3 panini a «Gli amanti perduti nel transfinito» dal Mangialibri

3 panini a «Gli amanti perduti nel transfinito» dal Mangialibri

Giuseppe e Maria, lui sedicente poeta e lei influencer che predica e pratica la verginità, sono in cerca del contesto ideale per vagliare nuovi orizzonti di intimità. Per loro sfortuna, il luogo prescelto non è un albergo qualunque, bensì l’Hotel Hilbert, che deve il nome al matematico tedesco, ideatore del Paradosso del Grand Hotel, e che si rivela una dimensione alternativa che segue le logiche dell’infinito. Li accoglie un istrionico portiere laureato in matematica, informandoli della difficoltà di assegnargli una stanza nonostante all’Hilbert le stanze siano infinite, e rimandando all’infinito la consegna delle chiavi per il semplice motivo che si è infatuato della donna. Il portiere chiama in causa Aristotele, Sant’Agostino e Nietzsche, e poi Kronecker e Gödel, rievocando i momenti cruciali nella storia della matematica, come la crisi dei fondamenti causata dalla scoperta, da parte di Russell, di una contraddizione nella teoria ingenua degli insiemi di Cantor, ovvero che non è possibile stabilire l’insieme di tutti gli insiemi che non contengono sé stessi come elemento, giacché, non contenendo se stessi come elemento, contengono se stessi come elemento. E così via, a furia di spiegare le applicazioni dell’infinito attuale e le caratteristiche dell’eterno ritorno, il portiere annichilisce Giuseppe e ammalia Maria, guidando quest’ultima tra le infinite meraviglie dell’infinito, dove tutto è possibile, e lo è infinite volte…

Gli amanti perduti del transfinito è un romanzo peculiare, divertente dalla prima all’ultima pagina, con momenti che metteranno alla prova il lettore poco predisposto alla matematica o che abbia urgenza di capire in che modo gli espedienti divulgativi plasmeranno la narrazione. Non ci si aspetti un racconto convenzionale: in una dimensione in cui tutto è possibile, non è necessario individuare gli snodi narrativi o comprendere una logica differente da quella della nostra presunta realtà. Meglio abbandonarsi come con la poesia, che d’altronde vive della non totale comprensione da parte del lettore; oppure pensare al piacere di immergersi in multiversi come quello di Epepe di Karinthy, con quel tipo di piacevole spaesamento. Curti è bravissimo ad animare il suo mattatore e a fargli sciorinare, in ordine crescente di difficoltà, ciò che bisogna sapere per immaginare l’infinito. Qualcuno si perderà strada facendo, ritrovando però sempre ad attenderlo l’umanità dei personaggi, per esplorare insieme un paradiso matematico in cui nessuno muore mai, o meglio, muore infinite volte e infinite volte rinasce e vive, e tutto gli è concesso, ogni gioia, ogni alternativa; l’infinito più grande, quello assoluto di Cantor, un nuovo Dio, benevolo e in qualche modo calcolabile. Curti consegna un’opera all’apparenza distante, quantomeno per impianto, dal precedente Quando i padri camminavano nel vuoto, segnalato dal Premio Calvino e pubblicato sempre da Miraggi, ma in realtà in dialogo con esso. Torna la qualità della scrittura, solida, accessibile e sorniona, tra il Buzzati raccontista e certi russi dei primi del Novecento, una prosa capace di umori diversi, di far danzare suggestione e matematica. Torna l’archetipo del padre, qui fondamentale nell’incapacità di Maria di autodeterminarsi, ma anche per il portiere, che ne ha ereditato l’idealizzazione dell’attrice Belinda Lee, così come era stata centrale in Quando i padri camminavano nel vuoto, nel quale l’autore esplorava l’autofiction e gli svantaggi di un genitore ossessionato dalla verbalizzazione. E ancora, torna la poesia, primo amore dell’autore, che qui caratterizza di sfuggita Giuseppe, ma che rimane una chiave di lettura di un testo all’apparenza razionalista che usa l’intelligenza per fantasticare sull’immortalità e sul libero arbitrio. Diventa chiaro, dopo che l’autore ci ha presentato le copie umane che si aggirano nell’Hotel, che Giuseppe e Maria potrebbero essere anche quelli biblici, e che impedendo loro di stare insieme, per gioco, il portiere stia predisponendo un presente radicalmente diverso da quello che conosciamo. Le interpretazioni di un simile romanzo sono infinite, e sebbene l’opera rimanga aperta (e come potrebbe chiudersi?), ben vengano esperimenti letterari che sanno stimolare zone intorpidite del nostro cervello, permettendoci di guardare il mondo, almeno per un po’, con uno sguardo diverso.

QUI l’articolo originale: https://www.mangialibri.com/gli-amanti-perduti-del-transfinito

Il tempo del potere, tra Cina ed Europa. Recensione a «Ore di piombo» su Huffpost

Il tempo del potere, tra Cina ed Europa. Recensione a «Ore di piombo» su Huffpost

di Marilù Oliva

Ore di piombo” di Radka Denemarkova è una narrazione epica che travalica i secoli e le vicende del singolo per catapultarci nella storia vera, che trasuda indignazione, ma ci istrada verso la ricerca di un senso. Pagine feroci, foriere di scottanti verità svelate come in una canzone struggente

“La vita ti scaglia addosso i suoi temi con violenza.

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Le parole che in Europa piovono da ogni dove non significano niente.

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Le parole che in Cina si pesano su bilance minuscole significano vita o morte”.

Ore di piombo” (miraggi edizioni) è firmato dalla scrittrice ceca Radka Denemarkova e tradotto da Laura Angeloni. Si tratta di un libro di oltre novecento pagine con una personalità fortissima, di sicuro una sfida, una di quelle rare avventure che di rado regala il mondo editoriale. Lo scenario spazia dalla Cina all’Europa, raccontate da chi ne ha visto cadere le maschere. Una narrazione epica che travalica i secoli e le vicende del singolo per catapultarci nella storia vera, che trasuda indignazione ma ci istrada verso la ricerca di un senso.

Una galleria di personaggi che incarnano vizi e fragilità umane, non nominati ma indicati in base al loro ruolo, dal Programmatore all’Amico, da Marziano al Diplomatico, dalla nonna alla Ragazza Cinese, oltre a creature quasi fiabesche come i due saggi gatti, Arancio e Mansur. Tra loro spicca la protagonista Scrittrice, dissidente in quanto portavoce dei valori di democrazia e libertà ora tanto vilipesi. Tutte assieme, queste figure portano avanti intrecci, relazioni e riflessioni che spaziano dal cammino dei popoli alla quotidianità, alla disgregazione, alla decadenza, alla perdita di ideali, ma anche all’amore:

“Non è colpa sua se gli uomini sono così stupidi da pensare che il primo evento degno di nota tra un uomo e una donna sia una notte d’amore. No, perché qualcosa accada davvero ci vuole pazienza, tenerezza. Nemmeno odiarlo le è di aiuto. L’odio è solo un’altra forma di amore, in egual modo disperata.”

Sono ore di piombo su un’Europa retriva, che non vuole lasciarsi destabilizzare dall’integrazione e chiude le porte ai rifugiati. I migranti vengono vissuti come invasori, cavallette voraci, e poco importa l’evidenza che essi fuggano da disastri ambientali o umani. L’Europa è un mercato che punta al profitto, qui le persone possono scendere in piazza ostentando il simbolo della forca, tanto nessuno le rimprovera, perché manca la riflessione, sorella del dubbio e dell’esitazione. Se la gente è spaventata, allora cerca un capro espiatorio, se la prende coi più deboli e la scissione tra eletti e diseredati è in agguato:

“La morale non è di cera, per questo devono in qualche modo giustificare le loro azioni. Il primo passo è dividere il mondo tra noi e loro. Inventare delle qualità negative da attribuire agli altri per denigrarli collettivamente, escluderli dalla società umana: gli altri sono primitivi, diffondono malattie, violentano le donne”.

La Repubblica ceca non è da meno e, quando Scrittrice torna al suo paese dopo una lunga lontananza, lo trova imbevuto di fascismo, “un paesello chiuso dal filo spinato”, gli abitanti rinunciano alla loro libertà in cambio della vana illusione del benessere.

Sono ore di piombo anche in una Cina velocissima, fatta di sorrisi e pazienza, ma dove non mancano gli eccidi e le imposizioni. Si tratta di una nazione dove nulla è come sembra, dove l’apparenza si sdoppia per permettere rivelazioni solo a chi vuole andare in profondità. Lì troverà, assieme a tanta bellezza, anche la crudeltà della repressione, dell’obbedienza, della devozione cieca al comunismo:

“Che aspetto oggi assumono il potere dei senza potere e l’impotenza dei potenti? La società è come un rene ipertrofico che non riesce più a purificare il sangue. La milza non funziona e le tossine vengono reimmesse nelle vene. Se un trauma di famiglia non viene purificato, va a gravare sulle generazioni successive. La speranza che le disgrazie rendano gli uomini umani è ormai disattesa”.

Un libro epico, inaspettato, spietato ma che trasuda umanità, pagine feroci, foriere di scottanti verità svelate come in una canzone struggente.

QUI l’articolo originale: https://www.huffingtonpost.it/blog/2024/10/30/news/il_tempo_del_potere_tra_cina_ed_europa-17588246/

Nel buio di Morelli: il viaggio iniziatico raccontato da Nicola Neri

Nel buio di Morelli: il viaggio iniziatico raccontato da Nicola Neri

di federica Mingozzi

“Sono in missione per conto della mia vita”

Queste parole, estrapolate dal testo, sono una delle possibili chiavi di lettura della storia, che è una non-storia in quanto ciò che è accade è vissuto (e narrato) soprattutto a livello introspettivo: non ci sono eventi che scardinano la quotidianità né incontri fulminanti e fulminei in grado di spazzare via tutto. 


Eppure… eppure la vicenda attrae il lettore come se fosse una saga e lo porta in una spirale di discesa in cui Morelli, il protagonista, invischia sé stesso e gli altri. Non è un caso che i capitoli siano numerati in progressione da dieci a zero, anticipando a chi legge che si sta scendendo e che, alla fine del percorso, si toccherà il fondo. Per rinascere o per sparire? Come ha già detto qualcuno “Ai posteri l’ardua sentenza” poiché la meraviglia della parola affilata di Neri consiste proprio nel non chiudere la spirale, ma nel lasciare spazio a possibilità di lettura multiple, ognuna vera per sé stessa e piena di conseguenze. È un viaggio iniziatico quello narrato, un viaggio che Morelli compie a due livelli: fuori e dentro di sé. Fuori perché si muove in auto, alla ricerca di un dove che gli sembra l’ultima, possibile scelta; dentro perché, viaggiando, incontra sé stesso e alcune alterità, con cui si intrattiene al telefono per riannodare fili, non di rapporti perduti (o meglio, non solo di rapporti perduti), ma di quel finito contro cui vuole lottare, ma che, per paradosso, lo attrae con la sua pretesa di normalità.

È così che le voci finiscono per costellare il buio: note o non note, diventano in fondo alter ego dell’attore principale, che recita la sua parte con fatica, con il desiderio di liberarsi dalle pastoie di un’esistenza che non sente più sua. Si percepiscono il rimpianto, la malinconia, talvolta la noia, una serie di sensazioni che non dovrebbero riguardare un trentacinquenne ancora nel pieno delle sue attività. Eppure… anche qui c’è un eppure, perché Morelli è intriso di consapevole tristezza e la scandaglia per comprenderla, per dare un senso a quello che sembra non averne.

Non è un romanzo questo, per lo meno non lo è nel senso tradizionale del termine: è molto di più. È un racconto di un viaggio, a volte fastidioso nel suo involversi in tortuosi movimenti, reali e non, perché mette in evidenza il nostro limite; è un nostos, perché alla fine si ritorna, sempre, anche se non è importante dove; è poesia, perché la parola si piega all’atto creativo di un fine cesellatore, che sente l’esigenza di essere poesia in ogni capitolo per spiegarsi ancora di più. Soprattutto è un percorso che Morelli fa per tutti noi, per insegnarci che siamo fallibili e che possiamo perderci, ma che, in fondo, siamo in grado di ritrovarci; e lo fa indicandoci la possibilità: “La strada è dentro di te e aspetta che ti abbandoni alla sua saggezza”. Solo abbandonarci, dunque, ci salva: alle emozioni, al nostro divenire perché solo così potremo sperimentare l’infinito nella sua essenza: inconoscibile e vero.

QUI l’articolo originale: https://www.exlibris20.it/nicola-neri-non-commettere-infinito/?fbclid=IwY2xjawNUR9FleHRuA2FlbQIxMQBicmlkETAwVmU1a1p5bmdwa0dkWGU1AR52CvmrbCaH4oFp7MhTi1Aau32wvvGftPbY7pqIfFn5-wRn02hSsdsHqMmeiA_aem_ychvnWfuKjZGIR4e53T2fA

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Un’Odissea fra macerie milanesi. Recensione a «Il cimitero delle macchine» su «Leggere:tutti»

di ALBERTO PAOLO PALUMBO

Proposto al Premio Strega 2025, Il cimitero delle macchine è l’ultima fatica letteraria di Sergio La Chiusa dopo i precedenti I Pellicani e La madre nel cassetto.

Protagonista è Ulisse Orsini, che nonostante il nome “non pare avere ereditato nulla dell’antenato illustre e si direbbe piuttosto un personaggio nella media, anzi sotto la media”.

Ulisse è un personaggio in esubero, un antieroe della postmodernità senza dèi e profezie a proteggerlo: licenziato dalla ditta presso cui lavorava e sfrattato di punto in bianco da casa sua, il protagonista si ritrova in pigiama e con in mano una valigia contenente biancheria intima a vagare per Milano, “la città delle opere” i cui palazzi di cemento addobbati con le pubblicità dei più famosi marchi di moda e aziende multinazionali sembrano promettere lusso e benessere, ma in realtà nascondono macerie di una società che mira solo al profitto lasciando indietro gli ultimi e negando loro un’idea di futuro. A far da guida al protagonista in questa grottesca wasteland metropolitana sarà Lazzaro Lanza, un imbianchino che professa la rivoluzione, ma che continua a lavorare per i potenti per poter pagare il mutuo e mantenere la propria famiglia.

Il cimitero delle macchine è raccontato da una voce narrante invadente, che costruisce e decostruisce il romanzo giocando con il lettore e le sue aspettative sulla storia che vengono sempre disattese, a riprova del fatto che Ulisse Orsini sia un uomo incapace di compiere delle scelte di propria iniziativa e dunque succube delle decisioni altrui e del flusso degli eventi.

Con grande ironia e gusto per il grottesco, Sergio La Chiusa bene illustra il fallimento delluomo contemporaneo nel cambiare le cose, incapace di guidare il cambiamento lasciando sì che siano gli altri a fare la rivoluzione per lui, pur sapendo, però, che gli altri sono guidati da uno sfrenato individualismo ed egoismo e che per tutelare i propri interessi sono disposti a rinunciare ai propri ideali.

QUI l’articolo originale sulla versione sfogliabile della rivista: https://www.sfogliami.it/fl/319403/q9tp4xztxthxgxq8eeubmtmceh6jhmd#page/40

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David Wojnarowicz tra i libri del mese – settembre 2025 di «The Vision»

David Wojnarowicz tra i libri del mese – settembre 2025 di «The Vision»

Da un saggio che analizza la nuova creator economy al memoir dell’artista statunitense David Wojnarowicz, tra fotografia e AIDS, passando per riflessioni sull’accostamento della fisica quantistica alle filosofie orientali, su come indagare la vita sottomarina ci aiuti a capire cosa significhi “vivere” e sull’Italia oltre l’immagine dell’overtourism, ecco cosa abbiamo letto a settembre 2025.

Sul filo della Lama di David Wojnarowicz (Miraggi edizioni)

“Vivere ai margini dei margini”. È così che David Wojnarowicz, artista, scrittore, fotografo e attivista statunitense morto nel 1992 a 37 anni, avrebbe descritto la sua vita. Ed è proprio in quei margini che si muove Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione, il suo memoir finalmente tradotto anche in Italia. Un testo che non è un libro ordinario, né per forma né per contenuto: è una testimonianza carnale, rabbiosa, spesso lirica, della vita ai margini, della solitudine, dell’identità queer vissuta in un contesto ostile, della crisi dell’AIDS negli anni Ottanta e dell’arte come strumento di sopravvivenza e resistenza. Wojnarowicz scrive alternando frammenti autobiografici, riflessioni politiche, visioni oniriche, sogni e incubi urbani in una struttura spezzata, non lineare, che rifiuta le forme canoniche del memoir. La disintegrazione del titolo è non solo fisica – legata alla malattia, alla perdita, all’emarginazione – ma anche narrativa: ogni tentativo di comporre una linearità viene distrutto dall’urgenza di dire, di denunciare, di ricordare. Anche la sua arte è così. Lavora con ogni mezzo: pittura, fotografia, collage, video, scrittura. Il suo immaginario è fatto di simboli ricorrenti – il volto di Rimbaud usato come maschera, uomini con la testa di toro, cartine geografiche, animali, simboli religiosi, corpi spezzati, immagini pornografiche – sempre intrecciati con riflessioni feroci su sessualità, identità, religione, capitalismo, morte.

Wojnarowicz racconta l’infanzia segnata da abusi in famiglia, la vita da sex worker adolescente, le prime esperienze sessuali vissute in un’America che criminalizza il desiderio omosessuale, le morti degli amici, la presenza costante dell’AIDS come spettro e come condanna. Non cerca né pietà né espiazione: scrivere per lui è un atto di militanza e insieme di disperata affermazione di sé. Eppure dentro questa ferita che è esistere pulsa una forma di amore profondo, per la vita, per la bellezza, per chi non ha voce. Dopo aver scoperto di essere sieropositivo, trasforma il corpo malato in uno strumento di denuncia. Attacca frontalmente l’omofobia istituzionalizzata, il silenzio del governo Reagan, la complicità della Chiesa e delle case farmaceutiche. Usa l’arte come forma di lotta, con performance e opere che gridano indignazione, pietà, furia. Il suo diario personale, infatti, si fa eco di urgenze ed esigenze collettive, in cui l’arte, soprattutto, non è solo denuncia ma anche cura, alleanza, gesto di connessione, tentativo disperato ma tenace di spezzare l’isolamento del singolo. “Trasformare il privato in qualcosa di pubblico è un’azione che ha ripercussioni enormi nel mondo preconfezionato”, diceva. E aveva ragione, lo è ancora oggi.

QUI l’articolo originale: https://thevision.com/cultura/consigli-libri-settembre-2025/

Recensione-Intervista a «il cimitero delle macchine» su Il Posto delle Parole

Recensione-Intervista a «il cimitero delle macchine» su Il Posto delle Parole

di Livio Partiti

Giocando con le regole del patto tra narratore, personaggio e lettore, La Chiusa prende un’esistenza fittizia e anodina, per quanto emblematica, un personaggio da romanzo – Ulisse Or­sini – e ci invita a osservarlo da vicino: un soggetto improduttivo, in esubero, ossessionato dalla propria sensazione di illegittimità; uno che ha perso il lavoro e si rintana in casa, riducendosi a sgattaiolare sul pianerottolo per non incontrare i rispettabili condomini. Lo colloca in una metropoli nei primi anni Duemila, riconoscibile eppure fantastica, un cantiere interminato, coerente solo nella propria vocazione di «città della moda e degli eventi»; e lo segue nella sua tragicomica odissea urbana, attraverso paradossali ambulatori e ospedali simili a penitenziari, per vie ridotte a scarni residui dello sfruttamento economico, finché giunge – in mutande e con una valigia piena di biancheria – in una discarica dell’hinterland. Qui, nel cimitero delle macchine, tra i reietti accampati in mezzo a rottami e carcasse d’auto, Ulisse conosce Lazzaro Lanza, un imbianchino con aspirazioni messianiche, che lo trascina nelle azioni del suo movimento rivoluzionario (e nei suoi lavori di tinteggiatura). Il sardonico avvicendarsi di sipari architettato dall’autore rivela tutta l’assurdità del mondo contemporaneo e registra l’inesausto stato di tensione tra l’insostenibilità del reale e la fuga nell’immaginazione. Una tensione che ingabbia Ulisse e gli altri personaggi del romanzo, facendone le nostre grottesche controfigure.

Sergio La Chiusa è nato a Cerda (PA) il 23 settembre 1968 e vive a Milano. Ha pubblicato nel 2020 il romanzo I Pellicani. Cronaca di un’emancipazione (Miraggi), finalista nel 2019 al Premio Italo Calvino, dove ha ricevuto la Menzione Speciale Treccani per l’originalità linguistica e la creatività espressiva, e nel 2021 al Premio nazionale di narrativa Bergamo, al Premio Giuseppe Berto e al Premio Fondazione Megamark. Nel 2023 ha pubblicato il racconto lungo Madre nel cassetto (Industria & Letteratura) e nel 2024 il romanzo Il cimitero delle macchine (Miraggi). In poesia ha pubblicato nel 2005 la plaquette I sepolti (Lietocolle), finalista Premio Montano 2006, e l’e-book Il superfluo (E-dizioni Biagio Cepollaro). Suoi testi sono presenti su riviste e blog culturali, tra cui “Nazione Indiana”, “Le parole e le cose”, “Il primo amore”, “L’Ulisse”. Ha partecipato a pubbliche letture e iniziative culturali, tra cui RicercaBO.

Ascolta il podcast:

«L’affaccio su un infinito fuori», recensione di «Sul filo della lama» su labottegadelgiallo.com

«L’affaccio su un infinito fuori», recensione di «Sul filo della lama» su labottegadelgiallo.com

di CAROLA ALLEMANDI

Credo che per molti la fotografia abbia un significato sotterraneo, potremmo dire inconscio: cercarsi sapendo già di non potersi trovare da nessuna parte. In altri termini, attraverso la fotografia riconoscere quella parte di sé che sappiamo essere intoccabile, diciamo anche inavvicinabile. Attrezzarsi con la propria macchina fotografica, innestare l’obiettivo, è anche rendersi conto di tutto quanto la legge dell’ottica, per quanto sofisticata, non riuscirà mai a raggiungere: e lì forse saperci.

Ogni obiettivo fotografico, come l’occhio umano, oltre un certo limite non può vedere, né mettere bene a fuoco. Per quanto aiuti ad arrivare dove la vista non può, a ingrandire quel che vedremmo troppo piccolo e indistinto, nel troppo vicino o nel tanto lontano, esistono ostacoli strutturali coi quali dover fare i conti. Per questo motivo è bene prendere coscienza fin dal principio di ciò che sappiamo già essere l’impossibile fotografico, ovvero guardarci davvero.

L’artista David Wojnarowicz scriveva nel suo libro-testamento “Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione” (edito recentemente da Miraggi Edizioni nella traduzione di Chiara Correndo) pressappoco che l’immagine che si forma nel centimetro tra il nostro pollice e l’indice guardando l’orizzonte (il lontanissimo) ha la stessa intensità di quella che vediamo di fronte a noi; il gioco delle distanze nella vista si annulla o comunque ci si può giocare, e questo la fotografia lo sa da sempre. Quando scegliamo la distanza da cui inquadrare, l’ottica attraverso cui guardare il mondo, e le porzioni che ci basterà che ci mostri per poter formulare il nostro messaggio, sappiamo che non potrà essere detto tutto, mostrato tutto e quindi noi saremo solo in parte rappresentati da quello che emergerà nell’immagine. Proprio perché la fotografia si misura nella distanza che crea tra l’occhio e il soggetto, ci dice anche il proprio opposto, tutto ciò a cui non potrà mai giungere.

Forse è qui che va individuato lo specifico della fotografia: non tanto nella sua resa formale, ma nelle possibilità del suo vedere; se ogni altra arte ci chiede ciò che possiamo vedere da soli, la fotografia ci chiede cosa ancora non vediamo in tutto ciò che l’ottica ci offre e ci rende d’un colpo vicino e raggiungibile nei suoi minimi dettagli. Yves Bonnefoy, in “Poesia e fotografia” (Obarrao Edizioni, 2014) si rivolgeva al concetto del caso, dicendo che la fotografia ci mostra la casualità con cui gli elementi del reale si dispongono (le forme dei ciottoli, le pieghe dei tessuti), senza che si possa attuare alcun controllo volontario o cosciente sulla forma che assumono; in effetti la mano del pittore è possibile che sia tentata di aggiustare o dire la propria su come le cose si presentano. Ma la fotografia ha a che fare con la visione ed è lì che va cercato il suo minimo comune multiplo, ovvero nella frustrazione che ci fa attrezzati scrutatori di fenomeni che non possono toccarci, tantomeno rivelarci a noi stessi. Forse.

Ancora Bonnefoy vedeva nella fotografia l’affaccio su un infinito fuori, e proprio in questo suo tenderci costantemente all’esterno, sull’infinito esterno visibile, raggiungibile coi sensi e con l’ottica, la fotografia (nonché il fotografo) consuma il proprio nodo irrisolvibile: quello che la vuole cacciatrice ma spesso senza vera preda; osservatrice distratta di mondi che se anche ci somigliano raramente ci corrispondono. Quando molti ritrattisti (o fotografi in generale) dichiarano di vedere sé stessi nei volti che immortalano, è bene pensare invece quanto resti fuori, lontanissimo; ben più nascosto di quanto possa essere racchiuso tra l’indice e il pollice.

QUI l’articolo originale: https://www.labottegadelgiallo.com/recensioni/leditoriale-della-domenica-17/

«Sul filo della lama » tra i libri del mese di «Rivista Studio»

«Sul filo della lama » tra i libri del mese di «Rivista Studio»

di Clara Mazzoleni

Nel 2018, in occasione di un’importante mostra al Whitney Museum a lui dedicata, avevo scritto un articolo sulla riscoperta di David Wojnarowicz, avvenuta forse anche per merito di Olivia Laing, che nel suo bellissimo libro Città sola, uscito nel 2017, dedicava alla difficile vita dell’artista e alle sue opere alcune delle pagine più belle.

Oltre che per i suoi film (uno appena proiettato al MoMA nella sua rassegna di cinema queer) e per le sue opere tra fotografia e perfomance (ad esempio la bellissima serie degli anni Settanta “Arthur Rimbaud in New York”, che ritrae i suoi amici mentre girano per la città indossando una maschera che riproduce il famoso ritratto del poeta, caricando così di eternità, mistero e poesia quelle che erano le loro attività quotidiane), Wojnarowicz è l’autore di un piccolo e potente libro, Close to the Knives: A Memoir of Disintegration, un “memoir” pubblicato nel 1991, un anno prima della sua morte per Aids, che in realtà è una raccolta di testi molto diversi tra loro scritti con un tono mutevolissimo – delirante, erotico, umoristico, ingenuo, feroce, malinconico – in cui l’artista prova a catturare i momenti più intensi della sua vita e della New York sporca e oscura in cui trascorreva le sue giornate e, soprattutto, nottate. Oggi finalmente questo libro arriva in Italia grazie a Miraggi edizioni, con un’introduzione di Chiara Correndo, che l’ha tradotto, e una postfazione di Jonathan Bazzi. Parlando degli anni in cui Wojnarowicz scrisse Sul filo della lama, Correndo scrive: «Dietro gli schermi che i media e le istituzioni ogni volta srotolano e su cui proiettano il film di un’America bianca, ricca, imperialista, cristiana ed eterosessuale, ci sono i cadaveri impilati dei morti per Aids, le popolazioni ridotte alla fame dalla politica imperialista statunitense, i suicidi dei giovani e delle giovani omosessuali che si vedono negato ogni spazio di esistenza, la violenza della polizia». Per fortuna oggi alcune cose sono cambiate, ma l’atmosfera non sembra poi così diversa. E infatti Wojnarowicz continua a parlare agli artisti di oggi: la locandina del nuovo film di Ari Aster, Eddington, è una sua opera, la stessa usata dagli U2 nel 1991 per il loro singolo “One”. 

QUI l’articolo originale: https://www.rivistastudio.com/libri-luglio-2025/

Sergio Garau: la poesia è un coltello. Recensione su «Il Fatto Quotidiano»

Sergio Garau: la poesia è un coltello. Recensione su «Il Fatto Quotidiano»

di Lello Voce

Risolza è il nome di un coltello. Un coltello a serramanico, sardo.
Sardo come l’autore – Sergio Garau – di questo eccezionale libro di poesia, risolza, appunto (miraggi ed.).

Perché sia eccezionale è presto spiegato. Intanto perché è un’eccezione nel percorso poetico, ormai quasi trentennale, che lo ha fatto conoscere in tutto il mondo, ma non attraverso la carta di una qualsiasi pubblicazione, bensì in carne ed ossa (e voce, e gesti).
Questo, infatti, è il primo libro di Garau, anche se da decenni Garau viaggia nel mondo, per fare Poetry slam, o per improvvisare letture nei luoghi più impensabili, per partecipare a festival, rassegne, o a qualsiasi azzardo poetico riesca a tentarlo: dall’Isola di Pasqua a Berlino, Parigi, Madrid, da Stoccolma a tutto il Sud America, all’Africa, all’Asia.

Garau spunta ovunque. Sorride sotto il cappello ed inizia una delle sue indimenticabili, travolgenti performance.

È una poesia atletica e prossemica, la sua, che abita alla perfezione lo spirito slam, ma che ancor prima incarna, fino in fondo, rinnovandola, la tradizione della Poèsie Action. Garau corre, gesticola, salta, senza trasformarsi mai in un clown, anzi facendo del suo corpo un arco teso che scaglia parole a volte strabilianti, che abbraccia storie inquietanti e iperboliche, che calcia e pugna ingiustizie e orrori, che carezza dolori.

Questo è Sergio Garau: la poesia come corpo e come suono. Come azione, per l’appunto.

Chi avesse dei dubbi potrebbe sfatarli leggendo la poesia che apre risolza, una dichiarazione di poetica che non ammette replica: Accendere la pagina. Avviare il testo. / Sfilare le trame e affilare le lame/ (…) / percorrere il confine tra le lingue – l’unico che si può attraversare / senza correre il rischio di farsi sparare – . / Entrare da soli in una guerra cibernetica. / Prendere un virus e determinare la diagnosi / esaminando la radiologia fonetica.

Già, perché ogni viaggio di Garau è un viaggio linguistico: come altri visitano musei e cercano panorami, boschi, laghi, mari, montagne, lui esplora le lingue, alla ricerca della loro radice sonora comune, le divora e le risputa fuori in forma di poesia. Dal vivo ed ora anche sulle pagine di un libro sbalorditivo, in cui tutte queste lingue convergono, confliggono, si amano e si detestano, si cacciano e si seducono: italiano, sardo, inglese, svedese, tedesco, bulgaro, russo, greco, arabo, spagnolo, francese, oltre a quelle che inventa lui, mettendo tutto a frullare insieme.

Garau non traduce i suoi testi per l’audience straniera, tra-duce (trasporta e tradisce) se stesso in ogni nuova lingua e la sua poesia è dunque eminentemente intraducibile. Non ha bisogno di alcuna traduzione, solo di un ascolto schietto e di attenzione. Poi a tutti sarà evidente come quella lingua – pur non essendo la sua – è certamente anche la sua.

Forse perciò a me un libro tanto cosmopolita ha dato da subito l’impressione di essere assolutamente sardo. Intimamente sardo.

Ma nonostante tutto questo, pur nel centro della Babele, le poesie di Garau sono chiarissime, evidenti, esplicite, quando riflettono sulle perversioni della cibernetica, o denunciano lo scandalo del poligono militare di Quirra, quando parlano d’amore, o riflettono sulla natura e sul cosmo, o invece ironizzano, taglienti, sui cliché e sui luoghi comuni della nostra quotidianità.

Perciò questo libro è un coltello. È un libro aggressivo, politico, scandaloso. Fatto apposta per spaventare il suo lettore. Sia nelle sue forme che nei suoi contenuti. Ma è anche, prima di tutto, un fossile. Come e più di qualunque altro libro di poesia.

Le pagine di risolza conservano il calco di qualcosa che è stata voce viva, respiro, gesto. Ne recano traccia, ci offrono la forma alfabeticamente immobile e cava di una dinamica sonora ormai già svanita. Ma di questo fluire il testo porta traccia evidente, non solo in forma di insetto catturato nella giada, ma come testimonianza geologica del passaggio della lava vulcanica.

I testi si susseguono a strati, ininterrotti: a volte si fronteggiano, ma quella che all’apparenza sembrava una traduzione a fronte di un testo in una o più lingue straniere, si rivela, un attimo dopo, una digressione che tesse una nuova tela di parole, o invece un’impronta imperfetta in cui sopravvivono solo gli intraducibili nomi propri, persi in una costellazione di segni d’interpunzione, di tracce del silenzio tra le parole. E ai testi si affiancano le icone, le translitterazioni, i segni diacritici, i simboli digitali. E tutto sta insieme perfettamente. Lo spazio non è mai soltanto quello della frase, ma sempre quello della pagina.

In questo libro si fa poesia persino con la lista dei ringraziamenti, con la nota dei ‘debiti’ letterari, o con le strane stringhe alfanumeriche che a volte fanno capolino a piè pagina, enigmatiche e inquietanti.
risolza insomma è anche un libro-oggetto, un’opera di poesia concreta. Definirla una raccolta di poesie sarebbe imperdonabilmente superficiale e ingiusto.

E questo libro, che in effetti non è un libro, ma qualcosa di radicalmente diverso da ciò che si intende con la parola libro, qualcosa che andrebbe eseguito, o guardato, prima che letto, è il libro di poesia più importante, bello, convincente e necessario pubblicato quest’anno in Italia. Vi conviene procurarvelo, perché scommetterei che difficilmente l’autore ne pubblicherà altri nel prossimo ventennio.

QUI l’articolo originale: https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/08/30/sergio-garau-la-poesia-e-un-coltello/8104009/

Intervista a Enrico Pastore con «Che peccato essere una curiosità» sul podcast «Il Posto delle Parole»

Intervista a Enrico Pastore con «Che peccato essere una curiosità» sul podcast «Il Posto delle Parole»

di Livio Partiti

Tra bravura, bellezza e avanguardia, le dive della belle époque come modelli di lotta ed emancipazione.

Per l’immaginario maschile, tra Otto e Novecento, attrici e danzatrici erano oggetto di attrazione e repulsione, di fascino e di orrore. Per le donne invece erano un modello di forza, di grazia, di bellezza, di successo e libertà. Durante la Belle Époque il teatro era il media più influente e di maggior diffusione e nella figura e nel corpo della diva si andava definendo la nuova immagine della donna ben lontana dal sofferente e languido angelo del focolare caro alla società patriarcale.
Le vite e le opere di Sada Yacco, Cléo de Mérode, Edith Craig, Valentine de Saint-Point e Emmy Hen­nings non ci raccontano solo dell’effervescenza avanguardista del modernismo, ma anche delle lotte delle donne per affermarsi con un ruolo attivo nella società. Averle marginalizzate o persino rimosse dalla storia ufficiale ha significato dimenticare quelle battaglie da cui è sorta la donna moderna. Riportarle alla memoria non ci ricorda solamente che il teatro non è stato riformato solo dai “padri della regia”, ma anche quanto delle donne di oggi è debitore delle lotte delle dive di quel tempo lontano.

Enrico Pastore (Stresa 1974), ha svolto periodi di formazione con registi come Pippo Delbono, François Tanguy (FR), Jakob Shokking (DK), Fernando Dacosta (SP). Regista e direttore della Compagnia DAF fondata nel 1998. Dal 2006 al 2011 è stato direttore operativo degli Incontri Cinematografici di Stresa. Dal 2012 al 2018 ha scritto sulle pagine di «Passparnous», «web revue of art», come critico di spettacoli di teatro e danza. Nel 2017 è stato co-curatore con Ambra Bergamasco e Edegar Sterke del MovingBodies Festival di Torino. Oggi scrive su «Rumor(s)cena».

QUI l’articolo originale: https://ilpostodelleparole.it/libri/enrico-pastore-che-peccato-essere-una-curiosita/

Recensione di Torino Filmopolis su «Italy for Movies»

Recensione di Torino Filmopolis su «Italy for Movies»

di Monica Sardelli

In Torino Filmopolis. Dentro i film la Città, il volume scritto da Giorgio Scianca con Alessandra Comazzi per Miraggi Edizioni, il capoluogo piemontese torna ad essere patria della settima arte.

Ispirato da Italo Calvino, l’architetto appassionato di cinema mescola in questo libro il suo lavoro e la sua passione: ne viene fuori un’originale guida della città, suddivisa in quattro stagioni, a cui corrispondono 458 film, che riscrive la storia del cinema torinese attraverso strade, piazze, ponti, giardini e parchi sempre più spesso utilizzati come set. Ogni angolo è un fotogramma e la sensazione è quella di passeggiare in luoghi familiari anche per chi non conosce la città.

Una ricerca approfondita – attraverso siti italiani, stranieri e locali, gli archivi in rete dei giornali, i titoli di coda, i trailer e le foto di scena e i social – che si completa con un QR code tramite cui si approda all’elenco completo dei film esaminati, con trailer e clip, in un continuum tra parole scritte e immagini.

L’estate

Ad ogni stagione i suoi luoghi…e i suoi film: Scianca parte con l’estate, la stagione più cinematografica dell’anno, grazie alla sua luce, ai colori, ai contrasti.

Torino viene definita città trasformista, che interpreta se stessa ma può facilmente trasformarsi in altro: è stata Milano, Roma, Parigi, Sarajevo, Zurigo, Monaco di Baviera e addirittura New York. Lo stesso avviene per i suoi luoghi nevralgici. il Po, protagonista di una cinquantina di pellicole, è stato, tra gli altri, la Senna o il Tevere (Fast x) o la Miljacka di Sarajevo (The King’s Man – Le origini), ma anche il Tamigi, il Neman, la Limmat etc.

L’estate è l’occasione per parlare, attraverso il cinema, di architettura radicale, degli elementi che compongono i palazzi più rappresentativi della città: dai mattoni dello scenografico palazzo Carignano, al ferro usato originariamente a copertura di diversi punti e poi riutilizzato a servizio dell’industria bellica, fino al vetro della “Bolla” comparsa del 1994 nello skyline della città, sopra la storica fabbrica Fiat del Lingotto. E poi ci sono i tetti, che, a partire dalla Mole Antonelliana, forniscono, a varie altezze, tanti punti di osservazione per ammirare Torino dall’alto.

Il cinema permette anche di “fotografare” luoghi che non esistono più o mostrarne la trasformazione nel tempo, come il parco Dora, un tempo sede degli stabilimenti della Fiat, oggi testimonianza di archeologia industriale. O di testimoniare la trasformazione urbanistica di centro e periferie, come ci mostra la cinematografia recente (Anywhere anytimeLa chiocciolaConfidenza).

Nella bella stagione rientrano anche i parchi, come il Valentino, capace di un viaggio nel tempo unico nel suo genere e ispiratore di tanto cinema, e la musica, colonna sonora imprescindibile delle immagini in movimento.

L’autunno

L’autunno segue l’estate con i suoi colori, i mercati e la sosta nelle piazze. Qui è la stagione del cinema, quello girato e quello proiettato. La storia del cinema passa anche per la storia delle sale cinematografiche, delle loro trasformazioni, cambio di destinazione e denominazione per rispondere alle esigenze delle epoche storiche che oltrepassano, immortalate più volte dalla macchina da presa.

Tra i luoghi più rappresentativi della cinematografia, le piazze hanno un punto di vista privilegiato. Sono più riconoscibili di altre location e a Torino coincidono spesso con i mercati. Il più noto, ma non l’unico, quello di Porta Palazzo, immortalato più volte e in vari momenti, con la nebbia mattutina (in Mimì metallurgico ferito nell’onore), o a fine giornata, quando si consuma il rito della raccolta degli scarti. Scianca dedica un capitolo a ciascuna delle piazze più significative, più o meno riprese dal grande cinema: piazza Carlo Alberto, piazza Carignano, piazza Carlina, piazza Solferino, piazza Bodoni, ciascuna con la sua fisionomia, i palazzi che vi affacciano, una o più storie da raccontare.

L’inverno

L’inverno, la stagione fredda, dal tempo incerto, in cui si transita sotto i portici, o in galleria, nel tram – di cui il cinema ci restituisce i percorsi storici e la storia dei percorsi – al Museo del Cinema, allo stadio, ad ammirare luci e luminarie. All’inverno Scianca associa gli spazi militari, come la Caserma Pietro Micca, recentemente vista nella fiction Il nostro Generale, dedicata a Carlo Alberto Dalla Chiesa o in L’eroe della stradacon Erminio Macario. Esistono alcuni luoghi nevralgici, come le gallerie, che il cinema, specie quello d’azione, ha amato molto. Come non ricordare galleria San Federico, “profanata” per la prima volta sul grande schermo nel 1969 dalle tre famose Mini Minor di Un colpo all’italiana, o quel labirinto stratificato di galleria Umberto I, immortalata negli anni da Antonioni, Argento, Scola  e più di 20 registi.

All’inverno appartengono anche, nell’immaginario del regista, piazza CLN, indissolubilmente legata a Dario Argento, e la Mole, che compare in tutte le pellicole che vogliono localizzarsi a Torino, ripresa più volte da Davide Ferrarioche addirittura ambienta nel museo del cinema al suo interno Dopo mezzanotte.

La primavera

La primavera è la stagione della rinascita, dei parchi, dei giardini, dei fiumi, delle passeggiate, delle letture alla luce naturale. Torino è la città italiana più ricca di verde pubblico e il cinema non poteva non notarlo. È anche l’occasione per ricordare quanto Torino sia legata ai libri e alla letteratura (ne è testimonianza il Salone del Libro), così come ai film tratti da libri o fatti di cronaca e tutte le volte che librerie storiche (a volte scomparse) sono rivivono tra i fotogrammi.

***

Nel 2020, in occasione del ventennale della Film Commission, Italy for Movies e Film Commission Torino Piemonte hanno dedicato ai principali set della città un suggestivo itinerario, Girando per Torino.

QUI l’articolo originale: https://www.italyformovies.it/news/detail/2674?fbclid=IwQ0xDSwMCga1jbGNrAwGyRGV4dG4DYWVtAjExAAEepYHu_Jba1_nX8rFrUrnEhu2WHHtk6VXMCtFgCAzI3Se_G3eskzSpOHed1h0_aem_mzBNvgk0bsHliGYK9t-Crw/torino-filmopolis-dentro-i-film-la-citta-cinema-e-architettura-nel-libro-di-giorgio-scianca

3 panini dal «Mangialibro» al «Cimitero delle macchine»

3 panini dal «Mangialibro» al «Cimitero delle macchine»

di Massimiliano De Conca

Il bigliettino compare all’improvviso: “Provi a farsi vedere, è gratis!” con tanto di indicazioni del dottor Guido Klammermann, specialista, internista, immunologo, medico a tutto tondo. In effetti da un po’ di tempo Ulisse Orsini soffre di disturbi vari, soprattutto incubi molesti che gli impediscono di riposare come si dovrebbe. Sono tante e forse sono ovvie le ragioni del suo malessere: vive in un quartiere periferico di Milano, in via Giambellino, ed è disoccupato, diciamo che la vita non gli sorride e che questa sua precarietà gli porta ansia. Necessario dunque un urgente consulto medico. Lo studio del dottor Klammermann si trova in uno dei tanti palazzi in ristrutturazione di un’altra periferia degradata: un palazzone anonimo, senza tanti fronzoli, che non richiama nessuno stile architettonico specifico. Ulisse si incammina nell’androne e comincia a salire le scale, ma può solo ipotizzare che lì ci sia uno studio medico, visto che non ci sono targhette, indicazioni, regna piuttosto la polvere tipica di un edificio in stato di abbandono. Dalle scale fioccano piume: lo scenario è quasi inquietante, ma Ulisse non si lascia andare e prosegue finché non incontra su un pianerottolo una serie di malati che si accalcano fra materassi, sedie a rotelle. I pazienti sono caoticamente in fila, qualcuno seduto, qualcuno in piedi, tutti che si raccontano di un dolorino, un’artrite, una pressione strana sullo sterno. Finalmente appare una segretaria del dottor Klammermann che soccorre lo smarrito Ulisse chiedendogli però di prendere il numerino: anche in quel caos ci vuole un numero, c’è una progressione. Ulisse procede fra i malati finché non incappa in un paziente che ha una crisi: si sbraccia, chiede aiuto, ma viene bloccato dagli altri pazienti che gli urlano contro perché li sta disturbando. E poi Klammermann non è in studio, è un incompetente e non si presenta mai allo studio. Ulisse è in preda al panico, non gli resta che scendere velocemente in strada e dileguarsi nelle rovine della sua città…

Dopo una felice esplorazione del rapporto con il padre (I pellicaniCronaca di un’emancipazione, Miraggi 2019) e di quello con la madre (Madre nel cassetto, Industria & Letteratura, 2023), Sergio La Chiusa si dedica alla ricognizione della figura del figlio, ovvero del giovane. Il cimitero delle macchine è infatti la storia di un’odissea urbana, quella di Ulisse Orsini, appunto, nome che richiama tanto il protagonista del testo omerico, che Leopold Bloom di James Joyce. In effetti è la storia della peregrinazione di un giovane fra le macerie di una Milano periferica e precaria, ovvero fra le proprie ansie, le paure, ma anche le aspirazioni e le illusioni ormai sfumate. Ulisse è un disoccupato, è un emarginato di una società decaduta afflitta dal male di vivere, occupata a trovare Sergio La Chiusa lavora sul confine fra letterario e metaletterario: il suo testo è infarcito di citazioni implicite ed esplicite di modelli dialogici e visivi, come la plastica ripresa del Cristo che entra a Milano ricalcato su quello di James Ensor che entra a Bruxelles. La Chiusa vuole proprio che il suo romanzo sia un macrotesto che richiama altri autori, altre immagini, altri romanzi. Il tutto strizzando l’occhio al lettore, che viene spesso richiamato e rimesso in situazione: la narrazione per questo oscilla dalla terza persona alla prima persona, dal narratore onnisciente al punto di vista di Ulisse. Romanzo visionario e post-moderno, rompe diversi schemi anche se diventa quasi vittima, per converso, di una sorta di manierismo da canone inverso. Il plot narrativo decadente è una evidente metafora di una società a brandelli che si concretizza, in perfetto richiamo simbiotico, a metà via fra lo sguardo di Ulisse e il susseguirsi di situazioni post-apocalittiche.

QUI l’articolo originale: https://www.mangialibri.com/il-cimitero-delle-macchine