Io amo le cose belle, le cose ricercate, le cose preziose. E oggi proprio di questo parleremo. Oggi ci facciamo trafiggere da una freccia poetica destinata a lasciare il segno.
Oggi vi presento “Senti cosa ho scritto” di Lorenzo Bartolini, pagine in versi suddivise in tre tempi. E il fatto che “Giugno in parole” dell’anno scorso fosse dedicato a un altro grande artista – che risponde al nome di Roberto Mercadini e che firma la prefazione del libro – non è un caso.
Sono emozionata, entusiasta, orgogliosa di avere letto queste righe e di avere conosciuto il loro padrone. Tutti dovremmo avere Lorenzo come amico, come conoscente, come poeta. A nessuno dovrebbe essere negato il diritto di godere delle sue parole, parole che si posano come polvere di stelle sulle nostre palpebre chiuse, parole che illuminano di meraviglia ogni sfaccettatura della realtà su cui si posano.
Lorenzo è un attento osservatore di ciò che lo circonda e ciò che i suoi occhi, la sua pelle e il suo cuore percepiscono viene riflesso in uno stile fatto per essere letto, uno stile pulito, nitido, gentile e indagatore dell’animo umano.
Non è possibile non rimanere incantati e stupiti dalla dolcezza e dalla sensibilità racchiuse in questi fogli di carta che ci conducono per mano in lande calorose e colorate.
Salpiamo sulla barca Bartolinica per un viaggio in una poesia che ha il potere di espandersi e occupare ogni spazio libero. Una poesia che ci mostrerà tutto ciò su cui lo sguardo, il tocco e la penna di Lorenzo si sono soffermati creando parole, immaginari e cornici da riempire di bellezza.
Una prima cornice, forse La cornice, è l’Amore: ogni poro di ogni foglio di carta trasuda amore; amore per la mamma, per la fidanzata, per la nipote, per l’amico, per le città (e Torino non poteva mancare). Ogni riga è un inno ad amare e a non avere paura di farlo e di scriverlo. Ogni riga è un inno a vivere ogni stato d’animo, anche quello che porta con sé il freddo vissuto da un cuore privato per un istante dal calore dell’amore a causa di una lite. Ogni riga è un inno a curarsi a suon d’affetto e a lasciarsi trasportare dallo stupore che avvolge ciò che ai più appare ovvio.
Una seconda cornice è la Vita, vita che ci appare straordinaria nella sua scansione temporale ordinaria. Vita che si compone di grandi temi affrontati con la bellezza della semplicità e della bontà di cuore. Qui la poesia riesce a smuovere le coscienze, a diventare uno spillo che ha il potere di sgonfiare quell’enorme bolla che ci costruiamo per non vedere ciò che non ci tocca da vicino. Uno spillo che fa convivere in un buco piccolissimo vino e vergogna. Ma la vita è anche gioco: un modo per rinfrancarsi dalla potenza e dall’energia delle passioni. E’ una pausa per fermarsi a riflettere e a ragionare, sospendendo quella frenesia che non è altro che una cattiva consigliera. La vita è anche non morte e quindi regno assorbente di ogni pensiero.
Una terza cornice è composta dai Ricordi poetici, lettere che sprigionano meraviglia, gioia, generosità, vicinanza, parità. Sono frammenti di attimi di riconoscimento di anime. E’ una cornice libera dove il poeta crea il suo mosaico emozionale che funge da stimolo per il lettore, il quale così potrà dare il suo valore emozionale alle parole che legge, riempiendo di luoghi, sensazioni e persone la terra, la natura e i gesti.
Questo è un lavoro che ha lo splendore e il fascino di una cometa persistente da un lato e la forza educativa ai sentimenti dall’altro. Qui le parole vibrano, si mescolano, si scuotono e danzano al ritmo di una musicalità inedita, una musicalità di cui non potremo e non vorremo più fare a meno.
I love the beautiful things, the valued things, the precious things. And today we will talk about these things. Today the poetical arrow will pierce us and it will leave a sign.
Today I present you “Senti cosa ho scritto” (You listen what I wrote), Lorenzo Bartolini’s verses divided in three times. It isn’t a coincidence that last year I talked about an other big artist in “The words of June” section: his name isRoberto Mercadini and he signs the book preface.
I am touched, enthusiastic, proud because I read these lines and I met its owner. Everyone would have to have Lorenzo as friend, acquaintance, poet. Everyone would have to have the right to enjoy his words, which place like stars dust on our closed eyelids, words that light every reality side with magnificence.
Lorenzo is careful observer and what his eyes, skin and heart sense has reflected in his style, a style to read, a clean style, a gentle style, a human spirit investigator style.
We are enchanted and amazed of his sweetness and sensitivity included in these sheets of paper, which join our hands to bring us toward loving and coloured lands.
With his ship, we sail off into the poem, a poem that has the power to grow and capture every free space. A poem that shows us Lorenzo’s reality: his gaze, his style and his pen create words, imaginations and frames to fill up with beauty.
A first frame, maybe the frame, is the Love: every pore of every sheet of paper trickles love; love for the mum, for the girlfriend, for the niece, for the friend, for the cities (and Turin is here). Every line is an ode to love and to not fear to love and write it. Every line is an ode to live every state of mind, even the state of mind that brings the cold lived by the heart when the warm of the love misses for a moment because of a fight. Every line is an ode to take care of us with the love; it is an ode to be surprised about what a lot of persons believe obvious.
A second frame is the Life, life that appears us extraordinary in its ordinary temporal scan. Life with its big questions faced with the beauty of ease and heart kindness. Here the poems move the awarenesses, they are a pin that deflates the big ball which we build around us to not watch what is not near us. A pin that creates a little hole where wine and embarrassment live side by side. But the life is a game too: a way to refresh us from the passions power and energy. It is a pause to stop and to think, without the frenzy that isn’t a good advisor. The life is a not death too and so it is a kingdom that absorbs every thought.
A third frame has made by poetical Memories: the letters give off marvel, delight, altruism, affinity, parity. They are fragments of instants of souls identification. It is a free frame where the poet creates his emotional mosaic that acts as an incentive for the reader, which will give his emotional value to the read words and he will fill up with places, sensations and people the land, the nature and the gestures.
This work shines as a persistent comet and it has the power to educate to the emotions. Here the words are vibrant, they shake, they dance with a fresh sound that will become indispensable for us.
Ho fatto la doppietta di Claudio Marinaccio, dopo il divertente Come un pugno, ho dedicato
un´ora spensierata a questo nuovo Non disturbare, uscito per Miraggi Edizioni.
Il libro è strutturato a piccoli episodi, mutuati su quel mix di parodia di situazioni tipiche (il tormentone degli scocciatori al citofono o per telefono, testimoni di Geova, gestori telefonici, banche) e mini-cronaca di costume che caratterizza anche le attività dell´autore sul suo profilo Facebook. Ritroviamo in effetti anche la stessa voce onesta, a volte cinica, politicamente scorretta, con un certo equilibrio tra sarcastico e amaro/tenero e una modalità schietta e picaresca che potrebbe essere risultato di alcune sue letture americane.
Credo di non offendere nessuno se dico che questo libro potrebbe essere una versione appunto politicamente scorretta delle operazioni tipo “Momenti di trascurabile…” di Francesco Piccolo.
Il tema portante peraltro non è banale, si tratta del surplus di stimoli uditivi e visivi a cui siamo sottoposti: discussioni da bar preferibilmente a voce alta, cold-calling* e ancora scene di cd. ordinaria solitudine da social.
L´altro filo conduttore mi pare essere la cronaca della provincia (i bar, le puntate “in città”) e dei suoitipi, con alcuni esiti che possono ricordare alla lontana il capostipite di questo tipo di satira o ritratto, il Bar Sport di Benni (che però spingeva molto di più sui pedali di satira e parodia, mentre Marinaccio alterna in questi piccoli ritratti “invettiva” anti-luoghi comuni e una certa tenerezza specie per le figure degli immancabili anziani).
In conclusione e nonostante questo ancoraggio nella nostra attualità, penso non si faccia torto all´autore se si afferma che qui egli intendeva soprattutto intrattenere e far sorridere, non produrre particolari approfondimenti su un terreno giornalistico o saggistico.
Se si accetta questa premessa Non disturbare risulta una lettura simpatica e sorridente, conferma quella che è una buona penna e simpatizza con il lettore (o forse viceversa) con la tonalità sincera e scanzonata di chi racconta cose a un amico davanti a una birra o un vino rosso.
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*Cold callling è una definizione legale delle chiamate commerciali effettuate senza aver esplicita autorizzazione dal Cliente, qui nel mio paese è pratica considerata piuttosto grave e sanzionata – con gradazioni differenti rispetto a chi le fa, ad esempio per una Banca può comportare multe salate ma anche conseguenze più gravi – dal libro mi par di capire che in Italia la situazione sia ancora a uno stato piuttosto selvaggio.
POST-SCRIPTUM ALLA MARINACCIO
Non saprete mai se il libro mi sia piaciuto davvero. Peró sai l´autore scrive e recensisce libri per Il Mucchio e Donna Moderna…non si sa mai, meglio tenerselo buono.
Bello, sensibile come una corda di violino e straordinariamente pieno di sé, uno studente modello di una cittadina nei pressi del Mar Bianco, con alle spalle un’infanzia di guerra e di abbandono, surclassa tutti agli esami di maturità e viene mandato a frequentare l’università di Mosca. Al trionfale arrivo nel cuore dell’Unione Sovietica degli anni del disgelo segue la lenta e dolorosa presa di coscienza della meschinità delle impalcature ideologiche e dell’umanità intera, con conseguente afflusso di prosa diaristica, che nell’arco di più o meno un anno – dall’ottobre 1956 all’ottobre 1957 – registra il tracollo dei sogni, l’espulsione dall’università e dallo studentato, faticose esperienze da scaricatore e manovale e relativi licenziamenti, tre intense e rigettate storie d’amore, vita randagia e ambigua, notti al gelo alla stazione e un dilagante fiume d’alcool. Tutto interessante quanto prevedibile, non fosse che quel diciottenne attonito sognatore è Venedikt Erofeev, l’autore di Mosca-Petuški, forse il più famoso, in patria e all’estero, libro russo del secondo Novecento, alconautica epica ferroviaria che riassume l’assurdità dell’universo sovietico, lo scibile umano, il genio e la follia autodistruttiva in cento paginette, che di traduzione in traduzione –cene sono già quattro – si è via via discostato dal «referenziale» ma fuorviante titolo degli anni settanta Mosca sulla vodka. Tre amanti + una madre Arriva ora in italiano anche Memorie di uno psicopatico, il «diario» degli anni giovanili di Erofeev, appunto, tradotto da Lidia Perri per Miraggi (pp. 287, e 20,00), in realtà un grandioso brogliaccio di sperimentazione letteraria, che prefigura, spiega e motiva il futuro capolavoro di quello che resta un devastato e maudit genio unius libri. Sorprende come passioni e ribellione possano essere scientemente e – com’è ovvio per tutta la scrittura clandestina d’epoca sovietica – senza alcuna ipotesi di accesso al pubblico, trasformate in canovaccio per sketch narrativi e drammatici, visioni oniriche, riflessioni pseudofilosofiche e parodie, dove le tre giovani amanti sono ibridate, anche onomasticamente, l’una con l’altra e tutte con la madre, con la quale Erofeev prova sulla carta a regolare un gigantesco complesso d’Edipo (e l’abbandono in orfanotrofio),descrivendone, vivissima, in tre diverse occasioni, la morte. La manipolazione della realtà nel senso più ampio e integrale è già presupposto di quella poetica autofinzionale che in Mosca-Petuški trasferirà per nome e cognome l’autore e i suoi compagni di bevute sulle pagine di una narrazione apocalittica e fantasmagorica, che proprio in questo stridente impasto ontologico trova tutta la sua forza espressiva. In maniera altrettanto evidente Memorie di uno psicopatico mostra il principio organizzativo della prosa di Erofeev maturo, che è in sostanza l’aforisma espanso, lo spunto narrativo conchiuso e autosufficiente, in cui si bilancia l’incisività della micro-trama e lo scintillio della ludica metafisica dell’inezia. Tra le righe, una grande intensità tragica, che muove da autentiche crepacciature del cuore, qui evidentissime fosse solo nell’aforisma a monte di tutti gli altri, quello costantemente ripetuto dalla madre: «Tutti uguali, Venichka! Succhiamo tutti lo stesso cazzo di dio!». Tra i motivi ricorrenti, l’intenerimento, una pietà pervasiva, incontrollabile e goffa, in molte occasioni rivolta a se stesso; la risata e la lacrima, vere insorgenze teatralizzate dello spirito, di una nobile, autodistruttiva sovrabbondanza interiore; il poeta e la folla, che fissa con annichilenti occhi sbarrati ogni gesto anticonvenzionale e irrituale: saranno fondanti in Mosca-Petuški, ma già qui sono il sale del libro, e li troviamo praticamente tutti concentrati nell’episodio del 31 maggio, con il narratore steso nella bara che partecipa al proprio funerale, reticente spettatore – «E non puoi aprire gli occhi… Li apri, e tutti sono lì che ti guardano..» – intento alla percezione estatica non solo dei contorni del buio ma del buio stesso e, in un contesto altamente dialogico, dell’angoscia del silenzio. Già è norma, per l’appunto, la dilagante plurivocalità, tratto poi distintivo della prosa di Erofeev, che mescola in un flusso inscindibile le più imponderabili voci interne e altrui, fa collassare e rovesciare l’istanza narratore-narratario ed è qui esplicitata anche da estratti di testi, lettere, diari altrui. Ci sono poi i cataloghi: di giudizi sul narratore, di battute degli interlocutori, semplicemente di nomi. E cosa resta nella memoria del lettore di Mosca-Petuški più che il catalogo dei cocktail (con profumo di verbena e lacca per unghie, colluttorio e antitraspirante per piedi) o quello dell’insorgenza del singhiozzo commisurata alla legge divina e umana? Più di tutto, le Memorie di uno psicopatico ci permettono di approssimarci all’essenza dell’arte e del mondo di Erofeev, al senso profondo del non senso, spesso frainteso e ridotto a un puro esercizio stilistico postmoderno, ovvero ascritto ad autentica metafisica, trascendenza religiosa (qui è esemplare l’appunto dell’ex ateo, il ragazzino formato sui dogmi del marxismo che tanto si esalta alla lettura delle sacre scritture da annotare undici passi nei quali gli evangelisti formulano assunti diametralmente antitetici). Qui, timido bevitore L’estetica onnicomprensiva di Erofeev è invece sempre ternaria: costruisce castelli metafisici di parole, poi li sberleffa, giubila di fischi, lascia trasparire un secondo livello percettivo al quale ora l’alcool come metafora dello spirito, ora la magia della creazione sembrano assumere una rilevanza autonoma; ma poi anche questi sono smentiti e irrisi, e solo a un terzo, intimo, ineffabile livello di senso, percepibile tra le pieghe più recondite del testo, si avverte una tensione irrisolta che aspira a esprimere un qualche insostenibile altro e oltre. Memorie di uno psicopatico, quindi, è essenzialmente un grimaldello per meglio fruire, meglio dirimere il densissimo affresco poetico in prosa di dieci anni dopo, ma è anche un testo godibile in sé, ricco proprio per la sua assoluta frammentarietà, agile e insieme farraginoso, non privo di articolate architetture tematiche e narrative e da leggere, nel complesso, come progressiva «presa di coscienza» dell’alcolismo, immersione in uno stato suicidale protratto ritenuto necessario a fronte dell’inadeguatezza ontologica della società, che sarà poi inteso come martirio e imitatio Christi. Qui però il narratore è ancora un timido grande bevitore, che non soltanto gioca con una purezza e un orizzonte ideale, di pagina in pagina sbaragliati dall’alcool. Tra i rivoli dell’intreccio uno fra tutti si distingue per incisività e freschezza: la storia, in molto riassunta in flash-back al 17 dicembre, di Lidija Vorošnina, ex compagnetta di banco in prima elementare e ora oggetto di adorazione e ripulsa, campionessa in una traslucida estate del grande Nord di seduzione, depravazione, volgarità sguaiatissima e dolente castità proiettata in antifrasi. Alle sue grazie e alle sue «incantevoli malefatte» il narratore non può essere indifferente, facendone un ritratto di straripante femminilità sovradimensionata alla stolida routine provinciale che è un pregevole sunto di eroine dostoevskiane. Del resto nella precoce e consapevole autodistruzione di Vorošnina il giovane Erofeev avverte un’evidente prefigurazione del proprio destino e una proiezione al femminile del suo auto-personaggio. Imperfetto e fascinoso Il lettore italiano si aspetti, allora, non un altro capolavoro, ma un libro imperfetto quanto fascinoso, fuor di dubbio molto difficile da tradurre, soprattutto per il continuo spostamento del contesto e del quadro referenziale. Nella versione di Lidia Perri è certamente un successo, anche grazie a coraggiosi adattamenti, la resa di un continuum linguistico tronfio e tenue, limpido e involuto, al di là di alcuni inevitabili abbagli traduttivi. Male comune della nostra evoluzione linguistica, il moribondo passato remoto conferma tutta la sua inadeguatezza davanti al dinamismo di una prosa diaristica.
Alcol, fumo, zuppa di cipolla e detersivi universali: di tutte queste cose insieme sapeva probabilmente l’interno russo in cui Venedikt Erofeev cominciò a scrivere le sue prime pagine. Non ancora diciottenne si era trasferito dalla provincia settentrionale della regione di Murmansk, ai confini della Norvegia, nella capitale russa, dove si era iscritto alla Facoltà di Lettere dell’Università, che prima lo aveva ammesso con lode e dopo pochi mesi lo avrebbe espulso per inadempienza degli obblighi militari. Giornate di ebbrezza, stordimento e desolazione, quelle che videro la scrittura di Memorie di uno psicopatico, pubblicato in questi giorni da Miraggi Edizioni con la traduzione di Lidia Perri. Un po’ era una questione personale: Venedikt cominciava a riconoscere dentro di sé una vocazione autodistruttiva che lo portava all’inconcludenza, alla paralisi, e faticava a gestire il flusso di scrittura con l’imponente mole di letture che da anni affrontava, mescolando generi, autori, passioni. Il risultato, in queste pagine giovanili (che però già contengono il gesto artistico che si ritroverà più tardi), è una matassa di pensieri interni, talvolta ostentatamente intervallati da puntini di sospensione – à la Céline – talaltra invece asciutti e cristallini come poesie: «E la luce brillava. Non era la sua luminosità a irritarmi. Ma la debolezza del sogno sulle tenebre. E io sputai. Sputai nel buio. E mi deliziavo del sibilo corrispondente. Di più non potevo fare». Un po’ però c’entrava anche la storia. Non era un anno qualsiasi per l’Unione Sovietica. Stalin era morto da tre anni, e in quel 1956, durante il XX Congresso del Partito Comunista, l’allora segretario Nikita Kruscev scoperchiò il sarcofago degli orrori, denunciando deportazioni e esecuzioni di massa in nome del culto della personalità del capo. Fu un anno di liberazione e sconvolgimento insieme, in cui un enorme numero di cittadini sovietici fece ritorno a casa e si vide finalmente riabilitato dall’accusa infamante di «nemico del popolo» (solo a Mosca rientrarono 200 mila detenuti politici). Il resto della popolazione, d’altra parte, realizzò di aver vissuto, per decenni, in un incubo senza eguali, in cui regnavano insicurezza, delazione, sprezzo degli affetti e morte. Ecco, se Erofeev può dirsi interprete di quell’epoca fosca ed eccitata, lo fu nel senso di intercettarne l’assenza di lucidità, la difficoltà nel «farsene una ragione» – la psicopatia collettiva, viene da dire. Come un potente getto d’acqua, nelle pagine giovanili di Erofeev si era riversata anche l’intera tradizione letteraria russa dell’Ottocento, che ha sempre trovato nella scrittura coscienziale, nella forma-diario, un’irresistibile valvola di sfogo. «Ti fa solo male leggere Dostoevskij – scrive a un certo punto Erofeev in Memorie di uno psicopatico – Sarai senz’altro così cupo, se ti rinchiudi in camera… là sentirai qualsiasi orrore… e tutto ti sembrerà cupo e orribile… Ti hanno detto bene… Ecco, tu odi il riso e guardi tutti come una fiera dal tuo letto… E sentiamo, che hai da lagnarti? Tu sei incomprensibile, diavolo… Insomma, tutti vivono bene, come persone normali… Non ti dimenticare che vivi nella società sovietica… e non in una qualunque». Un’appartenenza necessaria, quella russo-sovietica – e allo stesso tempo da espiare – sembra ammettere Erofeev nelle pagine che preludono alla sua grande opera unica, il Mosca-Petusky, pubblicato poi nel 1970. Ed è così che riga dopo riga, episodio dopo episodio – alcuni irresistibilmente comici, altri volutamente sconci – i discorsi da ubriachi perdono la loro sconclusionatezza e si trasfigurano, tanto che se l’occhio torna indietro, li ritrova preghiere.
Una sveglia che suona impazzita, un mercante italiano di arte contemporanea a New York l’11 settembre 2001 mentre le Torri Gemelle vanno giù. Lui si sveglia in ritardo e doveva già essere nel suo ufficio, in uno di quei due grattacieli che con una precisione chirurgica sta andando giù abbattuto da un aereo che entra nel suo ventre come un coltello affilato nella carne. In una New York impazzita e in preda al terrore, in un cocktail devastante di paura e follia, il protagonista decide di sparire («Allo specchio del motel ti osservi attentamente e non ti riconosci: non sei più lo stronzo mercante di arte contemporanea. Lui è morto (alleluja) e tu sei appena nato. Lui è sparito e tu sei comparso dalle forbici di un barbiere di provincia. Se non ti riconosci tu nello specchio, non ti riconoscerà nessuno da nessuna parte. Anche perché hai deciso che vuoi ritornare a New York, è lì che vuoi continuare a vivere, a esistere, solo che avevi bisogno di essere un’altra persona, una persona diversa da prima.»). Apre la cassaforte, prende i soldi e scappa e si eclissa, considerando il fatto che ormai tuti quelli che lo conoscono lo ritengono morto nell’attentato. Così inizia Respira, il nuovo romanzo di Roberto Saporito che anche questa volta ci dà un prova di notevole bravura. Sullo sfondo del suo libro l’11 settembre 2001 e la caduta delle Torri Gemelle. Ma non è il solito romanzo sull’argomento. Nel romanzo di Saporito non c’è la decadenza dell’Occidente ma la caduta esistenziale del suo protagonista, che appunto decide di sparire per cercare di respirare, abitatore perplesso del presente che muore quel maledetto giorno e disperatamente scompare per rinascere a nuova vita. È la storia di un moltiplicatore di futuri e di un azzeratore di passati costretto a fare i conti con il suo spirito inquieto che non sta bene in nessun luogo. Un intrigo esistenziale in cui il gioco dell’assurdo che coinvolge il protagonista rivelerà della realtà epifanie mozzafiato che lasceranno il lettore sconcertato e spiazzato. L’ 11 settembre 2001 non ha cambiato solo il corso della storia ma anche il privato di un mercante italiano d’arte contemporanea che vive a New York in perenne conflitto tra un presente che non riesce a catturare e un futuro difficile da immaginare. La sua scomparsa è il sinonimo di una fuga vera e propria che lo costringerà a vivere una frenetica corso contro il tempo in cui scoprirà di non avere avuto mai un passato. Le drammatica verità di fronte a cui si troverà è il cuore del romanzo che conquisterà i lettori e che ovviamente noi non riveliamo. Roberto Saporito si conferma, uno scrittore talentuoso che come pochi sa confezionare romanzi brevi. Anche in Respira l’autore di Alba, come nei suoi libri precedenti, ci inchioda alla pagina fino alla fine lasciandoci un immanente amaro in bocca che ha il sapore della letteratura che ci piace. Con una scrittura colta e originale Roberto Saporito ha un modo tutto personale di inventare storie come questa del suo nuovo romanzo. Tutti facciamo parte delle sue pagine, tutti ci ritroviamo, soprattutto nel finale che è un autentico colpo di grazia con cui non possiamo non fare i conti.
“Per morire c’è sempre tempo. Ma quando il fato, attraverso le gesta di un terrorista, ti fa il grosso,
(enorme) favore di farti scomparire, almeno a livello formale, tirando giù un paio di torri in quel di New
York in un martedì di settembre…
Il nuovo libro di Roberto Saporito “Respira” si apre così, portandoci nella “nuova” vita del protagonista, un
commerciante d’Arte stanco della sua “vecchia” esistenza.
La tragedia che colpisce New York, ma anche il resto del Mondo, è per lui l’occasione più unica che rara, di
eclissarsi dalla quotidianità, che non sopporta più, per iniziare un nuovo capitolo.
Ma morire non è abbastanza, perchè scegliere una nuova realtà, ma soprattutto viverla, è un altro discorso.
Non ci riesce proprio a godersela del tutto, questa libertà, impegnato ad essere braccato da un ex
socio e dallo scagnozzo – leggermente infastiditi – da decisioni che ha preso prima di “scomparire”;
dagli incontri con persone che gli cambieranno la prospettiva, dalle sue continue fughe da un Continente
all’altro.
E’ morto, scomparso, eppure ogni volta deve ricordarselo, quasi fosse un mantra per continuare a
fissarlo nella memoria.
Ancora un volta Roberto Saporito si legge tutto di un fiato, senza pause. Perché a tutti prima o poi è
capitato di voler lasciare tutto e andarsene, o almeno di pensarlo.
Ma Saporito fa di più, da scrittore di lungo corso, analizza il suo personaggio, fa sognare (le case in cui si
rifugia, i luoghi cool) e fa riflettere. Alla fine meglio la mediocrità, il lasciarsi vivere o cercare qualcosa che
non si ha, o che non si sa di volere?”
Palloncini, lecca lecca, coriandoli per il pubblico che è stato condotto dalla protagonista e dai suoi compagni di spettacolo in un «Luna Baci» coloratissimo, gioioso, pieno d’amore. Sì, perché le poesie raccolte in «Il Luna Baci» sono poesie d’amore. Amore per i colori, per le carezze, per il batticuore del primo incontro, per la strada, tanta, da fare per promuovere un lavoro che è prima di tutto una ragione di vita.
Poco più che trentenne, e questo è il primo dato da tenere in considerazione. Gli altri due sono il lavoro in un’osteria e Vigevano come città di origine. Li ritroviamo (tutti) in a “A fuoco vivo”, il primo romanzo di Ivan Ruccione. Inizi come poeta – una selezione delle sue prime opere è stata inclusa nel 2012 nell’antologia collettiva “Ho tutto in testa ma non riesco a dirlo” (Bel-Ami edizioni) -, poi i racconti, altre poesie e l’incontro decisivo: «Il libro è nato su Nazione Indiana. Ho sempre seguito questo blog letterario, perché è uno dei migliori. Un giorno del 2013 ci provo: prendo delle mie poesie e le spedisco all’attenzione di Francesco Forlani. Per gli articoli che pubblicava, mi sembrava il redattore più adatto alla mia sensibilità letteraria. Dopo qualche ora mi risponde: “Queste poesie buttale nel cesso, non sono all’altezza del tuo talento. Il tuo passo è quello del narratore. Mandami dei racconti”. Gli spedisco quello che mi sembrava il più bello. “Non è niente male – mi dice -, ma è troppo lungo. Mandamene uno che non superi le due cartelle”. Lo cerco, lo revisiono, nei successivi scambi di e-mail salta fuori che lavoro in cucina. Mi dice: “Alt. Fermati. Scrivimi un racconto che parli del tuo mestiere”. E così, quando verso le 23 torno a casa dal ristorante in cui lavoravo, mi metto a scrivere. Finisco alle 4 del mattino e spedisco. Alle 10 ricevo una mail che dice: “Bellissimo. Alle 11.30 sarà pubblicato. Tu forse non lo sai ancora, ma questo è l’inizio di un romanzo bellissimo. Mettiti sotto e scrivi il resto della storia”. Ed eccoci qui. Di me nella vicenda c’è tutto il sangue versato per il mio lurido mestiere, il fegato corroso, la voglia che avevo di addormentarmi e di non svegliarmi più.
E’ finito Masterchef, ha vinto Valerio Braschi, che è di Santarcangelo. “A fuoco vivo” era appena uscito e Mariano, il protagonista, lavora in un hotel a Cesenatico, a una ventina di chilometri da Santarcangelo. La sua vita è esattamente l’opposto di quella offerta dai riflettori della televisione.
«Nel libro ho ricordato a tutti che cosa sia questo mestiere. In un’epoca in cui bambini e preadolescenti sognano di fare i cuochi perché condizionati dalla tv, ho voluto registrare la vita di chi ai fornelli ci sta davvero, la vita di un cuoco normale: giornate da dodici o tredici ore di lavoro, essere minacciato dai colleghi se ti ammali, lavori stagionali della durata di sei mesi senza giorni di riposo, sottopagati, o in nero, in un ambiente tutt’altro che accomodante, dove la gerarchia è ferrea e iniqua come nell’esercito. Basti pensare ai tanti giovani e meno giovani cuochi che si sono suicidati, c’è una lista lunghissima».
Mariano che persona è? Sembra un prevaricatore, nei confronti di Stefano (“O sei uomo o sei cuoco” gli ripete) ma, alla fine, sembra emergere con una sua umanità.
«Davvero bisogna scegliere se essere uomini oppure cuochi. Le due cose non vanno d’accordo. Mariano ha capito che questo mestiere è un’idiozia, che le condizioni di lavoro sono disumane. Ma ormai ci è dentro e non sa come uscirne, nella vita sa fare solo quello. Le uniche cose che lo tengono a galla sono i libri, l’alcol e il sogno di diventare uno scrittore. Dunque cerca di fare di tutto per dissuadere Stefano – giovane lavapiatti diciannovenne, che sogna di diventare cuoco, suo aiutante – dall’intraprendere questa carriera. Lo massacra psicologicamente e fisicamente ma per il suo bene, affinché getti la spugna. Mariano si affeziona a Stefano perché vede in lui il suo più giovane alter ego; i moniti che gli rivolge sono come lettere spedite a se stesso».
Questa positività sembra torni anche nel rapporto con moglie e figlia, perse all’inizio del libro e ritrovate alla fine.
«Più che positività direi la voglia di non arrendersi. Il lavoro, oltre che fargli rinunciare a una vita propria, gli ha fatto perdere una famiglia. Così come cercherà di abbandonare il suo mestiere per fare lo scrittore, proverà a riavvicinarsi alla moglie e alla figlia, che non vede da tanti mesi».
Vigevano è parte importante del libro, inevitabilmente lo è anche Lucio Mastronardi. Qual è il suo rapporto di scrittore con lui?
«Di devozione. Spesso mi capita di andare a trovarlo al cimitero. “Il maestro di Vigevano” è tra i miei libri preferiti in assoluto. Sfortunatamente è uno di quegli scrittori troppo spesso dimenticati. Qui a Vigevano, ai suoi tempi – ma credo pure ora, visti i risultati -, non l’hanno mai preso sul serio, né come scrittore né come uomo. Io credo che la mia città abbia sulla coscienza il suo suicidio. Ha avuto un’esistenza travagliata, che per ovvie ragioni non ho vissuto di persona, ma che mi ha sempre affascinato. Per capirla meglio è stata fondamentale la lettura della sua splendida biografia, “La rivolta impossibile”, scritta da Riccardo De Gennaro. Sono presenti anche curiosissime corrispondenze con Elio Vittorini e Italo Calvino, piene di angosce e ossessioni. La cosa che mi mette tristezza dell’uscita del mio libro è che non posso andare tutto timido a citofonargli per regalarglielo. Ma un giorno di questi inforco la bicicletta e vado gettarne una copia nel Ticino».
Pagine scarne. Bianco dominante, perennemente. Poche parole. Spazi vuoti, giacigli di versi. E’ così Bianca Dentro, raccolta-tratteggio di un amore malsano, andato a male, si direbbe quasi marcio. Amore da cui l’autore Marco Polani esce, come ci informa anche nella premessa al libro, scolorito. “Ci si colora a vicenda per poi scolorirsi”, scrive: Bianca dunque è sì nome proprio dell’amata, ma anche comune di una persona scolorita e perciò bianca appunto.
Il libro è legato al colore bianco, con la duplice valenza di purezza e di cancellazione. Credo che siamo come delle pagine bianche che vivono, si contagiano inevitabilmente con qualcun altro, per caso, per volontà o per necessità e, alla fine, si sporcano.
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