Proposto al Premio Strega 2025, Il cimitero delle macchine è l’ultima fatica letteraria di Sergio La Chiusa dopo i precedenti I Pellicani e La madre nel cassetto.
Protagonista è Ulisse Orsini, che nonostante il nome “non pare avere ereditato nulla dell’antenato illustre e si direbbe piuttosto un personaggio nella media, anzi sotto la media”.
Ulisse è un personaggio in esubero, un antieroe della postmodernità senza dèi e profezie a proteggerlo: licenziato dalla ditta presso cui lavorava e sfrattato di punto in bianco da casa sua, il protagonista si ritrova in pigiama e con in mano una valigia contenente biancheria intima a vagare per Milano, “la città delle opere” i cui palazzi di cemento addobbati con le pubblicità dei più famosi marchi di moda e aziende multinazionali sembrano promettere lusso e benessere, ma in realtà nascondono macerie di una società che mira solo al profitto lasciando indietro gli ultimi e negando loro un’idea di futuro. A far da guida al protagonista in questa grottesca wasteland metropolitana sarà Lazzaro Lanza, un imbianchino che professa la rivoluzione, ma che continua a lavorare per i potenti per poter pagare il mutuo e mantenere la propria famiglia.
Il cimitero delle macchine è raccontato da una voce narrante invadente, che costruisce e decostruisce il romanzo giocando con il lettore e le sue aspettative sulla storia che vengono sempre disattese, a riprova del fatto che Ulisse Orsini sia un uomo incapace di compiere delle scelte di propria iniziativa e dunque succube delle decisioni altrui e del flusso degli eventi.
Con grande ironia e gusto per il grottesco, Sergio La Chiusa bene illustra il fallimento delluomo contemporaneo nel cambiare le cose, incapace di guidare il cambiamento lasciando sì che siano gli altri a fare la rivoluzione per lui, pur sapendo, però, che gli altri sono guidati da uno sfrenato individualismo ed egoismo e che per tutelare i propri interessi sono disposti a rinunciare ai propri ideali.
Da un saggio che analizza la nuova creator economy al memoir dell’artista statunitense David Wojnarowicz, tra fotografia e AIDS, passando per riflessioni sull’accostamento della fisica quantistica alle filosofie orientali, su come indagare la vita sottomarina ci aiuti a capire cosa significhi “vivere” e sull’Italia oltre l’immagine dell’overtourism, ecco cosa abbiamo letto a settembre 2025.
Sul filo della Lama di David Wojnarowicz (Miraggi edizioni)
“Vivere ai margini dei margini”. È così che David Wojnarowicz, artista, scrittore, fotografo e attivista statunitense morto nel 1992 a 37 anni, avrebbe descritto la sua vita. Ed è proprio in quei margini che si muove Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione, il suo memoir finalmente tradotto anche in Italia. Un testo che non è un libro ordinario, né per forma né per contenuto: è una testimonianza carnale, rabbiosa, spesso lirica, della vita ai margini, della solitudine, dell’identità queer vissuta in un contesto ostile, della crisi dell’AIDS negli anni Ottanta e dell’arte come strumento di sopravvivenza e resistenza. Wojnarowicz scrive alternando frammenti autobiografici, riflessioni politiche, visioni oniriche, sogni e incubi urbani in una struttura spezzata, non lineare, che rifiuta le forme canoniche del memoir. La disintegrazione del titolo è non solo fisica – legata alla malattia, alla perdita, all’emarginazione – ma anche narrativa: ogni tentativo di comporre una linearità viene distrutto dall’urgenza di dire, di denunciare, di ricordare. Anche la sua arte è così. Lavora con ogni mezzo: pittura, fotografia, collage, video, scrittura. Il suo immaginario è fatto di simboli ricorrenti – il volto di Rimbaud usato come maschera, uomini con la testa di toro, cartine geografiche, animali, simboli religiosi, corpi spezzati, immagini pornografiche – sempre intrecciati con riflessioni feroci su sessualità, identità, religione, capitalismo, morte.
Wojnarowicz racconta l’infanzia segnata da abusi in famiglia, la vita da sex worker adolescente, le prime esperienze sessuali vissute in un’America che criminalizza il desiderio omosessuale, le morti degli amici, la presenza costante dell’AIDS come spettro e come condanna. Non cerca né pietà né espiazione: scrivere per lui è un atto di militanza e insieme di disperata affermazione di sé. Eppure dentro questa ferita che è esistere pulsa una forma di amore profondo, per la vita, per la bellezza, per chi non ha voce. Dopo aver scoperto di essere sieropositivo, trasforma il corpo malato in uno strumento di denuncia. Attacca frontalmente l’omofobia istituzionalizzata, il silenzio del governo Reagan, la complicità della Chiesa e delle case farmaceutiche. Usa l’arte come forma di lotta, con performance e opere che gridano indignazione, pietà, furia. Il suo diario personale, infatti, si fa eco di urgenze ed esigenze collettive, in cui l’arte, soprattutto, non è solo denuncia ma anche cura, alleanza, gesto di connessione, tentativo disperato ma tenace di spezzare l’isolamento del singolo. “Trasformare il privato in qualcosa di pubblico è un’azione che ha ripercussioni enormi nel mondo preconfezionato”, diceva. E aveva ragione, lo è ancora oggi.
Giocando con le regole del patto tra narratore, personaggio e lettore, La Chiusa prende un’esistenza fittizia e anodina, per quanto emblematica, un personaggio da romanzo – Ulisse Orsini – e ci invita a osservarlo da vicino: un soggetto improduttivo, in esubero, ossessionato dalla propria sensazione di illegittimità; uno che ha perso il lavoro e si rintana in casa, riducendosi a sgattaiolare sul pianerottolo per non incontrare i rispettabili condomini. Lo colloca in una metropoli nei primi anni Duemila, riconoscibile eppure fantastica, un cantiere interminato, coerente solo nella propria vocazione di «città della moda e degli eventi»; e lo segue nella sua tragicomica odissea urbana, attraverso paradossali ambulatori e ospedali simili a penitenziari, per vie ridotte a scarni residui dello sfruttamento economico, finché giunge – in mutande e con una valigia piena di biancheria – in una discarica dell’hinterland. Qui, nel cimitero delle macchine, tra i reietti accampati in mezzo a rottami e carcasse d’auto, Ulisse conosce Lazzaro Lanza, un imbianchino con aspirazioni messianiche, che lo trascina nelle azioni del suo movimento rivoluzionario (e nei suoi lavori di tinteggiatura). Il sardonico avvicendarsi di sipari architettato dall’autore rivela tutta l’assurdità del mondo contemporaneo e registra l’inesausto stato di tensione tra l’insostenibilità del reale e la fuga nell’immaginazione. Una tensione che ingabbia Ulisse e gli altri personaggi del romanzo, facendone le nostre grottesche controfigure.
Sergio La Chiusa è nato a Cerda (PA) il 23 settembre 1968 e vive a Milano. Ha pubblicato nel 2020 il romanzo I Pellicani. Cronaca di un’emancipazione (Miraggi), finalista nel 2019 al Premio Italo Calvino, dove ha ricevuto la Menzione Speciale Treccani per l’originalità linguistica e la creatività espressiva, e nel 2021 al Premio nazionale di narrativa Bergamo, al Premio Giuseppe Berto e al Premio Fondazione Megamark. Nel 2023 ha pubblicato il racconto lungo Madre nel cassetto (Industria & Letteratura) e nel 2024 il romanzo Il cimitero delle macchine (Miraggi). In poesia ha pubblicato nel 2005 la plaquette I sepolti (Lietocolle), finalista Premio Montano 2006, e l’e-book Il superfluo (E-dizioni Biagio Cepollaro). Suoi testi sono presenti su riviste e blog culturali, tra cui “Nazione Indiana”, “Le parole e le cose”, “Il primo amore”, “L’Ulisse”. Ha partecipato a pubbliche letture e iniziative culturali, tra cui RicercaBO.
Credo che per molti la fotografia abbia un significato sotterraneo, potremmo dire inconscio: cercarsi sapendo già di non potersi trovare da nessuna parte. In altri termini, attraverso la fotografia riconoscere quella parte di sé che sappiamo essere intoccabile, diciamo anche inavvicinabile. Attrezzarsi con la propria macchina fotografica, innestare l’obiettivo, è anche rendersi conto di tutto quanto la legge dell’ottica, per quanto sofisticata, non riuscirà mai a raggiungere: e lì forse saperci.
Ogni obiettivo fotografico, come l’occhio umano, oltre un certo limite non può vedere, né mettere bene a fuoco. Per quanto aiuti ad arrivare dove la vista non può, a ingrandire quel che vedremmo troppo piccolo e indistinto, nel troppo vicino o nel tanto lontano, esistono ostacoli strutturali coi quali dover fare i conti. Per questo motivo è bene prendere coscienza fin dal principio di ciò che sappiamo già essere l’impossibile fotografico, ovvero guardarci davvero.
L’artista David Wojnarowicz scriveva nel suo libro-testamento “Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione” (edito recentemente da Miraggi Edizioni nella traduzione di Chiara Correndo) pressappoco che l’immagine che si forma nel centimetro tra il nostro pollice e l’indice guardando l’orizzonte (il lontanissimo) ha la stessa intensità di quella che vediamo di fronte a noi; il gioco delle distanze nella vista si annulla o comunque ci si può giocare, e questo la fotografia lo sa da sempre. Quando scegliamo la distanza da cui inquadrare, l’ottica attraverso cui guardare il mondo, e le porzioni che ci basterà che ci mostri per poter formulare il nostro messaggio, sappiamo che non potrà essere detto tutto, mostrato tutto e quindi noi saremo solo in parte rappresentati da quello che emergerà nell’immagine. Proprio perché la fotografia si misura nella distanza che crea tra l’occhio e il soggetto, ci dice anche il proprio opposto, tutto ciò a cui non potrà mai giungere.
Forse è qui che va individuato lo specifico della fotografia: non tanto nella sua resa formale, ma nelle possibilità del suo vedere; se ogni altra arte ci chiede ciò che possiamo vedere da soli, la fotografia ci chiede cosa ancora non vediamo in tutto ciò che l’ottica ci offre e ci rende d’un colpo vicino e raggiungibile nei suoi minimi dettagli. Yves Bonnefoy, in “Poesia e fotografia” (Obarrao Edizioni, 2014) si rivolgeva al concetto del caso, dicendo che la fotografia ci mostra la casualità con cui gli elementi del reale si dispongono (le forme dei ciottoli, le pieghe dei tessuti), senza che si possa attuare alcun controllo volontario o cosciente sulla forma che assumono; in effetti la mano del pittore è possibile che sia tentata di aggiustare o dire la propria su come le cose si presentano. Ma la fotografia ha a che fare con la visione ed è lì che va cercato il suo minimo comune multiplo, ovvero nella frustrazione che ci fa attrezzati scrutatori di fenomeni che non possono toccarci, tantomeno rivelarci a noi stessi. Forse.
Ancora Bonnefoy vedeva nella fotografia l’affaccio su un infinito fuori, e proprio in questo suo tenderci costantemente all’esterno, sull’infinito esterno visibile, raggiungibile coi sensi e con l’ottica, la fotografia (nonché il fotografo) consuma il proprio nodo irrisolvibile: quello che la vuole cacciatrice ma spesso senza vera preda; osservatrice distratta di mondi che se anche ci somigliano raramente ci corrispondono. Quando molti ritrattisti (o fotografi in generale) dichiarano di vedere sé stessi nei volti che immortalano, è bene pensare invece quanto resti fuori, lontanissimo; ben più nascosto di quanto possa essere racchiuso tra l’indice e il pollice.
Nel 2018, in occasione di un’importante mostra al Whitney Museum a lui dedicata, avevo scritto un articolo sulla riscoperta di David Wojnarowicz, avvenuta forse anche per merito di Olivia Laing, che nel suo bellissimo libro Città sola, uscito nel 2017, dedicava alla difficile vita dell’artista e alle sue opere alcune delle pagine più belle.
Oltre che per i suoi film (uno appena proiettato al MoMA nella sua rassegna di cinema queer) e per le sue opere tra fotografia e perfomance (ad esempio la bellissima serie degli anni Settanta “Arthur Rimbaud in New York”, che ritrae i suoi amici mentre girano per la città indossando una maschera che riproduce il famoso ritratto del poeta, caricando così di eternità, mistero e poesia quelle che erano le loro attività quotidiane), Wojnarowicz è l’autore di un piccolo e potente libro, Close to the Knives: A Memoir of Disintegration, un “memoir” pubblicato nel 1991, un anno prima della sua morte per Aids, che in realtà è una raccolta di testi molto diversi tra loro scritti con un tono mutevolissimo – delirante, erotico, umoristico, ingenuo, feroce, malinconico – in cui l’artista prova a catturare i momenti più intensi della sua vita e della New York sporca e oscura in cui trascorreva le sue giornate e, soprattutto, nottate. Oggi finalmente questo libro arriva in Italia grazie a Miraggi edizioni, con un’introduzione di Chiara Correndo, che l’ha tradotto, e una postfazione di Jonathan Bazzi. Parlando degli anni in cui Wojnarowicz scrisse Sul filo della lama, Correndo scrive: «Dietro gli schermi che i media e le istituzioni ogni volta srotolano e su cui proiettano il film di un’America bianca, ricca, imperialista, cristiana ed eterosessuale, ci sono i cadaveri impilati dei morti per Aids, le popolazioni ridotte alla fame dalla politica imperialista statunitense, i suicidi dei giovani e delle giovani omosessuali che si vedono negato ogni spazio di esistenza, la violenza della polizia». Per fortuna oggi alcune cose sono cambiate, ma l’atmosfera non sembra poi così diversa. E infatti Wojnarowicz continua a parlare agli artisti di oggi: la locandina del nuovo film di Ari Aster, Eddington, è una sua opera, la stessa usata dagli U2 nel 1991 per il loro singolo “One”.
Risolza è il nome di un coltello. Un coltello a serramanico, sardo. Sardo come l’autore – Sergio Garau – di questo eccezionale libro di poesia, risolza, appunto (miraggi ed.).
Perché sia eccezionale è presto spiegato. Intanto perché è un’eccezione nel percorso poetico, ormai quasi trentennale, che lo ha fatto conoscere in tutto il mondo, ma non attraverso la carta di una qualsiasi pubblicazione, bensì in carne ed ossa (e voce, e gesti). Questo, infatti, è il primo libro di Garau, anche se da decenni Garau viaggia nel mondo, per fare Poetry slam, o per improvvisare letture nei luoghi più impensabili, per partecipare a festival, rassegne, o a qualsiasi azzardo poetico riesca a tentarlo: dall’Isola di Pasqua a Berlino, Parigi, Madrid, da Stoccolma a tutto il Sud America, all’Africa, all’Asia.
Garau spunta ovunque. Sorride sotto il cappello ed inizia una delle sue indimenticabili, travolgenti performance.
È una poesia atletica e prossemica, la sua, che abita alla perfezione lo spirito slam, ma che ancor prima incarna, fino in fondo, rinnovandola, la tradizione della Poèsie Action. Garau corre, gesticola, salta, senza trasformarsi mai in un clown, anzi facendo del suo corpo un arco teso che scaglia parole a volte strabilianti, che abbraccia storie inquietanti e iperboliche, che calcia e pugna ingiustizie e orrori, che carezza dolori.
Questo è Sergio Garau: la poesia come corpo e come suono. Come azione, per l’appunto.
Chi avesse dei dubbi potrebbe sfatarli leggendo la poesia che apre risolza, una dichiarazione di poetica che non ammette replica: Accendere la pagina. Avviare il testo. / Sfilare le trame e affilare le lame/ (…) / percorrere il confine tra le lingue – l’unico che si può attraversare / senza correre il rischio di farsi sparare – . / Entrare da soli in una guerra cibernetica. / Prendere un virus e determinare la diagnosi / esaminando la radiologia fonetica.
Già, perché ogni viaggio di Garau è un viaggio linguistico: come altri visitano musei e cercano panorami, boschi, laghi, mari, montagne, lui esplora le lingue, alla ricerca della loro radice sonora comune, le divora e le risputa fuori in forma di poesia. Dal vivo ed ora anche sulle pagine di un libro sbalorditivo, in cui tutte queste lingue convergono, confliggono, si amano e si detestano, si cacciano e si seducono: italiano, sardo, inglese, svedese, tedesco, bulgaro, russo, greco, arabo, spagnolo, francese, oltre a quelle che inventa lui, mettendo tutto a frullare insieme.
Garau non traduce i suoi testi per l’audience straniera, tra-duce (trasporta e tradisce) se stesso in ogni nuova lingua e la sua poesia è dunque eminentemente intraducibile. Non ha bisogno di alcuna traduzione, solo di un ascolto schietto e di attenzione. Poi a tutti sarà evidente come quella lingua – pur non essendo la sua – è certamente anche la sua.
Forse perciò a me un libro tanto cosmopolita ha dato da subito l’impressione di essere assolutamente sardo. Intimamente sardo.
Ma nonostante tutto questo, pur nel centro della Babele, le poesie di Garau sono chiarissime, evidenti, esplicite, quando riflettono sulle perversioni della cibernetica, o denunciano lo scandalo del poligono militare di Quirra, quando parlano d’amore, o riflettono sulla natura e sul cosmo, o invece ironizzano, taglienti, sui cliché e sui luoghi comuni della nostra quotidianità.
Perciò questo libro è un coltello. È un libro aggressivo, politico, scandaloso. Fatto apposta per spaventare il suo lettore. Sia nelle sue forme che nei suoi contenuti. Ma è anche, prima di tutto, un fossile. Come e più di qualunque altro libro di poesia.
Le pagine di risolza conservano il calco di qualcosa che è stata voce viva, respiro, gesto. Ne recano traccia, ci offrono la forma alfabeticamente immobile e cava di una dinamica sonora ormai già svanita. Ma di questo fluire il testo porta traccia evidente, non solo in forma di insetto catturato nella giada, ma come testimonianza geologica del passaggio della lava vulcanica.
I testi si susseguono a strati, ininterrotti: a volte si fronteggiano, ma quella che all’apparenza sembrava una traduzione a fronte di un testo in una o più lingue straniere, si rivela, un attimo dopo, una digressione che tesse una nuova tela di parole, o invece un’impronta imperfetta in cui sopravvivono solo gli intraducibili nomi propri, persi in una costellazione di segni d’interpunzione, di tracce del silenzio tra le parole. E ai testi si affiancano le icone, le translitterazioni, i segni diacritici, i simboli digitali. E tutto sta insieme perfettamente. Lo spazio non è mai soltanto quello della frase, ma sempre quello della pagina.
In questo libro si fa poesia persino con la lista dei ringraziamenti, con la nota dei ‘debiti’ letterari, o con le strane stringhe alfanumeriche che a volte fanno capolino a piè pagina, enigmatiche e inquietanti. risolza insomma è anche un libro-oggetto, un’opera di poesia concreta. Definirla una raccolta di poesie sarebbe imperdonabilmente superficiale e ingiusto.
E questo libro, che in effetti non è un libro, ma qualcosa di radicalmente diverso da ciò che si intende con la parola libro, qualcosa che andrebbe eseguito, o guardato, prima che letto, è il libro di poesia più importante, bello, convincente e necessario pubblicato quest’anno in Italia. Vi conviene procurarvelo, perché scommetterei che difficilmente l’autore ne pubblicherà altri nel prossimo ventennio.
Tra bravura, bellezza e avanguardia, le dive della belle époque come modelli di lotta ed emancipazione.
Per l’immaginario maschile, tra Otto e Novecento, attrici e danzatrici erano oggetto di attrazione e repulsione, di fascino e di orrore. Per le donne invece erano un modello di forza, di grazia, di bellezza, di successo e libertà. Durante la Belle Époque il teatro era il media più influente e di maggior diffusione e nella figura e nel corpo della diva si andava definendo la nuova immagine della donna ben lontana dal sofferente e languido angelo del focolare caro alla società patriarcale. Le vite e le opere di Sada Yacco, Cléo de Mérode, Edith Craig, Valentine de Saint-Point e Emmy Hennings non ci raccontano solo dell’effervescenza avanguardista del modernismo, ma anche delle lotte delle donne per affermarsi con un ruolo attivo nella società. Averle marginalizzate o persino rimosse dalla storia ufficiale ha significato dimenticare quelle battaglie da cui è sorta la donna moderna. Riportarle alla memoria non ci ricorda solamente che il teatro non è stato riformato solo dai “padri della regia”, ma anche quanto delle donne di oggi è debitore delle lotte delle dive di quel tempo lontano.
Enrico Pastore (Stresa 1974), ha svolto periodi di formazione con registi come Pippo Delbono, François Tanguy (FR), Jakob Shokking (DK), Fernando Dacosta (SP). Regista e direttore della Compagnia DAF fondata nel 1998. Dal 2006 al 2011 è stato direttore operativo degli Incontri Cinematografici di Stresa. Dal 2012 al 2018 ha scritto sulle pagine di «Passparnous», «web revue of art», come critico di spettacoli di teatro e danza. Nel 2017 è stato co-curatore con Ambra Bergamasco e Edegar Sterke del MovingBodies Festival di Torino. Oggi scrive su «Rumor(s)cena».
In “Torino Filmopolis. Dentro i film la Città”, il volume scritto da Giorgio Scianca con Alessandra Comazzi per Miraggi Edizioni, il capoluogo piemontese torna ad essere patria della settima arte.
Ispirato daItalo Calvino, l’architetto appassionato di cinema mescola in questo libro il suo lavoro e la sua passione: ne viene fuori un’originale guida della città, suddivisa in quattro stagioni, a cui corrispondono458 film, che riscrive la storia del cinema torinese attraverso strade, piazze, ponti, giardini e parchi sempre più spesso utilizzati come set. Ogni angolo è un fotogramma e la sensazione è quella di passeggiare in luoghi familiari anche per chi non conosce la città.
Una ricerca approfondita – attraverso siti italiani, stranieri e locali, gli archivi in rete dei giornali, i titoli di coda, i trailer e le foto di scena e i social – che si completa con un QR code tramite cui si approda all’elenco completo dei film esaminati, con trailer e clip, in un continuum tra parole scritte e immagini.
L’estate
Ad ogni stagione i suoi luoghi…e i suoi film: Scianca parte con l’estate, la stagione più cinematografica dell’anno, grazie alla sua luce, ai colori, ai contrasti.
Torino viene definita città trasformista, che interpreta se stessa ma può facilmente trasformarsi in altro: è stata Milano, Roma, Parigi, Sarajevo, Zurigo, Monaco di Baviera e addirittura New York. Lo stesso avviene per i suoi luoghi nevralgici. il Po, protagonista di una cinquantina di pellicole, è stato, tra gli altri, la Senna o il Tevere (Fast x) o la Miljacka di Sarajevo (The King’s Man – Le origini), ma anche il Tamigi, il Neman, la Limmat etc.
L’estate è l’occasione per parlare, attraverso il cinema, di architettura radicale, degli elementi che compongono i palazzi più rappresentativi della città: dai mattoni dello scenografico palazzo Carignano, al ferro usato originariamente a copertura di diversi punti e poi riutilizzato a servizio dell’industria bellica, fino al vetro della “Bolla” comparsa del 1994 nello skyline della città, sopra la storica fabbrica Fiat del Lingotto. E poi ci sono i tetti, che, a partire dalla Mole Antonelliana, forniscono, a varie altezze, tanti punti di osservazione per ammirare Torino dall’alto.
Il cinema permette anche di “fotografare” luoghi che non esistono più o mostrarne la trasformazione nel tempo, come il parco Dora, un tempo sede degli stabilimenti della Fiat, oggi testimonianza di archeologia industriale. O di testimoniare la trasformazione urbanistica di centro e periferie, come ci mostra la cinematografia recente (Anywhere anytime, La chiocciola, Confidenza).
Nella bella stagione rientrano anche i parchi, come il Valentino, capace di un viaggio nel tempo unico nel suo genere e ispiratore di tanto cinema, e la musica, colonna sonora imprescindibile delle immagini in movimento.
L’autunno
L’autunno segue l’estate con i suoi colori, i mercati e la sosta nelle piazze. Qui è la stagione del cinema, quello girato e quello proiettato. La storia del cinema passa anche per la storia delle sale cinematografiche, delle loro trasformazioni, cambio di destinazione e denominazione per rispondere alle esigenze delle epoche storiche che oltrepassano, immortalate più volte dalla macchina da presa.
Tra i luoghi più rappresentativi della cinematografia, le piazze hanno un punto di vista privilegiato. Sono più riconoscibili di altre location e a Torino coincidono spesso con i mercati. Il più noto, ma non l’unico, quello di Porta Palazzo, immortalato più volte e in vari momenti, con la nebbia mattutina (in Mimì metallurgico ferito nell’onore), o a fine giornata, quando si consuma il rito della raccolta degli scarti. Scianca dedica un capitolo a ciascuna delle piazze più significative, più o meno riprese dal grande cinema:piazza Carlo Alberto,piazza Carignano,piazza Carlina,piazza Solferino,piazza Bodoni,ciascuna con la sua fisionomia, i palazzi che vi affacciano, una o più storie da raccontare.
L’inverno
L’inverno, la stagione fredda, dal tempo incerto, in cui si transita sotto i portici, o in galleria, nel tram – di cui il cinema ci restituisce i percorsi storici e la storia dei percorsi – al Museo del Cinema, allo stadio, ad ammirare luci e luminarie. All’inverno Scianca associa gli spazi militari, come la Caserma Pietro Micca, recentemente vista nella fictionIl nostro Generale, dedicata a Carlo Alberto Dalla Chiesa o inL’eroe della strada, con Erminio Macario. Esistono alcuni luoghi nevralgici, come le gallerie, che il cinema, specie quello d’azione, ha amato molto. Come non ricordaregalleria San Federico,“profanata” per la prima volta sul grande schermo nel 1969 dalle tre famose Mini Minor di Un colpo all’italiana, o quel labirinto stratificato di galleria Umberto I, immortalata negli anni da Antonioni, Argento, Scola e più di 20 registi.
All’inverno appartengono anche, nell’immaginario del regista, piazza CLN, indissolubilmente legata a Dario Argento, e laMole, che compare in tutte le pellicole che vogliono localizzarsi a Torino, ripresa più volte da Davide Ferrario, che addirittura ambienta nel museo del cinema al suo internoDopo mezzanotte.
La primavera
La primaveraè la stagione della rinascita, dei parchi, dei giardini, dei fiumi, delle passeggiate, delle letture alla luce naturale. Torino è la città italiana più ricca di verde pubblico e il cinema non poteva non notarlo. È anche l’occasione per ricordare quanto Torino sia legata ai libri e alla letteratura (ne è testimonianza il Salone del Libro), così come ai film tratti da libri o fatti di cronaca e tutte le volte che librerie storiche (a volte scomparse) sono rivivono tra i fotogrammi.
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Nel 2020, in occasione del ventennale della Film Commission, Italy for Movies e Film Commission Torino Piemonte hanno dedicato ai principali set della città un suggestivo itinerario, Girando per Torino.
Il bigliettino compare all’improvviso: “Provi a farsi vedere, è gratis!” con tanto di indicazioni del dottor Guido Klammermann, specialista, internista, immunologo, medico a tutto tondo. In effetti da un po’ di tempo Ulisse Orsini soffre di disturbi vari, soprattutto incubi molesti che gli impediscono di riposare come si dovrebbe. Sono tante e forse sono ovvie le ragioni del suo malessere: vive in un quartiere periferico di Milano, in via Giambellino, ed è disoccupato, diciamo che la vita non gli sorride e che questa sua precarietà gli porta ansia. Necessario dunque un urgente consulto medico. Lo studio del dottor Klammermann si trova in uno dei tanti palazzi in ristrutturazione di un’altra periferia degradata: un palazzone anonimo, senza tanti fronzoli, che non richiama nessuno stile architettonico specifico. Ulisse si incammina nell’androne e comincia a salire le scale, ma può solo ipotizzare che lì ci sia uno studio medico, visto che non ci sono targhette, indicazioni, regna piuttosto la polvere tipica di un edificio in stato di abbandono. Dalle scale fioccano piume: lo scenario è quasi inquietante, ma Ulisse non si lascia andare e prosegue finché non incontra su un pianerottolo una serie di malati che si accalcano fra materassi, sedie a rotelle. I pazienti sono caoticamente in fila, qualcuno seduto, qualcuno in piedi, tutti che si raccontano di un dolorino, un’artrite, una pressione strana sullo sterno. Finalmente appare una segretaria del dottor Klammermann che soccorre lo smarrito Ulisse chiedendogli però di prendere il numerino: anche in quel caos ci vuole un numero, c’è una progressione. Ulisse procede fra i malati finché non incappa in un paziente che ha una crisi: si sbraccia, chiede aiuto, ma viene bloccato dagli altri pazienti che gli urlano contro perché li sta disturbando. E poi Klammermann non è in studio, è un incompetente e non si presenta mai allo studio. Ulisse è in preda al panico, non gli resta che scendere velocemente in strada e dileguarsi nelle rovine della sua città…
Dopo una felice esplorazione del rapporto con il padre (I pellicani. Cronaca di un’emancipazione, Miraggi 2019) e di quello con la madre (Madre nel cassetto, Industria & Letteratura, 2023), Sergio La Chiusa si dedica alla ricognizione della figura del figlio, ovvero del giovane. Il cimitero delle macchine è infatti la storia di un’odissea urbana, quella di Ulisse Orsini, appunto, nome che richiama tanto il protagonista del testo omerico, che Leopold Bloom di James Joyce. In effetti è la storia della peregrinazione di un giovane fra le macerie di una Milano periferica e precaria, ovvero fra le proprie ansie, le paure, ma anche le aspirazioni e le illusioni ormai sfumate. Ulisse è un disoccupato, è un emarginato di una società decaduta afflitta dal male di vivere, occupata a trovare Sergio La Chiusa lavora sul confine fra letterario e metaletterario: il suo testo è infarcito di citazioni implicite ed esplicite di modelli dialogici e visivi, come la plastica ripresa del Cristo che entra a Milano ricalcato su quello di James Ensor che entra a Bruxelles. La Chiusa vuole proprio che il suo romanzo sia un macrotesto che richiama altri autori, altre immagini, altri romanzi. Il tutto strizzando l’occhio al lettore, che viene spesso richiamato e rimesso in situazione: la narrazione per questo oscilla dalla terza persona alla prima persona, dal narratore onnisciente al punto di vista di Ulisse. Romanzo visionario e post-moderno, rompe diversi schemi anche se diventa quasi vittima, per converso, di una sorta di manierismo da canone inverso. Il plot narrativo decadente è una evidente metafora di una società a brandelli che si concretizza, in perfetto richiamo simbiotico, a metà via fra lo sguardo di Ulisse e il susseguirsi di situazioni post-apocalittiche.
Le texte Intertestualitànell’ope- radiVioletteLeduc,MauriceSachs –JeanGenet–SimonedeBeauvoir de Luana Doni donne une nouvelle clé de lecture de l’œuvre de l’écri- vaine française Violette Leduc dont les études ont été plutôt fructueuses au cours des dernières années.
À travers le prisme de l’intertex- tualité, qui renvoie au lecteur les re- flets des relations complexes et sou- vent subtiles entre différents textes littéraires, Doni analyse de manière captivante les stratégies utilisées par Leduc pour dialoguer avec cer- taines œuvres de ses mentor : celles de Maurice Sachs (en particulier Le Sabbat), de Jean Genet (Le Miracle de la Rose, Notre-Dame-des-Fleurs) et de Simone de Beauvoir (L’Invi- tée, La Femme rompue et Les In- séparables), écrivains phares pour son écriture. Une écriture qui naît, comme Luana Doni le souligne, de la rencontre avec les autres.
Une autre particularité de cet es- sai souligne son caractère inédit : la volonté de montrer l’originalité de l’écriture leducienne en la privant des préjugés qui ont parfois accom- pagné l’analyse de son œuvre, sou- vent liée au personnage Leduc.
Le premier chapitre s’ouvre sur une présentation de l’écrivaine, de la genèse de son écriture ainsi que des principales études critiques qui lui ont été consacrées. Doni y ex- pose ensuite la démarche métho- dologique qu’elle adopte : à une analyse intertextuelle synchronique –mettant en relation l’œuvre de Le- duc avec les grandes figures de la littérature française, de Verlaine et Rimbaud à Colette, Proust ou en- core Gide – s’ajoute un ensemble de références à la littérature contempo- raine, notamment Jouhandeau, Leh- mann et, de manière plus marquée, Cocteau. L’autrice mobilise par ail- leurs les cadres théoriques de l’in- tertextualité proposés par Mikhaïl Bakhtine, dans sa conception poly- phonique, ainsi que les typologies de Gérard Genette. Chez Violette Leduc, l’intertextualité interne se manifeste avec une particulière in- tensité dans la trilogie autobiogra- phique, où l’écrivaine réintègre des éléments de ses textes antérieurs afin de consolider la structure en chaîne de l’ensemble. Selon Doni, LaBâ- tarderévèle de manière exemplaire cette organisation réticulaire, tout en offrant au lecteur une perception claire du projet littéraire de Leduc. Le deuxième chapitre se concentre sur les rapports qui s’entrelacent entre l’écriture de Leduc et celle de Maurice Sachs, l’auteur qui lui a ou- vert les portes de la littérature. La présence de Sachs, son grand inter- locuteur littéraire, devient pour Le- duc l’occasion pour interpeller Gide, Cocteau, Jacob. Doni souligne à plu- sieurs reprises le rôle fondamental joué par cette figure singulière dans la vie et dans l’œuvre de l’écrivaine : une présence qui hantera comme un fantôme toute son écriture à partir de son premier roman, L’Asphyxie. Dans cette section, Doni met en comparaison les passages de cer- taines pages des romans de Leduc avec ceux de Maurice Sachs, en mon- trant comment les trois composantes essentielles du style Leduc (amour, mystique et mort) ont été influencés par l’écriture de Sachs. Le chapitre est particulièrement intéressant car le dialogue entre les textes de Sachs et ceux de Leduc devient aussi l’occa- sion pour découvrir l’influence exer- cée sur les écrivains par les maîtres de leur formation littéraire, des symbo- listes Verlaine et Rimbaud aux plus contemporains Proust, Gide et Coc- teau.
Vient ensuite le chapitre 3 – Jean– consacré à l’auteur qui a proba- blement le plus influencé sa produc- tion littéraire, Jean Genet. L’écrivain subversif par excellence devient très tôt son frère littéraire, au sein d’un rapport caractérisé par une estime littèraire réciproque. Genet, avec le- quel l’écrivaine partage la connais- sance de Sartre (qui protège jalou- sement) et Simone de Beauvoir, exprime toute son admiration pour L’Affamée.
Les deux écrivains entretiennent une relation d’amitié particuliè- rement intense, marquée par une forte complicité, qui connaîtra tou- tefois une rupture brutale à l’occa- sion d’une répétition générale de la pièce Les Bonnes de Genet — ini- tialement dédiée à Leduc. Cet épi- sode conflictuel ne met cependant pas un terme à leur dialogue artis- tique, chacun demeurant, malgré les tensions, une source d’inspiration créative pour l’autre.
L’analyse proposée par Doni s’at- tarde plus spécifiquement sur les ré- sonances du Miracledelarosede Jean Genet, dont l’influence se mani- feste à plusieurs reprises dans L’Af- famée, LaFolieentêteet LaChasseà l’Amour de Leduc, tout en exerçant également une empreinte notable sur ThérèseetIsabelle. En parallèle, Ravageset Trésorsàprendreentre- tiennent des affinités intertextuelles plus explicites avec un autre roman de Genet, Notre-Dame-des-Fleurs. Doni met notamment en évidence la genèse intertextuelle complexe de l’ensemble Thérèse et Isabelle – Ravages, dont le processus d’écri- ture demeure fragmentaire et par- tiellement obscur.
Elle souligne que le langage éro- tique/amoureux utilisé par Leduc prend forme grâce aussi à la lecture de Genet : la rose évoquée dans les œuvres de l’écrivain est omnipré- sente dans celles de Leduc, mais c’est surtout l’aspect de la littéra- ture bâtarde, au-delà des catégori- sations de genre, qui rapproche les écritures des deux écrivains.
Le dernier chapitre, dans le- quel Doni explore les liens entre Simone de Beauvoir et Violette Leduc, aborde un terrain déjà lar- gement étudié, ce qui l’inscrit dans une continuité critique bien établie. On revient sur l’événement, la ren- contre entre les deux écrivaines en février 1945 au Café de Flore, sur la fascination exercée par Beauvoir sur Leduc, sur l’ambiguïté de l’at- titude de Simone de Beauvoir par rapport à cette écrivaine émergente et sur la révision puis la censure de certains passages de l’œuvre de Le- duc par Beauvoir.
Certainement, les pages concer- nant le travail de censure sur Ra- vageset ThérèseetIsabelle, selon les études de Catherine Viollet, le cas du récit Le Taxi et, surtout, la publication posthume par Simone de Beauvoir du dernier roman de la trilogie autobiographique, La Chasse à l’amour, s’avèrent plus riches d’un point de vue analytique. En reve- nant sur une étude effectuée par Mireille Brioude, « Une simple er- reur de date ? Les révélations des derniers feuillets de La Chasse à l’amour» (2019), Doni met en lu- mière la singularité du dernier pa- ragraphe du roman qui se conclut précipitamment et avec un style qui diffère beaucoup de celui de Vio- lette Leduc, riche en métaphores et en suggestions. Les études sur la partie conclusive de LaChasseà l’amour sont encore en cours et c’est sur cette voie encore à parcourir que Doni achève son essai.
En explorant les références in-tertextuelles dans l’œuvre de Le- duc, Doni offre une analyse appro- fondie de la manière dont l’écrivaine tisse un réseau complexe de signi- fications et de résonances à travers ses textes. Cette approche permet de mieux comprendre la profondeur et la richesse de l’œuvre de Violette Le- duc et son importance dans le pay- sage littéraire français, mettant en lumière sa puissance créatrice et les enjeux d’une écriture aux multiples facettes.
In Europa tra fine ‘800 e inizio ‘900, per poi oltre proseguire, esplode, dentro una concezione borghese del patriarcato che riproponeva i consueti schemi di subordinazione e sudditanza ma insieme paradossamente li smentiva nel trionfo della libertà personale e individuale, la contraddizione del femminile proprio per la sua (del femminile) nascente indisponibilità a farsi imprigionare in quegli schemi.
È innanzitutto la drammaturgia nordica ma non solo, tra l’altro quasi esclusivamente maschile, a farsi portatrice dei quella contraddizione e di quella indisponibilità che lo sguardo appunto maschile ‘pativa’ anche angosciosamente mentre, secondo l’insegnamento szondiano, contribuiva non poco alla crisi, speculare a quella sociale, del dramma moderno. Questo bel libro di Enrico Pastore affronta però il tema da un punto di vista diverso, quello delle artiste cioè, oggi diremmo performer, che non furono solo oggetto di quella mutazione ma se ne fecero concretamente carico subendone anche gli effetti. Non solo personaggi, da Salomè all’Olympya di Hofmannsthal, ma veri e propri corpi alieni che ribaltavano la percezione del femminile, incidendo sulla struttura stessa della rappresentazione. Nomi di artiste, da Sada Yacco a Cléode Mérode, da Edith Craig a Valentine de Saint-Point e Emmy Hennings, non a caso, come spesso capitava e ancora capita a molte artiste, praticamente dimenticate nonostante l’impulso essenziale che hanno saputo dare al rinnovamento del teatro. Ma non è un bagno di memoria, è soprattutto un riconoscimento di valore, dovuto e comunque tardivo. Forse altrettanto importante di quello che in precedenza segnò l’esordio sulla scena della donna, non solo come personaggio ma in carne ed ossa, e così capace di modificare anche il senso stesso del personaggio teatrale. Un lavoro importante e approfondito, come testimoniato dalla corposa bibliografia, quello di Enrico Pastore, definito da Renzo Francabandera nella sua prefazione non solo un’operazione di rottura, ma soprattutto di condivisione capace di dare l’avvio a forme sempre più complesse, nel Teatro e nella Società. Una dimostrazione ulteriore di come l’attività di quelle artiste ‘eversive’ non fosse rivolta esclusivamente alle donne nel teatro ma anche, modalità questa tipica del femminile, all’intero teatro e inevitabilmente alla intera Società. Un volume ricco e articolato da consigliare perché parlando del passato parla soprattutto al nostro presente.
Sul filo della lama, pubblicato per la prima volta nel 1991, è un libro bello e terribile. L’autore David Wojnarowicz – artista e attivista omosessuale per i diritti delle persone con Hiv/Aids –, è morto nel 1992 a New York per complicazioni correlate all’Aids a soli 37 anni: in quel periodo quasi nulla si sapeva di questo virus, compreso il modo di curarsi.
Nato nel 1954 a Red Bank (New Jersey), figlio di un marinaio violento e alcolizzato, David trascorse un’infanzia fatta di abusi ed espedienti, prostituendosi per pochi dollari fin dalla giovane età. È verso la fine degli anni Settanta che riesce ad affrancarsi dalla strada avvicinandosi prima alla scrittura e poi al mondo delle attività visive. La sua opera spazia dalla scrittura, alla scultura, alle installazioni e tutte le sue creazioni hanno come filo conduttore la solitudine, la diversità, una forte denuncia sociale e la difficoltà di vivere in una società antagonista.
Anche Sul filo della lama – una raccolta di saggi, un memoir disintegrato in mille frammenti, capitoli, ricordi – è un testo che denuncia la violenza, dà voce agli emarginati e alle minoranze, e mette in evidenza le colpe della politica, dei media e delle organizzazioni religiose americane. Nonostante il doloroso disfacimento del suo corpo e la sofferenza della sua cerchia di amici che, lentamente, uno per uno, muoiono decimati dal virus, il j’accuse dell’autore è energico e potente: lancia strali contro l’amministrazione Reagan che ha cercato in tutti i modi di relegare ai margini dello spazio pubblico ed estetico le persone con sindrome da Hiv/Aids e le soggettività queer. Wojnarowicz condanna apertamente chi detiene il potere perché totalmente disinteressato alle persone di cui, invece, dovrebbe occuparsi e perché tratta le minoranze come “piattelli a una gara di tiro”, potere rappresentato da gente che, per esempio, mentre si preoccupa di eliminare in Costarica alcuni giornalisti impegnati a portare alla luce la verità sull’importazione di cocaina da parte del governo e sull’utilizzo dei profitti derivanti dal narcotraffico per finanziare i contras, si presenta in uno studio televisivo o nel giardino della Casa Bianca o dal palco di una convention, parlando ipocritamente di gloriosi progetti umani che avrebbe in serbo per la società americana, se solo fosse eletto Presidente degli Stati Uniti.
Istituzioni indifferenti che invece di investire nella Sanità per garantire cure a tutti mettendo a disposizione strutture adeguate a chi contrae questa terribile malattia o in generale a tutela delle fasce più vulnerabili, alimentano lo stigma nei confronti di chi è colpito dall’Aids e la disinformazione in materia di salute sessuale. Le risorse destinate a contrastare la diffusione del virus sono il minimo indispensabile per far bella figura sui giornali e “pararsi il culo” mentre le persone, pur di salvarsi la vita, sono disposte ad assumere sostanze chimiche per il giardinaggio o a farsi inoculare un vaccino a base di escrementi umani.
Anche il Vaticano e la Chiesa cattolica non escono indenni dall’accusa di Wojnarowicz poiché hanno ignorato le evidenze scientifiche che dimostrano come i preservativi in lattice, se correttamente usati, possano prevenire la trasmissione dell’Hiv e di altre malattie; non solo da parte loro non c’è stata una corretta informazione per prevenire la diffusione del virus, ma sono state fatte affermazioni “preistoriche” secondo le quali gli unici modi per prevenire l’Aids sarebbero stati morigeratezza e astinenza, per cui a coloro che ignoravano gli insegnamenti della Chiesa cattolica e contraevano la malattia non restava altro da fare che incolpare sé stessi.
L’autore si rivolge anche contro la stampa per non avere dato conto alla società dell’ampiezza dell’epidemia, poiché da un lato chi controlla l’informazione porta avanti il suo programma conservatore con un’accurata selezione di quali notizie diffondere, e dall’altro considera le persone aggredite da questo virus come sacrificabili. L’America è descritta come una nazione di zombie dove ci sono tante tribù: “alcune si occupano di decerebrare le persone sostenendo il governo nel suo lavoro quotidiano, vendono alle masse mucchi di carne marcia, come una storia corrotta e falsa e un futuro corrotto e falso, e nonostante quella carne puzzi di decomposizione e pus e sangue questa particolare tribù celebra queste esalazioni nauseabonde come se fossero virtù costruite su gloriosi slanci”. Leggiamo anche una sorta di resoconto dei lunghi vagabondaggi in automobile di Wojnarowicz, con accurate descrizioni di paesaggi americani, riflessioni su architettura e arte, storie strazianti di amici e amanti che muoiono di una morte lenta e feroce, leggiamo di furtivi incontri clandestini con estranei in servizi igienici, cabine per camion, squallide stanze d’albergo, magazzini fatiscenti, automobili. Non mancano di conseguenza passaggi a contenuto sessuale, con descrizioni alquanto esplicite e crude; non sono, però, racconti gratuiti, scritti per scandalizzare o eccitare il lettore, ma hanno la funzione di liberare la sessualità in tutte le sue forme, normalizzare aspetti naturali come il sesso e il corpo, sottolineando il fatto che ancora oggi questi aspetti sono considerati un tabù, qualcosa da regolamentare e da nascondere se, in qualche modo, non conformi o sgraditi alla morale borghese.
Troviamo tutto questo e molto altro nel libro, e quello che più colpisce è l’attualità del pensiero dell’autore: dopo oltre trent’anni le critiche al Sistema sono assolutamente replicabili alla situazione attuale. Sul filo della lama è un manifesto contro il consumismo di cui ancora siamo imbevuti; contro il silenzio e l’indifferenza della politica, della stampa e della società borghese, completamente disinteressati alle minoranze o alle problematiche dei soggetti fragili; contro l’ormai consolidata abitudine a colpevolizzare le vittime, il fenomeno oggi definito victim blaming cui spesso si fa cenno in casi di violenza ai danni delle donne.
Questo manifesto torna alla luce in un momento in cui è necessario far sentire voci, se non di ribellione, almeno di critica. Non solo, ha anche il merito di riportare a galla la questione della tossicodipendenza, piaga sociale di cui si parla sempre troppo poco rispetto alla vastità del problema, esteso sia in termini di spettro di sostanze che circolano sia per numero di generazioni coinvolte. In ultimo, va riconosciuta a Wojnarowicz la grande capacità di riuscire ad alternare descrizioni molto crude e violente a immagini di grande poesia come, per esempio, la magia evocatagli da una nuca intravista in metropolitana o come quando, nella parte finale del libro, chiude numerosi paragrafi con la frase: “Cercate il profumo dei fiori finché siete in tempo”.
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