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Straordinarie avventure nella cucina balcanica – Eric Gobetti recensito su «L’Indipendente»

Straordinarie avventure nella cucina balcanica – Eric Gobetti recensito su «L’Indipendente»

di Raffaele Calvanese

I cevapčići sono delle polpette di carne tipiche della cucina balcanica caratterizzate da un sapore speziato e deciso, ideali anche per una grigliata!

Così recita uno dei più importanti siti di cucina quando parla del famoso piatto a base di carne tipico della penisola balcanica che è l’ambientazione sullo sfondo delle Straordinarie avventure del professor Toti nel mondo dei cevapčići, primo romanzo dello storico Eric Gobetti. Con il suo libro (edito da Miraggi) Gobetti ritorna nel territorio Jugoslavo, da sempre suo terreno d’elezione per la produzione saggistica (che gli ha causato anche strumentalizzazioni politiche), usando l’ espediente culinario.

I palinsesti televisivi sono ormai invasi dai programmi di cucina, e il protagonista del libro, il Professor Toti, borsista dell’Università di Camerino in “storia dell’alimentazione” viene incaricato da uno di questi programmi di realizzare uno speciale proprio sulla penisola balcanica. Comincia così, in modo quasi inaspettato, un road book che da Bari porta il nostro eroe a risalire tutta la costa Balcanica attraversando mille peripezie e dovendo fronteggiare continui cambi di programma sulla tabella di marcia per assecondare l’instabilità morfologica del territorio e le insidie logistiche proprie dei diversi luoghi che si dipanano dal Montenegro fino a Sarajevo.

La cucina, il cibo, le ricette sono un linguaggio che permette di svelare agli occhi del lettore le mille peculiarità storiche e sociali del territorio martoriato dalla guerra civile degli anni ’90. A quella guerra, chi è sopravvissuto, sovrappone pensieri, idee, rimpianti e antichi dolori. Uno su tutti è quello che vede il protagonista somigliare incredibilmente al Maresciallo Tito, non a caso in copertina troviamo un’immagine del maresciallo con tanto di cappello da Chef.

Il viaggio del professor Toti, si ammanta anche di mistero dal momento che un suo mentore lo incarica di svelare una volta per tutte la leggenda legata al più antico ricettario di cui la letteratura abbia memoria, risalente addirittura ai tempi della scoperta dell’America. Il suo autore, infatti, Solomon Amerovic, sarebbe uno dei componenti della storica spedizione poi riparato nei Balcani.

Come se non bastasse, nel libro di Gobetti, condensato nelle sue novanta pagine, troviamo anche una storia d’amore che lega il sessantenne protagonista a una donna di Sarajevo che durante la fase più acuta del conflitto in Jugoslavia era venuta in Italia a studiare. Alma, infatti, è presente quasi dalla prima pagina nella mente del protagonista che punta a Sarajevo prima di tutto per provare a riallacciare i rapporti con la donna di cui si era innamorato, e mai dichiarato, ai tempi dell’università negli anni ’90.

La scrittura di Gobetti trova i suoi momenti migliori negli spassosi dialoghi tra il protagonista e la vasta fauna di personaggi per lo più improbabili che si incontrano lungo la strada. Il ritorno a Sarajevo, tramite il grimaldello della tradizione culinaria, ci svela una società multiculturale, attraversata da vettori storici e religiosi che affondano le loro radici in secoli lontanissimi. Il sincretismo con l’impero Ottomano contrapposto alle forze centrifughe del centro Europa creano una società in continuo movimento. Non si può tentare di fotografare la penisola Balcanica senza rischiare di averne un’immagine mossa.

Gobetti, da profondo conoscitore della storia dei nostri vicini di casa, riesce tramite una storia piccola a restituirci un quadro molto preciso di cos’è l’Ex Jugoslavia di oggi. Ed è questo che fa la letteratura, entra nella storia con la esse maiuscola grazie a piccoli personaggi, fondamentali a comporre il quadro generale. Degna di nota è anche l’appendice finale con un piccolo ma nutrito ricettario di molte delle pietanze nominate nelle pagine del libro.

QUI l’articolo originale: https://www.lindiependente.it/straordinarie-avventure-cevapcici/

David Wojnarowicz, una lucida visionarietà – «Sul filo della lama» recensito dal «manifesto»

David Wojnarowicz, una lucida visionarietà – «Sul filo della lama» recensito dal «manifesto»

di Silvia Nugara

GEOGRAFIE «Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione», un memoir dell’artista e scrittore morto nel 1992 di Aids

Uscito per la prima volta negli Stati Uniti nel 1991 e ora edito in italiano con il titolo Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione, Close to the Knives di David Wojnarowicz (Miraggi editore, pp. 364, euro 24, traduzione e prefazione di Chiara Correndo, postfazione di Jonathan Bazzi) è un mémoir sui generis in cui l’artista nato a Red Bank (New Jersey) nel 1954 e morto di Aids nel 1992, a soli 37 anni, sperimenta diverse forme di scrittura: dall’introspezione diaristica al manifesto, dai frammenti onirici al reportage, dall’intervista all’invettiva politica. Come se si misurasse con le potenzialità creative di uno strumento, l’artista statunitense pratica i diversi registri della parola alla ricerca di una forma con cui dare un senso, quanto più possibile trasformativo, al proprio vissuto.

Cresciuto in una disperata marginalità, con un padre abusante morto suicida quando lui era bambino, Wojnarowicz è stata una delle figure più originali e radicali della scena del Lower East Side newyorkese degli anni Ottanta. Fotografo, pittore, scrittore, attivista e testimone dell’epidemia di Hiv, scrive a partire da un corpo attraversato da dolore e desiderio, con una lucida visionarietà che tenta di resistere alla violenza e all’annientamento. Si era formato da autodidatta nella New York post-punk, praticando varie discipline che gli avevano permesso di combinare fotografia, collage, pittura, stencil, musica e scrittura per dare forma a un’estetica del tutto personale, con immagini-simbolo come la casa in fiamme o quei bufali che franano giù da una scarpata scelti dagli U2 per la copertina del singolo One. Animatore di numerosi progetti collettivi, dal 1983 Wojnarowicz aveva contribuito a trasformare alcuni spazi abbandonati lungo il fiume Hudson, in particolare il Pier 34, in luoghi in cui oltre a fare sesso occasionale si produceva ed esponeva arte. Attivista vicino ad Actup negli anni dell’epidemia, utilizzò ogni mezzo per denunciare la repressione del dissenso arrivando perfino a farsi fotografare con le labbra cucite per manifestare contro l’equazione silenzio=morte.

LO SGUARDO DI OPERE come la serie Arthur Rimbaud in New York, si traduce nel testo in una lingua tenera eppure tagliente: «Vivevo per strada e vendevo il mio corpo a chiunque fosse interessato. Gironzolavo in un quartiere che era così affollato di barboni che non ricordo nemmeno come fosse l’architettura dei palazzi.

Io almeno potevo distendere le gambe e rimediare un tetto sopra la testa, mentre tutte queste persone per strada avevano raggiunto il punto in cui il loro corpo e la loro anima non interessavano a nessuno se non a loro stessi».

Wojnarowicz si osserva con un occhio «fuori di sé» e uno «dentro di sé»: la sua è una scissione percettiva spesso innescata dall’uso di sostanze che diventa però strategia esistenziale. Lo si percepisce per esempio nei vagabondaggi che intraprende nel deserto dell’Arizona alla ricerca di una distanza dalla metropoli dolente, abbandonandosi a derive allucinatorie che aprono squarci di tregua e di connessione con corpi e anime di passaggio.

Come per Burroughs, che nel saggio introduttivo la traduttrice cita come riferimento estetico-poetico del libro, la droga non è tanto una via di fuga dalla realtà, ma strategia di sopravvivenza e, ancora di più, viatico per forme più profonde di conoscenza. La prosa mai pietistica si fa strada dalla soglia del baratro in cui langue un’umanità che è derelitta non per destino ma come esito di meccanismi sociali scientemente discriminatori. Nei suoi «raggi X dall’inferno», Wojnarowicz denuncia gli Usa che chiama «nazione monotribale», governata da un’ideologia cannibale che annienta tutto ciò che è altro.

LE SUE IMMAGINI apocalittiche, con quei «mucchi di carne marcia» che costellano il paesaggio urbano, portano alla luce la violenza della politica e la corruzione del linguaggio televisivo («non sottovalutare la pericolosità del politico alto trenta centimetri»), la brutalità della Chiesa, il proliferare sistematico della paura e dello stigma: «Il nemico è ovunque: nel corpo, nella razza, nella classe, nel governo, nella cultura, nel sistema giudiziario, nei media». La scrittura immaginifica delle pagine più biografiche si fa asciutta e documentata nelle analisi sociali su cui incide la volontà di lasciare una traccia oltre la morte. La denuncia delle politiche governative colpevoli nei confronti delle persone affette da Hiv/Aids risuona attuale nonostante il virus oggi non si presenti più in forma pandemica nei paesi ad alto reddito. Però, i tagli inferti ultimamente dall’amministrazione Trump ai fondi federali per la ricerca biomedica con in più il congelamento del sostegno ad agenzie di cooperazione internazionale come Usaid (United States Agency for International Development) avranno conseguenze dure. I finanziamenti statunitensi rappresentano, infatti, una parte cospicua delle risorse che in oltre cinquanta paesi del mondo permettono la diffusione delle cure antiretrovirali e della profilassi pre-esposizione da Hiv (PrEP). L’Unaids, organismo delle Nazioni Unite per il contrasto all’Hiv, ha addirittura fatto sapere che al momento è compromesso il piano che ambiva a porre fine all’infezione da Hiv entro il 2050.

Nel suo studio appena uscito in Francia con il titolo Une histoire mondiale du sida. 1981 – 2025, Marion Aballéa aiuta a fare il punto della situazione e a comprendere le dinamiche culturali, sociali ed epidemiologiche che hanno caratterizzato dagli anni Ottanta ad oggi il fenomeno Aids. All’alba di una svolta epocale, la ricerca scientifica e la cura potrebbero subire una drammatica battuta di arresto. Ecco dunque che l’opera di figure come Wojnarowicz non permette solo di rendere patrimonio storico comune la memoria dei morti di Aids così come accade per i morti di guerre e altre catastrofi. Quell’esperienza è un monito per l’oggi: il morbo che ha annientato una generazione esiste ancora e le sue cause non possono essere ignorate fingendo che riguardino solo l’altro da sé.

ANCHE IN QUESTA prospettiva si può situare la mostra che il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato attualmente dedica a Peter Hujar Azioni e ritratti / viaggi in Italia a cura di Grace Deveney con Stefano Collicelli Cagol (fino all’11 maggio). Hujar (1934 – 1987) fu amante e mentore di Wojnarowicz (presente in mostra) e i suoi scatti restituiscono le relazioni con una certa scena artistica e intellettuale newyorkese (Merce Cunningham, John Cage, Susan Sontag) corpi in azione, retroscena di esibizioni teatrali o coreutiche, di spettacoli drag. La sezione italiana del percorso ritrae un’Italia misteriosa, teatro di volti, paesaggi e corpi animali in chiaroscuri accesi pronti a inghiottire la vita nelle tenebre.

Lo stesso Centro Pecci ospiterà dal 4 ottobre 2025 al 1 marzo 2026, la mostra Vivono. Arte e affetti, Hiv-Aids in Italia. 1982 – 1996, curata da Michele Bertolino. Un percorso tra opere visive, video, poesie, paesaggi sonori, materiali d’archivio e oggetti personali che ricostruisce una storia internazionale dell’arte italiana negli anni dell’epidemia attraverso figure come Nino Gennaro, Corrado Levi, Lovett/Codagnone, Ottavio Mai, Porpora Marcasciano, Francesco Torrini e Patrizia Vicinelli.

QUI l’articolo originale: https://ilmanifesto.it/david-wojnarowicz-una-lucida-visionarieta

Recensione alle «Straordinarie avventure del professor Toti nel mondo dei ćevapčići» di Eric Gobetti sul «Corriere del Ticino»

Recensione alle «Straordinarie avventure del professor Toti nel mondo dei ćevapčići» di Eric Gobetti sul «Corriere del Ticino»

di Sergio Roic

Lo storico italiano Eric Gobetti si è cimentato l’anno scorso con la narrativa scrivendo il gustoso libretto Le straordinarie avventure del professor Toti nel mondo dei ćevapčići per le edizioni Miraggi. Il professor Toti, un sessantenne ancora aitante, compie un viaggio da Bari nelle terre della ex Jugoslavia per interessamento del programma tv «Il mondo in cucina». Dovrà scovare e parlare di alcune ricette tipiche del Paese una volta unito e ora suddiviso in sette parti. Il prof Toti, un esperto di cucina e cibo, compie il suo faticoso viaggio dal Montenegro, dove approda, fino a Sarajevo, città in cui spera pure di trovare un celebre ricettario. Là lo attende anche l’ex fiamma Alma, una profuga bosniaca che aveva conosciuto molti anni prima in Italia. 

Allineati tutti gli ingredienti sul piatto, Gobetti ci presenta sia il cibo sia (velocemente) la storia recente della Jugoslavia. Il fatto curioso è che Toti assomiglia al maresciallo defunto e ciò provoca situazioni spassose ma anche incresciose. Passando da una mangiata all’altra, tutte condite da numerosi bicchieri di rakija, la forte grappa jugoslava, Toti saltabecca da una vecchina montenegrina che lo prende per un combattente della Seconda guerra mondiale agli ostili tifosi di una squadra di calcio di Mostar, fino a incontrare l’agognata Alma. Le elucubrazioni del professore sulla libertà lasciano adito a qualche perplessità, ma il suo talento per il quieto vivere e per la materialità delle cose permettono di completare il viaggio (senza ritorno) a mo’ di nostalgico rientro in una realtà che non c’è più e che al massimo può essere rintracciata nel bel mezzo di una scorpacciata di burek o baklava. In ogni caso, le ricette elencate sono interessanti e gustose e con una Kokta e un burek di carne nei dintorni il libro si digerisce bene.

Recensione dei «Vigliacchi» di Josef Škvorecký su UniversoLetterario.it

Recensione dei «Vigliacchi» di Josef Škvorecký su UniversoLetterario.it

Con I vigliacchi, edito in Italia da Miraggi EdizioniJosef Škvorecký ci regala un romanzo di formazione anomalo, che si muove tra il ritratto generazionale e la critica sociale, senza mai cedere alla retorica eroica. Pubblicato per la prima volta nel 1958 in Cecoslovacchia, il libro è ambientato negli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale e segue un gruppo di giovani della provincia ceca, appassionati di jazz e poco inclini ai grandi gesti patriottici.

Lontano dalle narrazioni classiche di resistenza e coraggio, Škvorecký tratteggia un’umanità sospesa tra il desiderio di libertà e la paura di esporsi. La sua scrittura, ironica e vivace, racconta le contraddizioni di una gioventù che sogna l’America ma vive sotto l’ombra della guerra, facendo del jazz non solo una passione musicale, ma un simbolo di ribellione e di un altrove sognato ma irraggiungibile.

Trama: un attimo prima della libertà

Il romanzo si svolge in una piccola città ceca nel maggio del 1945, proprio mentre le truppe naziste si stanno ritirando e l’arrivo delle forze sovietiche sembra imminente. Il protagonista, Danny Smiřický, è un giovane sassofonista che trascorre le giornate tra la musica, le fantasie amorose e le discussioni con i suoi amici, senza un vero impegno politico o militare.

Danny e il suo gruppo non sono eroi né resistenti, ma nemmeno collaborazionisti: sono semplicemente ragazzi che cercano di capire da che parte stare, mossi più dalla paura e dall’incertezza che da una reale convinzione ideologica. Il titolo stesso, I vigliacchi, suggerisce l’ambiguità di questi giovani che si trovano a vivere un momento storico cruciale senza avere il coraggio o la voglia di essere protagonisti.

Il romanzo si sviluppa come una serie di episodi che oscillano tra il comico e il tragico, mostrando l’assurdità della guerra e la difficoltà di prendere posizione in un mondo in cui le certezze si sgretolano di fronte agli eventi.

Un protagonista antieroico: Danny Smiřický

Danny è un personaggio che si distacca dai classici eroi della letteratura di guerra. Non ha il coraggio di unirsi alla resistenza, ma nemmeno la spietatezza di chi ha abbracciato il nazismo. È un giovane che vorrebbe solo suonare il jazz e conquistare le ragazze, ma che si trova invischiato in una realtà che non può ignorare.

Attraverso il suo sguardo, Škvorecký mostra l’ipocrisia della società dell’epoca. Mentre alcuni si affrettano a dichiararsi partigiani solo quando la vittoria è ormai certa, altri cercano di ripulire la propria immagine per sopravvivere al nuovo regime che sta arrivando.

La grandezza del romanzo sta proprio in questa assenza di giudizio morale. Škvorecký non condanna Danny e i suoi amici, ma li racconta per quello che sono: giovani confusi, pieni di paure e desideri, costretti a confrontarsi con una storia che non hanno scelto di vivere.

Il jazz come simbolo di libertà e disillusione

Uno degli elementi più affascinanti del romanzo è la centralità del jazz, che non è solo la passione di Danny, ma un vero e proprio simbolo della libertà sognata e mai raggiunta.

In una Cecoslovacchia ancora sotto il giogo nazista e presto destinata a cadere sotto il regime sovietico, il jazz rappresenta un anelito di evasione, un collegamento con l’America e con un mondo che sembra così lontano dalla realtà quotidiana. Tuttavia, proprio come Danny e i suoi amici, anche il jazz resta sospeso tra il desiderio e l’impossibilità di realizzarlo pienamente.

Škvorecký, che nella vita reale era un grande appassionato di musica, utilizza il jazz come filo conduttore per esprimere la frustrazione di una generazione privata della possibilità di sognare davvero. La musica diventa un linguaggio alternativo alla guerra e alla politica, un rifugio in cui cercare un’identità in un mondo che sembra non offrirne alcuna.

Stile e tono narrativo: ironia e disincanto

Uno degli elementi distintivi de I vigliacchi è il suo stile narrativo. Škvorecký adotta un tono ironico e a tratti dissacrante, che smonta la retorica eroica tipica delle narrazioni di guerra. Il suo sguardo è disincantato, capace di cogliere la comicità involontaria di certe situazioni senza mai perdere di vista il dramma sottostante.

Il linguaggio è scorrevole, colloquiale, quasi cinematografico. I dialoghi sono vivaci e realistici, e i pensieri di Danny, spesso contraddittori e confusi, contribuiscono a rendere il protagonista estremamente umano e credibile.

Nonostante l’ironia, però, il romanzo lascia addosso un senso di inquietudine e di malinconia. Il lettore sa che la storia non darà a Danny e ai suoi amici la possibilità di vivere la vita che desiderano. L’occupazione nazista sta per finire, ma presto arriverà un’altra oppressione, e i sogni di libertà resteranno, ancora una volta, irrealizzati.

Un romanzo scandaloso e attuale

Alla sua pubblicazione, I vigliacchi suscitò enorme scalpore in Cecoslovacchia. La critica ufficiale lo accusò di essere anti-patriottico e offensivo nei confronti della resistenza. In un’epoca in cui si cercava di costruire una memoria collettiva fondata su atti eroici e sacrifici gloriosi, il ritratto di giovani indecisi e spaventati apparve come una provocazione inaccettabile.

Oggi, però, il romanzo si rivela di straordinaria attualità. In un mondo in cui le guerre e le crisi politiche continuano a mettere le persone di fronte a scelte difficili, I vigliacchi ci ricorda che non tutti sono pronti a essere eroi, e che spesso la storia è fatta anche di esitazioni, paure e compromessi.

U classico del disincanto

In conclusione, con I vigliacchi Josef Škvorecký ci consegna un romanzo che sfida le narrazioni eroiche della storia, offrendo un ritratto sincerorealistico di una gioventù senza certezze. Grazie a uno stile ironico e coinvolgente, e a un protagonista tanto imperfetto quanto umano, il libro si impone come una lettura fondamentale per chiunque voglia comprendere il lato meno celebrato della guerra: quello di chi ha avuto paura, di chi ha esitato, di chi ha cercato di sopravvivere senza diventare un martire.

QUI l’articolo originale: https://universoletterario.it/i-vigliacchi-di-josef-skvorecky/

«Ogni cosa ha il suo tempo» di Petra Soukupová: quand’è l’ultima volta che siamo stati felici?

«Ogni cosa ha il suo tempo» di Petra Soukupová: quand’è l’ultima volta che siamo stati felici?

di Sara Concato

Una domanda che risuona nella testa dopo la lettura di un romanzo che penetra, come una sonda, lo spazio e il tempo di una famiglia come altre. Ogni cosa ha il suo tempo, di Petra Soukupová.

La prima cosa che salta all’occhio tenendo fra le mani questo libro è il titolo in lingua originaleche emerge da quello in italiano e il nome della traduttrice, Letizia Kostner, in copertina. È un segno di riconoscimento della casa editrice Miraggi in generale e in particolare della collana NováVlna, dedicata alla letteratura ceca.

In quarta di copertina appare un intero brano scritto in entrambe le lingue, riga per riga a ricordarci che l’autore di un libro tradotto non è mai uno solo. Ma forse ogni libro non ha mai solamente un autore.

La prima cosa che salta all’occhio tenendo fra le mani questo libro è il titolo in lingua originaleche emerge da quello in italiano e il nome della traduttrice, Letizia Kostner, in copertina. È un segno di riconoscimento della casa editrice Miraggi in generale e in particolare della collana NováVlna, dedicata alla letteratura ceca.

In quarta di copertina appare un intero brano scritto in entrambe le lingue, riga per riga a ricordarci che l’autore di un libro tradotto non è mai uno solo. Ma forse ogni libro non ha mai solamente un autore.

Difficilmente in famiglia si parla con chiarezza e sincerità. C’è una dinamica di aspettative e di sottintesi che spesso corre più veloce di noi. Ma a volte può capitare di essere ascoltati: “Tutto qui?” (p. 198) esclama Kája sorpreso di non ricevere punizioni dai genitori dopo aver detto loro che non vuole più nuotare. Mettersi nei panni dell’altro è un esercizio poco praticato, è un esercizio difficile. Più leggiamo e più ce ne accorgiamo. Passando da un punto di vista all’altro, entriamo nella mente dei personaggi e capiamo che non esiste un “cattivo” e “un buono”. 

Esistono relazioni e cambiamenti. Esistono egoismi, sussulti di un’io che si scontra col noi. Non è facile costruire una comunità, grande o piccola che sia. È facile che una comunità si disgreghi per far posto ad altre forme di esistenza. Richard pensa alla sua famiglia che “si regge solo per inerzia”, e si chiede: “se invece avessero ancora tutti la possibilità di avere qualcosa di meglio?” (p. 252). “Ormai è tutto una noia”, gli fa eco Alice, “non chiacchierano più di nulla, solo di questioni organizzative” (p. 272). Ma la rottura spaventa, la perdita dell’abitudine, la paura del nuovo. Alice è tormentata tra la noia e la rabbia, fra l’abitudine e il desiderio di vita. “Quasi tutta la giornata trascorre così, rabbia, tristezza, determinazione, rabbia, tristezza, lavoro, pranzo, nel pomeriggio porta di nuovo il cane a fare una passeggiata, senza nemmeno fingere di voler fare giusto due passi. Niente” (p. 275).

Nel susseguirsi dei capitoli, che aprono ogni volta il punto di vista di un personaggio diverso, entriamo nella quotidianità asfittica di una famiglia tradizionale, madre, padre, figlio e figlia, con cui intraprendiamo un viaggio lungo più di trecento pagine, percorriamo un pezzo della loro storia, una storia ordinaria, sviscerata nei minimi dettagli. È come una vivisezione, la dissezione di un corpo vivente per guardarne i meccanismi il più vicino possibile, accorgendoci che la chiave di tutto è sempre il mutamento, l’instabilità (necessaria) che comporta scomposizioni e ricomposizioni, respiri lunghi o tagli netti che permettono a un organismo di rigenerarsi.

In men che non si dica prende il ritmo che le è più congeniale” (p. 141). Fra scegliere un compromesso e seguire il proprio tempo ci si smarrisce spesso, e si resta in uno spazio indefinito in cui la coppia mal assorbe l’individuo, ne digerisce un po’ e un po’ lo perde. La tenerezza spontanea svanisce e un gesto o uno sguardo insolito provocano ansia, sospetto, perfino fastidio, più che piacere. L’abitudine viene a coronare il malassorbimento, ma le parti indigerite prima o poi tornano a galla. Conosciamo mai veramente chi abbiamo accanto?
Quand’è l’ultima volta che siamo stati felici?

QUI l’articolo originale: https://www.ghigliottina.info/2025/04/14/ogni-cosa-ha-il-suo-tempo-petra-soukupova/

David Wojnarowicz arriva in Italia con la prima traduzione di «Close to the Knives»

David Wojnarowicz arriva in Italia con la prima traduzione di «Close to the Knives»

di Lucio Vitagliano

L’incendiario memoir dell’artista e attivista newyorkese queer e HIV+

Incastonata tra le vie acciottolate del centro di Torino, Nora book è uno degli spazi LGBTQIA+ più
noti in città e venerdì scorso 28 marzo ha ospitato un evento importante non solo per il panorama
culturale italiano, ma anche per quello statunitense: la presentazione in anteprima del libro “Sul filo
della lama” (Close to the Knives) per Miraggi edizioni, la prima traduzione italiana dell’incendiario
memoir dell’artista e attivista newyorkese queer e HIV+ David Wojnarowicz.
L’interesse nei confronti della figura di questo artista non si è mai spento e, anzi, è cresciuto
esponenzialmente negli ultimi tempi, grazie anche ad una serie di mostre internazionali e documentari
incentrati sulla vita e la lotta di Wojnarowicz. Questa riscoperta si è accompagnata ad un nuovo
slancio scientifico e mediatico verso quella incredibile fucina culturale che è stata la scena artistica
avantgarde della Downtown New York e questo lo testimonia ad esempio la recente acquisizione da
parte della NYPL della collezione di Leonard Abram dell’East Village Eye, storica piattaforma che
ha documentato la vibrante vita dell’East Village dal 1979 al 1987.
Nonostante il vivace interesse a livello internazionale per il lavoro e l’arte di Wojnarowicz, la figura
dell’artista è relativamente poco conosciuta in Italia. Questo lavoro di traduzione, curato da Chiara
Correndo, ricercatrice e traduttrice, è quindi qualcosa di più di una semplice pubblicazione, poiché si
sta rapidamente configurando come l’occasione per far conoscere l’artista in Italia e aggregare
studiosi e studiose indipendenti che in Italia lavorano su di lui.
L’evento presso Nora book è stato il primo di una serie di appuntamenti nazionali dedicati alla
promozione del libro e della figura dell’autore: la traduttrice, in dialogo con il ricercatore e attivista
Cristian Lo Iacono, ha presentato ad un pubblico piuttosto folto i contorni dell’opera di Wojnarowicz,
i suoi simboli e il suo legame con la lotta di Act Up New York. Il grazioso dehors della libreria era
molto affollato, a conferma del grande interesse verso la pubblicazione e della curiosità da parte del
pubblico italiano di saperne di più.
Il libro verrà presentato l’11 aprile anche a Prato presso il Centro per l’arte contemporanea Luigi
Pecci, polo artistico e culturale fondamentale in Italia che ospita dal 14 dicembre 2024 all’11 maggio
2025 la mostra del fotografo statunitense Peter Hujar. L’esposizione, Peter Hujar: Azioni e ritratti /
viaggi in Italia, curata da Grace Deveney e Stefano Collicelli Cagol, ospita 20 scatti realizzati da
Hujar durante i suoi viaggi in Italia e una selezione di 39 immagini che immortalano i protagonisti
della vibrante scena della Downtown New York. Visto il rapporto di profondo affetto e amicizia che
legava i due artisti, si è dunque deciso di dare spazio alla presentazione del memoir nel quadro degli
eventi legati alla mostra. L’11 aprile, pertanto, la traduttrice sarà in dialogo con il critico teatrale
Enrico Pastore e con l’artivista Tony Allotta, attore e attivista del collettivo Conigli Bianchi che da
anni si occupa con passione di corretta divulgazione in materia di salute sessuale per combattere la
sierofobia e lo stigma che circonda le persone con HIV.

QUI l’articolo originale: https://lavocedinewyork.com/arts/cultura/2025/04/02/david-wojnarowicz-arriva-in-italia-con-la-prima-traduzione-diclose-to-the-knives/

Josef Škvorecký / La rivoluzione dei codardi – su «PulpMagazine»

Josef Škvorecký / La rivoluzione dei codardi – su «PulpMagazine»

Recensione a I vigliacchi di Riccardo Cenci.

Nei Vigliacchi Josef Škvorecký distilla in otto giorni e in altrettanti capitoli quelle ore sature di potenziale drammatico delle quali parla Stefan Zweig in Momenti fatali, quel progressivo addensarsi di eventi gravidi di fato dopo i quali nulla sarà più come prima. L’azione, situata in una cittadina della Boemia, copre il periodo che va dal 4 all’11 maggio del 1945, durante il quale i nazisti presenti in Cecoslovacchia stanno per essere travolti dall’Armata Rossa. In questi scenari si muove Danny Smiřický, alter ego dell’autore stesso in numerose sue opere, personaggio irriverente e anticonformista, perennemente in bilico fra la noia esistenziale e il vitalismo irrefrenabile. Come Svejk ha la capacità di resistere all’orrore della guerra, facendosi beffe del male. Meno caricaturale e grottesco del buon soldato di Hasek, Danny può ricordare l’Holden di Salinger, e non è un caso considerando che Škvorecký era imbevuto di cultura angloamericana. L’individuazione di un linguaggio perfettamente funzionale alla narrazione è tratto comune. Salinger si esprime alla maniera degli adolescenti americani, con il loro slang e i loro manierismi. La lingua è il grimaldello che scardina l’ipocrisia della società del benessere. La medesima operazione viene messa in atto da Škvorecký, veicolando nel lettore uno straordinario senso di autenticità. La sua critica è rivolta all’ambiente piccolo borghese, che è riuscito a restare a galla persino durante l’occupazione nazista. Su tutto questo si innesta l’andamento musicale della struttura narrativa, la sua ispirazione jazzistica. Non a caso l’apertura e la chiusura del romanzo mostrano Danny impegnato con la sua band. Il jazz rappresenta la rottura con qualsiasi elemento stereotipato, l’aspirazione verso una libertà di espressione totale. Il sax tenore, con il suo chiaro simbolismo sessuale, invita allo sberleffo, all’eccitazione dionisiaca. Da questo punto di vista anche i pensieri di Danny, con il loro continuo oscillare da un estremo all’altro, forniscono l’impressione di una coscienza preda di una musica selvaggia, ancora non completamente formata, alla ricerca di una propria direzione.

Siamo indubbiamente di fronte a un romanzo di formazione. Un’immagine, un ricordo precipitano il protagonista in un caleidoscopio di riflessioni dalla sostanza onirica, perché “il sogno era nella mia natura da tempo immemorabile”. Significativamente ogni capitolo, eccetto l’ultimo, termina con il protagonista che si addormenta, consegnato all’oblio in un sonno senza sogni, oppure popolato di cose che, al risveglio, dimenticherà. L’amore per Irena diviene ossessione a causa del rifiuto della ragazza a concedersi. Un sentimento incerto e illusorio in quanto legato all’apparenza estetica. Fondamentale è vivere, anche se tutto quello che è bello rivela una natura effimera. Momentanee oasi di beatitudine sono garantite dalla musica, come quando Danny si ferma ad ascoltare un’orchestrina russa, con la vibrazione profonda della balalaika che ha del miracoloso. Il piacere sparisce, rapido come è venuto, perché «stavo male per l’impotenza dell’uomo e per un mondo dove tutto era organizzato così male che ogni meraviglia, se mai capita, la si può conoscere così di rado, oppure, una volta conosciuta, si finisce per perderla subito, restando disperati e tristi e con tanta voglia di morire».

Neppure la religione è di conforto. Il dubbio riguardo l’esistenza di Dio dà vita a elucubrazioni contrastanti. Il dramma si manifesta all’improvviso, in un gruppo di ebree appena uscite da un campo di concentramento, pallide come spettri, o in una ragazza tedesca convinta della superiorità della razza ariana fino al fanatismo.  Momenti cruciali nella storia europea vengono descritti in maniera peculiare, proprio perché filtrati attraverso lo sguardo disincantato e irriverente di Danny. «Qualche giorno di entusiasmo e poi di nuovo la stessa pappa, sempre uguale, appiccicosa e vischiosa». Un mondo è al tramonto, ma il nuovo appare ugualmente estraneo e ostile. Siamo distanti dalla mitizzazione di un’intera generazione operata ad esempio da Fenoglio nel Partigiano Johnny, dove la resistenza ha una forte motivazione esistenziale. Danny è un antieroe, distante da qualsiasi retorica ideologica e per questo inviso al regime comunista. I liberatori, dei quali non comprende la lingua, gli appaiono: “completamente diversi da me e incredibilmente estranei”. Sin dal titolo, ci troviamo in un sistema di valori totalmente contrario ai dettami del socialismo. L’eroismo di Danny è una posa, una finzione, come dimostra l’episodio della foto con il mitra usata unicamente come esca per le ragazze. Una strana sensazione di vuoto e di inutilità lo minaccia. “Tutti eravamo dei morti viventi”, dice. Con il suo anelito libertario e le sue contraddizioni insolubili, con il suo vitalismo e i suoi ripiegamenti malinconici, Danny è il simbolo dell’irrequieta indole giovanile, della ribellione desiderata e mai del tutto compiuta; in quanto testimone di un’età irripetibile, ci commuove con la sua profonda e imperfetta umanità.

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Recensione di «Non commettere infinito» di Nicola Neri su «D – Repubblica»

Recensione di «Non commettere infinito» di Nicola Neri su «D – Repubblica»

di Maurizio Fiorino

In corsa sull’autostrada, una telefonata dopo l’altra, per darsi un’ultima chance

“Mi faccia capire, sta fuggendo da qualcosa?”, chiede all’improvviso una delle tante voci senza volto presenti in questo libro e, quasi, verrebbe da dire che sta tutto qui, il senso di Non commettere infinito (Miraggi Edizioni), quarto romanzo di Nicola Neri. “Dalla realtà” è la risposta che arriva dall’altro capo del telefono. A rispondere è un uomo che guida come un forsennato nella notte ma sarebbe troppo semplice, finanche riduttivo, liquidare questa storia con l’aneddoto che sta alla base di ogni seduta psicoanalitica. Certo, fuggiamo tutti da qualcosa ma la fuga di Morelli – questo il nome del protagonista – descritta da Neri che, di professione, fa (anche) lo psicologo, è ovviamente un escamotage per celare intrecci e ossessioni. La storia è pressappoco questa: Morelli è un uomo di trentacinque anni e, nonostante amici, colleghi, donne, si sente infinitamente solo. “Sai dove conducono le bugie. Le bugie conducono a incidenti”, si dice a un certo punto. Guida su un’autostrada che sembra infinita e, nel tragitto, fa e riceve una telefonata dopo l’altra. Nelle conversazioni si perde e si ritrova, si confessa, si lascia andare a un flusso ininterrotto di pensieri. Vorrebbe solo schiantar-si, andare a fondo, “al centro della corrente che sembra sul punto di esplodere” ma, prima di farlo, vuole una chance, l’ultima, perché – parole sue – “poi non ce ne sono altre”.

Se la struttura della telefonata-ossessione ha tanti esempi celebri (uno su tutti il Cocteau de La voce umana), l’ambientazione, forse perché lo abbiamo da poco visto al cinema, sembra uscita da Una notte a New York, l’ultimo di Sean Penn e Dakota Johnson, girato interamente in un taxi notturno. “Ho passato tutto il pomeriggio sdraiato a letto. E perché? Il tempo. Ero sdraiato e davanti a me c’era un vecchio orologio a muro, con i secondi. O almeno, io pensavo che fossero secondi”, fa dire Neri al suo io narrante e, senza voler scomodare Proust (che, a proposito, all’improvviso appare in un personaggio, “la proustiana con la madre lontana”) e il suo concetto di tempo cronologico e lineare versus tempo interiore e oggettivo, leggendo Non commettere infinito e analizzandolo in un rapporto spazio-tempo, viene in mente il gioioso caos mentale di Zeno Cosini, soprattutto laddove il protagonista sembra rielaborare il suo passato relazionandolo alla guida tormentata della sua autovettura. Così il Morelli che, come dicevamo, crede di scappare dalla realtà, diventa una metafora del tempo che passa e noi lettori, in fondo, non possiamo fare altro che arrenderci e seguirlo nella sua spericolata avventura alla ricerca di se stesso.

Nicola Neri (classe 1992) ha una scrittura già affilata e chiara e in questo suo romanzo, a proposito di linguaggio, ha deciso di usare una lingua puramente visionaria e cinematografica, evidentemente l’unica possibile a rendere questa lunga seduta psicoanalitica “on the road” lucida e spigolosa. “Le emozioni. Da quando ricordo, io le vivo come… fossero entità esterne. Forze esterne che mi afferra-no”, dice il protagonista, a dimostrazione che il tema cardine del libro è semplicemente l’incomunicabilità con noi stessi e, ovvia conseguenza, con tutto ciò che definisce i nostri confini e che consideriamo il mondo esterno.

Recensione di «L’ora delle Distanze» su Mescalina.it

Recensione di «L’ora delle Distanze» su Mescalina.it

di Giada Lottini

“Per passare meglio la notte, per non avere più paura del buio”.
Immaginate di trovarvi in un’ambiente dominato da un grigiore opprimente, in cui le emozioni sono annichilite da un sentimento di rassegnazione angoscioso e angosciante: un luogo non così dissimile da molteplici realtà urbane in cui siamo calati. In questa dimensione, che un tempo sarebbe stata etichettata come distopica, si muove Fluon, uomo tra gli uomini e protagonista di L’ora delle distanze, il nuovo romanzo breve di Lory Muratti illustrato da Andy dei Bluvertigo e uscito a settembre 2024 tramite Miraggi Edizioni assieme a un 45 giri strettamente connesso alla storia raccontata.

Una dimensione distopica in realtà esiste e si rivela nel momento in cui il protagonista rientra a casa la sera ed assume un’identità completamente diversa, variopinta e glamour, proiettandosi proprio nelle Distanze, un luogo che ricorda da vicino il Paese delle Meraviglie in cui si muoveva l’Alice di Lewis Carroll, quanto a bizzarrie di luoghi e personaggi.

Maestro del colore a sua insaputa e creatore delle Distanze, Fluon si trova catapultato ogni notte in questo non luogo dalle tinte accese per ritrovare se stesso e un’umanità perduta che si fa carne in ogni pagina grazie alle illustrazioni vivide di Andy. Il protagonista esplora questo mondo nascosto, imparando a riconnettersi con i frutti della sua mente e con le sue emozioni, a tratti traumaticamente rimosse: saranno i personaggi che incontra lungo intricati corridoi e oltrepassando porte e stanze a guidarlo, e a dargli lezioni di vita da conservare, una volta tornato alla realtà.

In alcuni capitoli incontriamo personalità geniali, come il Killer del Phon, che ci permettono di trovare gli antidoti a una realtà tristemente spenta, sia tramite dialoghi accesi sia tramite passaggi necessariamente dolorosi come nell’Interludio Fucsia, capitolo particolarmente commovente in cui per la prima volta affiora il vissuto di Fluon.

Muratti adotta una prosa variegata e piacevole, mai scontata. Sa raccontare in modo leggero rimanendo denso, tanto che L’ora delle distanze si finisce in un giorno e vien voglia di rileggerlo per trovare al suo interno ulteriori significati. Gradevolissima la scelta editoriale della pagina su due colonne corredate dalle tavole di Andy, come tocco esteticamente accattivante e come invito a spogliarsi delle maschere di cinismo che ci circondano per riscoprirsi vivi.

Andando invece ad ascoltare l’EP che accompagna il romanzo, pubblicato da Riff Records anche in vinile colorato, il primo singolo estratto riprende il titolo del libro e ne descrive il contesto diurno, avvisandoci che verrà presa una nuova consapevolezza ed una nuova direzione. La notte sarà il momento in cui poter ancora sognare e piantare i semi di una ribellione possibile dal punto di vista umano.
In La caduta invece i toni sono particolari, finanche pop nel ritornello, capace di imprimersi in testa sin dal primo ascolto. Il sax di Andy crea un’atmosfera noir estremamente piacevole accompagnandoci dentro la controrealtà delle Distanze, con un gusto per gli anni Ottanta riscontrabile anche dall’uso sapiente dei synth.

Lory Muratti, oltre che scrittore e musicista, è anche un visual artist e un attore: chi ha partecipato ai suoi monologhi –  concerto sa che ci si può aspettare di essere attratti da tutte le sue declinazioni artistiche. Da qualche giorno, lui ed Andy stanno portando in giro il talk & sounds incentrato sul romanzo: per chi si accosta per la prima volta all’autore sarà una scoperta, per chi conosce già il suo modo di stare sul palco invece sarà un’ottima conferma.

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QUI l’articolo originale: https://www.mescalina.it/libri/recensioni/lory-muratti/lora-delle-distanze

Recensione di «Ore di piombo» su «Blow Up Magazine»

Recensione di «Ore di piombo» su «Blow Up Magazine»

di Alice Pisu

Nasce dal dissenso l’urgenza della scrittrice ceca Radka Denemarková di comporre un romanzo-tempio sulla Cina, dopo viaggi e incontri che l’hanno portata a riflettere sullo scarto tra la percezione di sfaldamento e trasformazione sociale e la rappresentazione di equilibrio e armonia. Le tetre affinità con un’idea di controllo collettivo vissuto nella Cecoslovacchia della normalizzazione producono nella scrittrice un senso di contaminazione, in un “vortice di censura e autocensura”. Voce di spicco del dibattito pubblico ceco, Denemarková è autrice di saggi, opere teatrali, romanzi, e traduttrice di Tokarczuk, Müler e Stavaric.

Ha ottenuto per la quarta volta il prestigioso Magnesia Litera con Ore di piombo, costato il bando perpetuo dalla Cina, anche per la vicinanza con gli attivisti del manifesto Charta 08 (ispirato alla Charta 7 dei dissidenti cecoslovacchi). Definito un romanzo di perenne stupore, di dialoghi socratici, di domande, iniziazioni e variazioni dolorose, è un “peculiare diario di viaggio nell’anima dell’Europa e nell’anima di un pezzo d’Asia”. Con un racconto fluviale strutturato su stratificazioni di storie di soggetti che incarnano visioni agli antipodi e con una narrazione dal passo apparentemente favolistico in cui si avvicendano Scrittrice, Ragazza Cinese, Madre Cinese, Programmatore, Diplomatico, Studentessa Americana, Avvocato, etc., l’opera riflette sugli esiti individuali e collettivi dei totalitarismi. Denemarková si approccia a questo tema faustiano, polisemico, archetipale vestendolo di nuovo”, attraverso lo studio narrativo di “questo animale che chiamiamo società, in un romanzo di concreto realismo e infusa astrazione”. Tra diario di viaggio, romanzo corale, saggio filosofico, studio poetico, indagine sociologica, il romanzo si regge su frammenti ricomposti del dialogo aperto tra Oriente e Occidente da cui emerge una vicinanza di destini per condizionamenti famigliari, alienazione contemporanea, confinamento nella norma, logoramento delle reti sociali canonizzate dalla parvenza coesa. L’opera è intesa come un corpo vivo in trasformazione e risponde a impulsi diversi a seconda dei luoghi e dei tempi che abita. Ala crisi dell’individuo che si riverbera anche nelle arti e, in particolare, nella letteratura, Denemarkova contrappone l’esempio di Václav Havel, a cui si ispira nel misurare il rigore etico di un paese. Tra le influenze il realismo russo; le visioni kafkiane dell’intrico inquieto originato da un cocente smarrimento esistenziale tra incognite spirituali; lo studio dell’anomalia in Bernard, in particolare nelle riflessioni sull’isolamento e l’annientamento dell’essere umano nel racconto della solitudine in rapporto al paesaggio. La peculiare visione del tempo nell’opera, che a tratti abbandona la presa sul contemporaneo in favore di una fratturazione del discorso lirico in movimenti, cela rimandi alla poesia ceca proletaria, surrealista, civile. L’elogio della dissonanza riluce in un’opera maestosa, che si contrae in un’espressività minimalista di gusto orientale nel cogliere sfumature recondite dell’animo, e si espande in un flusso di storie interconnesse, descrizioni urbane, affreschi sull’irrequietezza, dissertazioni ideologiche. 

Il titolo omaggia Dickinson e rimanda alla sensazione di scrivere con il piombo intorno ai polsi. Nel bilico tra adesione al noto e aperture fantastiche, la presenza animale evoca una tensione tra libertà e controllo simboleggiata da cornacchie nere, gazze azzurre e gatti sapienti. Il riconoscimento della coesistenza in Cina di socialismo e capitalismo, e la sua definizione come uno splendido campo di concentramento dai confini impermeabili e al contempo un giardino fiorito, passano attraverso l’analisi dell’Europa centrale per riflettere sul significato della propaganda nel trasfigurare gli eventi, e della menzogna come un “camaleonte non rieducabile”. Denemarková riconosce una comunanza tra il ciclo di singole vicende esistenziali e quello della storia dell’umanità, in bilico tra atrocità e rinascite, in una vana ricerca identitaria. Nel confronto tra realtà diverse, la cifra comune è l’impronta patriarcale nei condizionamenti individuali, nelle politiche sociali, nel controllo del concepimento: “Lo Stato si pianta a gambe divaricate davanti a un corpo e decide”. Immortala un’umanità malata di burn-out, infettata da razzismo, antisemitismo, sessismo e zelo patriottico, a cui contrappone l’appiglio fornito dalla scrittura come atto di difesa, come fuga dalla disperazione e come tentativo di decifrare il codice della solitudine delle parole”. L’opera è un ritratto allucinato di paesi dal personale Olocausto, dotati di un subconscio dove prospera la mentalità dei popoli: uno studio che con una lirica cifra visionaria consegna interrogativi su ciò che sostanzia la moralità, sull’autorità della coscienza e sulla fusione della crisi dell’individuo con la crisi dell’umanità.

Recensione a «Ore di piombo» su Universoletterario.it

Recensione a «Ore di piombo» su Universoletterario.it

di alelitartculturapop

Ore di piombo di Radka Denemarková, edito in Italia da Miraggi Edizioni, è un romanzo mastodontico e denso che intreccia le storie di vari personaggi provenienti da Europa, America e Cina. L’autrice riflette su come le loro vite si incrocino e si trasformino in un contesto globale di tensioni, disuguaglianze e lotte per i diritti umani.

Tra le figure centrali troviamo uno scrittore ceco, un diplomatico, una giovane studentessa americana e imprenditori che navigano nella complessità della Cina contemporanea. La narrazione è guidata da Scrittrice, un alter ego che rappresenta la coscienza democratica e la resistenza intellettuale. Il titolo stesso, Ore di piombo, richiama una condizione di stasi e apatia che si ispira alla poesie di Emily Dickinson in cui l’ora di piombo rappresenta un momento di paralisi emotiva e morale. Questo tema permea l’intero romanzo, simboleggiando una società globale intrappolata tra oppressione politica, consumismo e perdita di ideali.

I temi principali del romanzo

Denemaková esplora le intersezioni tra Oriente e Occidente, mettendo a nudo le ipocrisie e le somiglianze tra due mondi che si percepiscono come opposti. Da una parte c’è l’Europa, che appare stanca e consumata, incapace di difendere i suoi valori democratici; dall’altra, la Cina, rappresentata come un colosso in rapida crescita ma soffocato da un controllo oppressivo.

La globalizzazione, lungi dall’essere un processo armonioso, diventa nel romanzo un meccanismo che amplifica le disuguaglianze e porta a una colonizzazione culturale reciproca. Un elemento chiave del romanzo è l’analisi della violazione sistematica dei diritti umani, in particolare in Cina, ma con riferimenti anche ai fallimenti delle democrazie occidentali. La figura di Scrittrice diventa quindi un simbolo della lotta contro le ingiustizie, un richiamo all’impegno intellettuale e alla necessità di alzare la voce contro ogni forma di oppressione.

I personaggi del romanzo vivono una profonda alienazione, non solo geografica ma anche interiore. Il trasferirsi da un continente all’altro non porta soluzioni, ma acuisce il senso di estraneità. Questa perdita di radici e identità è descritta con una precisione dolorosa, riflettendo una condizione universale nel mondo contemporaneo.

L’ora di piombo è arrivata per tutti noi. Non ci sono eroi, solo sopravvissuti.

I personaggi e il loro sviluppo

I personaggi, sebbene diversi per background e motivazioni, condividono una condizione di fragilità. Scrittrice è il fulcro morale e intellettuale del romanzo, una figura che incarna la necessità di resistere all’indifferenza e di agire in nome della giustizia.

Il diplomatico e l’imprenditore ceco rappresentano due facce dell’Europa contemporanea. il primo cerca di mantenere una facciata di ordine, mentre il secondo è attratto dalle opportunità economiche della Cina, ignorandone le implicazioni etiche.

E, infine, la studentessa americana è un simbolo della giovinezza globale, intrappolata tra l’idealismo e la rassegnazione.

Ogni personaggio riflette le contraddizioni di un mondo interconnesso, ma frammentato.

Non importa dove vai: l’oppressione si nasconde ovunque, sotto maschere diverse.

Stile di scrittura e tematiche filosofico-politiche

Radka Denemarková adotta uno stile ricco e stratificato, intrecciando citazioni filosofiche e letterarie (Confucio, Václav Havel, Emily Dickinson) con dialoghi incisivi e descrizioni vividissime, che incantano il lettore. La narrazione è frammentaria, una scelta che rispecchia la complessità del mondo che descrive, dove ogni storia individuale è un tassello di un mosaico più grande.

L’autrice utilizza un linguaggio visionario, poetico, che invita il lettore a riflettere oltre la superficie. La struttura, tuttavia, può risultare impegnativa, perché richiede attenzione e una certa familiarità con i temi trattati per cogliere appieno la portata del romanzo.

La scrittrice non si limita a raccontare una storia: il suo romanzo è una meditazione sulla condizione umana in un’epoca di grandi cambiamenti. I riferimenti a filosofi e scrittori non sono mai decorativi, ma strumenti per ampliare la portata della narrazione. La tensione tra libertà e controllo, tra progresso e perdita di valori, è costante e viene esplorata con una profonda rarità.

Radka Denemarková

Nata nel 1968, è una delle scrittrici ceche più celebri e influenti della scena contemporanea, nonché figura di spicco nel dibattito politico e culturale del suo paese. Autrice versatile, ha scritto tantissime cose tra cui romanzi, saggi, opere teatrali e sceneggiature. Oltre a essere un’affermata traduttrice di letteratura tedesca, con autori di rilievo come Herta Müller e Michael Stavaric.

Denermarková ha studiato letteratura ceca e tedesca presso l’Università Carlo IV di Praga e lavora come ricercatrice presso l’istituto di Letteratura Ceca dell’Accademia delle Scienze della Repubblica Ceca. La sua abilità artistica e intellettuale le ha permesso di ottenere per ben quattro volte il prestigioso premio letterario Magnesia Litera. Le sue opere sono tradotte in oltre venti lingue, hanno ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui il: Literary Prize of Styria e il Brücke Berlin Preis nel 2022 e l’Austrian Franz Kafka Preis e l’European Tolerance Price nel 2024.

Il suo impegno politico e le sue posizioni critiche nei confronti del governo cinese l’hanno condotta al bando perpertuo dalla Cina nel 2017, ben prima della pubblicazione di Ore di piombo.

In conclusione

Ore di piombo è un romanzo complesso, che richiede impegno, ma ripaga con una prospettiva unica e profonda sul mondo contemporaneo. La scrittura di Dernemarková è potente e stimolante, capace di catturare la mente e il cuore.

Ore di piombo è un’opera visionaria che intreccia storie personali e collettive per riflettere sulle tensioni di un mondo globalizzato. Con una scrittura densa e ricca di significati, Radka Denermarková offre un romanzo che non solo intrattiene, ma invita alla riflessione. Una lettura impegnativa, ma imprescindibile per chi cerca opere che esplorano le complessità del nostro tempo.

Recensione a «Il cimitero delle macchine» su «Il Sole 24Ore» – Il sogno concreto di una metropoli moderna

Recensione a «Il cimitero delle macchine» su «Il Sole 24Ore» – Il sogno concreto di una metropoli moderna

di Giuseppe Lupo

Due romanzi pubblicati di recente – Un sogno cosi di Paolo Colombo (Feltrinelli) e Il cimitero delle macchine di Sergio La Chiusa (Miraggi, pagg. 392, € 26) – forniscono l’occasione per comprendere fino a che punto la città di Milano continui a trovarsi al centro del dibattito sulla modernità nella sue forme utopiche e distopiche. Sara certo un caso, ma in entrambi la vicenda narrata comincia dal Giambellino, un quartiere già raccontato dalla penna trasognata e dialettale di Giovanni Testori e dove negli anni 50 sarebbe stato facile incontrare il Cerutti Gino, l’inconsapevole eroe della canzone di Gaber, un po’ ganzo e un po’ tonto, sicuramente dentro il clima di un’epoca che faceva delle periferie il luogo di maggiore impatto antropologico.

[…]

Ogni medaglia però ha sempre due facce e qualcosa ci dice che anche il romanzo di Sergio La Chiusa contiene una profonda verità, tanto più necessaria se si considera che con il suo libro siamo arrivati ai titoli di coda del Novecento e quelle stesse macchine, intorno alle quali era stata costruita la nuova, indistruttibile civiltà, adesso sono finite nel grande cimitero del postmoderno, corrose dalla ruggine, simili a oggetti di un sogno infranto perché maldestro. È questa l’impressione che si ricava seguendo l’itinerario allucinato di un personaggio che si fa chiamare Ulisse (mai nome poteva calzare meglio) strizzando l’occhio a quell’altro Ulisse che aveva inaugurato il precedente secolo percorrendo le strade di Dublino), sicché balza subito evidente che la corrosività con cui l’autore affronta la stagione del disincanto, diciamo anche l’approccio apocalittico della sua prosa labirintica e canzonatoria provoca un segnale di sfiducia nei confronti di quel modo d’essere occidentali senza regole e senza morale, il capitalismo darwiniano (e non quello vegetale, come invece scriverebbe Luigino Bruni), dove le società sono rimaste intrappolate da ciò che appariva sogno e invece si è poi tradotto in incubo. Siamo già nel post-occidente. Seguire le orme di questo

Ulisse nella città che si fregiava d’essere capitale del Paese, frenetica e produttiva ma pur sempre capitale morale, equivale a compiere una specie di via Crucis nella disperazione degli ultimi, degli invisibili, dei rimossi, quelli che sperimentano il risveglio senza futuro all’alba del day after, quando Milano ha perduto l’immagine scintillante della moda e, guardandosi allo specchio, si e scoperta somigliante a un immenso cantiere, dove però non si costruisce più niente. A un certo punto del suo vagare questo Ulisse si imbatte nella statua malridotta di un angelo e si chiede che senso ha il suo apparire in un angolo remoto del Cimitero Monumentale, tra le tombe delle grandi famiglie imprenditoriali, i Falck, i Pirelli, i Campari, quelle del boom. E si chiede: «L’angelo della storia, non più in volo, ma esautorato, chiuso in un ripostiglio e decollato, così che non registri nemmeno le rovine che produce e s’accumulano al suo passaggio?» Chissà quale commento avrebbe fatto Walter Benjamin sentendosi tirato in causa.