Festa per i 15 anni di Miraggi Edizioni, dedicata a Giorgio Olmoti Magazzino sul Po/Salone OFF Un sogno clandestino tra ‘stracci e ossa’ in musica e parole scritte, cantate, sognate
Giorgio e il suo inseparabile Nash
Il Salone del Libro 2025, sezione Off quest’anno ha ospitato tra i suoi eventi un racconto tra musica e storie dedicato al compleanno di Miraggi editore e alla figura di Giorgio Olmoti, scrittore e (anche) storico collaboratore de L’Isola che non c’era, recentemente scomparso, che mantiene vivo il suo ricordo con le parole scritte e cantate che in occasioni come questa fioriscono in nuove storie e canzoni per mano, strumenti e voce di molti amici scrittori e musicisti.
Ma prima di raccontare l’incontro dedicato ad Olmoti, una veloce ma doverosa panoramica su chi questo incontro l’ha ospitato. Miraggi dunque.
Nasce a Torino e debutta al Salone del libro nel 2010, non certo in sordina, e quest’anno festeggia in musica e parole i suoi 15 anni di resistenza sottotraccia e sottopelle. Un’editrice così non può nascere a caso, svanirebbe in un lampo. Miraggi editore nasce con un’idea fissa, anzi due, da un lato una maniacale cura redazionale e grafica, a cui si aggiunge uno stile progettuale subito riconoscibile, dall’altro la scelta di pubblicare libri che guardano a nuove tendenze e nuovi scenari in tutti i continenti. Sono tre i protagonisti di Miraggi: Alessandro De Vito (responsabile della collana Ceca), Fabio Mendolicchio e Davide Reina.
Ci sono testi nati in italiano e testi tradotti dal mondo, e tutte le collane fanno riferimento alla “letteratura di contrabbando”, a opere spesso censurate, nascoste, a volte proibite. Tra queste la collana di letteratura ceca NováVlna, ‘Nouvelle Vague’, chiaro riferimento alla libertà e creatività artistica degli anni della Primavera di Praga. Nata nel 2017 e attualmente unica nel panorama editoriale italiano, ha in De Vito un curatore d’eccezione, madrelingua, fine traduttore e profondo conoscitore della materia; poi la collana Tamizdat, termine che nel blocco comunista e in Urss indicava le opere straniere, per lo più occidentali, fatte circolare clandestinamente; Scafiblù, collana il cui nome prende spunto dalle imbarcazioni utilizzate per il contrabbando delle sigarette a Napoli, con autori italiani che, per stile e contenuti, seguono sempre vie non ordinarie, diffidando del canone, e infine Janus|Giano, la preziosa collana dedicata alle traduzioni con testo a fronte di poesia, prosa, lirica.
Miraggi è dunque per progetto e per scelta un editore sottotraccia, cammina e si muove con acuta determinazione in una direzione piuttosto ostinata restando nella cifra della qualità delle sue ricercate penne. I suoi autori portano ognuno il respiro di una letteratura senza confini, nell’idea, perfettamente espressa di recente da una delle autrici di punta dell’editrice, un’intellettuale lucidissima, Radka Denemarková, che esista LA LETTERATURA, che non ha bisogno di essere confinata in una lingua, in un luogo o in momento storico, in quanto capace di rompere ogni diaframma. Il suo meraviglioso ‘Ore di piombo’ testimonia bene questo sentire. “Viviamo il tempo degli oligarchi narcisisti, che considerano il mondo un giocattolo privato” dice, e ancora “Io sono una scrittrice e una cittadina, e il XX secolo ci ha insegnato che il diritto di criticare è importantissimo. Un diritto che da una parte fa paura, ma dall’altra costituisce la nostra grande forza. Ha notato che una delle prime misure messe in atto da tutti i sistemi autoritari è quella di condizionare gli scrittori? Perché rappresentano lo specchio del potere. La censura è sempre tragica, ma allo stesso tempo è anche una buona notizia: significa che la voce della letteratura è ancora forte”.
E poi il tema dei diritti, dell’ascolto, della cura, e la letteratura per Miraggi è tutto questo. Sempre coltivando le produzioni dal basso, quelle che non passano dai grandi media, quelle che non hanno canali social e vetrine che portano storia e vite di margine, non per contenuti ma per scelta sociale. Margine è essere e sentirsi clandestini alla Manu Chao, non dimenticare i rumori di fondo, far passare le parole oltre le lacche e le cronache effimere, gettare ponti per mondi letterari in comunicazione, e letteratura sono anche le parole delle canzoni, i testi di un fumetto, letteratura sono le narrazioni che vogliono arrivare e che portano l’energia della comunicazione, la parola e la musica. Infatti Miraggi ospita sovente tra le sue pagine scrittori che si occupano anche della scrittura di testi di canzoni, perchè la convinzione che abbiamo è che i mondi siano contigui e senza filtro o pareti. Margine è essere e sentirsi clandestini alla Manu Chao, non dimenticare i rumori di fondo, far passare le parole oltre le lacche e le cronache effimere e gettare ponti per mondi letterari in comunicazione, e letteratura sono anche le parole delle canzoni, i testi di un fumetto, letteratura sono le narrazioni che voglio arrivare e che portano l’energia della comunicazione, la parola e la musica. Infatti Miraggi ospita sovente tra le sue pagine scrittori che si occupano anche della scrittura di testi di canzoni, perché la convinzione che abbiamo è che i mondi siano contigui e senza filtro e pareti.
C’è il mondo intero nelle pagine di Miraggi, il mondo nelle storie di Luca Ragagnin, proposto allo Strega nel 2019 da Alessandro Barbero con il suo ‘Pontescuro’, o con il suo ‘Bambino intermittente’, in quelle di celiniana memoria di profondi confini interiori e di deserti abitati da dolenti umanità di Giorgio Olmoti, con il suo ‘Stracci e ossa’, o ancora di Luca Quarin con ‘Di sangue e di ferro’ (qui insieme in una foto di repertorio), e poi ancora Enrico Pastore o Eric Gobetti nel suo particolarissimo ‘Le straordinarie avventure del professor Toti nel mondo dei cevapcici’. Ogni anno una piccola preziosa produzione si arricchisce di nuovi titoli, di nuove scoperte, di nuovi sentieri di esplorazione letteraria, storica antropologica, poetica, umana.
Le ultime opere, le più recenti e le future, sono ancora dedicate al diverso, ai margini.
Per esempio ‘Sul filo della lama: Memorie della disintegrazione’, di David Wojnarowicz o i cinque volumi di prossima pubblicazione di Boumi Rabal, già in libreria in ordine cronologico a partire dal 2025.
Ecco questa è Miraggi editore, è esigente e non fa sconti, un laboratorio dove si sperimentano linguaggi. A dimostrazione ancora una volta che la creazione artistica ha i suoi percorsi scoscesi, complessi, spesso lenti oltre molte vite, ma come un fiume carsico scompare, riappare, scompare ancora ma continua a scorrere, a fluire, a sperare, a essere vitale.
E adesso la strada in musica per raccontare questa storia.
Federico Sirianni, Valeria Quarta (percussioni) e Veronica Perego (basso)
Il pomeriggio del Salone off, nella splendida scelta del Magazzino sul Po, storico locale dei Murazzi lato Buscaglione, affacciato sul fiume che corre lì a un passo dall’aperitivo, ha offerto un bel dibattito su quanto sia legittimo sognare, e quanto sia resistente chi rimane coerente al suo obiettivo e prova e spezzare il pregiudizio del “non potrai mai farlo” di cui ognuno di noi ha una bella collezione. Già lì la musica scaldava motori e parole ed era più forte dell’acqua.
La serata è partita poi all’interno del locale, con una sapiente introduzione del maestro di cerimonie Federico Sirianni che, insieme a Valeria Quarta alle percussioni e Veronica Perego al basso, accoglie uno per uno gli artisti, guida e lascia snocciolare in una lunghissima serata presenze poetiche, musicali, racconti, performante teatrali. Ognuno ha attinto alla sua storia, alle sue parole, ai suoi percorsi e li ha mescolati sul palco offrendoli all’ascolto.
Da Miriam Gallea a Stefania Rosso, dalla fisarmonica incantata di Matteo Castellan alle parole cesellate di Enrico Remmert, e poi un robusto Luca Morino, signore del palco e del suo pubblico, accanto alla levità determinata di Liana Marino. Seguono le parole di un racconto di Giorgio Olmoti, che aleggiano e ballano sui tasti delle chitarre, e poi la voce salda di Paolo Archetti Maestri (qui in altro durante la sua esibizione) e quella timbrica e profonda di Tiberio Ferracane che canta magistralmente e a cappella Lu pisce spada di Modugno, e poi ancora Mao, e Carlo Pestelli con la sua Clelia o Jeio Freschi con il Tun cul carburo che suona più forte di una bomba. E ancora le parole sonore, sghembe e acute di Domenico Mungo, l’emozione di Arsenio Bravuomo che riesce a diventare colore poetico e calore arancio vivo, la voce & note di Lory Muratti e Andy Bluvertigo con la loro meravigliosa performance.
Lory Muratti e Andy dei Bluvertigo
E ce ne sarebbero da dire, da Luca Quarin ad Alessandra Racca fino all’invenzione della parola a manovella di Guido Catalano, poeta elegante che trascina con l’ironia del paradosso e della sottigliezza, e ancora un elenco infinito di testimoni, di creativi innocenti e resistenti, che hanno dimostrato una volta di più che su un palcoscenico si possono fare magie democratiche che incantano e abbracciano tutti e a tutti arrivano come paradigma di sogno ma anche di impegno civile, con un solo pensiero di piuma a Giorgio e un motore che spinge potente verso l’invenzione. Essere ed esserci insieme, nei suoni autoriali e nelle parole dei poeti, condividendo una storia come questa, non è scontato, non è facile, ma è infinitamente generoso, alto, gesto unico di amore e paradosso, è un taglio che ci fa sentire ancora una volta vivi, e con la musica dentro e addosso, in quel filo sottile che Giorgio metteva “tra l’aorta e l’intenzione”, ci si sente al sicuro in questa incertezza amata, voluta, infine scelta. Finché ci saranno visioni ne varrà certamente la pena.
Questa è una delle immagini che Giorgio amava vivere, respirare, quando rientrava dai suoi viaggi
Servizio fotografico dell’evento a Magazzino sul Po, a cura di Ivano Antonazzo.
Le foto di Giorgio Olmoti sono prese dal suo profilo ufficiale
Sul filo della lama” è una raccolta di testi autobiografici, un memoir irriverente, crudo, cinico ma verissimo in cui l’artista David Wojnarowicz si consegna al destinatario senza mezzi termini, palesando quello che Jonathan Bazzi definisce il suo “cuore scorticato”
“Al tramonto le auto sembravano tanti acquari su ruote: sguardi anfibi di sconosciuti compressi dietro ai finestrini. Imponenti edifici di granito con finestrelle screziate da luci fluorescenti, forme grigie indistinte nei vicoli fradici, merda e spazzatura rotolano nel vento vicino ai tombini intasati, spruzzi di luce al neon rossa e verde scivolano sull’asfalto bagnato. Un barbone emaciato con piedi nudi e lividi – un tempo anche lui è stato bambino di qualcuno – si è intrufolato nel vecchio scatolone di un frigorifero nascosto tra le erbacce di un parcheggio vuoto”:
David Wojnarowicz è stato un artista poliedrico nato nel 1954 e vissuto solo 37 anni (è morto per una complicanza dovuta all’Aids). Scrittore, osservatore acuto del mondo, fotografo, performer, visual artist e attivista, è ora stato portato nelle librerie italiane grazie all’editore resistente e indipendente Miraggi Edizioni, con un libro tradotto da Chiara Correndo e post-fatto da Jonathan Bazzi: “Sul filo della lama”, con sottotitolo eloquente di dostoevskijana memoria: “Memorie della disintegrazione”.
Si tratta di una raccolta di testi autobiografici, un memoir irriverente, crudo, cinico ma verissimo in cui lui si consegna al destinatario senza mezzi termini, palesando quello che Bazzi definisce il suo “cuore scorticato”. Ci mostra la barbarie dei bassifondi, l’altra faccia di una società, quella a stelle e strisce, spesso troppe volte ovattata e ridipinta attraverso film a lieto fine, lustrini e splendori. Qui non c’è la famiglia felice (la sua men che meno, visto che durante l’infanzia fu vittima di abusi da parte del padre, che poi si eclissò), non ci sono storie d’amore melense, ma incontri fugaci e talvolta violenti, scene hot dove il piacere diviene lenitivo della disperazione più profonda, rivendicazioni precise, all’inseguimento di un diritto che si fa sempre più flebile:
“Alcuni mesi fa lessi sui giornali che la Corte Suprema aveva emesso una sentenza secondo la quale gli omosessuali in America non hanno diritti costituzionalmente garantiti contro la violazione della loro privacy da parte del governo. Nel testo si leggeva che l’omosessualità in America è da sempre condannata e che solo eterosessuali, coppie sposate o famiglie possono godere di questi diritti”.
C’è l’Aids, malattia che allora concedeva poche speranze, ci sono le cure, gli amici che scompaiono, le conversazioni, i dubbi, l’ineluttabilità di una vita intensa ed effimera quale fu la sua, divorata fino all’ultimo respiro. Poi ci sono risse, malintesi, meravigliosi scorci urbani psichedelici, accuse coraggiose senza remore di esiti legali (scoprirete, ad esempio, che il cardinale O’Connor è il più grande bugiardo del mondo in fatto di preservativi e sesso protetto e che molti rappresentanti del governo Bush sono pericolosi omofobi). Non mancano le analisi concenti, le speculazioni filosofiche, le bugie e i controsensi smascherati della vita, sui quali, però, non ci si interroga con domande infruttuose, piuttosto la denuncia diviene il canto di un cigno per una nuova consapevolezza che ci porti verso una società più giusta.
Il tutto riportato con un linguaggio feroce e sublime, inseguendo la poesia anche di fronte alla parte più infima dell’esistenza e proponendo talvolta il simbolo dentro un flusso sempre lucido di pensieri, come ipostasi di più alti significati:
“Se si riuscisse a sopportare la luce, ci si accorgerebbe di un cuore centrale con appendici di piovra. Tentacoli come vermi lunghissimi palpitano di pulsazioni stroboscopiche nella bruma bluastra che essuda dal centro. Il centro non è esattamente percepibile con la vista, è più una sensazione: il pingue meccanismo della civiltà, la distruzione totale e programmata del mondo così come lo conosciamo, le svastiche ambulanti che latrano parole di morte quasi fumettistiche”.
Culture diverse, modi di vivere differenti, storie nazionali che seguono il proprio percorso, ma qualcosa ci accomuna: il desiderio di vivere la nostra vita in dignità e autodeterminazione. La Resistenza è una terra di tutti e di nessuno, appartiene all’Uomo. Quello che è fedele a se stesso.
Fedele a se stesso lo è di certo František Wiendl, protagonista di Tempo confinato. Memorie di un prigioniero politico tradotto dal ceco da Annalisa Cosentino per Miraggi Edizioni. La sua è una vita singolare ed insieme anche una fra le tante, una rappresentazione perfetta della vita di un cittadino Boemo del Novecento. Come tante, è una vita impigliata nelle maglie della grande Storia – quella a cavallo tra i due regimi totalitari – . È proprio questo suo essere vittima del sistema/dei sistemi che lo rende comune. La storia del singolo si eclissa dietro un numero quando la tragedia da storicizzare è troppo grande o anche quando la volontà di narrare manca.
Ma la vita di František è anche una vita singolare, a suo modo, per quella forza di autodeterminazione non solo desiderata passivamente, ma praticata attivamente e per la dignità che ha conservato in ogni circostanza, anche quando la Storia l’ha reso una vittima fra le tante.
Inoltre, se una storia acquista vividezza nel momento in cui la si racconta, anche per le generazioni a venire, la vita di František Wiendl, unica nelle sorti comuni, acquisisce la sua aura di unicità per la volontà del figlio di narrarla.
Trama – La struttura narrativa di Tempo confinato segue la forma di un dialogo, quello generazionale che intercorre tra Jan e František Wiendl. Jan è il figlio ansioso di ricostruire la storia paterna, prima che questa cada nell’oblio con la sua morte. Ma è anche il rappresentante di una generazione che non ha davvero sperimentato in prima persona la parte più brutale dei regimi totalitari. Jan, come noi lettori, è quello che viene dopo, il post-. Il suo metodo è l’indagine che scava nella memoria del padre: pone le sue domande, chiede un chiarimento.
František è ricettivo, paterno e fattuale allo stesso tempo. È, soprattutto, il testimone oculare, la vittima e l’oppositore che ha lottato per ottenere la democrazia di cui Jan, da un certo punto in poi della sua vita, ha potuto godere.
La conversazione segue, dunque, la parabola della vita di František: da partigiano, figlio di un partigiano, durante il regime nazista ad oppositore del bolscevismo durante il regime sovietico, per poi diventare un prigioniero politico. È proprio la scena del processo, quello che cambierà per sempre la vita di František, la scena introduttiva. Dopo la condanna, per aver aiutato alcuni fuggiaschi a passare il confine dall’allora Cecoslovacchia verso la Germania Ovest, František subirà l’umiliazione e la durezza dei campi di lavoro. E poi, una volta libero, il difficile rinserimento nella società.
Nella narrazione inevitabilmente vengono inglobati, oltre agli accadimenti storici, gli altri coprotagonisti di questa pagina nera della Storia. I “complici” ma anche i compagni di prigionia, che hanno aiutato František a non perdere di vista l’aspetto umano. Tempo confinato è inoltre arricchito da foto e dalle commoventi lettere che František inviò nel corso degli anni di prigionia a sua madre e suo padre.
Non voglio assolutamente fare l’eroe, ma nel considerare questa domanda ripenso alla situazione di allora, e in quel momento le possibilità erano queste: entrare nel Partito Comunista […] Oppure si poteva non fare niente, restare a guardare. La terza possibilità era opporsi al loro insediamento non democratico. Era questo il nostro caso, volevamo difendere i diritti democratici. Ciò significa che abbiamo scelto consapevolmente di opporci, considerandolo un nostro dovere, senza avere paura. Eravamo consapevoli anche delle conseguenze.
– Tempo confinato
Ho scelto di proporvi questa citazione perché mi sembra esemplificare al meglio il senso della vita di František Wiendl. Dalle sue risposte al figlio non emerge mai una volontà di eroicizzare le sue azioni. Quando piuttosto quella di sottolineare che la gente comune si è trovata a dover prendere scelte fuori dall’ordinario perché i tempi lo richiedevano. Di fronte a questa verità viene quasi spontaneo chiedersi “cosa avrei fatto al suo posto?” Giudicare da una posizione confortevole non è mai giusto. Forse lo sapremo quando la Storia chiamerà il nostro turno. Ma forse quell’ora è già arrivata.
In Europa tra fine ‘800 e inizio ‘900, per poi oltre proseguire, esplode, dentro una concezione borghese del patriarcato che riproponeva i consueti schemi di subordinazione e sudditanza ma insieme paradossalmente li smentiva nel trionfo della libertà personale e individuale, la contraddizione del femminile proprio per la sua (del femminile) nascente indisponibilità a farsi imprigionare in quegli schemi.
È innanzitutto la drammaturgia nordica ma non solo, tra l’altro quasi esclusivamente maschile, a farsi portatrice dei quella contraddizione e di quella indisponibilità che lo sguardo appunto maschile ‘pativa’ anche angosciosamente mentre, secondo l’insegnamento szondiano, contribuiva non poco alla crisi, speculare a quella sociale, del dramma moderno. Questo bel libro di Enrico Pastore affronta però il tema da un punto di vista diverso, quello delle artiste cioè, oggi diremmo performer, che non furono solo oggetto di quella mutazione ma se ne fecero concretamente carico subendone anche gli effetti. Non solo personaggi, da Salomè all’Olympya di Hofmannsthal, ma veri e propri corpi alieni che ribaltavano la percezione del femminile, incidendo sulla struttura stessa della rappresentazione. Nomi di artiste, da Sada Yacco a Cléode Mérode, da Edith Craig a Valentine de Saint-Point e Emmy Hennings, non a caso, come spesso capitava e ancora capita a molte artiste, praticamente dimenticate nonostante l’impulso essenziale che hanno saputo dare al rinnovamento del teatro. Ma non è un bagno di memoria, è soprattutto un riconoscimento di valore, dovuto e comunque tardivo. Forse altrettanto importante di quello che in precedenza segnò l’esordio sulla scena della donna, non solo come personaggio ma in carne ed ossa, e così capace di modificare anche il senso stesso del personaggio teatrale. Un lavoro importante e approfondito, come testimoniato dalla corposa bibliografia, quello di Enrico Pastore, definito da Renzo Francabandera nella sua prefazione non solo un’operazione di rottura, ma soprattutto di condivisione capace di dare l’avvio a forme sempre più complesse, nel Teatro e nella Società. Una dimostrazione ulteriore di come l’attività di quelle artiste ‘eversive’ non fosse rivolta esclusivamente alle donne nel teatro ma anche, modalità questa tipica del femminile, all’intero teatro e inevitabilmente alla intera Società. Un volume ricco e articolato da consigliare perché parlando del passato parla soprattutto al nostro presente.
Un lavoro a quattro mani, un lavoro a due menti, un lavoro a due cuori, un lavoro a due anime, attraverso una potentissima corresponsione di afflato emotivo ed emozionale, che denota e delinea una comunione di pensiero e una proiezione riflessiva di poderosa empatia intima e introspettiva.
Non è certamente mai semplice e semplicistico improntare un lavoro letterario congiunto, perché ogni scritto di qualsivoglia contenuto si rende sempre “creazione-creatura” elettiva ed eletta, richiede una cura e una premura amorevole e una forma di accudimento esclusivo in ogni sua fase “di gestazione” come se metaforicamente venisse “portata in grembo” per poi venire alla luce e prendere vita. Andy (alias
Andrea Fumagalli) e Lory Muratti, nella loro sintonia alchemica sinergica hanno trovato un perfetto e convincente compromesso ideale di intenti e di intenzioni e sono pertanto riusciti a fondere le proprie singole individualità artistiche e creative in un intreccio di commistione letteraria, sfociato in questo libro dal titolo quasi disarmante e sferzante al contempo “L’ora delle distanze” (Miraggi Edizioni), che pone l’accento in primis sulla componente concettuale e simbolica sottesa e insita nel messaggio sostanziale e in seconda battuta offre degli spunti di richiamo e di rimando trasversali dai molteplici sviluppi interpretativi, lasciando poi al lettore la libertà di una fruizione personale e soggettiva molto ampia e dilatata. La sospensione tra reale e irreale, tra realtà e invenzione, tra visione realistica e immaginaria, prospetta una lettura avvincente e intrigante, dinamica e vivace, prolificante di pulsioni e brulicante di vibrazioni, di quella good vibe energica ed energizzante che appartiene al DNA genetico di entrambi nella caleidoscopica esplosione del rispettivo talento innato, che possiedono assieme alle virtuosi doti e risorse di camaleontico trasformismo. È un libro che non cerca nessuna tipologia di accettazione e gradimento massificante e mercificante e tanto meno aderisce a degli stereotipi standardizzati banali e scontati, emulativi e statici e tanto meno ancora si piega passivamente a quelle cosiddette leggi di mercato editoriale condizionanti e limitative. È un libro altresì che si propone di andare oltre, di guardare oltre, di volare oltre e di viaggiare in una direzione preferenziale sui generis, affrancata da qualunque vincolo e filtro a monte, per accedere a una sfera comunicativa di cosiddetti liberi battitori, quali sono Andy e Lory da sempre, da ravveduti e consapevoli anticonformisti a 360°, da artisti indipendenti mai disposti ad essere inclusi e inseriti dentro schemi di cliché predefiniti e preconfigurati a priori. Andy e Lory confermano e riconfermano con questo libro la loro meritevole e qualificante posizione di scelte coerenti e responsabili nel portare avanti con la massima onestà intellettuale il progetto letterario e si rendono senza dubbio un esempio positivo a modello di orientamento artistico-professionale scevro da ogni volontà speculativa e da ogni ambiguità dialettica, uscendo allo scoperto e cercando un dialogo di incontro, di scambio e di confronto sempre su un piano interattivo paritetico e su un livello relazionale e interrelazionale autentico e spontaneo.
Quasi in diretta, appena finita la Seconda guerra mondiale, il giovane Josef Škvorecký, fra i maggiori scrittori cechi del secolo scorso (era nato nel 1924) mette nero su bianco un romanzo-fiume, Zbabělci (I vigliacchi) ora in libreria grazie a Miraggi Edizioni con una nuova traduzione a cura di Alessandro De Vito.
Il libro racconta le vicende di un gruppo di ragazzi sollevati finalmente dall’oppressione dell’occupazione nazista ma per nulla entusiasti del nuovo Leviatano, lo stalinismo, che si affaccia cupo alle porte della loro storia.
Siamo in Cecoslovacchia fra il 4 e l’11 maggio del ’45, il contesto è ovviamente imparagonabile, ma a prima vista le giornate della voce narrante, Danny Smiřický, e dei suoi amici, sembrano quelle di una qualunque banda di giovani europei, italiani anche, degli anni Settanta, che se la spassano suonando e rincorrendo ragazze. Ovviamente è un’altra storia, ma indiziaria del tono e del clima che di primo acchito si respira in queste pagine.
Il protagonista tornerà nei romanzi successivi dell’autore, una volta emigrato in Canada, per nulla intenzionato a farsi macerare dal controllo comunista, già immaginando da ragazzo un’alternativa occidentale com’è testimoniato dalla conoscenza dell’inglese e dai primi esercizi di traduzione.
I vigliacchi del titolo amano il jazz, perplessi rispetto agli avvenimenti della grande Storia che li aspetta fuori dalle stanze in cui fanno le prove, e si lasciano tormentare dalle fanciulle che gli ruotano intorno. Rispetto all’underground nostrano di mezzo secolo fa – freak destinati a soccombere sotto i colpi criminali della strategia della tensione e della cupezza delle Brigate Rosse – questi ragazzi tendono a fuggire da una morsa ancor più stretta e tragica: sono sopravvissuti agli eccidi nazisti, gli ultimi fuochi della guerra ancora esplodono, la liberazione dovrebbe renderli euforici ma temono che un nuovo mostro stia rubando le loro illusioni.
Non casualmente, al suo apparire in patria, il libro incontrò una dura ostilità: ma come, i russi comunisti ci hanno liberato dal nazismo e voi siete innamorati dell’America? Škvorecký lo fu così tanto da trasferirvisi, non negli USA ma in Canada, dove contribuì a far conoscere al mondo occidentale scrittori altrimenti destinati alla clandestinità. Com’è in un certo senso clandestina la vita di questi ragazzi, estranea ai drammi della storia o forse così segnati da volersene liberare per ripiegarsi sui fatti propri: più malinconici che gaudenti in verità, nonostante le velleità contrarie, ma riluttanti ad abbracciare i mitra per fare il loro dovere.
Il protagonista in particolare s’imparenta con la stravagante e numerosa famiglia degli spleenetici della letteratura novecentesca (anche quella del secolo prima) – qui illusioni e fantasticherie erotico-romantiche (l’ossessione per l’imprendibile Irena) si alternano a momenti di aspra cupezza, di quelli ben noti agli adolescenti (seppure qui al crocevia con l’età adulta).
Ha dei momenti di soprassalto, Danny, ascolta per radio le notizie di Praga messa a ferro e fuoco, e lì per lì crede di dover fare il suo, ma sono momenti brevissimi, ci crede poco. Tiene al jazz piuttosto, a una musica attraverso cui incarnare e sublimare insieme gioie e dolori. Il distacco, l’ironia è forte e il sax (un libro di Škvorecký tradotto da Adelphi è intitolato Il Sax basso) sembra fatto apposta per dissacrare gli improbabili entusiasmi comunisti (che a loro paiono tutto sommato non così diversi dai padri borghesi).
La settimana del maggio 1945 (a ogni giornata corrisponde un capitolo) avrebbe tutto per essere la più eccitante della sua giovane vita – lo è pure, da una parte, ma il nuovo che avanza in luogo del nazismo per Danny già puzza di vecchio, di ordinario.
La verve di un sax tuttavia può essere beffarda e malinconica insieme, ossia autoironica, autoriflessa, e irresponsabile, com’è della giovinezza, verso quanto accade intorno, fra soldati tedeschi che scappano e russi che occupano la piccola città, per cui Danny, fra un Diexieland e un “ronzio sincopato del sax”, sempre torna col pensiero a Irena, certo la sua ossessione, salvo che “poi mi dispiaceva un po’ per lei per il fatto che non l’amavo più”.
Come quello di un narratore inattendibile, anche l’io di questo romanzo deve poter disporre di una lingua adeguata, qui uno slang mutuato (e reinventato) da quello giovanile, che dell’irriverenza jazz prova a restituire anche l’umore.
Nella esauriente postfazione Alessandro Catalano ci avverte che non è facile renderne le peculiarità in italiano; Alessandro De Vito (che della casa editrice Miraggi è anche uno dei fondatori nonché curatore della collana NováVln dedicata alla letteratura ceca) vi si cimenta affidandosi a una recente edizione critica che riorganizza i materiali precedentemente soggetti a censure, elusioni e montaggi arbitrari responsabili di una ricezione distorta del romanzo. Che sa dell’America dei giovani salingeriani non meno che delle fumisterie praghesi dell’indimenticato Angelo Maria Ripellino.
Molto interessante e ben strutturato il saggio di Enrico Pastore, recentemente pubblicato da Miraggi Edizioni con la prefazione di Renzo Francabandera, è un viaggio affascinante e coinvolgente negli anni a cavallo fra Ottocento e Novecento – periodo storico significativo e importante che ha visto l’Occidente nel suo massimo splendore -, alla riscoperta della vita e delle opere di cinque artiste straordinarie, che non solo hanno rappresentato le tendenze e le caratteristiche di un’epoca, ma che hanno anche lasciato, attraverso la loro grande personalità, un segno profondo nel difficile percorso di emancipazione della donna.
Un’opera che si inserisce nel solco di quella produzione letteraria preziosa, volta al recupero e alla valorizzazione di una serie di figure femminili – del mondo dell’arte, della cultura e non solo – che, colpevolmente dimenticate, hanno invece determinato un passaggio fondamentale nello sviluppo della costruzione dell’identità femminile moderna, protagoniste accantonate da quella Storia che ci appartiene e soprattutto ci riguarda tutte e tutti da vicino. Grazie a una scrittura scorrevole, mai pesante, capace di incuriosire il lettore cogliendo dettagli essenziali senza mai perdere l’armonia del discorso complessivo, Enrico Pastore ci conduce così in quegli anni vivaci e accesi della Belle Èpoque, fra cafè chantant, numeri di cabaret, danze ammalianti e spettacoli innovativi, fra le pieghe più interessanti e anticonformiste di una società frizzante in cui il teatro era uno dei mezzi di comunicazione più influente. Ed è proprio in questo luogo magico e così importante da un punto di vista sia culturale che sociale, che le donne, le artiste protagoniste del volume, hanno potuto imporre una propria visione rivoluzionaria della figura femminile, che non è più mite e rassicurante angelo del focolare, ma che diventa anima libera, emancipata, indipendente, intraprendente, lasciando che il corpo diventi campo di battaglia, fulcro significativo di una lotta che intreccia vita privata e pubblica, politica e svolte sociali, nella definizione di un nuovo approccio femminile all’arte scenica che spazia dalla danza all’espressione, dalla scrittura alla regia. Sada Yacco, Clèo de Mèrode, Edith Craig, Valentine de Saint-Point, Emmy Hennings. Cinque donne meravigliose, cinque modelli d’ispirazione, cinque dive purtroppo dimenticate, che grazie al saggio di Enrico Pastore ci vengono restituite in tutta la loro eccezionalità, capaci di lasciare un’impronta decisiva, concreta e duratura, in un mondo culturale, dove purtroppo l’opera delle donne, non solo teatrale, viene ancora vista come un’eccezione, o come direbbe Josephine Baker – e da qui il titolo del volume – “una curiosità”.
Un ultimo accenno merita in conclusione la copertina del romanzo, che grazie all’immagine della bellissima Cléo de Mérode riesce a evocare alla perfezione le atmosfere della tematica trattata incuriosendo il lettore.
“Sul filo della lama”: un memoir di David Wojnarowicz sulla diffusione dell’Hiv in America
Il libro di David Wojnarowicz, “Sul filo della lana” (Miraggi Edizioni, 336 pagine, 24 Euro, traduzione di Chiara Correndo, postfazione di Jonathan Bazzi), raccoglie – come recita il sottotitolo – “Memorie della disintegrazione”. In questo memoir urgente e denso, David Wojnarowicz offre uno spaccato violento e caleidoscopico sulla diffusione dell’Hiv in America e su cosa significhi essere omosessuale in una società, quella bigotta reaganiana degli anni Ottanta, dove domina il modello eteronormato della “famigliola felice ” e in cui si reprime a colpi di leggi, sentenze, arresti e pestaggi la voce di chi vive ai margini. Sul filo della lama è un trip acido nel dolore, una sbronza in un dive bar sull’Hudson, un roadtrip furioso nella polvere dell’American Dream, raccontato attraverso una costellazione di capitoli dal taglio ora onirico ora fortemente politico, frutto di una vita dedicata a lottare per il diritto alla salute e alla corretta informazione e per il diritto di amare oltre ogni laccio sociale. Un’opera di un’intensità che scorre a fior di pelle. Ha scritto tra l’altro
Jonathan Bazzi: «David fu una vittima – del padre, dell’omofobia, del capitalismo, della sierofobia –, ma decise molto presto di rispondere alle ferite. E non esclusivamente per sé, in forma privata: tutta la sua produzione è una risposta pubblica, e per certi versi corale, alle molte forme dell’abuso di potere, all’ingiustizia quotidiana, ordinaria, affinché nessun altro debba più espiare colpe inesistenti. Leggere Wojnarowicz oggi significa rendersi conto che il dolore personale può trovare nell’azione estetica condivisa un canale per rendere deflagrante e memorabile il proprio messaggio. Molti di noi credo se ne siano dimenticati, travolti come siamo dalla bidimensionalità propagandistica del dibattito mediatico, ma giustizia e bellezza sono sorelle. Dare al dissenso un sigillo formale potente cambia tutto».
Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione non è un libro da leggere con distacco. È un urlo, un pugno allo stomaco, un diario febbrile scritto ai margini di tutto – della società, del corpo, della vita.
Il memoir postumo di David Wojnarowicz, pubblicato da Miraggi e tradotto per la prima volta in italiano da Chiara Correndo, riporta al centro del dibattito culturale una figura chiave dell’underground newyorkese degli anni ’80. Artista visivo, performer, scrittore e attivista, Wojnarowicz è stato tra i primi a raccontare, con una sincerità disarmante, cosa significava essere gay e sieropositivo nell’America reaganiana, dove la comunità LGBTQ+ veniva ignorata, criminalizzata e lasciata morire in silenzio. Sul filo della lama è il racconto frammentario, lirico e rabbioso di una vita vissuta tra la strada e l’arte, tra la marginalità e la bellezza. Wojnarowicz scrive di amori consumati nei porti abbandonati, di amicizie spezzate dalla droga o dall’Aids, di corpi desideranti e vulnerabili, di un’America che promette sogni e restituisce solitudine. La scrittura è ibrida, tra visione poetica e attacco frontale, tra meditazione esistenziale e denuncia politica. È un testo che fonde il personale con il collettivo, la carne con la storia. La struttura è libera, spezzata, a tratti allucinata: non segue una cronologia, ma un flusso emotivo. È un viaggio nella psiche e nella memoria di un uomo che ha trasformato la propria disintegrazione in linguaggio. L’opera è anche un potente atto d’accusa contro l’inerzia istituzionale, un documento politico sull’indifferenza e sull’urgenza della rappresentazione.
La parola “confine” non indica soltanto una linea immaginaria che divide gli stati fra loro delimitandone le loro aree territoriali, ma contiene in sé anche un concetto psichico. Il confine, o meglio il bordo, è ciò che separa l’interno dall’esterno e che determina l’identità di una persona. Il bordo separa il nostro io da ciò che potrebbe destabilizzarlo. Tuttavia, l’io anela sempre ad andare oltre il bordo, ovvero da finito a diventare in-finito, e così facendo vuole correre il rischio di finire in un abisso da cui molto probabilmente non c’è via d’uscita.
È come se l’io fosse disposto a fare come Giona, a entrare dentro la balena perché non vuole essere relegato al mero ruolo affidatogli da Dio, ma a differenza di Giona l’io, però, è destinato a restare nel ventre del cetaceo. Cercare l’infinito per molti non è altro che un cadere in maniera sempre più precipitosa verso la propria fine. Di questa lotta contro il bordo ne parla lo scrittore e psicologo milanese Nicola Neri nel suo terzo romanzo Non commettere infinito (Miraggi Edizioni, 2025).
La trama di «Non commettere infinito»
Il protagonista di Non commettere infinito si chiama Morelli. È un uomo sulla trentina d’anni e lavora per una ditta. Troviamo il protagonista in macchina alle prese con una chiamata telefonica d’emergenza. Alle domande degli operatori risponde che ha fatto «indigestione di infinito» e che sta scappando dalla realtà in preda a «una dannazione speranzosa, in questo partire, in me/È ormai fatto solo di avanti, non di domani».
Ma dove è diretto esattamente Morelli? Da chi sta fuggendo di preciso? Nel corso di questo viaggio on the road – presunto o meno, ma ci arriveremo per gradi – l’uomo parla con i personaggi più disparati, fra cui operatori di call center, colleghi e vecchi amori. Passa in rassegna alla sua vita – l’abbandono della madre, l’essere cresciuto con un patrigno, problemi legali sorti a lavoro –, ma in questo viaggio sembra voler andare incontro alla morte, oppure sfiorarne il bordo per capire cosa vuole veramente da una vita che pare essere sull’orlo del fallimento.
Le possibili influenze di «Non commettere infinito»
Sono tanti i riferimenti letterari e non che Nicola Neri inserisce all’interno di Non commettere infinito. Il primo l’abbiamo citato a inizio articolo ed è la figura biblica di Giona, colui che, inghiottito dalla balena, ne uscirà esprimendo il desiderio di Dio di diffondere la sua parola nella città di Ninive. Nicola Neri cita esplicitamente il Giona di Moby Dick nei seguenti termini:
È colpa mia: mi sono inventato una storia, ma tutti hanno sbagliato a capire chi ero. Pensavate a Giona. Perché ero io a crederlo. Che io fossi Giona che entra nella balena, viene inghiottito e trova rifugio, calore, esce più ricco, nuovo. E invece sono sempre stato Achab. Colui che cerca di avvinghiarsi a chi lo porterà a fondo. Il suo tesoro è questo: una fine.
A differenza del racconto biblico, Morelli è un Giona che, invece di rispondere al desiderio di vita, cerca di andare incontro al desiderio di morte, una morte che dovrebbe proiettarlo al di fuori dei suoi confini, che dovrebbe portarlo verso una dimensione infinita dove poter essere tutto ciò che vuole e non un’etichetta delimitata dalla propria esperienza terrena.
Un altro richiamo è al film Locke di Steven Knight (2013) con protagonista Tom Hardy. Come Ivan Locke, anche Morelli lavora per una ditta e intraprende un viaggio in macchina dove compie diverse telefonate, ma a differenza di Knight Neri ci consegna, invece, un viaggio on the road più tetro, più cerebrale, e soprattutto più desolato, in quanto le chiamate che fa Morelli sono perlopiù a persone che non conosce e che viceversa non lo conoscono e non riescono a dare una soluzione al suo disagio.
Altro richiamo importante è anche a personaggi letterari come il dottor Moreau e Morel, che danno presumibilmente ispirazione al nome del protagonista. Questo collegamento ci viene immediato per la dedica che Neri scrive in esergo: «alla nostra invenzione». Come i personaggi di Wells e Bioy Casares, anche Morelli è una persona che a poco a poco impazzisce per le illusioni che si è creato, illusioni che vuole vivano con lui per sempre, e pertanto pensa che la morte sia l’unico modo per diventare infinito.
Distinzione fra bordo e bardo
Per comprendere ancora di più questo romanzo, è da tenere a mente come Nicola Neri nutra letterariamente parlando un certo debito verso suo padre Michele Neri, che cita nei ringraziamenti e fra le cui ultime pubblicazioni figura Come un mattino texano. Di solito le relazioni padre e figlio in letteratura sembrano essere abbastanza ingombranti – vedasi Alexandre Dumas padre e figlio, oppure Stephen King con i figli Joe Hill e Owen King –, ma in questo caso fra Michele e Nicola Neri c’è un rapporto molto forte di complicità che, oltre a essersi espresso esplicitamente nel memoir Scazzi, si ritrova anche in Non commettere infinito.
Il legame è da riscontrarsi in quest’ultimo e in Come un mattino texano e in due concetti che sono abbastanza simili: il bardo e il bordo. Nel primo caso, si tratta della situazione che vive Traven, il protagonista del romanzo di Michele Neri, in procinto di lasciare il mondo dei vivi per abbracciare quello dei morti, ma ancora brancolante come fantasma in un mondo che oscilla fra realtà e sogno. Nel secondo caso, invece, abbiamo Morelli, che invece dubita di vivere nella propria realtà e che cerca un modo per delimitarla andando incontro alla morte per fissarne in qualche modo i confini.
In ogni caso, sia Traven che Morelli sono fantasmi o presunti tali che si ritrovano a confrontarsi con la propria soglia, che vogliono passare allo stadio successivo per porsi come padroni della propria vita. Entrambi, infatti, vogliono delimitare la fine della propria vita, perché la fine è la casa che gli permette di stabilire una certezza per ciò che è ignoto, che sia la morte per Traven o l’infinito per Morelli.
Un disperato invito all’ascolto
Non commetere infinito gioca molto con questo confine fra reale e immaginazione, soprattutto a livello grafico. Allo stampatello delle conversazioni telefoniche, di fatti, si alternano parti in corsivo dove Morelli fa delle riflessioni su se stesso e quello che osserva. Il più delle volte queste parti si sovrappongono fra loro a rendere il confine fra la mente di Morelli e la sua realtà sempre più labile.
Sempre più labile è anche il confine fra vero e falso. Più volte, infatti, Morelli dice che quanto racconta potrebbe non corrispondere al vero, ma chiede allo stesso tempo alle persone che lo ascoltano di dargli retta:
Dev’essere imparziale e seguirmi. Perché io devo tornare indietro e farti vedere che cosa mi ha portato fino a quest’ora e a te. Così ti dirò quello che nessuno può sapere. Perché lo fanno, perché non ti hanno chiamata prima. Sono in quel breve tratto tra gli occhi ancora aperti e che si rivolgono ovunque e poi si chiudono.
Quello di Morelli diventa un soliloquio dal ritmo sempre più serrato, scandito da capitoli che si susseguono come fosse un conto alla rovescia verso la morte, dove il protagonista chiede a qualcuno che gli stia al suo fianco per far sì che lo possa scuotere e gli possa confermare che quanto sta vivendo sia la realtà, e che questa realtà la stia controllando lui e nessun altro.
Il protagonista ha bisogno che qualcuno gli creda, in quanto ha bisogno di dimostrare al mondo quanto possa essere in grado di andare oltre i limiti che la sua vita gli ha imposto, quanto sia possibile raggiungere l’infinito con le proprie mani. Chiede sempre ai suoi interlocutori se lui è reale, se è reale quanto sta provando, in quanto stabilire l’autenticità di quanto sta vivendo significa confermare le sue possibilità come padrone del proprio destino.
Una missione suicida per conto della vita
Per dimostrare quanto racconta, Morelli giustifica i suoi fallimenti, le sue esperienze con la droga come momenti che gli servivano per dimostrare come potesse essere in grado di controllare il confine fra la vita e la morte, come fosse possibile toccare l’abisso e poi riemergere e vedere la luce:
Sono in missione per conto della mia vita. Pit, vado a vedere. Scuola empirica. Che cosa c’è in fondo, al centro della corrente che sembra sul punto di esplodere? L’abisso? Una luce migliore e che aspettava di essere scoperta, sì, a caro prezzo, ma comunque una luce?
Morelli, quindi, si mette volontariamente all’interno di una corrente che è «l’unica cosa comprensibile di una vita incomprensibile», che lo porta a morire «per continuare a credere di avere vissuto». Un passaggio interessante, però, è quando il protagonista si chiede se «non ci siamo mai sentiti un po’ bovaristi». Morelli sceglie forse uno fra i personaggi più nichilisti della letteratura, Emma Bovary, una donna che insegue passioni autodistruttive per sentirsi viva, perché solo autodistruggendosi può prendere in mano la propria vita dalla monotonia coniugale a cui l’ha condannata il marito Charles.
Qual è, dunque, lo scopo di questo viaggio? Per Morelli è quello di provare a raggiungere il confine con la morte, provare forse a porre una volta per tutte fine alla propria vita per delimitarla, per dire al mondo intero che è stato lui a scrivere il suo finale, e nessun altro. Solo così, dunque, prova a non commettere infinito: cercando di annullare il flusso della vita, delle visioni e dei ricordi che gli fanno male e che sembrano decidere il finale per lui.
«Non commettere infinito»: un viaggio borderline
Se dobbiamo trovare una definizione al viaggio on the road che compie Morelli in Non commettere infinito(acquista), è quella di «viaggio borderline», un viaggio compiuto nel bordo fra finito e infinito, fra stabilità e instabilità. Il viaggio di Morelli è il viaggio disperato di un uomo che pensa che le cose gli succedano quando, invece, delle cose vorrebbe esserne il padrone, e l’unico modo che trova per appropriarsi definitivamente della propria vita è accarezzare il confine con la morte.
Allora chi sono? Sono una storia. Una storia che non esisterebbe senza di me come io senza di lei. E chi può crederci? Eppure per chi è una storia la vita comincia solo quando c’è uno che ci crede, che la rende, si può dire, vera? Amabile? Se no resta una fantasmagoria raccontata al buio, quando nemmeno gli uccelli ti danno retta. E invece ci vuole fede. E io non ho ancora trovato nessuno, che creda che questi mostri opachi che si agitano nella mia testa… Ma come credermi?
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