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Uno di noi – recensione di Alberto Trentin

Uno di noi – recensione di Alberto Trentin

La grande collusione

Uno di noi è l’ultimo libro di Daniele Zito, pubblicato da Miraggi Edizioni nella sua collana Scafiblù, ricca di titoli e autori interessanti (qui avevamo recensito Pontescuro di Luca Ragagnin). Un romanzo in versi, crudo, che si caratterizza per la molteplicità delle voci e per un sapiente dosaggio di crudeltà e risentimento.

Il libro Uno di noi, di Daniele Zito e pubblicato da Miraggi editore alla fine del 2019 è un testo prevalentemente uditivo, intessuto da una molteplicità di voci concorrenti, ma non antagoniste, che dicono e si dicono dialogando – ma più spesso assumono, queste voci, la forma di soliloqui – attorno a un unico tema, un fatto di cronaca, un’azione cruenta la cui tragicità è pari soltanto alla vacua stupidità che la origina. Quale sia questo fatto – da intendersi come azione ponderata e volontaria – riassume gran parte della storia, coagulando quindi il proprium di questo romanzo in versi attorno al discorso: quattro persone, quattro maschi, quattro amici, quattro padri, quattro mariti, decidono di dare alla fiamme una baraccopoli non prevedendo che ci possa essere qualcuno incapace di sottrarsi alla potenza devastatrice del fuoco e che dunque abbia in sorte di soccombere, non subito, lentamente, agonizzando, in ospedale. Una bambina. Una bambina disabile. Una bambina disabile che sarebbe potuta essere la figlia di.

Romanzo in versi, dicevo, costruito in modo da alludere, pur con le dovute cautele, alla tragedia classica: la divisione in cinque macro strutture, la presenza del coro e del suo corifeo, la possibilità di individuare delle scene drammatiche precise e dei personaggi altrettanto definiti. Ma – a differenza di una tragedia, e non è poca cosa anzi, è motivo di massimo interesse del romanzo – in questo dramma non c’è alcun intreccio da sciogliere, essendo come detto sopra l’azione autosufficiente e autoesplicativa, episodio di male assoluto e autentico. La finzione appartiene al discorso, non alla storia: è nelle voci, nelle motivazioni, nello stupore, nella trama di apparenti connessioni causali e temporali e spaziali. Il male che alligna nel discorso è un male fittizio; viceversa, quello della storia è reale, eternamente alluso, ripetitivo. Dice bene Simone Weil:

Nulla più del bene è bello, meraviglioso, perpetuamente nuovo, perpetuamente sorprendente, carico di una dolce e continua ebbrezza. Nulla più del male è desertico, triste, monotono, fastidioso. Tali sono il male e il bene autentici[1].

Spesso al lettore capita di essere scosso da una sorta di scivolamento testuale: è quando viene preso dallo straniamento che una voce diversa genera scostandosi dalla monotonia diffusa:

dobbiamo riprenderci

ciò che è nostro

nostre sono le strade

nostri i confini

nostri i cieli

sopra gli aquiloni

nostro è il suolo

nostri i fiumi

nostre le acque

nostre le nuvole

sopra i covoni

ce l’avrei io, una bella soluzione

facile facile: le ruspe

cari miei, le ruspe!

e dove le ruspe non arrivano

le fiamme, i lapilli, la cenere

Laddove lo straniamento è dato dalle due strofe centrali, che hanno da un lato l’andamento di una allegra filastrocca e dall’altro la carica immaginifica delle figurazioni poetiche, e che sono incorniciate da due altre di tenore normalmente discorsivo, di tono rabbioso, di contenuto popolarmente malvagio. Esempi di questa soluzione che ne sarebbero numerosi, disseminati lungo tutto il testo.

Parallelamente, ciò che vale la pena sottolineare è la disseminazione dei punti di vista, ottenuta da una moltiplicazione difficilmente arginabile delle voci e che origina quel primato uditivo di cui dicevo in apertura. Non è tanto in atto una dissoluzione della possibilità di una verità unica sul fatto; non è in discussione, non importa, non c’entra. È piuttosto in gioco la tensione che si crea in questo indefinibile campo d’azione delle onde sonore generato dai lamenti, dai canti, dai suoni, dalle voci, appunto. È questo accumularsi di rumore a farsi reale protagonista della storia e della realtà contemporanea cui la storia appartiene.

Questa disseminazione è prevalente nel secondo movimento (Secondo fiume) dove si alternano le testimonianze di vari personaggi diversamente coinvolti, ma la si può riscontrare lungo tutto il romanzo che allora è, nel suo svolgimento, un lento dipanarsi dell’assunzione implicita del titolo: uno di noi è sì uno dei quattro, anche protagonista di questo racconto (e quindi: uno di noi quattro), ma è altresì uno di noi tutti, uno qualsiasi, un tale: un uno, un nessuno, un centomila.

Nel generale disimpegno (addirittura tre dei quattro non sono nemmeno chiamati in causa, di loro e di ciò che pensano – se ne pensano – nulla viene detto) il fatto scolora, la sofferenza e il lamento vengono riassorbiti, la vita continua. E se uno dei quattro ha a che fare col proprio pentimento, con il senso di colpa, il bisogno di vedere un po’ di giustizia spetta, programmaticamente, a Un illuso: ma è una comparsa veloce, effimera, anch’essa preda della irrefrenabile voracità del masso di Sisifo che non può non rotolare lungo il piano inclinato della sconfitta trionfante.

il pomeriggio va spegnendosi

senza troppo violenza

un colore alla volta

un respiro dopo l’altro

vorrei andarmene anch’io

ma qualcosa mi obbliga

a restare

che siano gli occhi di quel padre?

o forse i miei

mi capita spesso di notarli

mi fissano dagli specchi

dalle vetrine

non fanno molto altro

si limitano a guardare

bisogna, proprio

passarselo di mano in mano

lo sguardo, e stare attenti

che non cada

che non vada in pezzi

Perché al fondo della questione, laddove la parola è chiacchiera, il suono è rumore, l’Io diventa si, anche la tragedia si fa impossibile, nulla la catarsi, e la maschera si dissocia definitivamente dalla persona.

Allora davvero nessun dio, nemmeno ex machina, ci può salvare.

Daniele Zito, Uno di noi

[1] Simone Weil, Morale e letteratura, in La persona e il sacro, Trad. di Maria Concetta Sala, Adelphi, Milano 2012

QUI l’articolo originale:

https://www.albertotrentin.it/post/recensione-a-uno-di-noi-di-daniele-zito?fbclid=IwAR1cEp5iaCEcjWjXYa4Y61-UKEX5DWpV-RRUmsBrm3K4yjmQ8HgBPMnlkwA

QUASI TUTTI –  recensione di Gianluca Garrapa su Nazione Indiana

QUASI TUTTI – recensione di Gianluca Garrapa su Nazione Indiana

La presente versione di Quasi tutti (Miraggi ed., 2018), da considerare definitiva, emenda qualche ingenuità e refuso della prima edizione, e si presenta in alcuni punti riveduta, a livello macro- e microtestuale.

Gianluca Garrapa: ci racconti la genesi del testo? E dei microscopi e telescopi testuali come fanno direzionati per curarsi del reale e simbolizzarlo sulla pagina?

Marco Giovenale: Il libro cerca di mettere insieme molti materiali nati quasi essenzialmente per spazi web a partire dal 2005, grosso modo. L’intenzione era ed è quella di fissare su carta esperimenti di googlism, cut-up, eavesdropping (=ascolto e trascrizione di frammenti di conversazione altrui). 

Forse più che della composizione del libro può essere interessante parlare del click che scatta – sperabilmente – nella ricezione o manipolazione di materiali che poi entrano nel libro: si tratta sempre di qualcosa di indefinito e allo stesso tempo certissimo. Si ascolta qualcuno che sta organizzando banalmente il proprio discorso intorno a una routine quotidiana, per esempio, e non ci si riesce a staccare dall’esperienza di produzione di senso che contro tutte le aspettative quella banalità emette. Una simile esperienza percettiva, per niente dolorosa, e poi di alta o bassa manipolazione, e infine scrittura o semplice trascrizione, non è affatto lontana dalle esperienze e dal modo di operare del primissimo Joyce, quello delle Epifanie, brevi prose “drammatiche” o “narrative” (a seconda se formalmente strutturate come dialoghi o come frammenti di racconto) scritte nei primi anni del secolo scorso.

Quanto ho appena detto vale in particolare per l’eavesdropping. C’è poi ovviamente una diversa (più forte) intenzionalità o aggressività autoriale, verso il testo, nel manovrare googlism e cut-up, ma la sostanza non cambia: il testo stesso a un certo punto comunica di essere compiuto, e ci si ferma. Non è definibile, credo, come e perché, né quando (you know, “come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore”, Prima lettera ai Tessalonicesi, V, 2). (Una cosa simile, insomma).

Questi modi di scrittura (ma Quasi tutti ne contiene anche altri; e anche scrittura diretta, senza procedure, senza ‘macchine’) vengono talvolta scambiati per incongrui con la poesia, o la prosa, o la scrittura tout court. A me sembra semplicemente miope questa critica. (Per la poesia, passi: penso ci si trovi in tanti oramai, e gioenti, in un territorio post-poetico, e per me amen: bene così).

Però quel che voglio dire è che:

si tratta sempre e principalmente (se il lavoro è fatto con serietà) di dislocare il proprio inconscio, metterlo in un punto non (interamente) governabile e sovrascritto dal superIo, dall’ipoteticamente adamantino Moi lacaniano, o da quel che si vuole.

Si tratta cioè di tagliare il guinzaglio al soggetto dell’inconscio. Lasciarlo andare. A suo modo (un modo ancora altro) Carmelo Bene spiegava la ‘normalità’ (geniale) di constatare e mettere a valore e al lavoro un “linguaggio che si articola come un inconscio”.

Io dico che bisogna proprio dislocare l’inconscio, piazzarlo in un’altra scatola, far parlare l’Altro come altro. Per quanto possibile. Ovviamente la pesantezza della mano che poi agisce sul materiale che arriva, giocoforza, agisce e cambia il flusso e cristallizza frasi passaggi fraseggi e paraggi. Ma questa inevitabilità si applica a un materiale i cui vieti addentellati con l’ego sono smussati o proprio cancellati in incipit da quella dislocazione.

Delocalizzare l’inconscio. Sbatterlo con infame protervia in un quarto mondo a cucirsi il buio.

Poi, certo, in più, possono essere applicate slogature, fantascienze varie di movimentazione della pagina. Però se in partenza l’inconscio sta da un’altra parte, “io” credo, è meglio.

Nella ipercaverna di google, nella altrui chiacchiera da bar, in una pagina di giornale. Eccetera.

“Fons amoris.”

dentro hai molto ed i soldi sono essenzialmente il freddo.

stare fuori dai ratti. penso al bisogno delle cose, che tutti vogliono.

G.G.: che rapporto c’è tra la tua pratica plurima e non narrativa e una visione politica anti-razzista? A proposito… per moltissimi aspetti il tuo è un poema che cerca oggetti narrativi non identificati, la natura aliena del reale, impossibile, è il filo, o meglio il nastro di Moebius della tua non narrazione: non v’è altro che soggetto che scrive intorno al non so cosa del non prestabilito. È quello che sento, ascoltando le tue forme narrative: un altro a proposito: che oralità ci si aspetta da tali strutture non letterarie?

M.G.: Il rapporto è personale, probabilmente. Nel senso che negli anni Novanta ho svolto diversi lavori – diciamo così – “nel sociale”. E questo, oltre ad altre esperienze, ha inciso in modo netto sulla mia identità e sui suoi rami e rametti.

Poi dal punto di vista anche (volendo) teorico, e relativo alla plurivocità delle scritture, e alla loro non-narratività, bisogna dire due cose. Innanzitutto, che lo spostamento dell’inconscio nell’altrove, nell’Altro, volendo, è una buona ginnastica per la prassi dell’“imparare la lingua degli altri”, che (anche) è cosa che mi viene dai primissimi anni dell’università, dalle lezioni di Letterature comparate, dal lavoro redazionale per la rivista “Babele”, tra fine anni Ottanta e primi Novanta. In secondo luogo, la non-narratività è sempre relativa (e avversa) a quello che si può con una certa oggettività considerare il pensiero unico della letteratura, specie nella sua versione e pesantezza occidentale. Non dunque una narratività generica, ma quella delle marchese che escono alle cinque, e quella, in particolare, di un certo tipo cristallizzato di romanzo.

Il romanzo, lo ricordo sempre, è un predatore. Dove fa la sua comparsa (cito Franco Moretti) fa anche strage delle forme minori, delle leggende, delle fiabe, delle novelle, delle fantasie da tradizioni micronarrative, delle contraddizioni implicite nel racconto mitologico. Eccetera. Magari le ingloba, e così – coccodrillo che piange – assicura loro una ‘continuazione’. Ma a quale prezzo? La pulizia etnica è tecnicamente già avvenuta. (Moretti cita il caso dell’America del sud, del patrimonio di storie e tradizioni, orali o meno, che un intero continente vede erose o sommerse a favore dell’emergere e diffondersi virale del mostro romanzo).

Una opzione non-narrativa, antiromanzesca, può avere valore di alterità e spostamento (dagli andamenti suddetti del predatore) anche in aree, come quella europea, nelle quali la distruzione è avvenuta ormai da tempo, e la storia ha attraversato più innesti e mutazioni. (E il romanzo stesso si è adattato per farsi accettare. Ha messo la maschera della sperimentazione, dell’incongruo, del complesso. Il vile, il porco).

Sempre e in ogni caso, tipico della macchina romanzesca e anche di altre entità schiacciasassi, è il gesto divorante, a ganasce aperte, il flusso largo, la verbigerazione, l’andare avanti per paginate e paginate senza misericordia.

Seicento pagine. Seicentocinquanta. Prima di salire sul treno il viaggiatore si àncora a terra comprando in edicola l’ultimo o il primo foratino della nota saga. Settecento pagine, mille. Leggi, leggi: ti coinvolge nella riproduzione mondana, speculum mundi, e nell’immedesimazione. Sei suo dalla genesi.

Mentre al contrario è proprio svellendosi violentemente da sé, dallo schiacciamento del sogno e dal Wille del flusso, che ci si ricolloca e rimodula nell’Altro. (Anzi: si disloca l’inconscio, con tutti i suoi echi di empatia).

L’altro delle strutture ampie è, al contrario, il medesimo. Una calamita. Ore di viaggio che non sai di star facendo, cullato dai ritmi, dalle vicende, e già sei al delta, hai percorso tutta la stolidità del fiume, ti sei letto (in) un romanzo. Senza guadagnare altro che acqua, altra acqua, imbarcandone, affondando, affondandoci. Fidandoti.

Non si tratta della disindividuazione, si tratta semmai al contrario dell’esser colonizzato e mangiato. Usato come specchio altrui. Stai fermo, non muoverti, lasciati andare, facciamo tutto noi, le parole. Tante, troppe.

Leggiti questo romanzo, guardati questo bel film.

Sulla esecuzione dei testi di Quasi tutti: da qualche anno ho assunto una postura che sottolinea vocalmente alcuni passaggi, con inflessioni colori scivolature, perfino gesti. Ma devo asciugarla ulteriormente. Togliere orizzonte e dare orizzontalità. Sottrarre spazio alla tentazione dello spettacolo, senza per questo far morire di noia chi ascolta.

provo un’infinita malinconia e uno schietto desiderio di suicidio. e un ragionamento che ha portato i ricercatori ad una soluzione molto drastica.

G.G.: scrittura desiderante : scrittura immaginaria dell’io = non assertivo : assertivo? E quanto importa il desiderio nel soggettivo percorso? Inconscio dilatato, quasi la scrittura fosse una protesi o i tentacoli di una medusa che si allunga all’esterno per osmosi, per riempire, per poco, la realtà, attratta dal reale impossibile. Non ho ben capito quel che ho scritto ma sento che è questo quel che volevo dire: cosa è la volontà dell’io in una scrittura di genere Marco Giovenale?

M.G.: La proporzione mi garba abbastanza: la scrittura desiderante sta alla scrittura immaginaria del Moi come il non assertivo sta all’assertivo.

Cosa aggiungere?

Penso, certo, di aver parlato più di inconscio – e di soggetto dell’inconscio – che di Io o SuperIo. E non credo si possa fare altrimenti, lavorando con la parola scritta e parlata. Scritta ed eseguita. (E perseguita, e perseguitata).

Tutta la scrittura che non si rende conto di questo passaggio copernicano è, a mio avviso, tolemaica. Ma va bene (forse il mondo occidentale gira, e gira così, precisamente perché si fa centro: si punta il compasso addosso).

Cfr. https://slowforward.net/2020/07/30/copernicovstolomeocarmelobene/

Ossia tutta la scrittura di grande distribuzione e grande accoglimento è scrittura di genere. Alza il cartello “Qui poesia” come altre scritture alzano il cartello “Qui giallo” o “Qui fantascienza”. Fanno le mossette, i lettori le riconoscono, e si accodano al cartello.

Sulla scrittura di ricerca non ci sono scritte, perché tutti i tentativi più o meno abbozzati di darle una vestina per coprire le curve falliscono e in tanti lo ammettono. Quindi sono felice quando mi dicono “anatema! scrittura di ricerca no, scrittura di ricerca non significa una fava!”, oppure “non-assertivo no! ἀνάϑεμα n’ata vòta, categorizzatore esecrando! tutto è assertivo, come fai a non asserire?” (Eh. Pensa tu che allora uno non potrebbe nemmeno dire “incolore”, perché ovviamente per la meninge di genere, generosa, “tutto ha colore”). Che fioritura flarf! che rigoglio di contumelie. E io sono contento: soprattutto quando queste “critiche” vengono dall’interno più comico della sperimentazione. Proprio noi che sperimentiamo, hélas, nescimus?

Già già.

Benedetti, come pensate possa essere diversamente, se serissimi s’è nel ricercare?

E allora: nella scrittura di genere (all’ingrosso, spaccando tutte le formine della critica da spiaggia o da cattedra: fantascienza, poesia, giallo, fantasy) è del tutto evidente che l’io con la “i” maiuscola, l’Io, spanda e spalmi la propria volontà – e il proprio irraggiare istruzioni & istituzioni su come debba il lettore specchiare l’auctor – nell’opera. Era un’opera. Fu. L’hanno or ora operata per piantarci dentro un ripetitore: un riferitore, un riproduttore, che al dicitore o scrivitore rimandi il suo medesimo detto e medesimo scritto. Mai il dire, mai lo scrivere, sempre il già stabilito, il detto, ri-detto, scritto, ri-scritto.

il governo sembra puntare sull’approva l’antimateria. il pacchetto arrivato alle camere ha risolto. prima di passare al senato. basta che tocchi la materia. fine dei problemi. che gli ci vuole al mediterraneo per rimarginare? da nizza alla dalmazia fai il giro o salti. e uguale. e l’uovo.

G.G.: è un estratto da «differx.it»: che rapporto hai con l’antimateria?

M.G.: Ah, guardi, ognuno a casa sua.

La sera andavano in via Veneto. Lì un distributore di uranio aperto giorno e notte. Si diventava brillanti senza saperlo.

G.G.: Quasi tutti: con quale criterio hai suddiviso la tua raccolta? E perché non scrivi come tutte le persone normali, invece di usare prose che non sono prose e poesie che non sono poesie? Prima di congedarci… in che direzione sta proseguendo la tua scrittura?

M.G.: La divisione interna, come spesso mi accade dando di lama ai libri, è istintuale e lascio un po’ fare alle insofferenze che saltano su mentre leggo o rileggo il dattiloscritto. A un certo punto metto punto. Segmento. Qui finisce pinco e inizia pallino. Cose così.

A posteriori, purtroppo, devo constatare che questo bassissimo grado di professionalità non è stato in grado di arrivare a rovinare veramente la partizione, rendendola aleatoria. Sembra infatti che ahimè la suddivisione interna della raccolta segua abbastanza fedelmente la divisione delle fonti: eavesdropping per cominciare, poi cut-up, materiali da film, eccetera. Per arrivare alla sezione grande (una specie di secondo tempo del libro) intitolata “differx.it”, che semplicemente mette insieme materiali scelti da un blog che avevo fino a non molti anni fa. C’è dunque una regola in tutto ciò, ho sbagliato anche stavolta.

Perché non scrivo come tutte le persone normali? Perché vivaddio tutte le persone normali, o quasi tutte, non sono normali. E se le lasciassero libere di sbattere in pagina quello che veramente le costruisce e le impalca tutti i giorni, non farebbero né il diarietto né l’instagram, bensì la prosa in prosa. Anzi già la fanno qualche volta, magari.

Dove vo? – domandi.

La mia scrittura prosegue grosso modo sui canali di Quasi tutti. Ma con una virata verso il sillogismo e la finta narrazione, sgretolata, che al momento sto concentrando in due o tre raccolte, di cui la più ampia è Oggettistica.

È stato molto bello

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M.G.: Il frontespizio dello Speculum Mundi (“Speculum Mundi or a Glasse Representing the Face of the World; Shewing Both that is Did Begin, and Must Also End: The Manner How, and Time When, Being Largely Examined. Wheretunto is Joyned an Hexameron, or a Serious Discourse of the Causes, Continuance, and Qualities of Things in Nature”) di John Swan, 1635, è immagine ripresa dal sito d’aste Bonhams: https://www.bonhams.com/auctions/18847/lot/137/

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

Miraggi appoggia le librerie indipendenti: Libreria Diari di Bordo. Prentazione L’imperatore di Atlantide e Poesie dal campo di concentramento

Miraggi appoggia le librerie indipendenti: Libreria Diari di Bordo. Prentazione L’imperatore di Atlantide e Poesie dal campo di concentramento

Un aiuto alle Librerie in difficoltà lo possono dare anche gli Autori e le Case Editrici con segnali forti: scegliendo una libreria piccola e poverella dove per presentare i loro libri. Ecco partiamo, oggi, con il ringraziare dunque Claudia Durastanti e Paolo Cioni e le case editrici La nave Di Teseo, Mattioli 1885 e Miraggi edizioni. Perché è grazie a loro che si è aperta una settimana di altissimo livello ai Diari. Da un paio di settimane si leggono commenti sgomenti circa la chiusura continua di librerie in Italia. Io ho pensato, ma se ognuno si impegnasse ad acquistare almeno un libro al mese in una libreria reale, meglio ancora se indipendente? E se gli scrittori che vendono e le case editrici scegliessero di fare gesti concreti verso librai e librerie in difficoltà? Cosa che è accaduta ai Diari, a partire da Martedì 21 gennaio in cui abbiamo ospitato la data finale del lungo Tour del libro, edito da La Nave di Teso, ” La Straniera” di Claudia Durastanti. Avevo seguito le tappe lucane di questo meraviglioso tour l’estate scorso e grazie alla Fondazione Leonardo Sinisgalli negli Orti di Merola a Montemurro avevo condotto con Giuditta Casale e Biagio Russo una serata molto piacevole e frizzante. Durante la serata di Martedì scorso, con una libreria piena fino all’inverosimile di gente, abbiamo ricordato molti aneddoti di quelle serate lucane estive. In un silenzio fatto di grande attenzione Claudia Durastanti, seduta sul mitico sgabello bianco, ha spiegato come si può raccontare una vita tracciando mappe del proprio vissuto ed esplorando i luoghi simbolici e geografici.

“La storia di una famiglia somiglia più a una cartina topografica che a un romanzo, e una biografia è la somma di tutte le ere geologiche che hai attraversato”. Come si racconta una vita se non esplorandone i luoghi simbolici e geografici, ricostruendo una mappa di sé e del mondo vissuto? Tra la Basilicata e Brooklyn, da Roma a Londra, dall’infanzia al futuro, il nuovo libro dell’autrice di “Cleopatra va in prigione” è un’avventura che unisce vecchie e nuove migrazioni. Figlia di due genitori sordi che al senso di isolamento oppongono un rapporto passionale e iroso, emigrata in un paesino lucano da New York ancora bambina per farvi ritorno periodicamente, la protagonista della Straniera vive un’infanzia febbrile, fragile eppure capace, come una pianta ostinata, di generare radici ovunque. La bambina divenuta adulta non smette di disegnare ancora nuove rotte migratorie: per studio, per emancipazione, per irrimediabile amore. Per intenzione o per destino, perlustra la memoria e ne asseconda gli smottamenti e le oscurità.
Non solo memoir, non solo romanzo, in questo libro dalla definizione mobile come un paesaggio e con un linguaggio così ampio da contenere la geografia e il tempo, Claudia Durastanti indaga il sentirsi sempre stranieri e ubiqui.
La straniera è il racconto di un’educazione sentimentale contemporanea, disorientata da un passato magnetico e incontenibile, dalla cognizione della diversità fisica e di distinzioni sociali irriducibili, e dimostra che la storia di una famiglia, delle sue voci e delle sue traiettorie, è prima di tutto una storia del corpo e delle parole, in cui, a un certo punto, misurare la distanza da casa diventa impossibile.

Claudia Durastanti è nata a Brooklyn nel 1984, scrittrice e traduttrice. Il suo romanzo d’esordio “Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra” (2010) ha vinto il Premio Mondello Giovani; nel 2013 ha pubblicato “A Chloe”, per le ragioni sbagliate, e nel 2016 “Cleopatra va in prigione”, in corso di traduzione in Inghilterra e in Israele. E’ stata Italian Fellow in Literature all’American Academy di Roma ed è tra i fondatori del Festival of Italian Literature in London. Collabora con “la Repubblica” e a lungo ha vissuto a Londra. Durante la serata ampio spazio è stato dato anche al libro edito da Minimum Fax nel 2016 dal titolo “Cleopatra va in prigione”. Un libro breve e intenso nelle sue 120 pagine: la trama, il linguaggio innovativo, una scrittura asciutta ed efficace e una periferia di Roma sconosciuta ai più. Non credo che avremmo la bellezza de “La Straniera” senza Cleopatra.

“Ogni giovedì Caterina va a trovare il suo ragazzo in prigione”. Questo è l’incipit. Caterina va a trovare Aurelio, il suo ragazzo, nel carcere di Rebibbia. Sono entrambi figli dell’estrema periferia romana, e in passato hanno provato a costruire un sogno insieme: gestire un night club. Ma le cose sono andate diversamente dai loro progetti e Caterina, ex ballerina di danza classica, si è ritrovata a lavorare come spogliarellista proprio nel locale di Aurelio. Adesso lui è in prigione, ed è convinto che lo abbiano incastrato. Come reagirebbe se sapesse che, una volta uscita di lì, la sua ragazza si infila tra le lenzuola del poliziotto che lo ha arrestato? Cleopatra va in prigione è un romanzo struggente, duro, pieno di colpi di scena, ambientato in una Roma molto più vasta e sconosciuta di ciò che si potrebbe immaginare. Claudia Durastanti scatta una fotografia vivida e accorata della periferia urbana, il vero luogo dove in questi anni nascono le storie, e soprattutto racconta chi, nonostante le delusioni e i sogni infranti, continua a vivere e ad amare.

Sabato 25 Gennaio è toccato a Paolo Cioni con il suo ultimo romanzo “La verità a pagina 31”, edito da Elliot.
Architetto di formazione Paolo Cioni ha tradotto romanzi di Aldous Huxley e Charles Webb, per anni ha diretto insieme a Benedetto Montefiori la rivista «Experience» e per Feltrinelli ha pubblicato il romanzo “Ovunque e al mio fianco” (2006) e, a distanza di dieci anni, sempre per Elliot, ha pubblicato “Il mio cane preferisce Tolstoj”. La penna tagliente di Gian Paolo Serino lo ha definito “Il Dave Eggers italiano” ma ha anche speso parole encomiabili per “La verità a pagina 31″, definendolo ” un romanzo solenne. Cioni nella sua delicatezza di sentimenti nella sua ritrosia ci incuriosisce sulla sua figura: è uno di quei rari scrittori che a lettura finita, vorresti cercare sull’elenco telefonico, o andare a citofonargli a casa”. Anche di Sabato, in una libreria piena in ogni ordine di posto, si è parlato di libri e letteratura e editoria. Cioni da editore e scrittore e traduttore lo ha fatto da una posizione privilegiata, avendo un orizzonte molto chiaro. Nella prima parte della serata ci si è soffermati sul suo ultimo elegante romanzo.

Una telefonata che arriva dal passato, un vecchio libro misterioso che parla di angeli e dell’idea, difficile da accettare, che ci siano persone che vegliano su altre: ecco cosa mette in moto una storia fatta di ricordi e di sogni infranti, di rimorsi e di amori smarriti, cercati, dimenticati e mai vissuti fino in fondo.È l’estate del 1993, Parma sembra una cartolina ingiallita. Ennio Fortis ha da poco compiuto trent’anni, lavora in una libreria e non ha una ragazza. Quella telefonata lo riporta indietro nel tempo, agli amici di gioventù, al Collettivo di cui ha fatto parte, alle riprese di un documentario dedicato alla via Emilia e mai finito e, soprattutto, a Raimondo. Raimondo il visionario, Raimondo che gli ha mostrato una strada e che gli ha tolto il sonno travolgendolo con le sue idee impalpabili e bellissime. È la sua voce che arriva dal passato, arrochita e stralunata, e che lo richiama in servizio, perché c’è un compito da svolgere: ritrovare Adele, la sua ex moglie fragile e silenziosa, tornata da chissà dove e che adesso vive da qualche parte in città. Ennio accetta e si mette in movimento, in un viaggio a ritroso che risveglia il suo amore segreto e mai sopito per quella donna, in cerca di una verità che prende forma pagina dopo pagina, come nei fotogrammi sbiaditi di un film dimenticato.
Un romanzo sull’amicizia e sull’amore, che a volte ci abbagliano al punto di farci smettere di vedere e di ascoltare, per cominciare finalmente a sentire

Ma Paolo Cioni, appunto, non è solo un fine narratore e un abile traduttore e dagli inizi degli anni 2000 è anche editor della storica casa editrice Mattioli 1885. Mattioli 1885 è una casa editrice editrice di Fidenza, attiva appunto dal 1885 nel settore della narrativa, della storia e della scienza. E’ proprio il 1885 l’anno di fondazione e la piccola azienda sorge come editore degli stabilimenti termali di Salsomaggiore e Tabiano Terme. Si specializza in ambito medico per divulgare scientificamente i benefici delle acque termali e in pieno stile liberty per promuovere le due località già al tempo molto frequentate. Dopo diverse vicissitudini, che corrono a cavallo tra il diciannovesimo e ventesimo secolo, negli anni ’90 la proprietà passa alla famiglia Cioni che rafforza l’editoria scientifica e specialistica in ambito medico. Agli inizi del nuovo millennio assume la presidenza Paolo Cioni e ai titoli scientifici vengono affiancate collane di saggistica e di narrativa, con una produzione media di circa 50 titoli per anno. Nella serata abbiamo parlato anche di titoli recenti e meno recenti della casa editrice.

Molto spazio, tra gli ultimi titoli, è stato dato a “La mia autografia” di Charlie Chaplin uscito per Mattioli 1885 Books il 21 Novembre scorso con traduzione di Vincenzo Mantovani e prefazione di Gian Paolo Serino. Una nuova completissima edizione, cartonata, che racconta tutto il mondo di Charlie Chaplin: “Volevo cambiare il mondo e l’ho fatto soltanto ridere”. Questo è stato il suo cruccio per tutta la vita. Non lo avevano capito, malgrado il successo. Lui che aveva fatto di tutto per conquistarlo. Lui che passava i Natale della sua infanzia nei più tristi degli orfanotrofi nella Londra più povera di fine Ottocento e morirà nel 1977 prima che potesse vedere l’alba del suo ultimo Natale.
Charles Chaplin (Londra, 1889 – Corsier-sur-Vevey, 1977), è stato un attore, regista, sceneggiatore, compositore e produttore britannico, autore di oltre novanta film e tra i più importanti e influenti cineasti del XX secolo. La sua rapida ascesa cominciò nel 1914 (quando con la Keystone esordì nel mondo del cinema con il corto “Per guadagnarsi la vita”), ma già nel 1919 fondò la United Artists Corporation. Il personaggio che gli diede fama universale, fu quello del ‘vagabondo’ (The Tramp in inglese; Charlot in italiano, francese e spagnolo): l’omino dalle raffinate maniere ma vestito di stracci, con baffetti, bombetta e bastone da passeggio in bambù. Chaplin fu una delle personalità più creative e influenti del cinema. La sua vita lavorativa nel campo dello spettacolo ha attraversato oltre 75 anni.

Scritte fra il 1959 e il 1963 queste pagine sono incredibilmente dense e sentite. Fluide e avvincenti come un romanzo, raccontano la storia di un uomo venuto dal nulla che inventò il cinema.
Qui ci sono gli indizi per scoprire il segreto di Chaplin e, allo stesso tempo, le storie e i pettegolezzi di un’epoca straordinaria, gli incontri con personaggi come Gandhi, Einstein, Roosevelt, Krusciov, Stravinskij, con le stelle del cinema e le bellezze di Hollywood. Ma è la magia di una narrazione lineare, sobria, mai compiaciuta, a fare di questo testo un’opera anche letteraria.

Ultimissimo titolo in ordine di tempo quello di uno scrittore che la casa editrice ha avuto il merito di tradurre e far conoscere già da alcuni anni, Andre Dubus. E’ uscito in questi giorni “Vasi rotti”, raccolta di 22 saggi scritti da Dubus tra il 1977 e il 1990, a distanza di dieci anni dalla raccolta “Non abitiamo più qui”, da cui fu tratto anche il fortunato film di John Curran, “I giochi dei grandi”, vincitore del Sundance Film Festival.
Frammenti incandescenti di vita privata a rivelare la forza spirituale e la prosa lirica che hanno fatto di Andre Dubus un autore il cui talento è ormai riconosciuto in tutto il mondo. Pagine di rara profondità che permettono al lettore di scoprire soprattutto il Dubus ‘uomo’, animato da una voce intensa, commovente, che si rivela anche in tutta la sua sofferenza, il suo dolore, le sue naturali fragilità.
Personale ma mai indulgente, sensibile ma mai sentimentale, Andre Dubus si racconta: la giovinezza cattolica nella Louisiana di cultura cajun, l’amore per il baseball, il terribile incidente che lo costringerà sulla sedia a rotelle, le fortune ma anche le incertezze e la precarietà di scrittore, l’amore.
Andre Dubus (1936-1999) è uno dei più raffinati narratori americani del Ventesimo secolo. Amico e allievo di Richard Yates e Kurt Vonnegut, celebrato da Stephen King, John Irving, Elmore Leonard, John Updike, Dubus è stato anche saggista, biografo e sceneggiatore, aggiudicandosi svariati premi letterari. Mattioli1885, che sta tentando di pubblicarne l’opera omnia, ha già tradotto: “Non abitiamo più qui”, “Voci dalla luna”, “Il padre d’inverno”, “Ballando a notte fonda”, “I tempi non sono mai così cattivi”, “Voli separati”, “Un’ultima inutile serata”, “Adulterio e altre scelte”.

Tra i meriti della casa editrice Mattioli anche l’aver scoperto tanti scrittori americani di cui l’Italia era orfana e tradotto quindi opere letterarie monumentali come il libro di Gina Berriault “Donne nei loro letti” pubblicato nella Collana Frontiere con postfazione di Nicola Manuppelli.
Gina Berriault (1926-1999) è autrice di quattro romanzi, tre raccolte di racconti e diverse sceneggiature. Il suo lavoro è stato ampiamente pubblicato da riviste quali Esquire, The Paris Review e Harper’s Bazaar. Nel 1996 un’antologia che riuniva anche i racconti qui presentati ha vinto il premio PEN / Faulkner, il National Book Critics Circle Award e il Bay Area Book Reviewers Award. Nel 1997 è stata scelta come vincitrice del Premio Rea per la Short Story. Questa è la prima traduzione in italiano.
Pubblicata per la prima volta nel 1996, quando l’autrice aveva settant’anni, “Women in Their Beds” è la raccolta finale di Gina Berriault. Il volume rappresentò una svolta per Berriault, portandole finalmente l’attenzione critica che meritava. Fu ampiamente elogiato dalla stampa e vinse numerosi prestigiosi premi letterari nazionali. Lynell George del Los Angeles Times Book Review scrisse: “Gina Berriault scrive dei letti che costruiamo e in cui poi siamo costretti a stenderci.”

La storia che dà il titolo alla raccolta è ambientata a San Francisco alla fine degli anni ’60 e descrive le esperienze di una giovane attrice, Angela Anson, che ha un lavoro come assistente sociale all’ospedale della contea. Qui svolge il compito di assegnare le pazienti del reparto femminile ad altri istituti, ma si oppone al suo ruolo di ingranaggio della burocrazia, identificandosi fortemente con le donne oppresse. Angela collega così i destini che le donne condividono, formando una teoria secondo cui le donne sono “inseparabili dai loro letti.” Donne nei loro letti ha una logica onirica che offusca i confini tra sé e gli altri, i fatti e i sentimenti, il dramma e la realtà. Ecco i punti di forza di Gina Berriault come scrittore: la precisa bellezza del suo linguaggio, i vividi confronti che disegna tra percezione e realtà, e l’enorme compassione con cui rappresenta i suoi personaggi.

Tra gli ultimi titoli di narrativa americana pubblicati da Mattioli 1885 è obbligatorio segnalare anche l’esordio di Reynolds Price con un romanzo memorabile “Una lunga vita felice” nella traduzione di Livio Crescenzi pubblicato nella Collana Frontiere.
Reynolds Price (1933-2011) è stato un romanziere, poeta, autore di racconti, drammaturgo, saggista. Nato a Macon, North Carolina, Reynolds si è laureato presso la Duke University di Durham, dove ha poi insegnato per oltre cinquant’anni. Nel 1962, Price ottenne un notevole riconoscimento in seguito alla pubblicazione del suo primo romanzo, “Una lunga vita felice”, che gli valse il William Faulkner Award. Nel 1986 ottenne il National Book Critics Award. Da tempo paralizzato dalla vita in giù, Price ha continuato a scrivere fino alla sua morte, nel gennaio del 2011.

Ambientato in una regione del profondo Sud degli Stati Uniti, dove il paesaggio è descritto con una precisione tale per cui strade, alberi e uccelli hanno la forza espressiva degli stessi personaggi, Una lunga vita felice è la storia dell’amore tormentato tra Rosacoke Mustian e Wesley Beavers – perché l’amore non è come la ragazza se l’immaginava né come l’intende Wesley. In un momento d’abbandono, Rosacoke compie un gesto che segna la fine di un’adolescenza prolungata, popolata di personaggi che rimangono scolpiti nella memoria del lettore.

Da poco è uscita per Mattioli 1885 nella Collana Frontiere la ristampa, dopo 10 anni, di un magnifico libro di Joe Cottonwood dal titolo “Le famose patate” nella traduzione di Francesco Franconeri.

Joe Cottonwood ha studiato alla Washington University di St. Louis. Con un passato da hippy e attivista contro la guerra in Vietnam, si è stabilito a La Honda, una piccola cittadina sulle Santa Cruz Mountains, dove scrive romanzi, poesie e libri per bambini. Erede della grande tradizione on the road americana, Joe Cottonwood è una delle voci più interessanti della nuova narrativa statunitense. “Famous Potatoes” è stato tradotto in sette lingue.

Reduce del Vietnam ed esperto di computer, Willy Middlebrook, alias Willy Crusoe, si ritrova coinvolto in un regolamento di conti e ingiustamente braccato dalla polizia: inizia così la sua corsa sfrenata sulle strade della grande America, dalle verdi montagne del West Virginia agli squallori di Philadelphia alla violenza di St. Louis, fino alle cime rocciose dell’Idaho. Incontrerà gente assurda e vera, persone che si nascondono come patate negli anfratti di una terra immensa, “sepolte lì dove i giornali e la televisione non le troveranno mai”. E cercando la via di casa, finirà per trovare se stesso.

Lunedi 27 Gennaio in occasione del Giorno della Memoria il cantautore Daniele Goldoni ha presentato in libreria alcuni brani dell’album “Voci dal profondo Inferno, storie e canti di deportati”.
Durante la serata è stato anche presentato un libro/saggio, “L’imperatore di Atlantide”, scritto intorno a un’opera composta nel campo di concentramento di Terezin. Il libro “L’imperatore di Atlantide”di Viktor Ullmann e Petr Kien, con un contributo di Marida Rizzuti, edito da Miraggi è a cura di Enrico Pastore e con la traduzione del libretto di Isabella Amico di Meane.
“Der Kaiser von Atlantis oder Die Tod-Verweigerung” (L’imperatore di Atlantide ovvero Il rifiuto della morte) è un’opera lirica in un atto di Viktor Ullmann su libretto di Peter Kien. Ullmann e Kien, internati nel ghetto di Theresienstadt (Terezín), collaborarono alla stesura dell’opera nella seconda metà del 1943. Sebbene si tennero delle prove a Terezín nel marzo del 1944 con il direttore d’orchestra Rafael Schächter, l’opera non venne mai rappresentata sul palcoscenico della Sokolhaus di Theresienstadt giacché la censura nazista ritenne che il personaggio principale, l’imperatore Overall (anglismo per Über Alles), fosse la satira di un sovrano totalitarista.

Un libricino su L’imperatore di Atlantide, opera di Viktor Ullmann e Petr Kien, composta tra il 1943/44 nel ghetto nazista di Theresienstadt. L’opera di Ullmann e Kien è uno dei capolavori dimenticati del secolo scorso, nato in uno dei più perversi campi nazisti. Soll’orlo dell’abisso questi due autori hanno trovato la forza di cantare la vita e la morte ma soprattutto di sfidare Hitler e il nazismo. L’incredibile storia di un’opera d’arte unica, scritta e composta nel lager di Theresienstadt.
Perché l’uomo ha in sé l’abominio, e la capacità di abbatterlo, anche per mezzo dell’arte. Questo volume, che presenta il testo dell’opera scritto dai due deportati con l’originale in tedesco a fronte, offre la storia di Ullmann e Kien attraverso la penna di Enrico Pastore, che illustra il contesto del ghetto di Terezín e analizza il valore artistico, sociale e di resistenza dell’opera, mentre a Marida Rizzuti, esperta musicologa, è affidata l’analisi della partitura musicale.
Questo volume, che presenta il testo dell’opera scritto dai due deportati con l’originale in tedesco a fronte, offre la storia di Ullmann e Kien attraverso la penna di Enrico Pastore, che illustra il contesto del ghetto di Terezín e analizza il valore artistico, sociale e di resistenza dell’opera, mentre a Marida Rizzuti, esperta musicologa, è affidata l’analisi della partitura musicale. La storia di un’opera artistica eccezionale per le circostanze in cui è stata creata, il Lager nazista, e ritrovata e riportata a nuova vita.La musica e il testo dell’Imperatore di Atlantide, opera lirica composta durante la prigionia nel ghetto di Terezín, risorgono dal fondo dell’abisso in cui furono creati e giungono fino a noi come altissima testimonianza della forza politica ed etica dell’arte.

E insieme all’Imperatore di Atlantide abbiamo ricordato un altro contributo per non perdere la Memoria. Le “Poesie dal campo di concentramento” di Josef ?apek, pittore, illustratore e poeta (nonché l’inventore della parola “robot”, fratello del più noto scrittore Karel). La traduzione è di Lara Fortunato, che ha scritto anche il testo introduttivo e la nota bibliografica. Capolavoro letterario di una memoria che non va dimenticata ma tenuta sempre viva e grazie alla traduzione di Lara Fortunato qui è contenuta l’anima di un grande poeta, custodita in un libro-scrigno con testo originale a fronte.

L’ascesa della Germania nazional-socialista non lo colse impreparato, il suo impegno civile contro il dilagare del fascismo si fece caricatura per le testate giornalistiche dell’epoca. Per via del suo orientamento politico venne arrestato nel 1939 e rinchiuso in un lager nazista. Sarà qui che Josef ?apek si affiderà per la prima volta alla poesia.
Prima che finisse la guerra, alcuni componimenti riuscirono a raggiungere Praga, per mano di studenti universitari che da Sachsenhausen nel 1943 fecero ritorno nella capitale boema. A questi si aggiunsero le copie delle poesie che alcuni detenuti vicini allo scrittore riportarono in patria dopo la guerra. Il 25 febbraio del 1945 Josef ?apek venne trasportato nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, dove morì, probabilmente a causa dell’epidemia di tifo che decimò i prigionieri rimasti nel lager, pochi giorni prima dell’arrivo delle truppe inglesi. ?apek scrisse la sua ultima poesia “Prima del grande viaggio” nel campo di concentramento di Sachsenhausen in prossimità dell’ultimo trasporto.

Chiudiamo con un un bellissimo libro dal titolo “Le età dei giochi” dello scrittore rumeno Claudiu Florian, il romanzo vincitore del European Union Prize for Literature nel 2016 e pubblicato da Voland nella bella traduzione di Mauro Barindi. Il romanzo è stato scritto originariamente in tedesco ma Mauro Barindi, traduttore editoriale dal romeno dal 2008, lo ha tradotto per Voland dalla lingua madre dell’Autore. L’edizione italiana di Voland ha in copertina un particolare di un famoso quadro del 1825 Ludwig Richter dal titolo Heimkehrender Harfner.
Claudiu M.Florian è nato nel 1969 nel distretto di Brason a Rupea in Transilvania. Dopo la laurea in Germanistica ha vissuto a Bucarest, Berna e Berlino dove oggi è il direttore dell’Istituto culturale romeno.

Un racconto corale e plurilingue, fatto di odori e sapori, principi azzurri, dittatori ed eroi. Siamo in Transilvania, nella prima metà degli anni ’70. La piccola comunità che vive nel villaggio ai piedi della fortezza medievale non lontano da Bra?ov è un crocevia di lingue e civiltà, antiche e moderne. Un bambino di sei anni vi trascorre l’infanzia insieme ai nonni. Curioso e ingenuo, tenta di capire quello che lo circonda a partire dalle parole, oggetti spesso strani e sfuggenti che in qualche modo danno forma alla realtà. Lo sguardo spensierato del bambino cerca e trova la vita segreta delle cose e attraverso la favola interpreta un tempo segnato da tragedie e lacerazioni.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

IL SUONO DI TORINO – RACCONTI URBANI CON COLONNA SONORA PUNK di Manuel Graziani su RUMORE

IL SUONO DI TORINO – RACCONTI URBANI CON COLONNA SONORA PUNK di Manuel Graziani su RUMORE

Già da un po’ in edicola il nuovo numero di Rumore che sfoggia un elegante bianco/nero di copertina con un’immagine senza fronzoli dei Bad Religion. Il mio l’ho fatto recensendo tre album stranieri piuttosto interessanti, l’esordio dei canadesi Corner Boys e i nuovi di Ausmuteants e Mattiel. Ho scritto anche della ristampa del primo e finora unico album delle australiane BLANK STATEMENTS e dei nuovi album degli italiani Jesus Franco & The Drogas e Tony Borlotti e i suoi Flauers. Sul podio del boxino “Weird RnR” c’è finito il piccolo-grande esordio dei trentini GOOFY AND THE GOOFERS di Marcello, Edoardo e Seba Omezzolli, poi GONZO, Model Zero, NEGATIVE GEARS e LOS INFARTOS che tengono alta la bandiera del garage r’n’r teramano. A sventolare con energia la bandiera del r’n’r stortarello della mia città anche Marianna D’ama che ha messo fuori un buon singolo assieme al fido collaboratore, gran musicista e gentiluomo Davide Grotta: del 7″ in vinile trasparente ho scritto due parole nello spazio “Singolare” dove altre due parole le ho scritte pure per i 7″ di Cave Curse e Vintage Crop.

Infine 1.100 battute di numero sul nuovo libro del professore-ultras Domenico Mungo “Il suono di Torino – Racconti urbani con colonna sonora punk” Miraggi Edizioni.

Lotta di classe, detriti post industriali, risorse umane che non sono più uomini, pulizie etniche olimpioniche, stragi (dal Cinema Statuto alla ThyssenKrupp), morti bianche, squatterismo e slanci d’insurrezione e lotta. Creatività collettiva antagonista, avanguardie alternative, sabotatori di un io che si fa noi nella Torino di ieri e di oggi. È un gioco di specchi non riflessi. Sfruttati e sfruttatori, alta borghesia e sottoproletariato, movimenti anarchici e torbide trame di Stato, Che Guevara e Pulicisì Tav e no Tav, cultura alta e sottocultura di strada, CSOA e architettura monumentale, Nerorgasmo e Italo Calvino. Un libro impegnativo da leggere e, immagino, da scrivere. Mungo slitta tra alto e basso, scavando nella storia sociale e nella narrativafamiliare, come nel toccante “Un’auto targata TO” che prende il nome dal pezzo di Dalla/Roversi. La scrittura è urgenterumorosaal contempo ridondante, massimalista, a tratti visionaria, figlia dell’individualismo del punk del collettivismo di movimento. Assai belle le (poche ma buone) illustrazioni neorealiste di Fabrizio Visone.

MANUEL GRAZIANI

73/100

Stefano Colucci e la poesia 2.0 – di Ilaria Giudice su Artwave

Stefano Colucci e la poesia 2.0 – di Ilaria Giudice su Artwave

“La confusione non è mai stata così bella”, la raccolta poetica di Stefano Colucci (quasi 37mila seguaci su Instagram), è un invito a cogliere la bellezza delle piccole cose. La lettura dei suoi versi ci dà modo di ragionare sulla poesia 2.0 e su quel pubblico di giovani che ha trovato esattamente ciò che cercava: verità, brevità e semplicità”.
 di Ilaria Giudice – 01.02.2019

La poesia di Stefano Colucci è quella delle piccole cose contemporanee: il Mc Donald’s, la metropolitana, La La Land, le felpe giganti, i gol di Totti, Whatsapp.

In La confusione non è mai stata così bella (Miraggi Edizioni), Colucci condensa tutta la concretezza dell’esistenza, ne coglie i particolari tipici dell’età giovanile, stila liste di cose attuali, elenca film e quadri da vedere (“cosa vuoi che me ne freghi/dei tramonti/del mare/dei film di Tarantino/dei quadri di Klimt”) usa il linguaggio di tutti i giorni, le parole quotidiane, pesca i termini nella rete delle conversazioni giornaliere tra ragazzi, (“perché quando andiamo al Mc Donald’s/mangi come se/nessuno ti stesse guardando/ e te ne freghi di ciò che gli altri pensano di te. Mi piaci…”).

Qui ci troviamo di fronte alla nuova poesia, quella che nasce su Instagram o sui social network in generale, quella che riceve migliaia di like, che piace perché è diretta, chiara, schietta. Basti pensare a Guido Catalano o a Gio Evan.

Stefano Colucci ha quasi 37mila followers su Instagram, i suoi post ricevono migliaia di mi piace e numerosi commenti. Il suo modo di fare poesia piace perché cattura, coinvolge ed è comprensibile a prima lettura. È la poesia dei Millennials, è la poesia pop; funziona e vende numeri di copie che gli altissimi della Letteratura si sognano. È la poesia che senza pretese raggiunge il suo pubblico, lo immerge in quella atmosfera Tumblr che tanto piace, lo trasporta dentro una promessa di vita che alletta, lo catapulta dentro la scena di un film in cui lei si alza dal letto, gira mezza nuda per casa e lui la guarda con occhi innamorati sotto lenzuola bianchissime. Questa è la poesia del sogno, è ciò che una ragazza vorrebbe sentirsi dire, è il dipinto di scene semplici, ma platoniche, o perlomeno rare.

“La notte non dormo/guardo il telefono/ogni cinque minuti/ho venti messaggi/ma nessuno è il tuo”.

L’amore fa da sfondo all’intera raccolta di Colucci, un amore tenero e adolescenziale, l’amore che un attimo spinge in altro tra gli eroi e un attimo dopo lacera (“Abbiamo litigato di brutto/ci siamo detti di tutto/ma mai addio”). Questa raccolta è un invito a rendere grande tutto ciò che di piccolo e quotidiano ci circonda perché per essere felici bisogna essere innamorati, di qualcuno o del mondo.

La critica si divide quando si parla di questo genere di poesia, e a ragione. Niente, però, può far male alla poesia e, anzi, questo è un modo efficace per avvicinare i più giovani a questo genere letterario. Si cerca la brevità e la poesia è breve, si cerca la semplicità e la poesia 2.0 è semplice.

I giovani sono liberi, impauriti e innamorati e questa poesia qui, la poesia di Stefano Colucci, i giovani li capisce, li comprende e gli dà esattamente quello di cui hanno bisogno: qualcosa di familiare in cui rintanarsi.

Colucci è nato nel 1995, e l’età che ha si rispecchia completamente nei suoi versi. Comincia a pubblicare i suoi versi sul web quando ha solo 16 anni. La confusione non è mai stata così bella è la sua seconda raccolta. Nel 2006 pubblica Precedenza al cuore che raggiunge in poco tempo il primo posto sulla classifica Amazon. Ha prodotto, ha scritto e ha fatto da voce narrante per cortometraggi diretti da Paolo Reali e da Elonora Sabet, diventati virali sul web.
RAI Cutura – Letteratura intervista Nicola Manuppelli

RAI Cutura – Letteratura intervista Nicola Manuppelli

http://www.letteratura.rai.it/articoli/nicola-manuppelli-roma/42820/default.aspx

A sette anni Tommaso batte a macchina con disinvoltura; il padre, che fa il segretario in uno studio legale, gliel’ ha insegnato quando era piccolo e il suo primo regalo importante è una Olivetti portatile. È così che il ragazzo approda alla carriera di giornalista a Milano, mentre è l’esplosione della bomba di piazza Fontana e il ferimento subito in quell’occasione a fargli decidere di partire per Roma per cambiare vita. In Roma, pubblicato da Miraggi edizioni, Nicola Manuppelli affronta una sfida coraggiosa: raccontare la Cinecittà di Fellini, ma anche il Pigneto, Trastevere, piazza del Popolo degli anni 1970-71 attingendo ad aneddoti su aneddoti (su Richard Burton, su Walter Chiari, su Gore Vidal per citare solo alcuni dei personaggi famosi che compaiono nel libro) senza cadere nel bozzettistico. Ci riesce e il suo romanzo fa scoprire al lettore l’epoca d’oro del cinema italiano attraverso gli occhi di un giovane ingenuo ed entusiasta. A Roma, Tommaso conosce Satchmo, un sosia di Louis Armstrong che vive costruendo notizie false sui divi grazie a una rete di collaboratori, tra cui presto annovera anche il nuovo arrivato. Tra cene che si protraggono tutta la notte, bevute interminabili, corse di maiali al Circo Massimo, Tommaso fa gli incontri fondamentali della sua vita. A stregarlo è Judy, un’inglesina di Bath, con la passione per il pettegolezzo sui divi. L’amaro finale oltre a segnare la fine della giovinezza, marca quel confine tra vero e falso che tutta l’atmosfera intorno a Tommaso sembrava voler negare. Manuppelli alterna il lavoro di scrittore a quello di traduttore di classici americani: la sua prosa vivace e appassionata ne trae gran giovamento.

Nicola Manuppelli è nato a Vizzolo Predabissi nel 1977. Scrive, traduce, cura, scopre autori americani e irlandesi (fra i quali Andre Dubus, Charles Baxter, Jane Urquhart, Roger Rosenblatt, A.B. Guthrie, Sara Taylor, Gina Berriault, Don Robertson). Collabora, fra gli altri, con Mattioli, Minimum Fax, Nutrimenti, Aliberti. Suoi articoli sono apparsi su Chicago Quarterly, Numéro, D di Repubblica, Satisfiction, Il Primo Amore, IBS Café. Ha pubblicato i romanzi Bowling (2014, Barney Edizioni) e Merenda da Hadelman (2016, Aliberti), la biografia della scrittrice Alice Munro, La fessura (2014, Barbera) e la raccolta di poesie Quello che dice una cameriera(2017, Miraggi). Dal 2016 conduce il programma radio I fuorilegge con Claudio Marinaccio e dirige una collana omonima di letteratura americana e italiana. Nel 2016 il noir Merenda da Hadelman (Aliberti). È biografo ufficiale dello scrittore americano Chuck Kinder.

 

“Autismi”: la recensione di Luigi Preziosi su vibrisse.wordpress.com

“Autismi”: la recensione di Luigi Preziosi su vibrisse.wordpress.com

Luigi Preziosi

Autismi di Giacomo Sartori potrebbe essere preso come esempio della non del tutto serena relazione tra pubblicazione via web e pubblicazione cartacea, oggetto di tante dissertazioni in materia che ormai da una ventina d’anni occupano i siti letterari. Sarebbe facile pensare che una raccolta di racconti in volume pubblicati in prima versione su una delle riviste on line più autorevoli tra quelle in circolazione possa incontrare un largo favore ed una altrettanto ampia diffusione. Diversa la storia di questi racconti. Usciti dal 2008 al 2010 su Nazione indiana, di cui l’autore è tra gli esponenti più autorevoli (e più appartati), sono stati antologizzati a fine 2010, quando, come si legge nella Nota dell’autore, “un microeditore ha stampato centotredici eleganti copie della versione rivista della raccolta, che non sono mai arrivate in libreria, forse perché si sentivano incomprese e sole.”
Per contro, il volume è stato finalista al premio Settembrini, e alcuni dei testi hanno trovato la fortuna che meritano in forma di monologo teatrale o grazie a traduzioni su riviste americane e francesi. Finalmente, qualche mese fa Autismi compare in libreria, per merito di Miraggi editore.
Ma che cos’è Autismi? Una raccolta, pregevole per intensità espressiva e densità concettuale, composta da sedici episodi correlati per formare altrettante tappe di un percorso di esplorazione e di descrizione del mondo di un unico personaggio, che si intuisce avere parecchio in comune con l’autore: una prova di autofiction (la lunga permanenza dell’autore in Francia può avere a che fare con questa scelta narrativa) per frammenti, che danno conto di un io coerente, per quanto strambo possa apparire.
Significativa del genere di autofiction che l’autore ha in mente è del resto la citazione da Marguerite Duras posta ad esergo del libro, in cui la scrittura è avvicinata a “un altro individuo che fa apparizione e avanza, invisibile, dotato di pensiero, di collere, e che qualche volta con i suoi maneggi si mette in pericolo, anche di morte”. Sartori oggettivizza l’altro se stesso che opera nel libro, lo rende autonomo, facendone un altro da sé, di cui però conosce i pensieri, le impressioni e le ossessioni più riposte.
L’autismo del protagonista si esprime con un desidero di inapparenza periodicamente ritornante, una tendenza al confinamento di sé, al nascondimento, come si desume dai testi iniziale e finale della raccolta. ”Il mio lavoro consiste nel fare buche nella terra. Buche grandi e profonde, in cui ci entra comodamente una persona. Poi appunto ci entro dentro. Mi ci seppellisco, si potrebbe dire”: questo l’incipit del primo racconto (Il mio lavoro), mentre si direbbe non casuale che l’ultimo testo sia Il mio testamento biologico. Il senso di chiusura che percorre almeno parte, se non tutti, i racconti genera a tratti effetti claustrofobici, già esplorati dall’autore in alcuni suoi romanzi, come Sacrificio (Italic e Pequod, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011) e Rogo (Cartacanta2015). Il campo di analisi è però qui diverso da tutti gli altri precedenti: la patologia è più esistenziale che fisica, l’inquietudine si manifesta nel martellante arrovellarsi del protagonista su questioni apparentemente minime, ma capaci di dilatarsi progressivamente sino a saturarne la coscienza.
A volte la materia dell’ossessione tende a superare i confini della ordinaria narrabilità, almeno quella misurabile in un contesto di decoro borghese (che l’autore, nonostante l’eleganza della scrittura, o forse, in deliberato contrasto con questa, non pare voler rispettare). E’ il caso delle vicende raccontate in Il mio organo di riproduzione, in cui il membro dell’io narrante pare vivere di vita propria, acquisendo lo statuto di protagonista di un particolare tipo di scissura della personalità (echi del moraviano Io e lui?). La mia cacca è altrettanto intenzionalmente anticonvenzionale. Il protagonista constata con stralunato stupore che l’umanità nel corso di millenni di evoluzione, non ha affrontato né tanto meno risolto il problema della pessima qualità dei propri escrementi, non essendo riuscita “a creare una cacca di qualità omogenea, puntuale e affidabile, e di odore sopportabile, se non proprio profumata”. Inizia uno studio meticolosamente condotto, al termine del quale ha modo di capire che l’uomo “è un lunghissimo tubo digerente, al quale l’evoluzione ha attaccato le gambe, indispensabili per la locomozione, le braccia, utilissime per procacciare il cibo e avvicinarlo alla bocca, e gli altri organi che servono a far funzionare il lungo budello digerente, assicurandogli tra le altre cose la riproducibilità nel tempo.”
L’egocentrismo che pare filtrare la percezione del mondo dell’io narrante non si limita ovviamente agli aspetti più materici dell’esistenza, ma abbraccia con eguale acribia anche le relazioni umane e si sentimenti che suscitano le diverse condizioni esistenziali. Investe così i rapporti familiari, dei quali il protagonista insiste a ricercare le crepe, anche quando si abbandona a riflessioni esistenziali depurate da quella sovrabbondanza di cinismo, che altrove si dimostra straordinariamente efficace per reggere la narrazione sul filo sottile del paradosso. E’ il caso di Mio figlio, in cui la descrizione di un figlio amato, ma in certo senso costantemente distante, sfocia in una rivelazione finale da non anticiparsi al lettore, in cui si leggono riflessioni come questa: “I figli servono ai genitori per capire se stessi. Guardandosi riflessi nelle loro pupille dove sfavillano scintille di amore ma anche di odio capiscono che non sono come hanno sempre creduto di essere, o che comunque possono essere visti in maniera radicalmente diversa. Il che apre pur sempre un deleterio varco. Si rendono soprattutto conto che il mondo è già intrinsecamente diverso da come sono abituati a pensarlo, e che in altre parole sono già vecchi. Non occorrono le frasi, bastano gli occhi. Tramite mio figlio ho avuto per la prima volta la certezza che ho fallito: una cognizione cristallina, un cancro inoperabile.”
Altrove, come in Mia sorella, il racconto della relazione familiare si fa più duro, svela quasi subito una ferocia che solo il più vieto senso del rispetto borghese delle forme riesce a contenere, salvo deflagrare all’improvviso, senza una causa proporzionata alla violenza dell’esplosione. Un alternarsi sapiente di registri tonali caratterizza un altro ritratto familiare, Mio suocero, arguta descrizione della veglia funebre del padre della moglie, in cui in poche pagine si concentrano compiute descrizioni di diverse figure, colte nei loro tratti caratteriali più significativi, dal cognato, sospettoso e preoccupato per dover dividere l’eredità con un estraneo, al miglior amico del morto, “persona con importanti responsabilità a livello nazionale”, ad un altro amico, ex terrorista, alle due sorelle del morto, che portano un contributo di autenticità alla situazione proprio perché dolenti (“non avevano bisogno di mostrarsi tristi, visto che erano tristi davvero. Dicevano quello che avevano voglia di dire, trasformando la veglia funebre in un allegro e toccante chiacchiericcio”) ed anche per via di una certa vena di anticonformismo latente sotto le apparenze perbeniste. Il finale si modula su una tonalità ancora diversa, laddove il protagonista scopre di conoscere il defunto “tramite la figlia, tramite gli atomi della figlia che ritrovavo nella sorella omosessuale, tramite i geni indomiti che vorticavano in quel ramo della famiglia, e che erano sciamati anche in mia moglie. Quei barlumi di follia che amavo. Il fatto che lui fosse morto e io fossi ancora vivo non mi appariva più la differenza così fondamentale che mi era sembrata quel mattino.” Diversa modulazione rivela, invece, Il mio migliore amico, ritratto appassionato e tragico di un’amicizia duratura, nata sui banchi del liceo e alle svolte della vita riaffiorante in forme diverse ma con un’intensità che, per una volta tra tutti gli altri autismi, mette la sordina all’ironia e consente lo sfogo al racconto di emozioni.
Alla moglie (presente in più racconti), l’autore dedica il ritratto più definito in Terapia di copulazione, raffinata satira delle terapie (e dei terapeuti) per coppie in crisi, in cui la soluzione per la riconquista di una moglie diffidente e prevenuta (a dire del marito) si trova in una sana raffica di risate, di cui il racconto comprova effetti miracolosi nella ricostituzione di una complicità perduta. Anche del rapporto con la madre il protagonista evidenzia le zone d’ombra, con debiti per i quali non è facile ottenere risarcimenti: “Come ogni angioletto che si rispetti amavo di amore corrisposto mia madre. Insomma, abbastanza corrisposto. Prima di me venivano pur sempre gli amici ricchi, la pelliccia, le sue sorelle, la sua asma, l’anello con il diamante, l’anello con lo smeraldo, la batteria di scarpe con i tacchi, le vacanze, l’organizzazione delle vacanze, il suo amico omosessuale, l’estetista, i costosissimi lavori nella casa di famiglia, la pedicure, la pettinatrice, i problemi con le donne di servizio, l’antiquario, le fatture del telefono, le altre fatture, il preside della scuola dove insegnava, la sanguinosa guerra con mio padre, gli esami per diventare di ruolo, i nervosismi ingiustificati, la guerra di posizione con mia sorella, le visite mediche per capire se mio fratello era o non era pazzo. Ma insomma vivevo pur sempre un grande amore abbastanza corrisposto.”
Ben più di un’ ironia irriverente Sartori spende nella descrizione feroce della sua città d’origine (La mia città), dove “ogni misfatto locale – a patto beninteso che venga perpetrato da criminali autoctoni – viene travestito con un eufemismo appropriato, e archiviato” e “l’adesione incondizionata al fascismo … viene definita fredda accoglienza, la zelante collaborazione con i nazisti viene chiamata Resistenza, il giogo della religione viene chiamato tradizione cattolica, gli affaristi e i governanti colpevoli di ogni sorta di corruzioni e furti vengono chiamati Egregio Direttore ed Egregio Presidente, i luna park sciistici vengono definiti parchi naturali, i preti pedofili colti in flagrante Padre Tale o Padre Tal Altro, il genocidio delle specie animali e vegetali sviluppo della viabilità e delle infrastrutture, i vigneti e i frutteti avvelenati per l’eternità dai pesticidi zone rurali di pregio, e via dicendo.”
L’oltranza della satira deborda a volte in episodi di autentica crudeltà, espressa sempre con forme di rara eleganza. Il nitore della scrittura lascia trasparire sia le meschinità dei singoli sia il degrado dei rapporti umani generato dalla somma di queste meschinità nelle comunità (famiglia, amicizie, cittadina) che il protagonista frequenta. E da un punto di vista in apparenza orientato su vicende personali, lo sguardo dell’autore si allarga verso prospettive più ampie, fino a scrutare con inesorabile lucidità la progressiva disgregazione di un impianto di valori sempre meno socialmente condivisi. Ma la pars destruens della critica sociale che l’autore riesce sorprendentemente ad accennare in via implicita, raccontando casi così squisitamente privati, non trova compensazione nell’invenzione di alternative. Gli Autisminon inclinano affatto a particolari compiacimenti verso costumi e assetti sociali che il conformismo dell’anticonformismo propone come nuovo. Piuttosto, l’auscultazione di sé in essi ampiamente praticata ci immette nel cuore della contemporaneità, e tutto ciò che di essa appare consunto dall’uso, banale, ordinario, nella vita e nei rapporti umani per Sartori non solo nasconde una vena di bizzarria, ma segnala, nel suo piccolo, il senso del limite che affligge il nostro tempo.

 

“Autismi”: la recensione di Luigi Preziosi su vibrisse.wordpress.com

“Autismi”: l’intervista a Giacomo Sartori su satisfiction.se

di Gianluca Garrapa

G.G.: Perché Marguerite Duras, un cui passo riporti in esergo, dovrebbe essere, se lo è, il punto di riferimento per comprendere la scrittura degli Autismi?

G.S.: Mi toccano assai queste frasi sull’essenza non razionale della scrittura, come del resto tutto il magnifico testo dal quale le ho tratte e tradotte, Ecrire. E poi amo moltissimo questa autrice, e mi sembra che non si colga appieno la sua importanza fondamentale su tantissime scritture dell’intimità, per chiamarle così, che sono venute dopo di lei.

G.G.: Il mio lavoro consiste nel fare buche nella terra. Buche grandi e profonde, in cui ci entra comodamente una persona. Straniante è la tua scrittura perché, appunto, crea i buchi nel quotidiano e crea degli impossibili. Tragitti che ruotano attorno al dato autobiografico che non diventa mai autoreferenza, a dispetto del titolo del lavoro: Autismi. Autoironia, autoconsapevolezza. Le auto. Le macchine che prendono vita e, quasi, da oggetti inanimati s’innalzano a soggetti di memorie… scrivi: Nel mio sguardo sfilano le automobili parcheggiate. Le vie addormentate del mio quartiere sono stipate di macchine, perché poverine non sanno dove altro andare a dormire, mentre i proprietari ronfano placidamente nei loro letti, o anche si dedicano a indiavolati atti sessuali.

Gli oggetti pungono lo sguardo, anche del lettore. Non mi era mai capitato di provare questa forma di animismo nei confronti delle cose. E le cose, qui, gli oggetti sistemati spesso in elenchi, sono strappi all’anonimato quotidiano e diventano cause degne di attenzione. Penso alle bottiglie di Morandi, a Duchamp, al ready-made, all’operazione di rendere strano un oggetto comune, sottrarlo all’inorganico robotico, non è tanto la poetica dell’oggetto umile, ma l’etica di uno sguardo che tutto abbraccia. Alcuni elenchi: Arrivano gravati di sci, tavole da surf, biciclette, pattini, racchette, mazze da golf, creme solari, macchine fotografiche, paracaduti, corde, ramponi, pinne, aquiloni, canne da pesca, salvagenti, archi, balestre, attrezzature di ogni genere. Un elenco che, nel quarto elenco… volevo scrivere ‘episodio’ (il lapsus che ha trasformato episodio in elenco, non è fuorviante: ogni episodio può essere visto come individuo a sé stante e come elemento di una classe più vasta e l’errore in sé, in questo libro, quella mancanza che trascina tutto il racconto, è proprio spinta del soggetto a, da un lato, identificarsi con il mondo, dall’altro a ritrovare in sé la propria radicale diversità dal mondo, e la scrittura di Sartori, nello humour e nella non casuale semplicità, lo è); nell’episodio La mia città, l’elenco, mi pare, serve meno a ossessionare una pratica nevrotica di accumulazione di oggetti, sempre feticci e ombre del grande oggetto materno, che a delineare i caratteri dei loro possibili possessori maschi o femmine, di ogni genere. Oppure, parlando della madre, in Il mio organo della riproduzione, viene stilato un elenco degli ‘ostacoli’ che si pongono tra lui-bambino e la mamma. Quel desiderio di essere desiderato dalla madre, classico groviglio di narcisismo e disperazione: non c’è scrittura sincera che non sia generata dal Desiderio, dal vuoto incolmabile. Ma l’elenco: Prima di me venivano pur sempre gli amici ricchi, la pelliccia, le sue sorelle, la sua asma, l’anello con il diamante, l’anello con lo smeraldo, la batteria di scarpe con i tacchi, le vacanze, l’organizzazione delle vacanze, il suo amico omosessuale, l’estetista, i costosissimi lavori nella casa di famiglia, la pedicure, la pettinatrice, i problemi con le donne di servizio, l’antiquario, le fatture del telefono, le altre fatture, il preside della scuola dove insegnava, la sanguinosa guerra con mio padre, gli esami per diventare di ruolo, i nervosismi ingiustificati, la guerra di posizione con mia sorella, le visite mediche per capire se mio fratello era o non era pazzo, l’elenco è pur sempre un girare attorno, un torno e ritorno, un investigare, e la madre diventa tutte quelle cose che impediscono a lui-bambino di essere il privilegiato, l’unico e insostituibile… direbbe lo psicoanalista, o la terapeuta di Terapia di copulazione. In realtà Sartori non si sta lamentando, non sta scrivendo il suo male oscuro… anzi! Lui se la ride, ironizza sul luogo comune che vuole tutti i problemi generati dall’irrisolto Edipo. Ma traduce in chiave quasi umoristica il proprio disagio, supposto che davvero Sartori stia facendo, magari inconsciamente, di questa scrittura una terapia. Insomma, se il racconto di Autismi sia autobiografico o meno, non saprei dirlo, ma di certo non è questo, credo, che vuol evidenziare l’autore, quanto l’architettura di ogni episodio, legato al successivo proprio da un principio di elencazione: intorno alla propria esistenza ruotano i quadri che raffigurano momenti quotidiani: il lavoro, la malattia, la città, la famiglia, i ricordi, gli amici, la morte, la cacca. La mia cacca è un episodio assurdo: Cominciavo a percepire me stesso in una maniera completamente diversa: mi guardavo nello specchio, e vedevo il tubo digerente che ero. È un momento centrale, l’epifania di tutta la scrittura di Sartori: il vuoto che ci abita e che genera non solo la possibilità di ospitare l’altro ma soprattutto di mettere da parte quel narcisismo che apparentemente tradisce il titolo del libro. Siamo costruiti intorno a un vuoto, sembra dirci la prosa di Sartori: c’è sempre per tutto il libro un sottile senso di disagio come impossibilità intrinseca di poter andare oltre, e sempre, la situazione più comune e quotidiana, diventa di più profondo significato sociale e politico.

G.G.: Che rapporto hai, se ce l’hai, con la letteratura psicoanalitica e quali sono stati i tuoi riferimenti letterari nella stesura dei tuoi Autismi?E che rapporto hai con la politica e con l’ideologia politica?

G.S.: Io non sono un teorico, insisto sempre su questo punto, per il semplice fatto che guardandomi attorno vedo che moltissime persone, professionisti del pensiero ma anche semplicemente individui molto intelligenti, sono molto più dotati di me per il pensiero astratto e filosofico. Ciò detto che dietro a tutti i miei testi ci sono tantissime letture teoriche, anche appunto di psicoanalisi, perché non vedo come uno scrittore contemporaneo, qualsiasi cosa scriva, possa ignorare il suo apporto. Checché si possa dire di questa, e sui suoi limiti, mi sembra che solo lei riesca a scavare nei comportamenti e nei funzionamenti intimi delle persone. A me in ogni caso ha apportato moltissimo. Ma ripeto, il mio interesse non è cerebrale, a me preme capire le persone, e riportare questo mio sapere nei testi che scrivo, che è quello che so fare bene. E lo stesso si può dire della politica, nei miei testi c’è tantissima politica, e mi fa piacere che la persona che mi traduce in inglese, Frederika Randall, lo abbia sottolineato nelle sue considerazioni su questa raccolta di racconti, che potrebbe essere considerata agli antipodi della politica. Perché anche l’intimità delle persone, l’intimità più abissale e nascosta, che è quello che più mi interessa, è – lo dici molto bene tu stesso – rapporto con gli altri, con la società in cui si vive, con le forze economiche e politiche che la reggono, con i fondamenti ideologici espliciti e impliciti. Però anche qui le piste nei miei testi sono nascoste e mescolate, non ci sono mai dei messaggi univoci e facilmente riassumibili.

Perché il tema politico torna sempre nella rievocazione del padre fascista e del paese bigotto e cattolico e si riflette in queste alte montagne, ostacolo della percezione e della riflessione: L’unica soluzione sarebbe spianare le montagne, in modo da permettere finalmente allo sguardo di spaziare, all’aria di circolare, al sole di tramontare sulla linea dell’orizzonte, alle idee di maturare serenamente: la soluzione sarebbe di spianare gli ostacoli, e di colmare il vuoto del desiderio. Intendimento irrealizzabile che bloccherebbe non solo la scrittura di Sartori ma la scrittura tout court: La mia volontà di attraversare mi appare ormai come un invincibile despota, un tiranno al quale non mi resta che arrendermi. Adesso vado!, mi dico, irrigidendo le spalle.

Poi però rimango sul solito marciapiede, quello di sinistra: scrive nel penultimo episodi Le mie passeggiate, un episodio che non può rievocare, credo, una psicogeografia fatta di ossessioni e ricordi simil-nevrotici, ma anche da un’ansia del territorio per cui il soggetto non si decide a passare dall’altra parte o a lasciare la sua terra (tentennamento che dissolve in malinconia quel disprezzo che dichiarato per la sua città e le montagne al momento del dipartire:,Mi dico che le vedo per l’ultima volta e ne provo quasi un malinconico struggimento; oppure in maniera più incisiva in La mia patria fuggitiva: Allora ho capito che ero un italiano, lo sarei sempre stato).

E che rapporto hai con il tuo territorio nella vita di tutti i giorni quando non fai lo scrittore?

G.S.: Io sono cresciuto in Trentino, e anche se poi a diciotto anni lo ho lasciato, ci sono sempre ritornato, e tra le altre cose lo ho battuto palmo a palmo per il mio lavoro. Quindi lo considero la mia terra, e se penso all’Italia mi viene naturale di pensare in primo luogo alla mia regione, e anche molti miei scritti hanno a che fare con essa. E è un territorio con il quale ho un rapporto complesso, appunto. Ci sono molte cose che detesto, ma la psicanalisi – visto che abbiamo parlato di psicanalisi – e anche la spiritualità, ci insegnano che non c’è avversione e rancore senza vicinanza, senza incarnare noi stessi quegli attributi che ci danno noia.

G.G.: Gli episodi sono stratificati, è vero, ma è come se, scivolando verso la fine, si risalisse in superficie, o viceversa, e l’andamento, spesso, è una scalata: si arriva in vetta e si ridiscende e il dato di fatto iniziale muta sguardo, un’anamorfosi, trasformazione, come se il tragitto, per avercelo fatto attraversare, modificasse il territorio, e l’ipotesi iniziale contraddice la spinta propulsiva del racconto e si converte nel suo contrario o complementare: quel che credevamo un esistente si fa allucinazione, quel che viene a galla come un distacco è una liberazione e la liberazione a sua volta sprofonda lentamente nel rimpianto, nell’inquietudine kafkiana dell’assurdo esistere, sembrava prossimo alla morte e invece è solo un disagio del corpo, sembrava merda e invece è oro. La scrittura di Sartori scava, scala, scavalca, si muove in direzioni opposte, è profonda e superficiale, anima gli oggetti e individua l’automatismo dei soggetti, concede un’anima alle macchine ma denuncia la morte-in-vita dei suoi paesani umani, accusa gli altri di essere fatti male per poi giungere alla conclusione amara e ironica di essere lui stesso fatto male, proprio come succede con la sorella che descrive nell’episodio Mia sorella. Punti di vista differenti, una prospettiva che non si accontenta del proprio sguardo e chiama a testimone lo sguardo altrui.

Perché è un istigatore Andrea Raos?

G.S.: Il poeta Andrea Raos, che avevo conosciuto a Parigi, all’epoca anche lui viveva lì, nel 2005 mi aveva chiesto ripetutamente se volevo collaborare con Nazione Indiana, e se volevo entrare nel blog come redattore. Io per un po’ ho nicchiato, perché all’epoca ero molto lontano dalle cose del web, poi invece ho cominciato a scrivere questi racconti, che lui postava mano a mano, e per me è stata una esperienza bella e ricca. A differenza dei romanzi i racconti hanno bisogno di essere desiderati, o insomma di avere una loro possibile destinazione, e per molti versi si portano dietro l’energia della contingenza dalla quale nascono. A me almeno succede così. In ogni caso senza Nazione Indiana questi testi non avrebbero mai visto la luce. E poi ho finito per entrarci a tutti gli effetti, nel blog, e anche questa per me è stata un’esperienza importante.

G.G.: Ingannevole quel ripetitivo mio mia nel titolo della maggior parte dei capitoli-episodi: proprio perché non v’è nulla di ‘mio’ ci si può permettere di dichiararlo tale, è proprio perché non v’è niente di autoreferenziale che l’autore può chiamare Autismi questa raccolta di episodi apparentemente a sé stanti. Ma raccontaci qualcos’altro degli Autismi pubblicati sul blog collettivo Nazione Indiana.

G.S.: La cosa bella è che i lettori commentavano i racconti, anche in modo molto critico, o al contrario esprimendo la propria ammirazione. Dieci anni fa si era in un’epoca differente, i blog letterari erano ancora pochi, e i lettori erano forse più attenti, o insomma avevano più tempo a disposizione. La mia impressione è che oggi l’offerta sia così grande, tra blog, social eccetera eccetera, che le persone facciano fatica a stargli dietro, e lo facciano in modo compulsivo, e senza quella reale attenzione e quel coinvolgimento che mi sembrano essere la specificità e la bellezza della fruizione dei testi letterati. In queste condizioni non si potrebbe ripetere l’esperienza degli Autismi, non avrebbe senso, mi pare.

G.G.: L’ultimo episodio si intitola Il mio testamento biologico e mi sembra che concluda egregiamente il circolo intorno al vuoto del desiderio con un commiato esistenziale, sociale e politico sui diritti umani, che è pure un ritorno alla terra-madre, terra nel suo significato ancestrale e ontologico opposto o complementare a quello assunto dallo stesso termine nel primo episodio Il mio lavoro in cui la voce narrante racconta il mestiere dell’agronomo: la voce narrante di Autismi possiede un corpo ben piantato nella terra e la sua scrittura, come suo doppio sulla carta, s’innalza quasi-albero. Non passa inosservato il contrappunto tra le parole del primo episodio: O forse giacerò anch’io già nella terra, e le parole dell’ultimo: Per parte mia avrei continuato a vegetare, perché proprio questo è sempre stato il mio traguardo.

E per parte mia vi auguro una buona esplorazione dell’animale terrestre che dunque siamo e che Sartori rappresenta con una tecnica estremamente originale.

Leggi l’intervista di Gianluca Garrapa anche qui
http://www.satisfiction.se/autismi-intervista-a-giacomo-sartori/

“Non risponde mai nessuno”: la recensione di Ippolita Luzzo su Trollipp

“Non risponde mai nessuno”: la recensione di Ippolita Luzzo su Trollipp

Fra vergogna e cattiveria-Non risponde mai nessuno.
La vergogna di essere uomo: c’è una ragione migliore per scrivere?
Gilles Deleuze

Bue bue bue fa il cane randagio,
e può darsi che abbai a un altro cane,
a un’ombra, a una farfalla, o alla luna,
non è però escluso che abbai a ragion veduta, quasi che attraverso i muri, le strade, la campagna, gli sia giunta la cattiveria umana.
Dino Buzzati

 

Nella fascinazione i bellissimi racconti di Simone Ghelli mi giungono in lettura e mi riportano ai felici tempi in cui la letteratura era sinonimo di raccontare bene, con attenzione e umanità, di ciò che tormenta e affligge il vivere fatto uomo. Una letteratura realistica, neorealistica, il periodo dovrebbe essere proprio il neorealismo, al cinema e nella narrativa, un periodo d’oro italiano che molti ancora ammirano e prendono d’esempio: Cassola e poi Verga, Pavese. Leggendo Simone mi sembra di essere in compagnia di autori amati nell’adolescenza e nello stesso tempo sento lo stile originale del nuovo scrittore che contamina e si arricchisce di suggestioni fino al fantastico di Dino Buzzati.

Un bel leggere già dalla prefazione tanto accattivante da farmi scegliere i due temi individuati da Wu Ming 2 come traccia da seguire nel legare i racconti. Fra vergogna e cattiveria, storie di difficoltà, famiglie composte da persone con handicap, oppure semplicemente più fragili, famiglie che per tutte la vita saranno segnate da una specie di vergogna, di dispiacere e nello stesso tempo oggetto della cattiveria altrui. Sono racconti di cui mi piace riproporvi qualche stralcio per gustare la pulizia del linguaggio

Qui Giovanni, il protagonista lavora con i matti, e ne sente tutta la tragica inanità “Tutte le sue ore di studio e le idee romantiche sulla follia, che gli erano sembrate così forti da poter reggere l’urto contro ogni realtà, si erano sbriciolate nel giro di pochi minuti il giorno in cui un infermiere gli aveva chiesto se avesse per caso già fatto il vaccino contro l’epatite. In un attimo Giovanni aveva ripensato a tutti i malati che aveva toccato – altro che ospiti: quelli erano malati e contro la paura il linguaggio non aveva potuto niente – e improvvisamente aveva accusato un giramento e si era dovuto sedere perché gli tremavano le gambe e davanti agli occhi erano comparsi tutti quei puntini, proprio come quelli che erano rimasti impressi nella fotografia.” da racconto I tafani della Merse

Seguiamo il racconto in cui il protagonista va con lo zio per filmare la casa di un poeta e raccogliere testimonianza di quel che era stato. Qui nella fase finale del racconto “Quella sera cenammo nella villa di proprietà della presidentessa dell’associazione, dove era stato allestito un banchetto pieno di cose buone. C’erano professori, assistenti, studiosi, poeti: ognuno con qualcosa d’interessante da dire. Tutto quel parlare su qualcuno che non c’era più è diventato l’assordante fuori campo sonoro del finale che lascia spazio alla vera poesia. Il silenzio sopraggiunge per rendere un po’ di giustizia e ristabilire un ordine su cui quest’uomo aveva lavorato nei suoi ultimi trent’anni. È il mondano che infine non può più niente davanti a un guscio vuoto abbandonato sulla riva dell’oceano, che aspira ad essere un’increspatura sulla corrente.” Da Natura in versi dove si immagina di andare nella casa del poeta Peter Russel, alla Turbina, nell’estate del 2005 e con le sue poesie raccontare quell’abbandono, abbandono che il poeta aveva sentito anche in vita. La casa è quieta,tutto è immobile… Nel leggere rimane il desiderio di andare a leggere tutto su questo poeta nel continuo movimento, nell’andare da una lettura ad un’altra.”Il 22 gennaio del 2003 a Pian di Sciò morì il poeta inglese Peter Russell, considerato dalla critica uno dei più grandi poeti inglesi del secolo scorso. Dal 1983 viveva nel paese valdarnese, Castelfranco Pian di Sciò, al quale nel momento della sua morte donò l’intero patrimonio librario, di lettere e documenti.” da ValdarnoPost.

Dai versi a Non risponde mai nessuno, il racconto di Cesare e Luciano, figlio e padre, nel momento in cui è il figlio a dover decidere per il padre, dai versi alla realtà. Con dialoghi plausibili, dialoghi che ci appartengono, Simone riesce a portare noi lettori nelle case, nelle situazioni, come se ci fossimo anche noi seduti a quelle sedie accanto a Luciano, alle bollette che non apre, ai contratti che fa e disfà, al declino di una lucidità che lo priva dell’autonomia. Nella solitudine del vivere la figura del sociale diventa solo un modulo da riempire, una fila d’attesa da rispettare.

Tutti i racconti sono utili, utili alla lettura e al dialogo interiore, dialogo che non dovrebbe cessare mai nel continuo interrogarsi sulle azione di cui ci si vergogna o di cui si è consapevoli della cattiveria insita eppure si compiono lo stesso.

Nelle prove che ciascuno affronterà ci sarà sempre quella vergogna e cattiveria insita nella miseria delle azioni umane.

Non risponde mai nessuno nell’olimpo della Litweb

Ippolita Luzzo

San Francisco Rock: la recensione di Marco Caneschi su criticaletteraria.org

San Francisco Rock: la recensione di Marco Caneschi su criticaletteraria.org

Il romanzo d’esordio di Marcello Oliviero parte con un diario in prima persona. Jeff è un ragazzo di New York che lascia la Grande Mela per San Francisco. Insegue il sogno di fare musica. Poi, nel momento in cui la prima band prende corpo, il testimone passa a un narratore onnisciente. Jeff si moltiplica ed ecco che i ragazzi diventano quattro: Jeff, Ben, James, Phil. Dopo una recensione, non proprio in linea con le loro attese, del primo disco, i nostri annunciano di aver scoperto un inedito vinile degli anni Settanta. Autori sono, sarebbero, gli Sweet Nothing, una rock and roll band scomparsa nel nulla dopo la fine degli anni d’oro della beat generation. Aiutati da un mago del web, creano un fenomeno mediatico su cui l’industria musicale si getta a capofitto.

La storia ha dell’incredibile, con tutto quello che di positivo e di negativo questa parola può significare. Che poi, quando si scrive un romanzo il tutto si gioca attorno a un pendolo che oscilla tra verosimile e inverosimile. A un esordiente si può perdonare anche qualche ardita fluttuazione e si può giustificare un salto nel buio in nome dell’energia del rock e dei 20 anni.

Oliviero ama un certo tipo di musica, si coglie benissimo, e prende il toro per le corna: puoi costruirti una playlist leggendo il romanzo, puoi perfino ascoltarla e dopo darò la dritta in merito, puoi capire che se Springsteen è diventato The Boss un motivo ci deve essere. Che il circo mediatico è sempre in moto e che l’America è uno strano coacervo di ex: musicisti, agenti, produttori. D’altronde gli spazi sono sconfinati. Mettici dentro una casetta riadattata in riva all’oceano, un portoricano che gestisce un ostello e due ragazze brillanti e il gioco sembra riuscire. L’impalcatura c’è. E pure qualche dialogo efficace.

Ma al di là del fatto che gli Sweet Nothing non sono esistiti e invece tutti (o quasi) credono alla storia del loro passaggio sul pianeta, il romanzo ha una parte centrale, a mio modo di vedere, priva della passionalità che si riscontra altrove mentre cerca di recuperare energia nel finale grazie a nuovi personaggi. Da qualche parte era lecito attendersi un’analisi più approfondita del mondo degli anni Settanta, che è il mondo dei sogni infranti, non bastano un ex cantante ubriacone e un discografico carogna.

La cosa più interessante è l’interattività di questo libro. Su http://www.sanfranciscorock.it/ e dal diario iniziale di Jeff si scopre che parti del racconto rimangono su internet. Con, direi inevitabilmente e meritoriamente, tanta musica e la possibilità di dialogare con l’autore stesso. Peraltro compositore. Due parole su Miraggi Edizioni, casa editrice di varia che nasce a Torino nel 2010. A sfogliare il suo catalogo si nota una pregevole cura grafica e tanti autori giovani. In bocca al lupo davvero.

 

Marco Caneschi

San Francisco Rock: la recensione di Marco Caneschi su criticaletteraria.org

Vero o falso, solo “San Francisco Rock”: la recensione di Marco Mangiarotti su Il Giorno

Fake fruit. Un romanzo intorno e dentro la musica che si muove in 3D come un iper fumetto prestato al cinema e rompe le regole spazio temporali del racconto. Marcello Oliviero, torinese, musicista, batterista, operatore culturale e comunicatore, si rivela rivoluzionario scrittore con “San Francisco Rock” (Miraggi Edizioni), romanzo figlio della beat generation e della scuola minimalista newyorchese, sceneggiatura credibile di una serie tv. Jeff, Ben, James e Phil si scelgono nella band degli Sweet Nothing a San Francisco, anche se tutto è cominciato e poi ripassa per New York fino al cinematografico finale. Incidono un album che viene stroncato, allora s’inventano un vinile inedito degli anni ’70 ritrovato e una mitica band scomparsa che ritorna.

E  che tutti sono  costretti dal flipper scatenato dei media a ricordare. James è il ponte con Kerouac e il jazz di Charlie Parker, Oliviero ricostruisce al computer l’atterraggio a San Francisco e le strade di una città che non ha mai visto. Cinque anni di lavoro, come per la produzione di una serie o di un film. Parti del racconto rimangono sul web, è un romanzo interattivo, accompagnato da una stimolante playlist pop. «Un romanzo di formazione, una nuova “rock’n’roll swindle” per il fake discografico perfetto». Esordio strepitoso, riflessione intonata sulla comunicazione contemporanea, plot magistrale raccontato da un musicista vero. Ve lo consiglio.

Marco Mangiarotti

http://www.ilgiorno.it/speciali/blue-notes/san-francisco-rock-1.3586401

Amore a tiratura limitata

Amore a tiratura limitata

 

Amore a tiratura limitata è l’esordio letterario di Valerio Di Benedetto che però ha già una biografia di tutto rispetto nel mondo televisivo. Lui dice di essersi scoperto poeta ma ormai lo sappiamo che la forma poetica si addice a quei performer che vivono di palchi e di folle di spettatori. Qui dentro c’è il suo mondo di parole che lo hanno sorpreso e la sua capacità di stupire con le stesse, le stesse parole che lui usa sul palco. Nell’introduzione scrive: “… mi sono lasciato sorprendere da ogni microscopico dettaglio, senza più aver paura, sorridendo e ringraziando ogni demone che incontravo.”

Dagli schermi di web, cinema e tv, alla street-poetry (come Umanamente in Bilico) e alla poesia su carta.

«… mi sono lasciato sorprendere da ogni microscopico dettaglio, senza più aver paura, sorridendo e ringraziando ogni demone che incontravo.»

 

Per conoscere meglio Valerio Di Benedetto