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Recensione a «I vigliacchi» di Josef Škvorecký su «Alibi Online»

Recensione a «I vigliacchi» di Josef Škvorecký su «Alibi Online»

di Michele Lupo

Quasi in diretta, appena finita la Seconda guerra mondiale, il giovane Josef Škvorecký, fra i maggiori scrittori cechi del secolo scorso (era nato nel 1924) mette nero su bianco un romanzo-fiume, Zbabělci (I vigliacchi) ora in libreria grazie a Miraggi Edizioni con una nuova traduzione a cura di Alessandro De Vito.

Il libro racconta le vicende di un gruppo di ragazzi sollevati finalmente dall’oppressione dell’occupazione nazista ma per nulla entusiasti del nuovo Leviatano, lo stalinismo, che si affaccia cupo alle porte della loro storia.

Siamo in Cecoslovacchia fra il 4 e l’11 maggio del ’45, il contesto è ovviamente imparagonabile, ma a prima vista le giornate della voce narrante, Danny Smiřický, e dei suoi amici, sembrano quelle di una qualunque banda di giovani europei, italiani anche, degli anni Settanta, che se la spassano suonando e rincorrendo ragazze. Ovviamente è un’altra storia, ma indiziaria del tono e del clima che di primo acchito si respira in queste pagine.

Il protagonista tornerà nei romanzi successivi dell’autore, una volta emigrato in Canada, per nulla intenzionato a farsi macerare dal controllo comunista, già immaginando da ragazzo un’alternativa occidentale com’è testimoniato dalla conoscenza dell’inglese e dai primi esercizi di traduzione.

I vigliacchi del titolo amano il jazz, perplessi rispetto agli avvenimenti della grande Storia che li aspetta fuori dalle stanze in cui fanno le prove, e si lasciano tormentare dalle fanciulle che gli ruotano intorno. Rispetto all’underground nostrano di mezzo secolo fa – freak destinati a soccombere sotto i colpi criminali della strategia della tensione e della cupezza delle Brigate Rosse – questi ragazzi tendono a fuggire da una morsa ancor più stretta e tragica: sono sopravvissuti agli eccidi nazisti, gli ultimi fuochi della guerra ancora esplodono, la liberazione dovrebbe renderli euforici ma temono che un nuovo mostro stia rubando le loro illusioni.

Non casualmente, al suo apparire in patria, il libro incontrò una dura ostilità: ma come, i russi comunisti ci hanno liberato dal nazismo e voi siete innamorati dell’America? Škvorecký lo fu così tanto da trasferirvisi, non negli USA ma in Canada, dove contribuì a far conoscere al mondo occidentale scrittori altrimenti destinati alla clandestinità. Com’è in un certo senso clandestina la vita di questi ragazzi, estranea ai drammi della storia o forse così segnati da volersene liberare per ripiegarsi sui fatti propri: più malinconici che gaudenti in verità, nonostante le velleità contrarie, ma riluttanti ad abbracciare i mitra per fare il loro dovere.

Il protagonista in particolare s’imparenta con la stravagante e numerosa famiglia degli spleenetici della letteratura novecentesca (anche quella del secolo prima) – qui illusioni e fantasticherie erotico-romantiche (l’ossessione per l’imprendibile Irena) si alternano a momenti di aspra cupezza, di quelli
ben noti agli adolescenti (seppure qui al crocevia con l’età adulta).

Ha dei momenti di soprassalto, Danny, ascolta per radio le notizie di Praga messa a ferro e fuoco, e lì per lì crede di dover fare il suo, ma sono momenti brevissimi, ci crede poco. Tiene al jazz piuttosto, a una musica attraverso cui incarnare e sublimare insieme gioie e dolori. Il distacco, l’ironia è forte e il sax (un libro di Škvorecký tradotto da Adelphi è intitolato Il Sax basso) sembra fatto apposta per dissacrare gli improbabili entusiasmi comunisti (che a loro paiono tutto sommato non così diversi dai padri borghesi).

La settimana del maggio 1945 (a ogni giornata corrisponde un capitolo) avrebbe tutto per essere la più eccitante della sua giovane vita – lo è pure, da una parte, ma il nuovo che avanza in luogo del nazismo per Danny già puzza di vecchio, di ordinario.

La verve di un sax tuttavia può essere beffarda e malinconica insieme, ossia autoironica, autoriflessa, e irresponsabile, com’è della giovinezza, verso quanto accade intorno, fra soldati tedeschi che scappano e russi che occupano la piccola città, per cui Danny, fra un Diexieland e un “ronzio sincopato del sax”, sempre torna col pensiero a Irena, certo la sua ossessione, salvo che “poi mi dispiaceva un po’ per lei per il fatto che non l’amavo più”.

Come quello di un narratore inattendibile, anche l’io di questo romanzo deve poter disporre di una lingua adeguata, qui uno slang mutuato (e reinventato) da quello giovanile, che dell’irriverenza jazz prova a restituire anche l’umore.

Nella esauriente postfazione Alessandro Catalano ci avverte che non è facile renderne le peculiarità in italiano; Alessandro De Vito (che della casa editrice Miraggi è anche uno dei fondatori nonché curatore della collana NováVln dedicata alla letteratura ceca) vi si cimenta affidandosi a una recente edizione critica che riorganizza i materiali precedentemente soggetti a censure, elusioni e montaggi arbitrari responsabili di una ricezione distorta del romanzo. Che sa dell’America dei giovani salingeriani non meno che delle fumisterie praghesi dell’indimenticato Angelo Maria Ripellino.

QUI l’articolo originale: https://www.alibionline.it/recensione-i-vigliacchi-di-josef-skvorecky/

Recensione a «Che peccato essere una curiosità» su «Libro Guerriero»

Recensione a «Che peccato essere una curiosità» su «Libro Guerriero»

di Linda Cester

Molto interessante e ben strutturato il saggio di Enrico Pastore, recentemente pubblicato da Miraggi Edizioni con la prefazione di Renzo Francabandera, è un viaggio affascinante e coinvolgente negli anni a cavallo fra Ottocento e Novecento – periodo storico significativo e importante che ha visto l’Occidente nel suo massimo splendore -, alla riscoperta della vita e delle opere di cinque artiste straordinarie, che non solo hanno rappresentato le tendenze e le caratteristiche di un’epoca, ma che hanno anche lasciato, attraverso la loro grande personalità, un segno profondo nel difficile percorso di emancipazione della donna.

Un’opera che si inserisce nel solco di quella produzione letteraria preziosa, volta al recupero e alla valorizzazione di una serie di figure femminili – del mondo dell’arte, della cultura e non solo – che, colpevolmente dimenticate, hanno invece determinato un passaggio fondamentale nello sviluppo della costruzione dell’identità femminile moderna,  protagoniste accantonate da quella Storia che ci appartiene e soprattutto ci riguarda tutte e tutti da vicino. Grazie a una scrittura scorrevole, mai pesante, capace di incuriosire il lettore cogliendo dettagli essenziali senza mai perdere l’armonia del discorso complessivo, Enrico Pastore ci conduce così in quegli anni vivaci e accesi della Belle Èpoque, fra cafè chantant, numeri di cabaret, danze ammalianti e spettacoli innovativi, fra le pieghe più interessanti e anticonformiste di una società frizzante in cui il teatro era uno dei mezzi di comunicazione più influente. Ed è proprio in questo luogo magico e così importante da un punto di vista sia culturale che sociale, che le donne, le artiste protagoniste del volume, hanno potuto imporre una propria visione rivoluzionaria della figura femminile, che non è più mite e rassicurante angelo del focolare, ma che diventa anima libera, emancipata, indipendente, intraprendente, lasciando che il corpo diventi campo di battaglia, fulcro significativo di una lotta che intreccia vita privata e pubblica, politica e svolte sociali, nella definizione di un nuovo approccio femminile all’arte scenica che spazia dalla danza all’espressione, dalla scrittura alla regia. Sada Yacco, Clèo de Mèrode, Edith Craig, Valentine de Saint-Point, Emmy Hennings. Cinque donne meravigliose, cinque modelli d’ispirazione, cinque dive purtroppo dimenticate, che grazie al saggio di Enrico Pastore ci vengono restituite in tutta la loro eccezionalità, capaci di lasciare un’impronta decisiva, concreta e duratura, in un mondo culturale,  dove purtroppo l’opera delle donne, non solo teatrale, viene ancora vista come un’eccezione, o come direbbe Josephine Baker – e da qui il titolo del volume – “una curiosità”.

Un ultimo accenno merita in conclusione la copertina del romanzo, che grazie all’immagine della bellissima Cléo de Mérode riesce a evocare alla perfezione le atmosfere della tematica trattata incuriosendo il lettore.

QUI l’articolo originale: https://libroguerriero.wordpress.com/2025/05/30/che-peccato-essere-una-curiosita-di-enrico-pastore-miraggi-edizioni/2/

Recensione di «Sul filo della lama» su «Libri e Notizie»

Recensione di «Sul filo della lama» su «Libri e Notizie»

di A.P.

“Sul filo della lama”: un memoir di David Wojnarowicz sulla diffusione dell’Hiv in America

Il libro di David Wojnarowicz, “Sul filo della lana” (Miraggi Edizioni, 336 pagine, 24 Euro, traduzione di Chiara Correndo, postfazione di Jonathan Bazzi), raccoglie – come recita il sottotitolo – “Memorie della disintegrazione”. 
In questo 
memoir
 urgente e denso, David Wojnarowicz offre uno spaccato violento e caleidoscopico sulla diffusione dell’Hiv in America e su cosa significhi essere omosessuale in una società, quella bigotta reaganiana degli anni Ottanta, dove domina il modello eteronormato della “famigliola felice ” e in cui si reprime a colpi di leggi, sentenze, arresti e pestaggi la voce di chi vive ai margini.
Sul filo della lama 
è un trip acido nel dolore, una sbronza in un 
dive bar 
sull’Hudson, un roadtrip furioso nella polvere dell’American Dream, raccontato attraverso una costellazione di capitoli dal taglio ora onirico ora fortemente politico, frutto di una vita dedicata a lottare per il diritto alla salute e alla corretta informazione e per il diritto di amare oltre ogni laccio sociale.
Un’opera di un’intensità che scorre a fior di pelle. Ha scritto tra l’altro
 
Jonathan Bazzi: 
«David fu una vittima – del padre, dell’omofobia, del capitalismo, della sierofobia –, ma decise molto presto di rispondere alle ferite. E non esclusivamente per sé, in forma privata: tutta la sua produzione è una risposta pubblica, e per certi versi corale, alle molte forme dell’abuso di potere, all’ingiustizia quotidiana, ordinaria, affinché nessun altro debba più espiare colpe inesistenti. Leggere Wojnarowicz oggi significa rendersi conto che il dolore personale può trovare nell’azione estetica condivisa un canale per rendere deflagrante e memorabile il proprio messaggio. Molti di noi credo se ne siano dimenticati, travolti come siamo dalla bidimensionalità propagandistica del dibattito mediatico, ma giustizia e bellezza sono sorelle. Dare al dissenso un sigillo formale potente cambia tutto».

Salvarsi contro l’indigestione di infinito. Recensione a «Non commettere infinito» su Magma Magazine

Salvarsi contro l’indigestione di infinito. Recensione a «Non commettere infinito» su Magma Magazine

Di Alberto Paolo Palumbo

La parola “confine” non indica soltanto una linea immaginaria che divide gli stati fra loro delimitandone le loro aree territoriali, ma contiene in sé anche un concetto psichico. Il confine, o meglio il bordo, è ciò che separa l’interno dall’esterno e che determina l’identità di una persona. Il bordo separa il nostro io da ciò che potrebbe destabilizzarlo. Tuttavia, l’io anela sempre ad andare oltre il bordo, ovvero da finito a diventare in-finito, e così facendo vuole correre il rischio di finire in un abisso da cui molto probabilmente non c’è via d’uscita.

È come se l’io fosse disposto a fare come Giona, a entrare dentro la balena perché non vuole essere relegato al mero ruolo affidatogli da Dio, ma a differenza di Giona l’io, però, è destinato a restare nel ventre del cetaceo. Cercare l’infinito per molti non è altro che un cadere in maniera sempre più precipitosa verso la propria fine. Di questa lotta contro il bordo ne parla lo scrittore e psicologo milanese Nicola Neri nel suo terzo romanzo Non commettere infinito (Miraggi Edizioni, 2025).

La trama di «Non commettere infinito»

Il protagonista di Non commettere infinito si chiama Morelli. È un uomo sulla trentina d’anni e lavora per una ditta. Troviamo il protagonista in macchina alle prese con una chiamata telefonica d’emergenza. Alle domande degli operatori risponde che ha fatto «indigestione di infinito» e che sta scappando dalla realtà in preda a «una dannazione speranzosa, in questo partire, in me/È ormai fatto solo di avanti, non di domani».

Ma dove è diretto esattamente Morelli? Da chi sta fuggendo di preciso? Nel corso di questo viaggio on the road – presunto o meno, ma ci arriveremo per gradi – l’uomo parla con i personaggi più disparati, fra cui operatori di call center, colleghi e vecchi amori. Passa in rassegna alla sua vita – l’abbandono della madre, l’essere cresciuto con un patrigno, problemi legali sorti a lavoro –, ma in questo viaggio sembra voler andare incontro alla morte, oppure sfiorarne il bordo per capire cosa vuole veramente da una vita che pare essere sull’orlo del fallimento.

Le possibili influenze di «Non commettere infinito»

Sono tanti i riferimenti letterari e non che Nicola Neri inserisce all’interno di Non commettere infinito. Il primo l’abbiamo citato a inizio articolo ed è la figura biblica di Giona, colui che, inghiottito dalla balena, ne uscirà esprimendo il desiderio di Dio di diffondere la sua parola nella città di Ninive. Nicola Neri cita esplicitamente il Giona di Moby Dick nei seguenti termini:

È colpa mia: mi sono inventato una storia, ma tutti hanno sbagliato a capire chi ero. Pensavate a Giona. Perché ero io a crederlo. Che io fossi Giona che entra nella balena, viene inghiottito e trova rifugio, calore, esce più ricco, nuovo. E invece sono sempre stato Achab. Colui che cerca di avvinghiarsi a chi lo porterà a fondo. Il suo tesoro è questo: una fine.

A differenza del racconto biblico, Morelli è un Giona che, invece di rispondere al desiderio di vita, cerca di andare incontro al desiderio di morte, una morte che dovrebbe proiettarlo al di fuori dei suoi confini, che dovrebbe portarlo verso una dimensione infinita dove poter essere tutto ciò che vuole e non un’etichetta delimitata dalla propria esperienza terrena.

Un altro richiamo è al film Locke di Steven Knight (2013) con protagonista Tom Hardy. Come Ivan Locke, anche Morelli lavora per una ditta e intraprende un viaggio in macchina dove compie diverse telefonate, ma a differenza di Knight Neri ci consegna, invece, un viaggio on the road più tetro, più cerebrale, e soprattutto più desolato, in quanto le chiamate che fa Morelli sono perlopiù a persone che non conosce e che viceversa non lo conoscono e non riescono a dare una soluzione al suo disagio.

Altro richiamo importante è anche a personaggi letterari come il dottor Moreau e Morel, che danno presumibilmente ispirazione al nome del protagonista. Questo collegamento ci viene immediato per la dedica che Neri scrive in esergo: «alla nostra invenzione». Come i personaggi di Wells e Bioy Casares, anche Morelli è una persona che a poco a poco impazzisce per le illusioni che si è creato, illusioni che vuole vivano con lui per sempre, e pertanto pensa che la morte sia l’unico modo per diventare infinito.

Distinzione fra bordo e bardo

Per comprendere ancora di più questo romanzo, è da tenere a mente come Nicola Neri nutra letterariamente parlando un certo debito verso suo padre Michele Neri, che cita nei ringraziamenti e fra le cui ultime pubblicazioni figura Come un mattino texano. Di solito le relazioni padre e figlio in letteratura sembrano essere abbastanza ingombranti – vedasi Alexandre Dumas padre e figlio, oppure Stephen King con i figli Joe Hill e Owen King –, ma in questo caso fra Michele e Nicola Neri c’è un rapporto molto forte di complicità che, oltre a essersi espresso esplicitamente nel memoir Scazzi, si ritrova anche in Non commettere infinito.

Il legame è da riscontrarsi in quest’ultimo e in Come un mattino texano e in due concetti che sono abbastanza simili: il bardo e il bordo. Nel primo caso, si tratta della situazione che vive Traven, il protagonista del romanzo di Michele Neri, in procinto di lasciare il mondo dei vivi per abbracciare quello dei morti, ma ancora brancolante come fantasma in un mondo che oscilla fra realtà e sogno. Nel secondo caso, invece, abbiamo Morelli, che invece dubita di vivere nella propria realtà e che cerca un modo per delimitarla andando incontro alla morte per fissarne in qualche modo i confini.

In ogni caso, sia Traven che Morelli sono fantasmi o presunti tali che si ritrovano a confrontarsi con la propria soglia, che vogliono passare allo stadio successivo per porsi come padroni della propria vita. Entrambi, infatti, vogliono delimitare la fine della propria vita, perché la fine è la casa che gli permette di stabilire una certezza per ciò che è ignoto, che sia la morte per Traven o l’infinito per Morelli.

Un disperato invito all’ascolto

Non commetere infinito gioca molto con questo confine fra reale e immaginazione, soprattutto a livello grafico. Allo stampatello delle conversazioni telefoniche, di fatti, si alternano parti in corsivo dove Morelli fa delle riflessioni su se stesso e quello che osserva. Il più delle volte queste parti si sovrappongono fra loro a rendere il confine fra la mente di Morelli e la sua realtà sempre più labile.

Sempre più labile è anche il confine fra vero e falso. Più volte, infatti, Morelli dice che quanto racconta potrebbe non corrispondere al vero, ma chiede allo stesso tempo alle persone che lo ascoltano di dargli retta:

Dev’essere imparziale e seguirmi. Perché io devo tornare indietro e farti vedere che cosa mi ha portato fino a quest’ora e a te. Così ti dirò quello che nessuno può sapere. Perché lo fanno, perché non ti hanno chiamata prima. Sono in quel breve tratto tra gli occhi ancora aperti e che si rivolgono ovunque e poi si chiudono.

Quello di Morelli diventa un soliloquio dal ritmo sempre più serrato, scandito da capitoli che si susseguono come fosse un conto alla rovescia verso la morte, dove il protagonista chiede a qualcuno che gli stia al suo fianco per far sì che lo possa scuotere e gli possa confermare che quanto sta vivendo sia la realtà, e che questa realtà la stia controllando lui e nessun altro.

Il protagonista ha bisogno che qualcuno gli creda, in quanto ha bisogno di dimostrare al mondo quanto possa essere in grado di andare oltre i limiti che la sua vita gli ha imposto, quanto sia possibile raggiungere l’infinito con le proprie mani. Chiede sempre ai suoi interlocutori se lui è reale, se è reale quanto sta provando, in quanto stabilire l’autenticità di quanto sta vivendo significa confermare le sue possibilità come padrone del proprio destino.

Una missione suicida per conto della vita

Per dimostrare quanto racconta, Morelli giustifica i suoi fallimenti, le sue esperienze con la droga come momenti che gli servivano per dimostrare come potesse essere in grado di controllare il confine fra la vita e la morte, come fosse possibile toccare l’abisso e poi riemergere e vedere la luce:

Sono in missione per conto della mia vita. Pit, vado a vedere. Scuola empirica. Che cosa c’è in fondo, al centro della corrente che sembra sul punto di esplodere? L’abisso? Una luce migliore e che aspettava di essere scoperta, sì, a caro prezzo, ma comunque una luce?

Morelli, quindi, si mette volontariamente all’interno di una corrente che è «l’unica cosa comprensibile di una vita incomprensibile», che lo porta a morire «per continuare a credere di avere vissuto». Un passaggio interessante, però, è quando il protagonista si chiede se «non ci siamo mai sentiti un po’ bovaristi». Morelli sceglie forse uno fra i personaggi più nichilisti della letteratura, Emma Bovary, una donna che insegue passioni autodistruttive per sentirsi viva, perché solo autodistruggendosi può prendere in mano la propria vita dalla monotonia coniugale a cui l’ha condannata il marito Charles.

Qual è, dunque, lo scopo di questo viaggio? Per Morelli è quello di provare a raggiungere il confine con la morte, provare forse a porre una volta per tutte fine alla propria vita per delimitarla, per dire al mondo intero che è stato lui a scrivere il suo finale, e nessun altro. Solo così, dunque, prova a non commettere infinito: cercando di annullare il flusso della vita, delle visioni e dei ricordi che gli fanno male e che sembrano decidere il finale per lui.

«Non commettere infinito»: un viaggio borderline

Se dobbiamo trovare una definizione al viaggio on the road che compie Morelli in Non commettere infinito (acquista), è quella di «viaggio borderline», un viaggio compiuto nel bordo fra finito e infinito, fra stabilità e instabilità. Il viaggio di Morelli è il viaggio disperato di un uomo che pensa che le cose gli succedano quando, invece, delle cose vorrebbe esserne il padrone, e l’unico modo che trova per appropriarsi definitivamente della propria vita è accarezzare il confine con la morte.

Allora chi sono? Sono una storia. Una storia che non esisterebbe senza di me come io senza di lei. E chi può crederci? Eppure per chi è una storia la vita comincia solo quando c’è uno che ci crede, che la rende, si può dire, vera? Amabile? Se no resta una fantasmagoria raccontata al buio, quando nemmeno gli uccelli ti danno retta. E invece ci vuole fede. E io non ho ancora trovato nessuno, che creda che questi mostri opachi che si agitano nella mia testa… Ma come credermi?

QUI l’articolo originale: https://www.magmamag.it/non-commettere-infinito-nicola-neri-recensione/

Straordinarie avventure nella cucina balcanica – Eric Gobetti recensito su «L’Indipendente»

Straordinarie avventure nella cucina balcanica – Eric Gobetti recensito su «L’Indipendente»

di Raffaele Calvanese

I cevapčići sono delle polpette di carne tipiche della cucina balcanica caratterizzate da un sapore speziato e deciso, ideali anche per una grigliata!

Così recita uno dei più importanti siti di cucina quando parla del famoso piatto a base di carne tipico della penisola balcanica che è l’ambientazione sullo sfondo delle Straordinarie avventure del professor Toti nel mondo dei cevapčići, primo romanzo dello storico Eric Gobetti. Con il suo libro (edito da Miraggi) Gobetti ritorna nel territorio Jugoslavo, da sempre suo terreno d’elezione per la produzione saggistica (che gli ha causato anche strumentalizzazioni politiche), usando l’ espediente culinario.

I palinsesti televisivi sono ormai invasi dai programmi di cucina, e il protagonista del libro, il Professor Toti, borsista dell’Università di Camerino in “storia dell’alimentazione” viene incaricato da uno di questi programmi di realizzare uno speciale proprio sulla penisola balcanica. Comincia così, in modo quasi inaspettato, un road book che da Bari porta il nostro eroe a risalire tutta la costa Balcanica attraversando mille peripezie e dovendo fronteggiare continui cambi di programma sulla tabella di marcia per assecondare l’instabilità morfologica del territorio e le insidie logistiche proprie dei diversi luoghi che si dipanano dal Montenegro fino a Sarajevo.

La cucina, il cibo, le ricette sono un linguaggio che permette di svelare agli occhi del lettore le mille peculiarità storiche e sociali del territorio martoriato dalla guerra civile degli anni ’90. A quella guerra, chi è sopravvissuto, sovrappone pensieri, idee, rimpianti e antichi dolori. Uno su tutti è quello che vede il protagonista somigliare incredibilmente al Maresciallo Tito, non a caso in copertina troviamo un’immagine del maresciallo con tanto di cappello da Chef.

Il viaggio del professor Toti, si ammanta anche di mistero dal momento che un suo mentore lo incarica di svelare una volta per tutte la leggenda legata al più antico ricettario di cui la letteratura abbia memoria, risalente addirittura ai tempi della scoperta dell’America. Il suo autore, infatti, Solomon Amerovic, sarebbe uno dei componenti della storica spedizione poi riparato nei Balcani.

Come se non bastasse, nel libro di Gobetti, condensato nelle sue novanta pagine, troviamo anche una storia d’amore che lega il sessantenne protagonista a una donna di Sarajevo che durante la fase più acuta del conflitto in Jugoslavia era venuta in Italia a studiare. Alma, infatti, è presente quasi dalla prima pagina nella mente del protagonista che punta a Sarajevo prima di tutto per provare a riallacciare i rapporti con la donna di cui si era innamorato, e mai dichiarato, ai tempi dell’università negli anni ’90.

La scrittura di Gobetti trova i suoi momenti migliori negli spassosi dialoghi tra il protagonista e la vasta fauna di personaggi per lo più improbabili che si incontrano lungo la strada. Il ritorno a Sarajevo, tramite il grimaldello della tradizione culinaria, ci svela una società multiculturale, attraversata da vettori storici e religiosi che affondano le loro radici in secoli lontanissimi. Il sincretismo con l’impero Ottomano contrapposto alle forze centrifughe del centro Europa creano una società in continuo movimento. Non si può tentare di fotografare la penisola Balcanica senza rischiare di averne un’immagine mossa.

Gobetti, da profondo conoscitore della storia dei nostri vicini di casa, riesce tramite una storia piccola a restituirci un quadro molto preciso di cos’è l’Ex Jugoslavia di oggi. Ed è questo che fa la letteratura, entra nella storia con la esse maiuscola grazie a piccoli personaggi, fondamentali a comporre il quadro generale. Degna di nota è anche l’appendice finale con un piccolo ma nutrito ricettario di molte delle pietanze nominate nelle pagine del libro.

QUI l’articolo originale: https://www.lindiependente.it/straordinarie-avventure-cevapcici/

David Wojnarowicz, una lucida visionarietà – «Sul filo della lama» recensito dal «manifesto»

David Wojnarowicz, una lucida visionarietà – «Sul filo della lama» recensito dal «manifesto»

di Silvia Nugara

GEOGRAFIE «Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione», un memoir dell’artista e scrittore morto nel 1992 di Aids

Uscito per la prima volta negli Stati Uniti nel 1991 e ora edito in italiano con il titolo Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione, Close to the Knives di David Wojnarowicz (Miraggi editore, pp. 364, euro 24, traduzione e prefazione di Chiara Correndo, postfazione di Jonathan Bazzi) è un mémoir sui generis in cui l’artista nato a Red Bank (New Jersey) nel 1954 e morto di Aids nel 1992, a soli 37 anni, sperimenta diverse forme di scrittura: dall’introspezione diaristica al manifesto, dai frammenti onirici al reportage, dall’intervista all’invettiva politica. Come se si misurasse con le potenzialità creative di uno strumento, l’artista statunitense pratica i diversi registri della parola alla ricerca di una forma con cui dare un senso, quanto più possibile trasformativo, al proprio vissuto.

Cresciuto in una disperata marginalità, con un padre abusante morto suicida quando lui era bambino, Wojnarowicz è stata una delle figure più originali e radicali della scena del Lower East Side newyorkese degli anni Ottanta. Fotografo, pittore, scrittore, attivista e testimone dell’epidemia di Hiv, scrive a partire da un corpo attraversato da dolore e desiderio, con una lucida visionarietà che tenta di resistere alla violenza e all’annientamento. Si era formato da autodidatta nella New York post-punk, praticando varie discipline che gli avevano permesso di combinare fotografia, collage, pittura, stencil, musica e scrittura per dare forma a un’estetica del tutto personale, con immagini-simbolo come la casa in fiamme o quei bufali che franano giù da una scarpata scelti dagli U2 per la copertina del singolo One. Animatore di numerosi progetti collettivi, dal 1983 Wojnarowicz aveva contribuito a trasformare alcuni spazi abbandonati lungo il fiume Hudson, in particolare il Pier 34, in luoghi in cui oltre a fare sesso occasionale si produceva ed esponeva arte. Attivista vicino ad Actup negli anni dell’epidemia, utilizzò ogni mezzo per denunciare la repressione del dissenso arrivando perfino a farsi fotografare con le labbra cucite per manifestare contro l’equazione silenzio=morte.

LO SGUARDO DI OPERE come la serie Arthur Rimbaud in New York, si traduce nel testo in una lingua tenera eppure tagliente: «Vivevo per strada e vendevo il mio corpo a chiunque fosse interessato. Gironzolavo in un quartiere che era così affollato di barboni che non ricordo nemmeno come fosse l’architettura dei palazzi.

Io almeno potevo distendere le gambe e rimediare un tetto sopra la testa, mentre tutte queste persone per strada avevano raggiunto il punto in cui il loro corpo e la loro anima non interessavano a nessuno se non a loro stessi».

Wojnarowicz si osserva con un occhio «fuori di sé» e uno «dentro di sé»: la sua è una scissione percettiva spesso innescata dall’uso di sostanze che diventa però strategia esistenziale. Lo si percepisce per esempio nei vagabondaggi che intraprende nel deserto dell’Arizona alla ricerca di una distanza dalla metropoli dolente, abbandonandosi a derive allucinatorie che aprono squarci di tregua e di connessione con corpi e anime di passaggio.

Come per Burroughs, che nel saggio introduttivo la traduttrice cita come riferimento estetico-poetico del libro, la droga non è tanto una via di fuga dalla realtà, ma strategia di sopravvivenza e, ancora di più, viatico per forme più profonde di conoscenza. La prosa mai pietistica si fa strada dalla soglia del baratro in cui langue un’umanità che è derelitta non per destino ma come esito di meccanismi sociali scientemente discriminatori. Nei suoi «raggi X dall’inferno», Wojnarowicz denuncia gli Usa che chiama «nazione monotribale», governata da un’ideologia cannibale che annienta tutto ciò che è altro.

LE SUE IMMAGINI apocalittiche, con quei «mucchi di carne marcia» che costellano il paesaggio urbano, portano alla luce la violenza della politica e la corruzione del linguaggio televisivo («non sottovalutare la pericolosità del politico alto trenta centimetri»), la brutalità della Chiesa, il proliferare sistematico della paura e dello stigma: «Il nemico è ovunque: nel corpo, nella razza, nella classe, nel governo, nella cultura, nel sistema giudiziario, nei media». La scrittura immaginifica delle pagine più biografiche si fa asciutta e documentata nelle analisi sociali su cui incide la volontà di lasciare una traccia oltre la morte. La denuncia delle politiche governative colpevoli nei confronti delle persone affette da Hiv/Aids risuona attuale nonostante il virus oggi non si presenti più in forma pandemica nei paesi ad alto reddito. Però, i tagli inferti ultimamente dall’amministrazione Trump ai fondi federali per la ricerca biomedica con in più il congelamento del sostegno ad agenzie di cooperazione internazionale come Usaid (United States Agency for International Development) avranno conseguenze dure. I finanziamenti statunitensi rappresentano, infatti, una parte cospicua delle risorse che in oltre cinquanta paesi del mondo permettono la diffusione delle cure antiretrovirali e della profilassi pre-esposizione da Hiv (PrEP). L’Unaids, organismo delle Nazioni Unite per il contrasto all’Hiv, ha addirittura fatto sapere che al momento è compromesso il piano che ambiva a porre fine all’infezione da Hiv entro il 2050.

Nel suo studio appena uscito in Francia con il titolo Une histoire mondiale du sida. 1981 – 2025, Marion Aballéa aiuta a fare il punto della situazione e a comprendere le dinamiche culturali, sociali ed epidemiologiche che hanno caratterizzato dagli anni Ottanta ad oggi il fenomeno Aids. All’alba di una svolta epocale, la ricerca scientifica e la cura potrebbero subire una drammatica battuta di arresto. Ecco dunque che l’opera di figure come Wojnarowicz non permette solo di rendere patrimonio storico comune la memoria dei morti di Aids così come accade per i morti di guerre e altre catastrofi. Quell’esperienza è un monito per l’oggi: il morbo che ha annientato una generazione esiste ancora e le sue cause non possono essere ignorate fingendo che riguardino solo l’altro da sé.

ANCHE IN QUESTA prospettiva si può situare la mostra che il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato attualmente dedica a Peter Hujar Azioni e ritratti / viaggi in Italia a cura di Grace Deveney con Stefano Collicelli Cagol (fino all’11 maggio). Hujar (1934 – 1987) fu amante e mentore di Wojnarowicz (presente in mostra) e i suoi scatti restituiscono le relazioni con una certa scena artistica e intellettuale newyorkese (Merce Cunningham, John Cage, Susan Sontag) corpi in azione, retroscena di esibizioni teatrali o coreutiche, di spettacoli drag. La sezione italiana del percorso ritrae un’Italia misteriosa, teatro di volti, paesaggi e corpi animali in chiaroscuri accesi pronti a inghiottire la vita nelle tenebre.

Lo stesso Centro Pecci ospiterà dal 4 ottobre 2025 al 1 marzo 2026, la mostra Vivono. Arte e affetti, Hiv-Aids in Italia. 1982 – 1996, curata da Michele Bertolino. Un percorso tra opere visive, video, poesie, paesaggi sonori, materiali d’archivio e oggetti personali che ricostruisce una storia internazionale dell’arte italiana negli anni dell’epidemia attraverso figure come Nino Gennaro, Corrado Levi, Lovett/Codagnone, Ottavio Mai, Porpora Marcasciano, Francesco Torrini e Patrizia Vicinelli.

QUI l’articolo originale: https://ilmanifesto.it/david-wojnarowicz-una-lucida-visionarieta

Recensione alle «Straordinarie avventure del professor Toti nel mondo dei ćevapčići» di Eric Gobetti sul «Corriere del Ticino»

Recensione alle «Straordinarie avventure del professor Toti nel mondo dei ćevapčići» di Eric Gobetti sul «Corriere del Ticino»

di Sergio Roic

Lo storico italiano Eric Gobetti si è cimentato l’anno scorso con la narrativa scrivendo il gustoso libretto Le straordinarie avventure del professor Toti nel mondo dei ćevapčići per le edizioni Miraggi. Il professor Toti, un sessantenne ancora aitante, compie un viaggio da Bari nelle terre della ex Jugoslavia per interessamento del programma tv «Il mondo in cucina». Dovrà scovare e parlare di alcune ricette tipiche del Paese una volta unito e ora suddiviso in sette parti. Il prof Toti, un esperto di cucina e cibo, compie il suo faticoso viaggio dal Montenegro, dove approda, fino a Sarajevo, città in cui spera pure di trovare un celebre ricettario. Là lo attende anche l’ex fiamma Alma, una profuga bosniaca che aveva conosciuto molti anni prima in Italia. 

Allineati tutti gli ingredienti sul piatto, Gobetti ci presenta sia il cibo sia (velocemente) la storia recente della Jugoslavia. Il fatto curioso è che Toti assomiglia al maresciallo defunto e ciò provoca situazioni spassose ma anche incresciose. Passando da una mangiata all’altra, tutte condite da numerosi bicchieri di rakija, la forte grappa jugoslava, Toti saltabecca da una vecchina montenegrina che lo prende per un combattente della Seconda guerra mondiale agli ostili tifosi di una squadra di calcio di Mostar, fino a incontrare l’agognata Alma. Le elucubrazioni del professore sulla libertà lasciano adito a qualche perplessità, ma il suo talento per il quieto vivere e per la materialità delle cose permettono di completare il viaggio (senza ritorno) a mo’ di nostalgico rientro in una realtà che non c’è più e che al massimo può essere rintracciata nel bel mezzo di una scorpacciata di burek o baklava. In ogni caso, le ricette elencate sono interessanti e gustose e con una Kokta e un burek di carne nei dintorni il libro si digerisce bene.

Recensione dei «Vigliacchi» di Josef Škvorecký su UniversoLetterario.it

Recensione dei «Vigliacchi» di Josef Škvorecký su UniversoLetterario.it

Con I vigliacchi, edito in Italia da Miraggi EdizioniJosef Škvorecký ci regala un romanzo di formazione anomalo, che si muove tra il ritratto generazionale e la critica sociale, senza mai cedere alla retorica eroica. Pubblicato per la prima volta nel 1958 in Cecoslovacchia, il libro è ambientato negli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale e segue un gruppo di giovani della provincia ceca, appassionati di jazz e poco inclini ai grandi gesti patriottici.

Lontano dalle narrazioni classiche di resistenza e coraggio, Škvorecký tratteggia un’umanità sospesa tra il desiderio di libertà e la paura di esporsi. La sua scrittura, ironica e vivace, racconta le contraddizioni di una gioventù che sogna l’America ma vive sotto l’ombra della guerra, facendo del jazz non solo una passione musicale, ma un simbolo di ribellione e di un altrove sognato ma irraggiungibile.

Trama: un attimo prima della libertà

Il romanzo si svolge in una piccola città ceca nel maggio del 1945, proprio mentre le truppe naziste si stanno ritirando e l’arrivo delle forze sovietiche sembra imminente. Il protagonista, Danny Smiřický, è un giovane sassofonista che trascorre le giornate tra la musica, le fantasie amorose e le discussioni con i suoi amici, senza un vero impegno politico o militare.

Danny e il suo gruppo non sono eroi né resistenti, ma nemmeno collaborazionisti: sono semplicemente ragazzi che cercano di capire da che parte stare, mossi più dalla paura e dall’incertezza che da una reale convinzione ideologica. Il titolo stesso, I vigliacchi, suggerisce l’ambiguità di questi giovani che si trovano a vivere un momento storico cruciale senza avere il coraggio o la voglia di essere protagonisti.

Il romanzo si sviluppa come una serie di episodi che oscillano tra il comico e il tragico, mostrando l’assurdità della guerra e la difficoltà di prendere posizione in un mondo in cui le certezze si sgretolano di fronte agli eventi.

Un protagonista antieroico: Danny Smiřický

Danny è un personaggio che si distacca dai classici eroi della letteratura di guerra. Non ha il coraggio di unirsi alla resistenza, ma nemmeno la spietatezza di chi ha abbracciato il nazismo. È un giovane che vorrebbe solo suonare il jazz e conquistare le ragazze, ma che si trova invischiato in una realtà che non può ignorare.

Attraverso il suo sguardo, Škvorecký mostra l’ipocrisia della società dell’epoca. Mentre alcuni si affrettano a dichiararsi partigiani solo quando la vittoria è ormai certa, altri cercano di ripulire la propria immagine per sopravvivere al nuovo regime che sta arrivando.

La grandezza del romanzo sta proprio in questa assenza di giudizio morale. Škvorecký non condanna Danny e i suoi amici, ma li racconta per quello che sono: giovani confusi, pieni di paure e desideri, costretti a confrontarsi con una storia che non hanno scelto di vivere.

Il jazz come simbolo di libertà e disillusione

Uno degli elementi più affascinanti del romanzo è la centralità del jazz, che non è solo la passione di Danny, ma un vero e proprio simbolo della libertà sognata e mai raggiunta.

In una Cecoslovacchia ancora sotto il giogo nazista e presto destinata a cadere sotto il regime sovietico, il jazz rappresenta un anelito di evasione, un collegamento con l’America e con un mondo che sembra così lontano dalla realtà quotidiana. Tuttavia, proprio come Danny e i suoi amici, anche il jazz resta sospeso tra il desiderio e l’impossibilità di realizzarlo pienamente.

Škvorecký, che nella vita reale era un grande appassionato di musica, utilizza il jazz come filo conduttore per esprimere la frustrazione di una generazione privata della possibilità di sognare davvero. La musica diventa un linguaggio alternativo alla guerra e alla politica, un rifugio in cui cercare un’identità in un mondo che sembra non offrirne alcuna.

Stile e tono narrativo: ironia e disincanto

Uno degli elementi distintivi de I vigliacchi è il suo stile narrativo. Škvorecký adotta un tono ironico e a tratti dissacrante, che smonta la retorica eroica tipica delle narrazioni di guerra. Il suo sguardo è disincantato, capace di cogliere la comicità involontaria di certe situazioni senza mai perdere di vista il dramma sottostante.

Il linguaggio è scorrevole, colloquiale, quasi cinematografico. I dialoghi sono vivaci e realistici, e i pensieri di Danny, spesso contraddittori e confusi, contribuiscono a rendere il protagonista estremamente umano e credibile.

Nonostante l’ironia, però, il romanzo lascia addosso un senso di inquietudine e di malinconia. Il lettore sa che la storia non darà a Danny e ai suoi amici la possibilità di vivere la vita che desiderano. L’occupazione nazista sta per finire, ma presto arriverà un’altra oppressione, e i sogni di libertà resteranno, ancora una volta, irrealizzati.

Un romanzo scandaloso e attuale

Alla sua pubblicazione, I vigliacchi suscitò enorme scalpore in Cecoslovacchia. La critica ufficiale lo accusò di essere anti-patriottico e offensivo nei confronti della resistenza. In un’epoca in cui si cercava di costruire una memoria collettiva fondata su atti eroici e sacrifici gloriosi, il ritratto di giovani indecisi e spaventati apparve come una provocazione inaccettabile.

Oggi, però, il romanzo si rivela di straordinaria attualità. In un mondo in cui le guerre e le crisi politiche continuano a mettere le persone di fronte a scelte difficili, I vigliacchi ci ricorda che non tutti sono pronti a essere eroi, e che spesso la storia è fatta anche di esitazioni, paure e compromessi.

U classico del disincanto

In conclusione, con I vigliacchi Josef Škvorecký ci consegna un romanzo che sfida le narrazioni eroiche della storia, offrendo un ritratto sincerorealistico di una gioventù senza certezze. Grazie a uno stile ironico e coinvolgente, e a un protagonista tanto imperfetto quanto umano, il libro si impone come una lettura fondamentale per chiunque voglia comprendere il lato meno celebrato della guerra: quello di chi ha avuto paura, di chi ha esitato, di chi ha cercato di sopravvivere senza diventare un martire.

QUI l’articolo originale: https://universoletterario.it/i-vigliacchi-di-josef-skvorecky/

«Ogni cosa ha il suo tempo» di Petra Soukupová: quand’è l’ultima volta che siamo stati felici?

«Ogni cosa ha il suo tempo» di Petra Soukupová: quand’è l’ultima volta che siamo stati felici?

di Sara Concato

Una domanda che risuona nella testa dopo la lettura di un romanzo che penetra, come una sonda, lo spazio e il tempo di una famiglia come altre. Ogni cosa ha il suo tempo, di Petra Soukupová.

La prima cosa che salta all’occhio tenendo fra le mani questo libro è il titolo in lingua originaleche emerge da quello in italiano e il nome della traduttrice, Letizia Kostner, in copertina. È un segno di riconoscimento della casa editrice Miraggi in generale e in particolare della collana NováVlna, dedicata alla letteratura ceca.

In quarta di copertina appare un intero brano scritto in entrambe le lingue, riga per riga a ricordarci che l’autore di un libro tradotto non è mai uno solo. Ma forse ogni libro non ha mai solamente un autore.

La prima cosa che salta all’occhio tenendo fra le mani questo libro è il titolo in lingua originaleche emerge da quello in italiano e il nome della traduttrice, Letizia Kostner, in copertina. È un segno di riconoscimento della casa editrice Miraggi in generale e in particolare della collana NováVlna, dedicata alla letteratura ceca.

In quarta di copertina appare un intero brano scritto in entrambe le lingue, riga per riga a ricordarci che l’autore di un libro tradotto non è mai uno solo. Ma forse ogni libro non ha mai solamente un autore.

Difficilmente in famiglia si parla con chiarezza e sincerità. C’è una dinamica di aspettative e di sottintesi che spesso corre più veloce di noi. Ma a volte può capitare di essere ascoltati: “Tutto qui?” (p. 198) esclama Kája sorpreso di non ricevere punizioni dai genitori dopo aver detto loro che non vuole più nuotare. Mettersi nei panni dell’altro è un esercizio poco praticato, è un esercizio difficile. Più leggiamo e più ce ne accorgiamo. Passando da un punto di vista all’altro, entriamo nella mente dei personaggi e capiamo che non esiste un “cattivo” e “un buono”. 

Esistono relazioni e cambiamenti. Esistono egoismi, sussulti di un’io che si scontra col noi. Non è facile costruire una comunità, grande o piccola che sia. È facile che una comunità si disgreghi per far posto ad altre forme di esistenza. Richard pensa alla sua famiglia che “si regge solo per inerzia”, e si chiede: “se invece avessero ancora tutti la possibilità di avere qualcosa di meglio?” (p. 252). “Ormai è tutto una noia”, gli fa eco Alice, “non chiacchierano più di nulla, solo di questioni organizzative” (p. 272). Ma la rottura spaventa, la perdita dell’abitudine, la paura del nuovo. Alice è tormentata tra la noia e la rabbia, fra l’abitudine e il desiderio di vita. “Quasi tutta la giornata trascorre così, rabbia, tristezza, determinazione, rabbia, tristezza, lavoro, pranzo, nel pomeriggio porta di nuovo il cane a fare una passeggiata, senza nemmeno fingere di voler fare giusto due passi. Niente” (p. 275).

Nel susseguirsi dei capitoli, che aprono ogni volta il punto di vista di un personaggio diverso, entriamo nella quotidianità asfittica di una famiglia tradizionale, madre, padre, figlio e figlia, con cui intraprendiamo un viaggio lungo più di trecento pagine, percorriamo un pezzo della loro storia, una storia ordinaria, sviscerata nei minimi dettagli. È come una vivisezione, la dissezione di un corpo vivente per guardarne i meccanismi il più vicino possibile, accorgendoci che la chiave di tutto è sempre il mutamento, l’instabilità (necessaria) che comporta scomposizioni e ricomposizioni, respiri lunghi o tagli netti che permettono a un organismo di rigenerarsi.

In men che non si dica prende il ritmo che le è più congeniale” (p. 141). Fra scegliere un compromesso e seguire il proprio tempo ci si smarrisce spesso, e si resta in uno spazio indefinito in cui la coppia mal assorbe l’individuo, ne digerisce un po’ e un po’ lo perde. La tenerezza spontanea svanisce e un gesto o uno sguardo insolito provocano ansia, sospetto, perfino fastidio, più che piacere. L’abitudine viene a coronare il malassorbimento, ma le parti indigerite prima o poi tornano a galla. Conosciamo mai veramente chi abbiamo accanto?
Quand’è l’ultima volta che siamo stati felici?

QUI l’articolo originale: https://www.ghigliottina.info/2025/04/14/ogni-cosa-ha-il-suo-tempo-petra-soukupova/

David Wojnarowicz arriva in Italia con la prima traduzione di «Close to the Knives»

David Wojnarowicz arriva in Italia con la prima traduzione di «Close to the Knives»

di Lucio Vitagliano

L’incendiario memoir dell’artista e attivista newyorkese queer e HIV+

Incastonata tra le vie acciottolate del centro di Torino, Nora book è uno degli spazi LGBTQIA+ più
noti in città e venerdì scorso 28 marzo ha ospitato un evento importante non solo per il panorama
culturale italiano, ma anche per quello statunitense: la presentazione in anteprima del libro “Sul filo
della lama” (Close to the Knives) per Miraggi edizioni, la prima traduzione italiana dell’incendiario
memoir dell’artista e attivista newyorkese queer e HIV+ David Wojnarowicz.
L’interesse nei confronti della figura di questo artista non si è mai spento e, anzi, è cresciuto
esponenzialmente negli ultimi tempi, grazie anche ad una serie di mostre internazionali e documentari
incentrati sulla vita e la lotta di Wojnarowicz. Questa riscoperta si è accompagnata ad un nuovo
slancio scientifico e mediatico verso quella incredibile fucina culturale che è stata la scena artistica
avantgarde della Downtown New York e questo lo testimonia ad esempio la recente acquisizione da
parte della NYPL della collezione di Leonard Abram dell’East Village Eye, storica piattaforma che
ha documentato la vibrante vita dell’East Village dal 1979 al 1987.
Nonostante il vivace interesse a livello internazionale per il lavoro e l’arte di Wojnarowicz, la figura
dell’artista è relativamente poco conosciuta in Italia. Questo lavoro di traduzione, curato da Chiara
Correndo, ricercatrice e traduttrice, è quindi qualcosa di più di una semplice pubblicazione, poiché si
sta rapidamente configurando come l’occasione per far conoscere l’artista in Italia e aggregare
studiosi e studiose indipendenti che in Italia lavorano su di lui.
L’evento presso Nora book è stato il primo di una serie di appuntamenti nazionali dedicati alla
promozione del libro e della figura dell’autore: la traduttrice, in dialogo con il ricercatore e attivista
Cristian Lo Iacono, ha presentato ad un pubblico piuttosto folto i contorni dell’opera di Wojnarowicz,
i suoi simboli e il suo legame con la lotta di Act Up New York. Il grazioso dehors della libreria era
molto affollato, a conferma del grande interesse verso la pubblicazione e della curiosità da parte del
pubblico italiano di saperne di più.
Il libro verrà presentato l’11 aprile anche a Prato presso il Centro per l’arte contemporanea Luigi
Pecci, polo artistico e culturale fondamentale in Italia che ospita dal 14 dicembre 2024 all’11 maggio
2025 la mostra del fotografo statunitense Peter Hujar. L’esposizione, Peter Hujar: Azioni e ritratti /
viaggi in Italia, curata da Grace Deveney e Stefano Collicelli Cagol, ospita 20 scatti realizzati da
Hujar durante i suoi viaggi in Italia e una selezione di 39 immagini che immortalano i protagonisti
della vibrante scena della Downtown New York. Visto il rapporto di profondo affetto e amicizia che
legava i due artisti, si è dunque deciso di dare spazio alla presentazione del memoir nel quadro degli
eventi legati alla mostra. L’11 aprile, pertanto, la traduttrice sarà in dialogo con il critico teatrale
Enrico Pastore e con l’artivista Tony Allotta, attore e attivista del collettivo Conigli Bianchi che da
anni si occupa con passione di corretta divulgazione in materia di salute sessuale per combattere la
sierofobia e lo stigma che circonda le persone con HIV.

QUI l’articolo originale: https://lavocedinewyork.com/arts/cultura/2025/04/02/david-wojnarowicz-arriva-in-italia-con-la-prima-traduzione-diclose-to-the-knives/

Josef Škvorecký / La rivoluzione dei codardi – su «PulpMagazine»

Josef Škvorecký / La rivoluzione dei codardi – su «PulpMagazine»

Recensione a I vigliacchi di Riccardo Cenci.

Nei Vigliacchi Josef Škvorecký distilla in otto giorni e in altrettanti capitoli quelle ore sature di potenziale drammatico delle quali parla Stefan Zweig in Momenti fatali, quel progressivo addensarsi di eventi gravidi di fato dopo i quali nulla sarà più come prima. L’azione, situata in una cittadina della Boemia, copre il periodo che va dal 4 all’11 maggio del 1945, durante il quale i nazisti presenti in Cecoslovacchia stanno per essere travolti dall’Armata Rossa. In questi scenari si muove Danny Smiřický, alter ego dell’autore stesso in numerose sue opere, personaggio irriverente e anticonformista, perennemente in bilico fra la noia esistenziale e il vitalismo irrefrenabile. Come Svejk ha la capacità di resistere all’orrore della guerra, facendosi beffe del male. Meno caricaturale e grottesco del buon soldato di Hasek, Danny può ricordare l’Holden di Salinger, e non è un caso considerando che Škvorecký era imbevuto di cultura angloamericana. L’individuazione di un linguaggio perfettamente funzionale alla narrazione è tratto comune. Salinger si esprime alla maniera degli adolescenti americani, con il loro slang e i loro manierismi. La lingua è il grimaldello che scardina l’ipocrisia della società del benessere. La medesima operazione viene messa in atto da Škvorecký, veicolando nel lettore uno straordinario senso di autenticità. La sua critica è rivolta all’ambiente piccolo borghese, che è riuscito a restare a galla persino durante l’occupazione nazista. Su tutto questo si innesta l’andamento musicale della struttura narrativa, la sua ispirazione jazzistica. Non a caso l’apertura e la chiusura del romanzo mostrano Danny impegnato con la sua band. Il jazz rappresenta la rottura con qualsiasi elemento stereotipato, l’aspirazione verso una libertà di espressione totale. Il sax tenore, con il suo chiaro simbolismo sessuale, invita allo sberleffo, all’eccitazione dionisiaca. Da questo punto di vista anche i pensieri di Danny, con il loro continuo oscillare da un estremo all’altro, forniscono l’impressione di una coscienza preda di una musica selvaggia, ancora non completamente formata, alla ricerca di una propria direzione.

Siamo indubbiamente di fronte a un romanzo di formazione. Un’immagine, un ricordo precipitano il protagonista in un caleidoscopio di riflessioni dalla sostanza onirica, perché “il sogno era nella mia natura da tempo immemorabile”. Significativamente ogni capitolo, eccetto l’ultimo, termina con il protagonista che si addormenta, consegnato all’oblio in un sonno senza sogni, oppure popolato di cose che, al risveglio, dimenticherà. L’amore per Irena diviene ossessione a causa del rifiuto della ragazza a concedersi. Un sentimento incerto e illusorio in quanto legato all’apparenza estetica. Fondamentale è vivere, anche se tutto quello che è bello rivela una natura effimera. Momentanee oasi di beatitudine sono garantite dalla musica, come quando Danny si ferma ad ascoltare un’orchestrina russa, con la vibrazione profonda della balalaika che ha del miracoloso. Il piacere sparisce, rapido come è venuto, perché «stavo male per l’impotenza dell’uomo e per un mondo dove tutto era organizzato così male che ogni meraviglia, se mai capita, la si può conoscere così di rado, oppure, una volta conosciuta, si finisce per perderla subito, restando disperati e tristi e con tanta voglia di morire».

Neppure la religione è di conforto. Il dubbio riguardo l’esistenza di Dio dà vita a elucubrazioni contrastanti. Il dramma si manifesta all’improvviso, in un gruppo di ebree appena uscite da un campo di concentramento, pallide come spettri, o in una ragazza tedesca convinta della superiorità della razza ariana fino al fanatismo.  Momenti cruciali nella storia europea vengono descritti in maniera peculiare, proprio perché filtrati attraverso lo sguardo disincantato e irriverente di Danny. «Qualche giorno di entusiasmo e poi di nuovo la stessa pappa, sempre uguale, appiccicosa e vischiosa». Un mondo è al tramonto, ma il nuovo appare ugualmente estraneo e ostile. Siamo distanti dalla mitizzazione di un’intera generazione operata ad esempio da Fenoglio nel Partigiano Johnny, dove la resistenza ha una forte motivazione esistenziale. Danny è un antieroe, distante da qualsiasi retorica ideologica e per questo inviso al regime comunista. I liberatori, dei quali non comprende la lingua, gli appaiono: “completamente diversi da me e incredibilmente estranei”. Sin dal titolo, ci troviamo in un sistema di valori totalmente contrario ai dettami del socialismo. L’eroismo di Danny è una posa, una finzione, come dimostra l’episodio della foto con il mitra usata unicamente come esca per le ragazze. Una strana sensazione di vuoto e di inutilità lo minaccia. “Tutti eravamo dei morti viventi”, dice. Con il suo anelito libertario e le sue contraddizioni insolubili, con il suo vitalismo e i suoi ripiegamenti malinconici, Danny è il simbolo dell’irrequieta indole giovanile, della ribellione desiderata e mai del tutto compiuta; in quanto testimone di un’età irripetibile, ci commuove con la sua profonda e imperfetta umanità.

Screenshot

QUI l’articolo originale: https://www.pulplibri.it/josef-skvorecky-la-rivoluzione-dei-codardi/?fbclid=IwY2xjawIrrYxleHRuA2FlbQIxMQABHdDOb23Z8q9RuW_5inelgI2g0tjwettc8sRpgpRp-IKMGDlNJ49uwD556A_aem_UtVdAjiy6wi_PZ-JbPJQOg

Recensione di «Non commettere infinito» di Nicola Neri su «D – Repubblica»

Recensione di «Non commettere infinito» di Nicola Neri su «D – Repubblica»

di Maurizio Fiorino

In corsa sull’autostrada, una telefonata dopo l’altra, per darsi un’ultima chance

“Mi faccia capire, sta fuggendo da qualcosa?”, chiede all’improvviso una delle tante voci senza volto presenti in questo libro e, quasi, verrebbe da dire che sta tutto qui, il senso di Non commettere infinito (Miraggi Edizioni), quarto romanzo di Nicola Neri. “Dalla realtà” è la risposta che arriva dall’altro capo del telefono. A rispondere è un uomo che guida come un forsennato nella notte ma sarebbe troppo semplice, finanche riduttivo, liquidare questa storia con l’aneddoto che sta alla base di ogni seduta psicoanalitica. Certo, fuggiamo tutti da qualcosa ma la fuga di Morelli – questo il nome del protagonista – descritta da Neri che, di professione, fa (anche) lo psicologo, è ovviamente un escamotage per celare intrecci e ossessioni. La storia è pressappoco questa: Morelli è un uomo di trentacinque anni e, nonostante amici, colleghi, donne, si sente infinitamente solo. “Sai dove conducono le bugie. Le bugie conducono a incidenti”, si dice a un certo punto. Guida su un’autostrada che sembra infinita e, nel tragitto, fa e riceve una telefonata dopo l’altra. Nelle conversazioni si perde e si ritrova, si confessa, si lascia andare a un flusso ininterrotto di pensieri. Vorrebbe solo schiantar-si, andare a fondo, “al centro della corrente che sembra sul punto di esplodere” ma, prima di farlo, vuole una chance, l’ultima, perché – parole sue – “poi non ce ne sono altre”.

Se la struttura della telefonata-ossessione ha tanti esempi celebri (uno su tutti il Cocteau de La voce umana), l’ambientazione, forse perché lo abbiamo da poco visto al cinema, sembra uscita da Una notte a New York, l’ultimo di Sean Penn e Dakota Johnson, girato interamente in un taxi notturno. “Ho passato tutto il pomeriggio sdraiato a letto. E perché? Il tempo. Ero sdraiato e davanti a me c’era un vecchio orologio a muro, con i secondi. O almeno, io pensavo che fossero secondi”, fa dire Neri al suo io narrante e, senza voler scomodare Proust (che, a proposito, all’improvviso appare in un personaggio, “la proustiana con la madre lontana”) e il suo concetto di tempo cronologico e lineare versus tempo interiore e oggettivo, leggendo Non commettere infinito e analizzandolo in un rapporto spazio-tempo, viene in mente il gioioso caos mentale di Zeno Cosini, soprattutto laddove il protagonista sembra rielaborare il suo passato relazionandolo alla guida tormentata della sua autovettura. Così il Morelli che, come dicevamo, crede di scappare dalla realtà, diventa una metafora del tempo che passa e noi lettori, in fondo, non possiamo fare altro che arrenderci e seguirlo nella sua spericolata avventura alla ricerca di se stesso.

Nicola Neri (classe 1992) ha una scrittura già affilata e chiara e in questo suo romanzo, a proposito di linguaggio, ha deciso di usare una lingua puramente visionaria e cinematografica, evidentemente l’unica possibile a rendere questa lunga seduta psicoanalitica “on the road” lucida e spigolosa. “Le emozioni. Da quando ricordo, io le vivo come… fossero entità esterne. Forze esterne che mi afferra-no”, dice il protagonista, a dimostrazione che il tema cardine del libro è semplicemente l’incomunicabilità con noi stessi e, ovvia conseguenza, con tutto ciò che definisce i nostri confini e che consideriamo il mondo esterno.