Svizzera, Portogallo, Polonia, Romania e Montenegro.
È autore di romanzi (Marmo rosso, Arcano 21), racconti (tra gli altri, Pulci e Un amore supremo), testi teatrali (Misfatti unici, Cinque sigilli) e poesie (tra le altre, le raccolte Biopsie e La balbuzie degli oracoli) e testi di canzoni (tra gli altri, per Subsonica, Delta V, Serena Abrami e Antonello Venditti). Con Miraggi ha pubblicato il volume di racconti Musica per Orsi e Teiere, il saggio Capitomboli e, insieme ai Totò Zingaro, la trilogia musicale Imperdibili perdenti, composta dai dischi «Il fazzoletto di Robert Johnson», «Salgariprivato» e «Fiodor», di cui è autore di tutti i testi.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE: https://www.lalettricecontrocorrente.it/recensioni/recensione-pontescuro-luca-ragagnin/