“Mazzarrona” pubblicato dalla torinese Miraggi edizioni, segna il ritorno alla narrativa di Veronica Tomassini.
La scrittrice e giornalista racconta una storia marginale tra periferia, giovinezza ed eroina, annunciando così un successo, a nostro dire, annunciato.
Ed è subito candidatura allo Strega 2019!
Domenica 24/02 dalle ore 19:00, in anteprima nazionale, con l’introduzione e moderazione di Antonio Di Grado, si potrà assistere alla presentazione del libro presso la Libreria Vicolo Stretto di Catania.
L’intervista
A distanza di due anni da “L’altro addio” torni negli scaffali con un libro che già si candida a importanti riconoscimenti, come l’annunciata candidatura al Premio Strega 2019: emozioni, aspettative?
«Sì, molte più di quelle che hanno accompagnato gli altri romanzi.
Sono – come dire – un po’ arrabbiata, voglio esserci, ho talento a occhio e croce, posso
farcela, posso persino pretendere di raggiungere qualche traguardo. Riguardo lo Strega, moltissima emozione!»
Qual è la tematica di “Mazzarrona”?
«La periferia, l’eroina».
Cosa ti ha ispirato la storia narrata?
«La mia adolescenza. la mia giovinezza. Deserti.
La cosa peggiore che mi potesse accadere: i sette anni di Mazzarrona.
Mazzarrona è la metafora di un fallimento civile non solo personale,
di un lungo sonno, del mondo che arretra proprio lì, in quella riserva
indiana di disadattati, dove frana una morale collettiva o un senso di
giustizia. Oggi come allora».
Può considerarsi consecutio del precedente “L’altro addio” o dello strepitoso quanto crudo e diretto “Sangue di cane”?
«No. O forse solo retrocedendo, lungo la mia assurda vita, ecco così possiamo dire che
Mazzarrona fu un preludio, ma quel che accadde dopo non ha niente a che vedere. Mazzarrona è molto siciliano, per quanto io lo sia pochissimo».
Antonio Di Grado: un anarchico puro a moderarti per la prima di questo libro. Una scelta non casuale…
«…Antonio Di Grado, che è il massimo studioso di Sciascia, è uno scrittore e saggista che amo moltissimo (siamo in tanti ad amarlo), e mi commuove sempre. Un onore infinito poter essere introdotta da lui, per questa prima di Mazzarrona».
“L’arte è fondamentale per uscire da alcune visioni, per riprendersi la sacralità della vita”. Valerio Di Benedetto racconta su Artwave la sua esperienza poetica e artistica.
Quando la scrittura poetica incontra il talento artistico possono succedere grandi cose. Ce lo dimostra ValeriodiBenedetto, in arte Umanamenteinbilico: attore teatrale e cinematografico, Valerio ha saputo trasformare le sue poesie in vere e proprie opere d’arte urbana, decorando le serrande di più di una città con la vivacità dei colori e la bellezza dei versi.
“Amore a tiratura limitata” è la tua raccolta di versi edita da Miraggi Edizioni. Come è nata questa esperienza poetica?
Non pensavo assolutamente di iniziare a scrivere delle poesie, le circostanze della vita mi ci hanno portato: mi sono ritrovato a scrivere per canalizzare delle sensazioni che avevo dentro. Recitativamente parlando, non avevo la possibilità tutti i giorni o tutti i minuti di poter sfruttare quella sofferenza buttandola in un personaggio, quindi la cosa più rapida è stata scrivere. Ho iniziato a comporre poesie in maniera totalmente disinteressata rispetto alla pubblicazione di un libro, ma a un certo punto mi sono reso conto che scrivere era diventata una catarsi: ero riuscito a trasformare quella sofferenza in qualcosa di artistico, in questo caso di poetico. Ho pensato che sarebbe stato uno spunto di incoraggiamento per quelli come me, avrei potuto incoraggiarli: le poesie sono state come una corda grazie alla quale risalire per poter raggiungere la luce. Ho trovato così una casa editrice, Miraggi, alla quale mandare i miei scritti: la risposta mi è arrivata dopo quasi un anno. Mentre aspettavo ho sentito l’esigenza di pubblicare e di condividere le mie poesie in qualche modo, e ho trovato un’alternativa nelle serrande, che sono state per me pagine bianche: le città nelle quali poi ho portato le mie poesie (oltre a Roma anche Milano e Parigi, dove ho scritto una poesia in francese) hanno rappresentato per me dei veri e propri libri a cielo aperto.
Raccontaci della tua idea di scrivere poesie sulle serrande.
Nell’attesa della pubblicazione ho pensato che avrei scritto su pagine diverse da quelle consuete, pagine di metallo: trovo che sia molto poetico anche questo. Nel momento in cui “muore” un’attività perché è sera, la serranda viene abbassata e continua a vivere con una mia poesia scritta lì sopra. La leggono, la fotografano, la postano. Qualche volta mi diverto, su Instagram, a cercare l’hashtag #umanamenteinbilico, la mia firma, per vedere cosa esce fuori: all’inizio vedevo che molte persone postavano le fotografie delle mie serrande, magari senza il mio tag, e leggevo descrizioni sotto alle loro foto che mi gratificavano molto, del tipo: “dopo una giornata pesante parcheggio la macchina e mi trovo davanti questa cosa, che presa a bene”. In questo mondo social estremamente egoriferito, fatto di selfies e stories, si dimentica spesso cosa significhi empatizzare con l’altro, con la sua sofferenza, con il suo bisogno. In qualche modo anche la politica ce lo sta dicendo, stiamo vivendo una chiusura, non un’apertura.
In che modo credi di aver contribuito al cambiamento della fruizione della poesia, rendendo le tue parole leggibili sulle serrande di negozi o sui tuoi “quadri” così particolari?
Non so bene in che modo ho contribuito al cambiamento della fruizione della poesia. So soltanto che mi hanno chiesto se non sia un po’ anacronistico pubblicare poesie, in un libro o su una serranda, ai nostri giorni. Secondo me questa è una cosa fondamentale. Viviamo di poesia e non ce ne accorgiamo. La poesia è ovunque. Bisognerebbe solo avere più sensibilità nel riconoscerla. Effettivamente quella delle serrande (e, in generale, la poesia di strada in sé) rende l’esperienzapoeticapiùaccessibile: non perché la poesia sia qualcosa di elitario, ma perché tra le pagine dei libri riposti negli scaffali viene più facilmente dimenticata. Il concetto di arte di strada nasce con l’idea di essere davanti agli occhi di tutti, ogni giorno. Ho scritto una poesia su Spiderman su una serranda del negozio di un mio amico, che ha una fumetteria a San Paolo, in Via Gaspare Gozzi. La cosa interessante e divertente che mi racconta una mia carissima amica è che, quando va a lavorare presto la mattina, nella metro da San Paolo verso l’Eur riesce a vedere questa mia poesia. Io immagino che dalle sei alle dieci tutte le persone che passano di lì possano vederla. Magari la prima volta buttano l’occhio, vedono i colori. Il secondo giorno fanno più attenzione, la leggono, la vanno a vedere. Questa cosa in qualche modo ti fa arrivare a più persone, ed è bello saperlo.
Ho desiderato poi fare anche qualcosa che fosse accessibile a tutti: invece dei classici quadri, pannelli di legno o tela, per essere coerente con il mio progetto artistico ho preso dei pezzi di serranda della misura dei quadri e poi ho riproposto lo stesso layout. Mi sono basato sin da subito sulla palette della pop-art, ispirandomi agli accostamenti di Warhol, Keith Haring, Basquiat. Sono nate così queste serrande dalle diverse misure che ho esposto recentemente in una mostra a Via Margutta, e devo dire che mi piacciono tantissimo.
Autostop per la notte, libro d’esordio di Massimo Anania recentemente pubblicato da Miraggi Edizioni, si legge tutto d’un fiato: il ritmo della scrittura rispecchia le vicissitudini raccontate, è sostenuto, incalzante fino a giungere a quell’estremo che vede come unica soluzione la necessità di un tuffo in un’altra dimensione. Questo stacco prende la forma del flusso di coscienza che interrompe il vorticoso incedere della narrazione con pause di disorganizzata riflessione, momenti di sospensione utili nella musicalità di questo immaginario pentagramma.
L’alternanza tra i fatti reali che accadono a Maurizio, il protagonista, e le sue incontrollate riflessioni mantengono la cadenza sincopata per l’intero romanzo, un continuo movimento tra mondo reale e un mondo che si fa onirico per l’intero romanzo.
Autostop per la notte è ambientato a Torino, scelta che evidenzia maggiormente il contrasto tra possibile e impossibile, tra chiaro e scuro; il capoluogo noto per essere catalizzatore di magia bianca e magia nera, si mostra come una Torino signorile e aristocratica e al contempo segreta, chiusa in palazzi inaccessibili e governata da personaggi potenti, perché ricchi e privi di scrupoli.
In questo sfondo notturno e labirintico, un gesto abituale per Maurizio, quello di fare autostop, lo proietta in un susseguirsi di accadimenti che sfuggono al suo controllo e a qualsiasi sensata previsione, che si intrecciano anche quando sembra si siano finalmente districati.
L’apparente casualità, che innesta un’avventura durata tre giorni, assume diverse sembianze, inizia con quella del gentile automobilista che gli concede un passaggio, poi prende forma di donna e infine quella di un professore; il fluire degli eventi trasportano protagonista e lettori in una breve quanto incessante discesa agli inferi urbani.
Intervista
Come definisci Autostop per la notte: romanzo breve o racconto lungo?
Il confine tra romanzo breve e racconto lungo è difficile da stabilire, personalmente lo vedo come un romanzo breve ma non credo sia errato definirlo racconto lungo.
La seconda persona singolare per la narrazione è una scelta audace: perché la usi?
Mi trovo a mio agio in fase di prima stesura, anche se non è semplice da utilizzare mi permette di tenere il ritmo della narrazione elevato. E ho scoperto che mi piace parecchio.
Perché hai scelto Torino per ambientare la tua storia?
È una scelta d’istinto, ho vissuto a Torino per 26 anni e adesso che vivo lontano l’apprezzo di più e ne sento la mancanza. Tutto quello che scrivo è ambientato a Torino, non potrei scegliere un’altra città. L’unica eccezione potrebbe essere inventarsi un mondo nuovo, ma credo che in un modo o nell’altro somiglierebbe al capoluogo piemontese.
L’autostop è una pratica in disuso ma è il fatto che mette in moto tutte le altre connessioni del racconto: come ti è venuto in mente?
Per me l’autostop è stato il mezzo più usato per gli spostamenti dai sedici ai diciannove anni. A Torino non era difficile trovare qualcuno che si fermasse e questo mi permetteva di risparmiare i soldi dell’autobus e soprattutto di sottostare agli orari imposti dal servizio pubblico. All’occorrenza mi fermo a bordo strada con il pollice rivolto all’insù anche adesso.
La tua passione per l’arte si unisce in questa “avventura” in diverse forme. Partiamo dalla prima: chi sono gli illustratori delle immagini che compaiono nel libro?
Gli scorsi anni ho organizzato diverse mostre di pittura alle quali hanno partecipato numerosi artisti. Mi piaceva l’idea di aggiungere qualche illustrazione nel romanzo e ho chiesto a qualcuno di loro di realizzare un disegno. Tra gli illustratori ho selezionato artisti che per tecnica potessero darmi un qualcosa in più. Farbod Ahmadwand dipinge fondendo gli insegnamenti della scuola europea con quella persiana. Luca Ferrari è il batterista dei Verdena che tra un tour e l’altro si diletta con la pittura e i collage. Sharon colli ha un modo unico di interpretare il disegno attraverso il quale riesce ad esprimere in modo deciso concetti anche semplici. Fabrizio Berti, Michela Roffarè e Sonia Luzzatto sono artisti che hanno esposto in diverse gallerie sul territorio nazionale e in diverse manifestazioni culturali non solo in Italia ma anche all’estero. Poi c’è un disegno di mio figlio di otto anni: un giorno gli ho chiesto di disegnarmi una macchinina e ha fatto un lavoro così bello che non potevo fare altro che includere.
C’è anche un video che promuove il libro: da dove nasce questa idea?
L’idea è del regista Eric Lot che ha anche realizzato le foto di copertina. Riprese, montaggio e musica sono opera sua, e credo che riesca a guardare il mondo da un punto di vista inusuale e in futuro potrà togliersi grandi soddisfazioni.
Spesso accompagni le tue presentazioni con la musica: perché questa scelta?
Perché mi piace mettere insieme arti diverse e per dare libertà di espressione al maggior numero di artisti possibile. L’interazione tra musica, colori e parole è in grado di elevare il livello dei singoli artisti, pur esprimendo sentimenti e idee diverse.Consiglio: se sei un lettore interessato ai romanzi brevi, consigliamo Il blues delle zucche.
Quelle prime settimane mi permisero di mettere via un certo gruzzoletto. Con Satchmo c’era talmente da fare che avevo a malapena il tempo di dormire, figuriamoci per spendere dei soldi. I viaggi di andata e ritorno dal Pigneto, anche se non esageratamente lunghi, erano spossanti, e qualche notte finii per addormentarmi all’aria aperta dalle parti del Pincio o vicino alle Terme di Caracalla o sotto i ponti del Tevere, dove non potevo essere visto, come un vero vagabondo, uno di quei pitocchi che si facevano la strada a piedi e vivevano di espedienti. A volte, se avevo tempo sufficiente, prendevo il collegamento e raggiungevo la spiaggia di Ostia, dove mi addormentavo sotto le stelle. Com’erano belle le stelle romane. Veniva da pensare che fosse su quella spiaggia che agli uomini fosse venuta in mente l’idea delle costellazioni, che fosse stato lì che avessero pensato di unire tutti i puntini e pensarli sotto forma di oggetti o animali, e immaginare per ognuno di loro una storia. Ecco, le storie erano persino nel cielo. Fandonie nel cielo. Mi stendevo sulla sabbia ancora calda per il giorno e assaporavo la brezza, e tendevo le braccia verso l’alto come se potessi afferrare quei puntini lumino- si e spostarli, creare un disegno tutto mio. Avrei voluto disegnare una costellazione con la forma del mio cuore, per vedere cosa ci fosse davvero dentro. Ero convinto che finché avrei continuato a guardare il cielo, e a meravigliarmene, sarei stato per sempre giovane.
Nicola Manuppelli
brano tratto da Roma, Miraggi Edizioni, 2018, pp. 162-163.
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Nicola Manuppelli è nato a Vizzolo Predabissi nel 1977. Scrive, traduce, scopre autori americani e irlandesi (tra cui Andre Dubus, Charles Baxter, Jane Urquhart, Roger Rosenblatt, A.B. Guthrie, Sara Taylor, Gina Berriault, Don Robertson). Collabora, fra gli altri, con Mattioli, Minimum Fax, Nutrimenti, Aliberti. Suoi articoli sono apparsi su Chicago Quarterly, Numéro, D di Repubblica, Satisfiction, Il Primo Amore, IBS Café. Ha pubblicato i romanzi Bowling (Barney Edizioni, 2014) e Merenda da Hadelman (Aliberti, 2016), la biografia della scrittrice Alice Munro, La fessura (Barbera, 2014) e la raccolta di poesie Quello che dice una cameriera (Miraggi Edizioni, 2017). È biografo ufficiale dello scrittore americano Chuck Kinder.
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Roma (Miraggi Edizioni, 2018, pp. 320, euro 18) è un libro sul cinema, un mix di realtà e finzione, ambientato nel secolo scorso. È un concatenarsi di storie sulla città eterna, dove tutte le strade portano. Quanto tempo ha impiegato per scriverlo?
Se parliamo di stesura, di scrittura del libro, ho impiegato tra i 4 e i 5 mesi. Per quanto riguarda il materiale, i riferimenti che ci sono nel libro, si tratta di cose accumulate negli anni, sia a livello di sentito dire, sia di viaggi fatti a Roma, che poi sono tutti confluiti nella trama. Quello che mi piace dire è che rispetto ai due romanzi precedenti che ho scritto, questo è per me il primo romanzo in cui davvero mi riconosco, dove il modo di lavorare l’ho sentito molto mio: ho lavorato alla storia come fossi un regista, facendo domande, sopralluoghi, chiacchierando con le persone. Si è trattato di un lavoro di collaborazione, insomma. È stato proprio come fare un film, pur non avendo a disposizione i mezzi del regista.
Leggendo il romanzo mi è parso di trovarmi ora nel cottage dello scrittore protagonista del Grande Gatsby (Tommaso, il protagonista, è giornalista e scrittore), ora sul set di un film di Fellini. La sua scrittura è cinematografica, si è trattato di una scelta o di una combinazione?
Ho tre grandi passioni artistiche: la musica, la letteratura e il cinema. Per quanto riguarda la musica, diciamo che non posso sfogarmi nella stessa, come autore intendo, così la posso recepire soltanto in maniera passiva. Ho sempre sognato invece di lavorare per il cinema. Come passione direi che il cinema è forse addirittura superiore alla letteratura: quando guardo un film, infatti, riesco ad isolarmi e mi passa tutto. Il cinema, soprattutto quello di cui parlo nel libro, quello della prima Cinecittà, degli anni Cinquanta e Sessanta, ha una grandissima influenza. Per anni ho provato a scrivere un romanzo partendo dal mio background letterario, che è molto americano perché lavoro su autori americani, e mi venivano delle cose americane, così succedeva che le sentivo meno mie, mentre il mio background di spettatore cinematografico è molto italiano; amo Monicelli, Scola, Fellini e ho capito che con il romanzo dovevo andare lì. Per quanto riguarda la scrittura in scene è anche molto voluta, perché quando penso e leggo un libro, la prima cosa che cerco è di vedere. Fellini domandava: Come si fa un film? E rispondeva: Trova sette scene buone, mettile insieme e avrai il film. E questo modo di scrivere i romanzi è antico, sono un affastellarsi di episodi… Volevo la libertà di raccontare delle cose che vedevo e mi immaginavo di volta in volta, aspettando che il libro terminasse da solo. Io ero dentro Roma e, a mano a mano, vedevo le cose e le raccontavo. Per me scrivere è inventare, utilizzare la scrittura per creare. Non volevo un senso generale del libro, a un certo punto erano i personaggi stessi a reclamare il loro proprio spazio. Un personaggio diceva: ma come, l’altro personaggio ha avuto una storia, quell’altro pure e la mia non la racconti? Bè, è interessante, pensavo, e mi dicevo: in effetti si potrebbe raccontare anche… e a un certo punto mi sono dovuto strappare il libro dalle mani, perché avrei potuto continuare all’infinito, avevo in mente anche altre storie di altri personaggi.
Lei è mai stato a Cinecittà e se sì, cosa l’ha più colpita?
Sono stato a Cinecittà dopo averla sfiorata per tantissimo tempo, perché tante volte sono andato lì e non c’è stata occasione di entrarvi, perché era chiusa. Era un desiderio forte quello di poterla vedere, poi è accaduto che una volta mi trovavo lì vicino a pranzo con Pasquale Panella, che è il paroliere di Lucio Battisti, e lui che ha sempre abitato nei pressi di Cinecittà mi raccontava di quando da ragazzino scavalcava i muretti di Cinecittà e vi entrava per vedere cosa succedeva e questo racconto-ricordo è stato anche uno dei punti di partenza del libro. Poco dopo hanno aperto Cinecittà per vedere alcuni set e sono andato a vederla per la prima volta. Era il 2017. E’ stata per me una fascinazione totale, lì ho deciso che volevo ambientare il romanzo, oltre che a Roma, anche a Cinecittà. Ho trovato con entrambi un set naturale e molto materiale è rimasto fuori, quindi è nato il progetto di scrivere una biografia raccontata di Fellini per il 2020. Non sarà il mio prossimo libro, ma quello dopo.
C’è una bella metafora a un certo punto del libro che parla di spiagge, barche e navi dirette verso la “gioia di vivere”. Qual è oggi una gioia del suo vivere?
Io sono felice. Una cosa che non sopporto nella letteratura è il cinismo. Nel libro esalto gli epicurei, scelgo appositamente dei personaggi epicurei. A me piace tutto, mi piace proprio il vivere. Vede, ho sempre inseguito quello, ho sempre cercato di fare quello che mi rende felice, perché credo che è ciò che a una persona riesce meglio. Oggi faccio un lavoro che mi piace, leggo e scrivo, e in futuro mi piacerebbe anche lavorare per il cinema… e sto insieme a persone che mi rendono felice e ho degli amici che mi rendono felice e dove non trovo questo sentimento mi allontano. Per me essere felice è esattamente quello che sto facendo oggi, che ho fatto ieri e spero farò domani.
A pag. 110 si parla degli odori che scandiscono le ore della giornata ed evocano storie, momenti che solo grazie agli stessi odori possono ricordarsi. Quale odore è legato alla sua infanzia e quale ricordo, se vuole ripercorrerlo con noi di Satisfiction, le evoca?
Mi ricordo mia mamma profumata, mia mamma che quando entravo in casa aveva sempre un buon profumo, fresco e accogliente. Questo è il profumo che mi ricordo dell’infanzia, poi c’è un profumo ch
e appartiene agli anni dell’adolescenza: i primi anni di liceo, quando arrivava il mese di gennaio e finiva il primo quadrimestre e ogni tanto c’era qualche giornata che annunciava la primavera e c’era un profumo particolare nell’aria che sento anche adesso e tutte le volte che sento quel profumo lì, rivivo i miei 14 anni. Mi piace ragionare per profumi e attraverso i sensi. La letteratura western include i personaggi spesso in questi grossi paesaggi naturali, mi piace che ogni tanto i personaggi alzino la testa e vedano il cielo e si ritrovino dentro il paesaggio con tutti i sensi e le percezioni attivati, in modo che non siano solo loro i protagonisti, non siano solo le parole, ma ci sia anche questa parte qua.
Prendendo a pretesto un personaggio marginale del libro, che fa i Tarocchi, le chiedo se lei crede alla fortuna.
Credo alla buona stella. O me la do come scusante. Come dicevo prima rispetto all’approccio alla vita felice, la vedo come una cosa bellissima, la vita, e siccome ho questa predisposizione buona, spero possa essere ricambiata. Non sono una persona coraggiosa, però rischio cose, dicendomi che in fondo ho una buona stella. Credo che se uno si asseconda e crede fermamente nelle cose che fa, la fortuna se la procura.
Emanuele fa da cicerone al protagonista Tommaso nei primi momenti dell’arrivo di quest’ultimo a Roma e contestualmente anche il lettore viene ad apprendere molte cose sulla città eterna, i suoi monumenti, i suoi passaggi segreti. Quale racconto da lei a sua volta appreso, riguardante Roma, l’ha più affascinata?
Mentre facevo un po’ di ricerche per il libro, mi ha colpito l’episodio del rastrellamento del Quadraro, che è un episodio davvero impressionante e poi Cinecittà durante la guerra. Erano cose che sapevo o avevo sentito raccontare, ma approfondite mi hanno colpito profondamente. Questo per quanto riguarda gli episodi storici. Dall’altro lato, c’è da dire che Roma è fatta di tante piccole storie, di tanti piccoli episodi, che sono straordinari. Per esempio, anche se nel libro è marginale, mi ha colpito molto la storia di Pasquino o quella che racconto della bocca della verità. Le stesse storie dei registi e degli attori che frequentavano Roma sono affascinanti. È pieno. Ecco, non riesco forse a identificare una storia precisa, devo dire che la prima fascinazione romana, pura, è stata per le poesie di Giuseppe Gioacchino Belli e per i film di Luigi Magni. Lì ho iniziato a vedere una Roma particolare che mi attraeva molto. C’è una storia romana però, ad onor del vero, che avevo sempre in mente quando lavoravo al libro. Si tratta delle due morti diverse di Seneca e Petronio, al tempo di Nerone. Seneca fece una morte da stoico bevendo la cicuta; Petronio invece si accomodò in una specie di vasca, si tagliò le vene, invitò tutti gli amici, chiacchierando e bevendo vino insieme a loro. Fece a sua volta una morte in linea con la sua filosofia. Questa storia è stata molto presente durante tutta la scrittura di Roma.
Nel suo libro trova spazio anche la poesia. Si racconta ad esempio di come Catullo arrivò a Roma, si citano versi e infine molte pagine sono intrise di poesia per lo stile e per una sorta di sentimento nostalgico che dimora in esse. Lei legge poesia e se sì, quali poeti apprezza di più?
La mia prima passione letteraria è stata l’opera del poeta irlandese William Butler Yeats. Il libro con cui ho iniziato a scrivere, nel senso di libro che una volta finitane la lettura, ha fatto sì che il giorno dopo prendessi in mano una penna per scrivere a mia volta, è stato I cigni selvatici a Coole di William Butler Yeats. Ho poi scritto un libro di poesie dal titolo Quello che dice una cameriera (Miraggi Edizioni, 2017) che per me ha rappresentato uno spartiacque, ovvero è stato il primo libro in cui mi sono davvero riconosciuto. E poi è arrivato Roma che, come ho già detto, è stato il primo romanzo in cui mi sono riconosciuto. Il mio libro di poesie raccoglie del materiale molto vecchio – fino naturalmente al più recente – e la prima persona con cui ho avuto a che fare nel mondo letterario e alla cui attenzione ho sottoposto la lettura delle mie poesie, è stata niente meno che Fernanda Pivano, che voleva farne pubblicare alcune, di quelle poesie. Non ci riuscì all’epoca. Se poi vuole dei nomi dei miei poeti di riferimento direi che mi piacciono molto Catullo, Lucrezio, Marziale, Foscolo, Shakespeare, Yeats, Francois Villon, Sylvia Plath, Anne Sexton, Emily Dikinson, Leonard Cohen. Questi sono i miei riferimenti. Dei contemporanei invece, il mio poeta preferito, che è anche un amico, è Edward Field, che ora ha più di 90 anni e lui è indubbiamente il mio poeta vivente preferito.
Nei ringraziamenti c’è scritto che il libro nasce da un pettegolezzo e da un ricordo. Ci racconta il pettegolezzo?
La zia di mia moglie è una sorta di cantastorie, conosce tante storie e ogni tanto ne racconta qualcuna. Da una di queste è nato il mio prossimo romanzo che in realtà ho iniziato a scrivere prima di Roma ed è un libro ambientato negli anni Cinquanta. Da lì ho iniziato a prestare ascolto attento a quanto raccontava e una volta ha raccontato un episodio vero accaduto in provincia di Piacenza riguardante una coppia che “dava scandalo”, come si usa dire, coppia che viveva vicina ad un’anziana signora. Quando la coppia andò via dalla casa in cui abitava, gettò un dildo in un cespuglio che confinava con la casa dell’anziana signora, la quale lo ritrovò. Non sapendo cosa fosse, iniziò a chiamare carabinieri, vigili del fuoco e artificieri, pensando che si trattasse di chissà quale ordigno. Questo episodio è stato quello che ha fatto scaturire l’inizio del mio libro Roma. Il ricordo invece, che ha dato il via a Roma, è quello raccontato prima, di Pasquale Panella e dei muretti.
Quest’ultima domanda ha a che fare con il cielo. Come è il cielo sopra Nicola Manuppelli?
Roma è un libro dove il cielo ha un ruolo enorme. È la prima cosa che mi viene in mente della città. Ed è immenso. Spero sia sempre immenso, chiaro e limpido, come quando di notte i protagonisti del libro, in una certa scena, lo vedono tutto stellato e si immaginano per ogni stella una storia e si immaginano di unire quelle stelle come puntini, per creare qualcosa. Ecco, forse questo è esattamente il mio cielo.
Papà Jan Nedoma, medico, ha combattuto per parecchio tempo con una tremenda malattia: i suoi figli Jan jr. (detto Hans), Emil e Kateřina hanno assistito alla sua decadenza e alla sua fine, così come la moglie, la compagna di una vita, Marta. Nella malattia di Jan, a un certo punto, non c’è stato più segno di luce e di speranza: in lui cominciava a essere la morte, e la morte è la tenebra degli uomini, quando sono dimentichi di un’autentica spiritualità. Testimoniare quel precipizio paterno era stato abbacinante; infine non esisteva più conforto. Morto Jan, Marta e i suoi figli fanno i conti con l’assenza, col nulla rimasto dopo di lui. Non se n’è andato soltanto lui, ma poco alla volta è finito nel nulla tutto ciò che avevano insieme, tutto ciò che erano stati insieme; ciò che avevano rappresentato. I fantasmi del passato si nascondono dappertutto: la memoria pretende più di un tributo, con imprevedibile frequenza; la coscienza fa sprofondare in più di un rovinoso esame. Hans dice che uno rimane bambino finché ha i genitori in vita. Forse è così. Intanto, la famiglia continua a ricevere lettere, scritte da un vecchio amico integerrimo; lettere che ripetono che papà Jan non era l’uomo che sembrava, era stato sleale, s’era ammantato d’un’aura di cristianità che non corrispondeva ai suoi comportamenti – ciò che aveva fatto per il regime comunista era criminoso. “Corrompere non è solo ingannare e pagare, nel suo significato principale vuol dire distruggere. In questo modo è stato distrutto tutto ciò a cui con tuo padre abbiamo aspirato per tutta la vita […]. La malattia è solo una parte della condanna che deve scontare in eterno, per espiare forse il sangue sulle sue mani”. Come accogliere parole così pesanti e inattese? Sono reali, è tutto reale? Siamo qui? “È possibile, per un istante, non morire? Per un istante, non fare del male? Per un solo istante non pensare alle lettere che cercano di convincerti che tuo padre era un uomo malvagio e meschino, che fingeva di essere un cristiano mentre prendeva parte ad autentici crimini? Un’accusa così tremenda che a causa sua ti cominciano a fare male proprio quei reni che tuo padre per tutta la vita ha curato […]. E le pareti ondeggiano e i rami si muovono, la sigaretta finisce”…
Jan Balabán, classe 1961, nativo del borgo di Šumperk, vicino Olomouc, Moravia, cresciuto nella grigia città industriale di Ostrava, laureato in Filosofia, è considerato tra i maggiori scrittori cechi del secondo Novecento e degli anni Zero. Apprezzato soprattutto come autore di racconti (premio Magnesia Litera per l’acclamata raccolta Možna že odcházíme, vale a dire Forse ce ne andiamo, nel 2005), come romanziere è stato particolarmente elogiato per libri come Kudy šel anděl, cioè Dov’è andato l’angelo (2003) e per questo Zeptej se táty, cioè Chiedi a papà, apparso postumo, in patria, nel 2010, salutato nuovamente col prestigioso Magnesia Litera, poi tradotto in Svezia, Serbia, Polonia, Bulgaria, Macedonia. Si tratta di un cupissimo, terribile e parzialmente autobiografico romanzo esistenzialista, scritto nell’arco di tre, lancinanti anni per meditare sul senso della vita, sul peso dell’assenza e sull’irrimediabilità della morte; è stato considerato un libro maudit, perché l’artista è venuto a mancare poco prima di completare la revisione del manoscritto, soltanto quarantanovenne, senza essersi nemmeno ammalato. Nella nota all’edizione italiana, in appendice, il suo storico sodale Petr Hruška osserva che in questo lavoro, così come in tutti i libri di Balabán, “troviamo l’incessante ricerca di una stabilità interiore, della dignità della vita in una ‘verità emotiva’ e in una fede in Dio informale”: i testi dell’artista ceco, infatti, “mettono insieme immagini della vita di persone che si trovano in crisi esistenziale, che brancolano in stati di abbandono di vario genere oppure in procinto di affogare, colpite dalle impreviste ondate della fatica di vivere”. Considerando che Chiedi a papà è il primo libro di Balabán tradotto in lingua italiana, la visione d’insieme offerta da Hruška è particolarmente utile: niente sapevamo della sua estetica e della sua poetica. “Balabán” – spiega ancora il suo sodale – “fa parte degli autori in cui ogni angoscia viene infine riscattata da una certa partecipazione, preoccupazione per la vicenda del prossimo. Era consapevole che questa partecipazione al destino degli altri ha, in fin dei conti, un potere enorme, e da sola può renderci migliori di quello che siamo mai stati”. Quanto ai maestri e in generale agli artisti più considerati da Balabán, il suo vecchio amico ci riferisce che era particolarmente ispirato da William Faulkner, Raymond Carver e dal poeta John Donne; tra i russi, i più amati erano il Nobel Ivan Alekseevič Bunin e il prevedibile Dostojevskij. Dalla pagina di wikipedia english, appuriamo che aveva tradotto parecchio, dall’inglese al ceco; soprattutto pagine di Lovecraft e del critico letterario Terry Eagleton. Chiedi a papà è la terza uscita della seducente collana di letteratura ceca «NováVlna», diretta da Alessandro De Vito; è stato pubblicato col sostegno del Ministero della Cultura della Repubblica Ceca.
Com’è nata l’idea de “La realtà pura”, qual è stata la scintilla che ha dato via alla storia?
Io credo che nella realizzazione di un romanzo non ci siano mai scintille, o illuminazioni. Ci sono fatti, accaduti o che stanno accadendo. Il punto di partenza è dato da una situazione particolare, nell’ambito della quale si sviluppano delle idee. Direi, anzi, che l’origine di un romanzo è data dall’incrocio tra una situazione e un’idea. La situazione genera un’idea che, a sua volta, determina una nuova situazione. E così via. Per me è così.
Perché la scelta di inserire i temi della paranoia e dell’ossessione, tanto in termini amorosi quanto mentali?
La paranoia e l’ossessione sono due stati mentali, che danno origine a un immaginario allucinato. C’è qualcosa di più importante per un romanzo?
Quanto dei tuoi desideri irrealizzati c’è nell’idea della storia?
E’ chiaro che qualunque romanzo contiene degli elementi autobiografici e il mio non fa eccezione. Il punto, tuttavia, è un altro: quanto c’è di irrealizzato, o meglio, di irraggiungibile nella vita di una persona? Io, ad esempio, una mattina mi dico: bene, vorrei essere Mozart. Ma Mozart non potrò mai esserlo, neppure se studiassi musica e composizione per secoli. Ed è così per un’infinità di desideri, direi quasi tutti. Siamo circondati da ostacoli spesso insormontabili, possiamo fare e ottenere soltanto poche cose. Nel nuovo romanzo cerco di esaminare il problema dell’impedimento. Il romanzo è una metafora dell’impedimento. Che cosa, quali forze, quali cause, ci impediscono di essere altro da quello che siamo? Io queste forze, queste cause, le ho espresse immaginando l’esistenza di una misteriosa organizzazione criminale, che – quando si attiva – condiziona la tua vita.
Quali autori sono stati d’ispirazione, quali storie lette – e a quale età, in quale periodo – sono state fondamentali per la tua poetica?
Senza dubbio “Lo straniero” di Camus, letto intorno ai vent’anni, ha influito fortemente sul mio stile e sul mio modo di pensare. Qualcuno, a suo tempo, scrisse addirittura che il protagonista del mio primo romanzo, “I giorni della lumaca”, ricorda Mersault. Un altro autore che sento molto vicino per atteggiamento e nitidezza della scrittura è Robert Walser. I primi che hanno letto “La realtà pura” hanno poi detto che c’è molto Kafka.
Hai una produzione letteraria piuttosto eterogenea; hai già pensato al prossimo lavoro?
È vero, la mia produzione è abbastanza eterogenea, ma lo faccio per non annoiarmi. Ho pubblicato tre romanzi, una biografia (di Lucio Mastronardi), un libro–reportage sull’Argentina e un libretto di aforismi. Nel cassetto ho anche un libro di racconti (buona parte dei quali pubblicati su riviste) e una pièce teatrale che fa il verso a “La cantatrice calva” di Ionesco. Se ho già pensato al prossimo libro? Guarda, siccome i miei tre romanzi sono, nell’ordine, un noir atipico, un romanzo storico atipico e, questo nuovo, un romanzo d’amore atipico, sto meditando un romanzo di fantascienza. Anch’esso atipico, naturalmente.
A sette anni Tommaso batte a macchina con disinvoltura; il padre, che fa il segretario in uno studio legale, gliel’ ha insegnato quando era piccolo e il suo primo regalo importante è una Olivetti portatile. È così che il ragazzo approda alla carriera di giornalista a Milano, mentre è l’esplosione della bomba di piazza Fontana e il ferimento subito in quell’occasione a fargli decidere di partire per Roma per cambiare vita. In Roma, pubblicato da Miraggi edizioni, Nicola Manuppelli affronta una sfida coraggiosa: raccontare la Cinecittà di Fellini, ma anche il Pigneto, Trastevere, piazza del Popolo degli anni 1970-71 attingendo ad aneddoti su aneddoti (su Richard Burton, su Walter Chiari, su Gore Vidal per citare solo alcuni dei personaggi famosi che compaiono nel libro) senza cadere nel bozzettistico. Ci riesce e il suo romanzo fa scoprire al lettore l’epoca d’oro del cinema italiano attraverso gli occhi di un giovane ingenuo ed entusiasta. A Roma, Tommaso conosce Satchmo, un sosia di Louis Armstrong che vive costruendo notizie false sui divi grazie a una rete di collaboratori, tra cui presto annovera anche il nuovo arrivato. Tra cene che si protraggono tutta la notte, bevute interminabili, corse di maiali al Circo Massimo, Tommaso fa gli incontri fondamentali della sua vita. A stregarlo è Judy, un’inglesina di Bath, con la passione per il pettegolezzo sui divi. L’amaro finale oltre a segnare la fine della giovinezza, marca quel confine tra vero e falso che tutta l’atmosfera intorno a Tommaso sembrava voler negare. Manuppelli alterna il lavoro di scrittore a quello di traduttore di classici americani: la sua prosa vivace e appassionata ne trae gran giovamento.
Nicola Manuppelli è nato a Vizzolo Predabissi nel 1977. Scrive, traduce, cura, scopre autori americani e irlandesi (fra i quali Andre Dubus, Charles Baxter, Jane Urquhart, Roger Rosenblatt, A.B. Guthrie, Sara Taylor, Gina Berriault, Don Robertson). Collabora, fra gli altri, con Mattioli, Minimum Fax, Nutrimenti, Aliberti. Suoi articoli sono apparsi su Chicago Quarterly, Numéro, D di Repubblica, Satisfiction, Il Primo Amore, IBS Café. Ha pubblicato i romanzi Bowling (2014, Barney Edizioni) e Merenda da Hadelman (2016, Aliberti), la biografia della scrittrice Alice Munro, La fessura (2014, Barbera) e la raccolta di poesie Quello che dice una cameriera(2017, Miraggi). Dal 2016 conduce il programma radio I fuorilegge con Claudio Marinaccio e dirige una collana omonima di letteratura americana e italiana. Nel 2016 il noir Merenda da Hadelman (Aliberti). È biografo ufficiale dello scrittore americano Chuck Kinder.
Joao Paulo Cuenca è uno dei più importanti scrittori della letteratura brasiliana contemporanea. Il suo ultimo romanzo, “Ho scoperto di essere morto”, pubblicato in Italia da Miraggi, è stato tradotto in otto lingue e ha vinto il prestigioso Premio Machado de Assis. Cuenca, che è anche opinionista su diverse testate e regista cinematografico, è un grande appassionato di calcio e per questo ha accettato di affrontare diverse questioni: da quelle più strettamente legate alla passione per il Flamengo e per l’Argentina a tematiche politiche, sociali ed economiche.
Quando è nata la tua passione per il Flamengo?
«Credo che il calcio sia un tipo di malattia che ereditiamo dai nostri padri. Il mio, un argentino, è tifoso del Flamengo perché è una sorta di Boca Juniors brasiliano, è una squadra del popolo, e di conseguenza lo sono diventato anch’io. Poi sono cresciuto vedendo Zico vincere tutto. Insomma, non era difficile tifare Flamengo».
Ecco, tuo padre è argentino e tu sei nato a Rio de Jaineiro. Ti senti un’anima divisa in due o non hai dubbi su quale nazionale scegliere tra Argentina e Brasile?
«In campionato tifo Flamengo, ma quando ci sono il Mondiale o la Copa America non ho esitazioni su chi tifare: Argentina».
Qual è il tuo primo ricordo legato al calcio?
«Questo può spiegare la mia precedente risposta. Nel primo ricordo forte legato al calcio c’è mio padre che urla e piange di fronte a un vecchio televisore con il tubo catodico dopo che Maradona ha segnato il secondo gol nella partita contro Inghilterra durante il Mondiale del 1986. Quale altro tipo di spettacolo potrebbe avere un tale effetto su un uomo adulto?».
L’eterna questione: Maradona o Pelé?
«Non ho esitazioni: Maradona!».
Detta da un brasiliano, per quanto di padre argentino, è un’affermazione clamorosa.
«Ne sono convinto. E resto convinto, anche se, proprio in Italia, mi hanno soprannominato il Pelé della letteratura». (Ride).
Quando Socrates arrivò in Italia, gli fu chiesto se preferiva Rivera o Mazzola. Rispose: Gramsci. Credi che oggi ci possa essere un calciatore con questa cultura e questa capacità di guardare oltre gli aspetti quotidiani del suo lavoro?
«Purtroppo no. Una figura come Socrates sembra molto improbabile al giorno d’oggi. La maggior parte dei calciatori brasiliani sono molto lontani dalla politica o addirittura hanno sostenuto Jair Bolsonaro, candidato di estrema destra e vincitore delle elezioni di due settimane fa. Temo che molti di loro non abbiano mai letto un libro nella loro vita».
Il calcio sta diventando sempre più un business e molti tifosi rimpiangono i valori del passato. È un punto dal quale non riusciremo a tornare indietro?
«Temo di sì. Non può essere un caso che sempre più persone si divertano con i videogames o i giochi di simulazione in cui si trasformano in manager che si occupano di soldi, investimenti e profitti. E spesso la stampa dà a certe questioni lo stesso spazio riservato a ciò che avviene in campo. Ma quello che mi preoccupa di più è la corruzione che il denaro porta. In Brasile, la Federazione è coinvolta in diversi scandali».
Nel tuo libro si sottolinea in maniera molto netta la condizione di una Rio de Janeiro colpita dalle speculazioni legate ai Giochi Olimpici e al Mondiale.
«Il Mondiale organizzato nel 2014 si è trasformato in una opportunità per compiere diverse frodi e per aumentare a dismisura i prezzi dei biglietti. E questo è molto peggio del 7-1 subito dalla Germania o del vedere Neymar piangere come un bambino».
«Fin da bambina, era come se nel mio intimo ci fosse un tizzone di brace ardente. Crescendo, fui testimone della violenza domestica su mia madre e già in giovane età questa brace prese la forma di poesie…» Così si presenta Jacinta Kerketta nell’incipit alla sua prima raccolta di poesie dal titolo Angor, appena pubblicata dalla Miraggi Edizioni di Torino, con il titolo appunto Brace. Una quarantina di poems vibranti di tensione per quel continuo stupro di terre (oltre che di corpi) del quale è stata testimone fin da bambina nelle zone tribali del sud Jharkhand, in cui è nata. Land grabbing, sfollamenti, regolamento di conti tra minatori e caporali, dispute regolarmente risolte in favore del più forte, foreste teatro di ogni genere di saccheggio – e poi la fame, “che diventa fuoco”; campi impunemente sacrificati, magari a una diga. E la città che avanza, annulla/rimescola ogni identità: questi i temi che ricorrono nel lavoro di Jacinta, fortemente intriso di determinazione al riscatto e impegno a tutto campo, come animatrice di workshop di scrittura creativa nei villaggi, come role model per tante donne (e anche maschi) più giovani di lei, come esploratrice di quell’infinito field work che è il personale/politico – e quindi appunto scrittrice.
In questi giorni Jacinta è in Italia, protagonista di un lancio degno di una star: ieri era alla Ca’ Foscari di Venezia, per unalecture dal titolo quanto mai intrigante, Voices of Nature, Voices of Human Beings. Milano la vedrà oggi ospite della Libreria delle Donne, e lunedì dell’Università Statale; e poi Torino, Roma (tutti i dettagli nel Box) «e senza alcun bisogno di crowdfunding, perché ci sono situazioni, come questa che siamo riusciti a mettere in moto, dove bastano e avanzano le relazioni» commenta il suo editore/agente/amico Johannes Laping, che da anni frequenta quelle zone in rivolta in cui lei è nata, come attivista della piccola Adivasi Koordination che ha contribuito a fondare in Germania nel 1993 – quando le popolazioni indigene dell’India non se le filava nessuno…
Quel che segue è il succo di una lunga chiacchierata telefonica con Jacinta Kerketta qualche giorno fa, in attesa di incontrarla di persona.
Il tuo CV racconta di uno strepitoso debutto professionale come giornalista: borse di studio, premi, promettente carriera da inviata nelle zone calde del centro India, che poi interrompi per darti alla poesia…
Avevo deciso di diventare giornalista, iscrivendomi alla Facoltà di Mass Communication di Ranchi (e per questo devo ringraziare mia madre), dopo essere stata testimone di tanti abusi nella totale disattenzione dei reporters locali, e sarebbe fuorviante parlare di corruzione, spesso si tratta solo di pigrizia. Avevo voglia di raccontare come stavano veramente le cose e sono stati anni straordinari, prima come apprendista, poi inviata di qua e di là, e poi i Premi, alcuni importanti… al punto da farmi decidere a un certo punto di lasciare il quotidiano Prabhat Khabar (testata in lingua hindi con enorme seguito, ndr) e continuare come free lance. Una gioia alzarmi presto la mattina, fiondarmi dove mi pareva a bordo del mio scooter, il pomeriggio tutto per me, pubblicare quel che volevo, magari solo sulla mia pagina Facebook – ed è stato in quel periodo di totale libertà che la poesia ha cominciato a guadagnare spazio, non in alternativa al giornalismo, semmai come trasmissione più immediata di ciò che mi stava a cuore, e dritto al cuore di chi mi leggeva. Ha influito in questo cambio di registro la consapevolezza che il giornalismo, a determinati livelli, ha le mani legate – difficile non ricevere pressioni nella regione ricchissima di risorse minerarie, dove vivo io… Il che ha reso ancor più semplice la mia ritirata dalla stampa. I socials mi hanno aiutato.
Ho dato uno sguardo alla tua pagina FB: non c’è componimento che non registri centinaia di condivisioni, ti ho visto nominata “ambasciatrice della causa adivasi fuori dal Jharkhand”…
Sorprendente anche per me. L’unica spiegazione è che la poesia risuona con un’intimità speciale, in immediata sintonia con la musicalità rapsodica della gente per cui scrivo, che magari è inurbata da due generazioni ma nel suo intimo non ha perso il ricordo di ciò che nutre anche il mio scrivere: e parlo del sarna, quello che voi tradurreste come animismo, e che per noi è proprio un sentirsi dentro, ritrovarsi nella propria essenza dentro il creato, immaginare ciò che certi alberi o pietre hanno visto, in dialogo con il profilo delle colline, con la voce dei fiumi… un senso di viscerale appartenenza che nei miei versi si intreccia a fatti di inaudita brutalità, di cui tutti ormai sanno (grazie ai social networks) senza bisogno dei giornali. L’ultimo è di pochi giorni fa: decine di morti ammazzati, contadini innocenti, nell’ennesima battuta di caccia contro i naxaliti, in Bastar. Una guerra di cui nessuno parla da voi e che ha di nuovo traumatizzato quella terra di foreste da cui provengo.
Di tutto questo scrivi in hindi, che non sarebbe la tua lingua madre…
Ti sorprenderà sapere che l’hindi è la mia prima lingua, benché io appartenga all’etnia Oraon la cui lingua sarebbe ilkuruk. Ero piccola quando i miei genitori si spostarono dal villaggio di Khudpos alla più vicina cittadina, Manoharpur. Mio padre era entrato nei ranghi della polizia (un sogno per un giovaneadivasi di allora, come per tanti giovani di oggi, ahimè) e la mia educazione fu in hindi e poi in inglese, neppure a casa si parlava il kuruk. L’ho dovuto quasi imparare, quando ho cominciato a tenere i miei corsi di scrittura creativa per le ragazzine del villaggio di Kacchabari, nella zona di Khunti. Esperienza straordinaria, dalla quale ho ricevuto moltissimo, che mi ha messo a confronto con un mondo di cui sapevo ma di cui non immaginavo la felicità, per quella totale consonanza con la natura, e una natura che ovunque guardi letteralmente ti parla… e poi le feste, per ogni momento del ciclo agrario, con le danze, donne e uomini, tutti in circolo, al suono dei tamburi, fin dentro la notte, unica luce quella della luna che non hai idea quanto riesce a illuminare. Letteralmente una gioia scappare dalla città per sentirmi a casa lì, perché è lì che so di avere le mie radici…
Su questo tema è appena uscita infatti la tua seconda raccolta poetica, Land of the Roots, Terra di Radici,che presenterai in Germania subito dopo questo tour italiano.
Importanti le radici, questo ho scoperto rivivendomi nella mia identità più ancestrale di donna adivasi – questo cerco di trasmettere con le mie poesie. Esattamente come per quegli alberi secolari, quei campi che sono stati ricavati disboscando solo alcune zone, quegli esseri che armonicamente ci vivono dentro, partecipi di quello stesso humus che continuamente si arricchisce proprio in virtù di quella infinitamente rinnovata convivenza, l’umanità dovrebbe capire che, nel profondo, we are all one, figli della stessa terra. La politica cercherà sempre di dividerci, per dominarci meglio: hindu contro mussulmani, dalits contro adivasi,e all’interno del mondo adivasi ecco che stanno fomentando il risentimento contro i cristiani. Anche la violenza contro le donne rientra in questa strategia: non è solo violenza di genere, è violenza istigata per dividere ancor meglio uomini di comunità diverse che fino a ieri riuscivano a convivere e oggi conviene che siano in guerra, perché in questo modo ci si appropria più facilmente di territori che magari fanno gola – ed ecco che anche il corpo delle donne diventa campo di battaglia. Ma come dimostrano i corpi rimasti sul terreno nel massacro di pochi giorni in Bastar, questa è una guerra che non risparmia nessuno.
Fabio Selini, “Torneremo ad Amsterdam” è un libro a forti tinte granata. Quando è nata l’idea?
«Quella notte ha segnato intere generazioni: perdere una finale senza perdere, colpire tre legni in un’unica partita, storie che soltanto un tifoso del Toro può vivere e immaginare. Non superare, perché comunque quella rimane una ferita ancora aperta. E così ho deciso di raccontare la splendida cavalcata senza lieto fine: ho sentito come una fitta 15 anni fa, quando in viaggio ad Amsterdam andai al museo dell’Ajax e vidi quella coppa che doveva essere nostra. A 40 anni era giunta l’ora di fare i conti con la realtà e cercare di superare quel trauma».
Chi sono i protagonisti?
«Ettore e Paolo sono due grandi amici uniti dalla stessa passione, il Toro. La vita non è particolarmente felice per loro, hanno tanti problemi, ma quando vedono correre i granata su un prato verde dimenticano tutto. E allora partono per un viaggio per tutta Europa, proprio come fecero i ragazzi di Mondonico: Reykjavik, Atene, Madrid, e poi Amsterdam, tappe che un tifoso granata conosce a memoria. Tutto, però, non finisce all’Olympic Stadium, ma al Filadelfia: la nostra casa è rinata, quello è il luogo dove potersi ritrovare tutti insieme. E pensare a un futuro migliore, alzando lo sguardo e vedendo in lontananza la collina e Superga, altro luogo sacro per noi granata. A me è capitato proprio il 25 maggio 2017, all’inaugurazione del nuovo Fila con tutta la mia famiglia».
Come hai vissuto le serate delle due finali?
«All’andata per cause di forza maggiore ero rinchiuso in una casa di riposo a Mantova: mi isolai in un enorme stanzone vuoto con tre amici, mi diedero tanto supporto durante quel botta e risposta tra noi e l’Ajax fino al 2-2 finale. Al ritorno, invece, ero a casa con pochi intimi. Superai il primo palo di Casagrande, sopportai a malincuore quello di Mussi, ma alla traversa di Sordo non ce la feci più: mi inginocchiai davanti alla televisione, non ci volevo credere. Non ci potevo credere. E invece era tutto vero, e ancora oggi, nonostante abbia superato i 40 anni, fa ancora tanto male».
Abbiamo il piacere d’incontrare Elisa Occhipinti, in libreria con E lucevan le stelle per Miraggi Edizioni.
Buongiorno Elisa e ben venuta nella nostra cucina.
Buongiorno a voi e grazie per l’ospitalità.
Ami cucinare? Cosa prepariamo?
Amo tantissimo cucinare, soprattutto gli antipasti e i primi piatti. È un’attività che mi rilassa in modo particolare: dopo una giornata in giro e sotto stress, la sera mi fermo e dedico tutto il tempo e l’attenzione necessari per preparare una buona cena. Spesso cucino insieme a mio figlio Leonardo, che ha sei anni e mezzo. Prepariamo uno dei suoi piatti preferiti, il risotto allo zafferano.
Abbiniamo vino o birra?
Vino, preferibilmente bianco (magari un Riesling).
Sei in libreria col tuo romanzo di esordio. Dacci una breve anteprima. Di cosa parli e perché consigli di leggerlo? E lucevan le stelle è il racconto di una vita apparentemente come tante, “apparentemente” perché in realtà ogni esistenza è straordinaria. La storia tedesca del Novecento e le tradizioni di una piccola isola del Sud Italia si intrecciano con le vicende personali di Ulrike, che decide di ripercorrere, durante il suo ultimo viaggio, la sua storia e quella di quattro generazioni della sua famiglia. Spero che ogni lettore trovi il suo personale perché: per conoscere meglio la cultura e la storia tedesca, perché c’entrano la musica e l’opera (E lucevan le stelle è una famosa aria dellaTosca di Puccini), perché è un romanzo delicato, breve eppure denso di temi e di riflessioni.
Sei una appassionata lettrice, blogger, scrittrice. Che altro?
Vivo in Germania da cinque anni e sono principalmente un’insegnante di italiano, per bambini e adulti. Sto completando una formazione in Italianistica e Comparatistica e lavoro all’Università di Bochum come assistente e tutor. Curo un progetto di promozione della lettura, ogni tanto traduco dal tedesco verso l’italiano, organizzo presentazioni letterarie. Sono caporedattrice del sito Il Club del Libro e scrivo di libri su Magma, il nuovo magazine per gli italiani in Germania.
Come ti sei avvicinata alla lettura? E alla scrittura?
Mi sono avvicinata alla lettura da bambina e non ho mai smesso. Mio fratello Giovanni è un topo di biblioteca (oltre a essere poeta, ma questa è un’altra storia), mi ha sempre regalato molti libri. Non pensavo che mi sarei mai cimentata nella scrittura, semplicemente perché chiunque abbia letto – cito qualcuno dei miei libri preferiti – I Buddenbrook di Thomas Mann, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, Olive Kitteridge di Elizabeth Strout, Un uomo di Oriana Fallaci o Il teatro di Sabbathdi Philip Roth, non può che sentirsi piccolissimo… poi è arrivata una storia da raccontare, e insieme la voglia di raccontarla. Così è nato E lucevan le stelle, ma io continuo a sentirmi piccolissima.
Un consiglio ad un giovane che sogni di diventare scrittore?
Tenere sotto controllo gli avverbi ed evitare come la peste l’editoria a pagamento.
Oltre ad occuparti del mondo delle lettere, quali altri hobbies/passioni hai?
Studio il violoncello e pratico yoga. Mi piace lo scrapbooking, trovo sia un bellissimo modo per creare biglietti d’auguri e album di fotografie davvero unici. I miei prossimi obiettivi sono un corso di calligrafia e un corso di acquerelli.
Grazie per il tuo tempo. Ora, come tradizione di Giallo e cucina, ti chiediamo di salutarci con una ricetta che ami e con la tua citazione preferita.
Cucino quasi esclusivamente “ad occhio”, quindi non ho idea delle dosi. Si tratta di una ricetta semplice, veloce eppure raffinatissima, che faccio ogni volta che ne ho l’occasione e riscuote grandissimo successo: pasta con gamberi, pomodorini e farina di pistacchio.
Di solito uso le mezze maniche o le trofie, ma si sposa benissimo anche con pasta lunga come le linguine o le pappardelle. Faccio soffriggere uno spicchio d’aglio intero in olio extravergine, poi butto in padella i gamberi e sfumo con il vino bianco. Dopo qualche minuto aggiungo i pomodorini tagliati in quattro, insaporisco con sale e pepe e lascio cuocere ancora. Poco prima di spegnere la fiamma, tolgo lo spicchio d’aglio e aggiungo la farina di pistacchio, amalgamando di modo da ottenere una cremina (se necessario aggiungo pochissima acqua di cottura della pasta). Infine faccio saltare la pasta in padella, impiatto e… buon appetito!
La mia citazione preferita, da molti anni a questa parte, è “Be the change you want to see in the world”, sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo. È una frase di Gandhi che mi ha molto ispirata e incoraggiata in diversi momenti della mia vita.
Nicola Manuppelli, come è nata l’idea di Roma e perché ambientarlo in quel periodo storico?
«L’idea è nata da un pettegolezzo su una coppia di amanti emiliani che avevano dimenticato un dildo dentro un cespuglio. Il dildo era stato ritrovato dall’anziana vicina di casa della coppia. La donna, non sapendo di cosa si trattasse, aveva chiamato gli artificieri. Qualche giorno dopo, ero in un ristorante vicino a Cinecittà con Pasquale Panella, il paroliere dell’ultimo Battisti, che mi raccontava di quando da ragazzo scavalcava il muretto per andare a vedere gli studi cinematografici. Da questi due episodi è nata la scintilla. Anche se già da un po’ di tempo avevo deciso che avrei scritto un libro su Roma».
La scelta di Fellini era nei tuoi pensieri fin dall’inizio o si è fatta strada durante la scrittura della storia? Fellini è un autore che ami? Quali suoi film preferisci e perché?
«Adoro Fellini. Adoro I vitelloni, Amarcord, La dolce vita, Le notti di Cabiria e potrei andare avanti a elencare tutti i suoi titoli, disegni, copioni. Fellini è un autore a cui sono arrivato col tempo. Come mi è successo con Fitzgerald. Nella mia testa, li vedo come due autori molto simili, seppur con una diversa tonalità di voce, ma la sensibilità è quella. Anni fa, a Rimini, ho avuto per la prima volta l’impressione di essere davvero entrato in contatto con la sua opera. Più tardi, ospite a casa dello scrittore americano Chuck Kinder a Pittsburgh, buttai giù un romanzo mai pubblicato che fu il mio primo approccio con un modo di narrare “felliniano”. Sia in Gatsby che in La dolce vita il protagonista/voce narrante è dentro e fuori dalla storia. Questo era lo stesso tipo di approccio che cercavo. Così prima ho pensato a Roma, poi ho pensato che Roma potesse essere una sorta di nostra los Angeles, così come Milano poteva essere una nostra New York. Il protagonista si sposta da Milano a Roma. E a quel punto, ho pensato che il libro dovesse essere una grande festa, con un tocco di malinconia come le feste di Fellini e Fitzgerald – chiamiamoli le due F, i miei numi tutelari – dove ci si perdeva e dove far girare la mia giostra di personaggi. Fellini mi lascia continuamente meravigliato. Pensare a lui in corso della lavorazione del libro è stato inevitabile. Volevo che fosse un personaggio del libro, la luce verde del protagonista. E ho rivisto tutti i suoi film mentre lavoravo a Roma. La Dolce Vita, visto forse per la decima volta, mi ha lasciato ancora a bocca aperta. Non è solo un capolavoro di immagini, ma di moda, dialoghi, struttura narrativa. Un film immenso».
Quanto all’epoca storica, volevo che fosse il tramonto di un’epoca di Cinecittà, e c’era anche l’idea di un doppio piano per cui i protagonisti del libro si trovavano all’interno di una Roma ricostruita sul set di Roma di Fellini, che venne girato fra il ’70 e il ’71.
«L’uso di più personaggi, poi, con tutte le loro storie, mi permetteva di spaziare anche in altre epoche di Roma, facendo del romanzo una sorta di piccola cronaca di Roma».
A leggerlo si ha la sensazione che sia un’opera in qualche modo “destinata” a trasformarsi in un film. L’hai pensata con questo obiettivo o è casuale?
«Sì, è una delle cose che voglio fare in futuro scrivere per il cinema. E mi piacerebbe molto che Roma potesse diventare un film. Per la prima volta, in un romanzo, ho lavorato in questo modo; visitando i set, visionando gli attori che volevo ne facessero parte – per esempio, mi sono divertito a riprodurre la parlata di Walter Chiari o quella di Fellini -, suddividendo il tutto in scene, parlando con gente che sapeva informazioni che cercavo. Nella mia ottica, mi sono aperto alla collaborazione. Ho fatto come un regista che lavora con dei collaboratori, mentre nei libri precedenti mi chiudevo da qualche parte a scrivere, qui sono uscito e ho ascoltato e ho lasciato che io e tutto il resto fossimo al servizio della storia, o delle storie».
Quanto ti ha impegnato il lavoro di documentazione?
«Sei mesi. Oltre a tutto ciò che avevo accumulato ogni volta che ero stato a Roma e ogni volta che l’avevo vista rappresentata in un libro o un film, da Petronio a Belli fino a Scola e Monicelli. E poi mi è stato molto utile l’appoggio di amici romani, che mi hanno aiutato per esempio col dialetto. Su tutti, un magnifico libraio che si chiama Emanuele Spinelli e suo padre Franco che è una sorta di Omero romano».
Quanto ha influito la tua esperienza come traduttore di importanti scrittori americani?
«Come ogni altra esperienza biografica influisce sull’opera di uno scrittore. Non amo molto essere visto come “traduttore”. Tradurre fa parte del mestiere dello scrivere. E scrivere rientra nella categoria più grossa del raccontare storie. Vorrei essere in primo luogo uno che racconta storie, quindi per derivazione uno scrittore e infine un traduttore».
Il riferimento a Il giorno della locusta di Nathanael West è esplicito…
«È uno dei miei libri preferiti e ho avuto anche il piacere di tradurre. Non ho invece mai visto il film. In Roma c’è anche un omaggio all’autore, un produttore che di cognome fa Locusta. Invece il libro è in memoria di William Styron, autore un po’ dimenticato ma che con La scelta di Sophie ha scritto uno dei romanzi più belli del secolo scorso».
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