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MONA – recensione di Loredana Cilento su Mille Splendidi Libri e non solo

MONA – recensione di Loredana Cilento su Mille Splendidi Libri e non solo

«Nessuno vuole morire» sussurra Mona. «Si sforzano tutti di vivere, di sopravvivere. Si aggrappano tutti alla vita, anche quelli a cui resta solo mezzo cervello e senza una gamba. Nessuno vuole morire».

L’affermata scrittrice ceca Bianca Bellovà ritorna, dopo il grande successo di critica de Il lago, con un libro davvero eccezionale, Mona edito da Miraggi e tradotto sapientemente da Laura Angeloni.

MONA
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Della trama sappiamo solo che è in corso una guerra, che spazza via interi palazzi, lasciando nuvole di polvere, i soldati feriti dal fronte vengono portati all’ospedale dove esercita Mona, sono talmente tanti che sono ammassati sui muri.

Mona la nostra protagonista ha avuto una vita difficile, da piccola è stata richiusa per mesi in una botola per nascondersi da chi aveva portato via i suoi genitori. All’ospedale viene ricoverato un giovane soldato a cui hanno amputato una gamba, Mona se ne prende cura, e le loro giornate sono scandite dai loro racconti del passato.

Mona sa quanto sia facile soccombere alle visioni, quanto impercettibile sia il passaggio tra sanità mentale e assoluta pazzia, ha comprensione per lui, gli preme una mano sulla fronte e pronuncia parole rassicuranti, non potendogli somministrare sedativi.

Mona ha superato suo malgrado le avversità della vita scrivendo poesie, non a caso conosciamo il potete salvifico della scrittura, e attraverso un linguaggio cifrato, scrive i suoi pensieri.

Mona affronta il bigottismo religioso, non ama coprirsi il capo e anzi sfida il veto imposto andando in giro senza il foulard, Mona è una donna audace che non teme i pettegolezzi.

“Esistono molti tipi di umiliazione, Mona ne conosce a migliaia, per sentito dire e per esperienza diretta. Gli uomini che incrociandola per strada fanno schioccare la lingua. L’impiegato della banca che ticchetta impaziente con la matita sullo sportello, senza prendersi la briga di aprir bocca, quando Mona si attarda troppo a cercare un documento. Gli inopportuni palpeggiamenti sull’autobus. Gli infiniti parlottii, essere chiamata puttana quando esce con la testa scoperta”

La narrazione è strutturata tra passato e presente, con gli eventi che hanno caratterizzato la vita di Mona e il soldato Adam, fino ai momenti correnti.

In un lento divenire, una Mona bambina fino a una Mona moglie e madre; per entrambi sono esplorazioni intime, pensieri ed emozioni che scorrono come un fiume in piena, entrambi hanno bisogno l’uno dell’altro.

Mona è un libro notevole dove i sentimenti sono i veri protagonisti, una storia che incolla il lettore alle sue pagine, e dove la fermezza di carattere porterà Mona a liberarsi finalmente da un passato ormai perduto come la sua infanzia, come le case e i balconi distrutti dalla guerra.

“Contro gli spessi muri della stanza i pensieri sbattono e rimbalzano rimbombano in una valle sorda e il sonno è l’unico incantesimo che la liberi dal desiderio

Bianca Bellová (1970) è una delle autrici più affermate della Repubblica Ceca.

Ha esordito nel 2009 con Sentimentální román (“ Romanzo sentimentale ”), ripubblicato in nuova edizione nel 2019, a cui ha fatto seguito nel 2011 Mrtvý muž (“ L’uomo morto ”), tradotto in tedesco, e due anni dopo Celý den se nic nestane (“ Non succede niente tutto il giorno ”).

Nel 2016 arriva il grande successo di critica e di pubblico de Il lago, tradotto in più di 20 lingue (in Italia in questa stessa collana) e vincitore nel 2017 di due importanti premi: il Premio Unione Europea per la Letteratura e il premio nazionale Magnesia Litera.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

MONA – recensione di Angelo Di Liberto su La Repubblica

MONA – recensione di Angelo Di Liberto su La Repubblica

Mona, libera e rivoluzionaria in una società degradata

Gentili lettori,

ci ritroviamo ancora una volta ai margini di una società degradata, dove l’abbrutimento e la fatiscenza sono speculari a dinamiche di possessione dei corpi, delle coscienze e del loro annientamento. Risuona Foucault di “Sorvegliare e Punire” e le relative logiche di delirio. Questo nodo tematico profondo e irresolubile è il centro del lavoro di Bianca Bellová che, con il suo “Mona”, uscito in Italia l’8 giugno, tradotto da Laura Angeloni per Miraggi Edizioni, s’inscrive tra gli autori che hanno sentito l’urgenza di reificare la questione elevandola a iperbole speculativa e declinandola in modo da accogliere e illuminare altre afferenze tematiche: la repressione del desiderio, la discriminazione dei diritti delle donne, le esecuzioni sommarie, la tortura, il linciaggio, la guerra, l’ambiente oltraggiato, la perdita dell’innocenza.
L’autrice ci ha abituati al superamento dei generi letterari, essendo le sue produzioni dotate di un dispositivo affabulatorio slegato da caratterizzazioni stereotipate, creando atmosfere ben radicate nell’attualità ma con un continuo rimando a suggestioni atemporali, che sfiorano lo straordinario.
Gran parte della storia si svolge in un ospedale che si sta sgretolando pian piano, in un paese di cui non conosciamo il nome, in mezzo a una guerra civile. 
Mona è un’infermiera che ha conservato la dignità dei principi coi quali è stata formata, nonostante subisca le molestie di un medico del suo reparto. I suoi genitori, dissidenti e spariti nel nulla, le hanno lasciato in eredità valori che non è incline a barattare. La nonna, per proteggerla dal regime, l’ha segregata in una sorta di piccolo scantinato, nella sua casa di campagna. 
«Ed eccola lì, tra quattro pareti non murate. La stanza – ma poteva chiamarsi stanza? – era completamente buia, senza finestre. Alzandosi in piedi Mona toccava con la testa la botola da cui una volta al giorno riceveva una ciotola di riso e consegnava il recipiente con gli escrementi». 
Una volta adulta sposa un uomo che la rispetta ma di cui non è innamorata e con lui ha un figlio. Nella sua città le donne vanno in giro solo col velo sul capo e accompagnate. Mona è libera, rivoluzionaria. Sarà l’incontro con Adam, un paziente arrivato in pessime condizioni e che subirà amputazioni, a rinvigorire una volontà che va ben oltre la dose di piccoli orrori quotidiani. In stanze desolate, impregnate di iodio e morte, i due iniziano a scambiarsi i ricordi, collimanti con l’identità martoriata di un intero paese.
«Perché non sei accompagnata, donna immorale?», le dice un uomo. E poi la minaccia. «Ma tu non eri quello ricoverato in ospedale l’anno scorso per un’ernia, quello che frignava come una femminuccia?», ribatte Mona.
Bianca Bellová frammenta la parola, la polverizza per ricreare atmosfere sibilline in cui il lettore ritrova fini aderenze a una letteratura esistenziale. 
«Se è possibile, voglio vivere. Ma se non lo è, vorrei solo che finisse presto». E poi la fine, degna di un Romain Gary.
L’Antiquario vi saluta.

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IL LAGO – recensione di Geraldine Meyer su l’Ottavo

IL LAGO – recensione di Geraldine Meyer su l’Ottavo

Nami vive in un piccolo paese fatto di case che si affacciano su un’unica via chiamata Via dei pescatori. Boros è il nome del paese affacciato su un lago attorno a cui gira tutta la vita, reale e leggendaria. Un allevamento di storioni e una piccola fabbrica in cui si lavora il pesce. In lontananza le ombre scure di pozzi petroliferi che sembrano fare da contrasto all’unico chioschetto del paese in cui si vendono aringhe e semi di girasole. Nella piazza la statua dello Statista.

In questo scenario defilato cresce Nami, insieme ai nonni. Del padre non si sa nulla e della madre, il ragazzino, conserva l’indelebile ricordo di un’ombra rivestita da un costume da bagno e una voce che, in riva al lago, lo consola dal suo dolore allo stomaco. È un ricordo vago ma che prende, nell’animo del ragazzo, il posto del vuoto lasciato, mentre si addormenta sul ventre della nonna che gli racconta le storie dello Spirito del Lago e dell’Orda d’Oro i cui guerrieri aspettano di essere risvegliati da un altro guerriero. E mentre il lago si prende anche i nonni Nami comprende la durezza della vita, le ferite e le cicatrici di troppi strappi. Cresce lui mentre il lago si svuota sempre più. E in questo speculare procedere, lui parte alla ricerca di sua madre, tra incontri, dolori, fatiche e la “colpa” dell’essere chiamato figlio di puttana. Fono a un epilogo tanto bello quanto doloroso.

Il lago, di Bianca Bellova, tradotto in quindici lingue e vincitore di due importanti premi come il Premio Unione Europea per la Letteratura e il Premio Magnesia Litera, nella bellissima traduzione di Laura Angeloni, ci si presenta quasi come un libro a più livelli in cui, a quello della ricerca della verità da parte di Nami, si affianca quello simbolico ma anche quello di denuncia verso un sistema che sfrutta e uccide il lago il cui spirito sembra essere ridotto a fango e inquinamento e denuncia verso un potere politico assoluto e violento.

Bianca Bellova (Foto da miraggiedizioni.it)

Ma è anche un libro in cui, alla conclusione, si inserisce l’accettazione delle vite altrui, la sospensione del giudizio, da parte di Nami, non tanto su chi fossero i suoi genitori ma sul perché abbiano fatto ciò che hanno fatto. Nami, nei momenti davvero importanti per il suo percorso, non è solo. E questo, credo, è uno dei motivi su cui mi sembra insistere la Bellova: la vecchia Dama che gli dirà che sua madre è viva e l’anziano genitore del ragazzo accusato, diciotto anni prima, di avere violentato sua madre, sono lì a dirci che un punto di domanda (da cui parte necessariamente una ricerca) può, girandosi a gambe all’aria, diventare un gancio.

Attorno a tutto questo un lago, il lago (con un articolo determinativo non casuale) che è un immaginario collettivo attorno a cui c’è la vita ma anche la morte, soprattutto quando inferta per placare uno spirito che sembra quasi una enorme nemesi, e dentro il quale ci sono fantasmi ma anche oggetti e corpi pronti ad essere restituiti. Tutto sorretto da una scrittura dentro la quale l’autrice sparisce per lasciare posto e attenzione alla storia, alle voci e ai sussurri dei protagonisti.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

IL LAGO di Bianca Bellová – recensione di Chiara Meistro su Exlibris20

IL LAGO di Bianca Bellová – recensione di Chiara Meistro su Exlibris20

NAMI E IL LAGO
Summer lovers #20

Prima di iniziare a leggere Il lago di Bianca Bellová, è utile soffermarsi sulle considerazioni della traduttrice Laura Angeloni, riportate sui risvolti di copertina. Sono parole vibranti, cariche di emozione, capaci di preannunciare gli stessi stati d’animo che vivrà il lettore non appena si addentrerà nelle vicissitudini di Nami, il protagonista del romanzo.

Se Angeloni ricorda i «giorni in cui vai avanti a tradurre fino a notte fonda, perché […] non puoi addormentarti prima di averlo portato in salvo, almeno per ora, almeno per un po’», il lettore si troverà in una situazione del tutto simile. La drammatica progressione di avversità che si abbattono su Nami crea un coinvolgimento emotivo talmente forte da rendere impossibile l’idea di allontanarsene. Non si può far altro che proseguire la lettura, nella speranza che riesca finalmente ad assaporare una felicità piena e inviolabile, o la sicurezza di un legame affettivo duraturo. «Quel bambino, poi adolescente, poi ragazzo, ti viene da prenderlo per mano e non lasciarlo più».

La prima volta che lo si incontra, Nami ha tre anni. È stato portato alla spiaggia del lago che lambisce Boros, il villaggio dove vive insieme ai nonni. Non si tratta di un giorno qualunque: è l’unica volta in cui è presente anche sua madre. Di lei conserva soltanto il nebuloso ricordo dei tre triangoli rossi del bikini, il potere calmante del suo canto e la dolcezza con cui lo ha assistito durante un attacco di vomito conseguente al bagno fatto nel lago.

La tossicità di quelle acque diventa presto evidente. La pelle degli abitanti di Boros viene marchiata con eczemi cronici e cominciano a nascere bambini deformi. I segni di un massiccio inquinamento ambientale permeano l’intera narrazione, con riferimenti puntuali e ricorrenti al disastro dell’Aral; tuttavia, a questi dati di realtà si affianca una dimensione animistica altrettanto pervasiva. Lo Spirito che dimora sul fondo del lago è arrabbiato e sta punendo il villaggio per una colpa che sembra riguardare anche Nami.

Il lago prende la vita di suo nonno durante una tempesta e, in un secondo momento, anche l’esistenza della nonna giunge a termine tra le sue acque. Da questo episodio straziante, in cui si mescolano riti sciamanici e metodi da regime totalitario – si può avvertire l’eco de La fattoria degli animali di George Orwell –, prende avvio il percorso di formazione di Nami, che passa attraverso prove sempre più terribili.

Il presidente del kolchoz si insedia in casa sua, trattandolo alla stregua di un servo. Quando le circostanze peggiorano a tal punto da privarlo di ogni dignità e affetto rimastogli, Nami decide di andarsene da Boros e raggiungere la capitale.

In città, le sue giornate sono scandite dagli insalubri lavori di fatica in cui viene impiegato, mentre nei momenti liberi gira per le strade e i locali pubblici con l’irrealistica speranza di imbattersi in sua madre. Sull’asfalto fresco che deve stendere attorno alla fabbrica di zolfo Nami «disegna di nascosto il suo dolore; le grandi mani della nonna, la curva di un corpo femminile, le galline nel pollaio puzzolente, i tre triangoli».

Non appena lo sfiora un po’ di umanità e tenerezza, arriva una nuova batosta. La Vecchia Vergine inghiotte tutto, lettore incluso. L’impatto della scena è devastante e viene ulteriormente rafforzato dallo stile letterario di Bellová. La sua scrittura scarna, cruda, priva di qualsiasi raffinatezza o eufemismo arriva diretta e lancinante come una coltellata, accordandosi alla perfezione all’andamento narrativo. A questo punto del romanzo, il timore che Nami non sia destinato a trovare pace comincia a profilarsi in modo netto, raggelante.

Quando entra a servizio del losco e facoltoso Johnny, la violenza delle vicende in cui viene coinvolto è talmente estrema da caricarsi di contorni surreali e raggiunge l’apice in quella corsa disperata, zigzagante fino al dorso della collina, dove rotola in cerca di riparo. Bellová, con una maestria letteraria indiscutibile, aveva già mostrato un episodio analogo, quando Nami era ancora a Boros, ma la sua valenza è ora del tutto diversa. Non si tratta più della fuga di un ragazzino impotente e sconfitto dagli eventi; la crescita interiore di Nami è in atto, ormai sta imparando a reagire ai soprusi e a difendersi.

La sua ribellione segna una svolta quasi fiabesca; viene infatti accolto dalla Vecchia dama che, come una fata madrina in piena regola, conosce tutto di lui e lo guida verso una nuova tappa del suo viaggio.

Nello svelamento finale, Bellová riconferma il suo talento: una prefigurazione di quanto sarebbe accaduto era già stata messa davanti agli occhi di Nami, quand’era ancora quel ragazzino di Boros che adesso non esiste più.

La sensazione è che non sia possibile conoscere quale sia davvero la verità. O, forse, una versione non esclude l’altra. Al lettore la scelta. Una cosa è certa: lo Spirito del lago è arrabbiato, e a ragione. Tuttavia, qualcosa può essere ancora recuperato e chissà se non spetterà proprio a Nami un intervento risolutivo.

Chiara Meistro

 

 

Miraggi edizioni sta portando avanti un programma editoriale di pubblicazione e ripubblicazione di autori della Repubblica Ceca, grazie all’interesse e alla cura di Alessandro De Vito.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

Nami e il lago

Piove, Vivien – Il racconto inedito di Bianca Bellová su Reportage di Riccardo De Gennaro

Piove, Vivien – Il racconto inedito di Bianca Bellová su Reportage di Riccardo De Gennaro

Qui tutto ciò che c’è da sapere sul nuovo numero di REPORTAGE > https://www.ilreportage.eu/prodotto/numero-39/

Dalla stessa autrice di IL LAGO

 

È seduto a tavola, guarda il suo piatto e tace.

“Che hai fatto oggi?”, chiedo come se non lo sapessi.

Scrolla le spalle e risponde che non ha fatto niente di speciale.

“Domani allora potremmo andare a funghi”, dico, e lui scrolla di nuovo le spalle.

“Mh”.

“Oppure a pesca?”

“Mh”.

È qui da una settimana, e aspetto ancora il suo sorriso. Ora capisco perché Adéle sia tanto preoccupata. È triste vedere questo ragazzo così privo di vita. L’estate scorsa, quando è venuto in vacanza da me per una settimana, era un ragazzo allegro, normale. Si tuffava di testa nella pozza sotto la diga, dove da bambino lanciava sassi e bastoncini. Gli stava cambiando la voce, si stava trasformando in uomo, ma era ancora il nostro Tobiáš. Adesso mi ritrovo in cucina questo musone che non smette mai di tener d’occhio il cellulare e appena finisce di mangiare torna a stendersi sul letto con le cuffiette alle orecchie, fino al pasto successivo. “È una vera e propria depressione” mi ha informato Adéle, sottolineando le parole vera e propria, come a voler allontanare ogni mio eventuale dubbio. “Nessuna angoscia o malumore. Ha una diagnosi di depressione e prende un leggero antidepressivo”.

Ha fatto una pausa di silenzio, voleva capire se le sue parole avevano colpito nel segno. Sono rimasto zitto anch’io. Ovviamente sapevo della diagnosi, ma da sempre sono convinto che per questo genere di cose non ci sia niente di meglio che passare un po’ di tempo a ripulire il cortile dal letame, o farsi una corsetta di qualche chilometro.

“Va anche da una psicologa. Ma d’estate è in ferie, allora deve farcela anche senza. Dovresti cercare di parlargli molto”.

Annuisco.

“Non sono così sicura di potertelo lasciare”, sospira Adéle. “Mi fa così paura vederlo così”.

Annuisco.

“Devi fare molta attenzione, papà. Ogni tanto gli vengono pensieri suicidi”.

Questa cosa mi spaventa un po’, ovviamente.

“È così fragile!”. Adéle scuote la testa, con le lacrime agli occhi. “A volte mi sembra quasi che stia bene, allora il cuore si alleggerisce di un peso enorme. Poi però riprecipita nel buco nero ed è come se mi trascinasse con sé. Mi sembra di dover svuotare una barca che affonda”. “Ma non sarà solo innamorato?”, domando.

Adéle mi guarda incredula attraverso le lacrime, io dico solo “scusa”.

“Non la prendere alla leggera, per piacere. Ho bisogno di sapere che non sottovaluti la cosa, papà. Se pensi di non potertene occupare a tempo pieno me lo riporto a casa”.

“No, stai tranquilla, Adéle, ci starò attento. Non lo perderò mai di vista, non preoccuparti”.

La abbraccio. Piange.

“Ho paura per lui”, singhiozza sulla mia camicia. Le accarezzo i capelli.

“Vai tranquilla. Ora mi preoccuperò io al posto tuo”.

Mia figlia. Non è facile diventare intimi con una figlia. È di fatto una battaglia che dura tutta la vita, un rapporto fragile come un guscio d’uovo. La prima volta che l’ho vista sono scoppiato in una risata isterica. Mia moglie me l’ha mostrata attraverso il vetro del reparto maternità e Adéle era pelosa come un orangotango, brutta. Ma man mano che gli anni passano cominci ad abituarti a quell’esserino. E quando poi cominci a renderti conto che è la cosa più preziosa che hai, arriva un ragazzo e te la porta via, e ti rimangono solo le foto sotto l’albero di Natale, di lei che abbraccia il suo orso di peluche. Per un paio di anni il ragazzo se la tiene tutta per sé, poi le spezza il cuore e lei ritorna tra le tue braccia, anche se solo metaforicamente, ovvio.

E comunque le cose continuano a non andare come dovrebbero, ci rendiamo conto di quanto siamo lontani, a volte passiamo intere ore in silenzio perché non riusciamo a trovare un punto di interesse comune, oppure farfugliamo una banalità dietro l’altra. Sul tempo per esempio, che nessuno dei due sopporta. Oppure ascoltiamo al notiziario che nel carcere di Guantanamo usano la musica dei Bee Gees o di Eminem come strumento di tortura e lei ti sgrana gli occhi addosso, come può essere la musica una tortura? Che tortura è? La musica è una cosa bella, anche se non ti piace ti ci abitui, no? Me la chiami tortura? Le dico che sì, può essere una tortura anche se ti mettono alle orecchie delle cuffie che non puoi toglierti e per trenta ore di seguito continuano a mandarti a tutto volume sempre la stessa canzone, che magari ti fa schifo. Scuote la testa e dice che lei non avrebbe problemi ad abituarsi. O al limite quelle dannate cuffie se le toglierebbe e basta. Se le togliessero no, non può essere così impossibile. Tobiáš si intromette nel discorso e dice: “Mamma, stiamo parlando della Cia, lo capisci?”. E intanto mi guarda con un’espressione rassegnata. Ci scambiamo uno sguardo come a dire che è incorreggibile, e per un attimo ci sentiamo due cospiratori.

Quando Adéle e Tobiáš si salutano lei lo abbraccia forte, e lui le sta appiccicato come se da quella stretta dipendesse il destino del mondo. Sembra un po’ ritardato. Ma appena Adéle si siede in macchina e accende il motore, Tobiáš è già di nuovo incollato al telefono.

Non saprei dire se sono contento o meno di averlo qui. Sono abituato a vivere da solo e i calzini di un altro uomo sparsi per casa mi danno un po’ fastidio. Anche dover sempre cucinare. Adéle si è raccomandata di preparare pasti nutrizionalmente validi (ha detto proprio così!), soprattutto niente salumi, escludendo in tal modo più o meno la metà dei cibi che normalmente consumo… e oltretutto sono sempre lì a preoccuparmi se mangerà o non mangerà una determinata cosa, che di solito in effetti non mangia mai. Ma per il resto è bello avere qualcuno a cui augurare il buongiorno e la buonanotte, Tobiáš non parla molto, ma l’educazione non gli manca.

“Quegli stupidi rospi fanno un tale casino di notte che non riesco a dormire. Non ti dà fastidio?”

È uno dei miei tentativi di chiacchierare con lui.

“Che rospi?”, chiede, attraversandomi con lo sguardo.

Un giorno si distrae e lascia il telefono sul lavandino del bagno. Sul display vedo la foto di una ragazza. Lunghi capelli biondi e un aspetto ordinario. Un bel sorriso, anche se un po’ forzato. Di certo non una femme fatale, per i miei gusti, ma non ho alcuna intenzione di dirglielo. Faccio appena in tempo a riappoggiare il telefono dov’era.

“Quanti giorni sono che ti metti quella maglietta?”, mi affretto a chiedere.

Tobiáš mi guarda come se parlassi una lingua straniera, poi scrolla le spalle.

Il pomeriggio andiamo a guardare una gara di macchine, appena fuori città. Tobiáš indossa una maglietta pulita e si è persino pettinato. Il ciuffo è sistemato sulla fronte, a coprire i brufoli. Per un attimo il suo interesse è catturato da qualcosa che vada oltre il suo campo visivo. Continua a ripetere che è uno sport da dementi, ma intanto segue con attenzione le auto che sfrecciano sulle curve. Gioca con una moneta, gli riesce davvero bene, la moneta scivola su e giù tra le dita, non si ferma nemmeno un attimo, gli gira e rigira all’infinito per il palmo della mano.

“Mi stai facendo diventare nervoso. Non potresti smettere almeno per un secondo?”, protesto.

Scrolla le spalle e si interrompe diligentemente per qualche istante, poi però ricomincia.

“Sai quante possibilità ci sono che l’auto esca di pista e investa uno spettatore?”, mi chiede.

“Non lo so”.

“Una su mille e seicento”.

Mi sembra una stupidaggine, ma fischio sorpreso. “Non sono mica così poche, eh?”

“Mh” annuisce orgoglioso, facendo sparire la moneta. Bisogna riconoscere che con le mani

è un vero mago.

Di ritorno a casa mangia due porzioni di polpettone. Sono soddisfatto, mi pare un buon segno. Gli verso mezza bottiglia di birra in un bicchiere e beve senza commentare. Telefono ad Adéle e le dico che oggi con Tobiáš è andata molto bene. È felice.

Gli chiedo se abbia voglia di guardare un film. Lui scrolla le spalle. Allora metto The Doors, del ’91. È in lingua originale, quindi ogni tanto, quando non capisco qualcosa, chiedo a Tobiáš. Tobiáš non si mostra di certo entusiasta nei confronti del film, però lo guarda fino alla fine, non si alza nemmeno per andare al bagno. Finito il film prendo la biografia di Jim Morrison Nessuno uscirà vivo di qui e la sfoglio un po’. Poi faccio finta di dimenticarlo sul tavolo.

Al mattino vedo che il libro è un po’ spostato.

È presto, ma fa già caldo. Gli propongo di andare a fare il bagno nella Nežárka. Scrolla le spalle, dice che è troppo afoso. Che posso fare? Sforzandomi di pronunciare la frase con una certa perentorietà gli dico di andare a prendere il costume, che io lo aspetto in macchina. Lui non protesta. Quando esce dalla porta il motore è già acceso. Alla radio c’è una vecchietta che sta raccontando della sua infanzia. Mi aspetto che Tobiáš cambi stazione, invece la lascia lì, anche se finge di non ascoltare. La signora racconta che da piccola si è seduta su un ago e hanno dovuto operarla per estrarre l’ago dal suo corpo prima che raggiungesse il cuore, e poi che a cavallo tra i due secoli suo nonno commerciava lana e formaggio di pecora nei Balcani. Mi fermo in un luogo poco frequentato, così non dovrò preoccuparmi che qualcuno mi guardi la pancia o la pelle, ormai assai poco sexy. Tobiáš vola in acqua direttamente dalla macchina, lasciando cadere in corsa i vestiti sull’erba, quando si tuffa è nudo (e uscendo si ricorda all’improvviso del senso di pudore e cerca di coprirsi con gesti quasi commoventi). L’acqua è ghiacciata e urla come se lo stessero squartando. Io tasto cautamente le pietre coi piedi. Non percepisco il freddo dell’acqua. Quando esco mi sdraio contento sulla vecchia coperta che porto sempre con me nel portabagagli. Tobiáš osserva che era la coperta di Fred. Sono sorpreso che se ne ricordi e glielo dico. Non è affatto strano, risponde Tobiáš, visto che la coperta puzza ancora di cane e ci sono ancora attaccati i suoi peli. Sulla strada di ritorno compriamo un cocomero e lo mangiamo tutto. Fino a sentirci male.

A casa Tobiáš mi insegna a usare i tasti di scelta rapida. Poi mi chiede di mettere un programma di cucina che guarda ogni tanto sua madre. Lo guardiamo anche noi, scrollando la testa. Due disperati senza il minimo di inventiva si stanno cimentando in una crema sfaldabile di cavolo e crescione. “Sai che goduria!”. Tobiáš ride per la prima volta. Gli propongo di fare un nostro programma culinario, io e lui.

Preparo gli ingredienti e intanto Tobiáš filma col cellulare. Tra il giornale e un barattolo di senape poggio sul tavolo sei uova esattamente nello stato in cui mi sono state consegnate dalla vicina, con lo sterco di gallina e le piume attaccate al guscio. Poi un sacchetto strappato di farina e un bicchiere sudicio pieno di latte. Tobiáš continua a filmare e ridacchia. Apro le uova nella ciotola come lo scimpanzé ammaestrato di Sei orsi e il clown Cipollina. Poi mescolo l’impasto e comincio a friggere le crêpes. Mentre ne lancio una nel tentativo di girarlo mi cimento in una piroetta. Ma perdo l’equilibrio, devo aggrapparmi al tavolo. Fortunatamente Tobiáš si sta dando da fare per il recupero della crêpe caduta e non se ne accorge. Poi gli trilla il cellulare. Lo guarda per un attimo e per il resto del tempo è come se non ci fosse. Si limita a sbocconcellare la crêpe senza entusiasmo. “Grazie, ma non mi va più”, dice. Si alza da tavola e si allontana come se andasse alla ghigliottina.

“Che è successo, ragazzo?”, grido, pur sapendo che è inutile.

“Niente”, risponde senza nemmeno girarsi. Mi massaggio le cosce. Arriva una telefonata di Adéle e lascio squillare il telefono. Sento ancora quel maledetto cocomero sullo stomaco. Guardo nel vuoto, continuo a massaggiarmi le gambe. Mi formicolano come se avessi preso una scossa.

Lascio passare un’ora, poi mi alzo e mi dirigo verso la camera del ragazzo. Busso, ma non risponde. Allora apro la porta. È steso sul letto, girato verso il muro, e non si muove.

“Toby”.

Trattengo il respiro. Mi avvicino e lo giro verso di me. Ha il viso pieno di sangue.

“Oddio!”

Mi guarda attraverso le fessure degli occhi.

“Che ti è successo, ragazzo?”

Scuote la testa.

“Tirati su”.

Di malavoglia si siede. Ha il sangue sparso ovunque, sul naso, sotto il naso, sulle guance,

intorno agli occhi. Lo tocco, è quasi secco. Immagino che Adéle ci trovi così e mi assale un’ondata di calore.

“Toby, perché sei tutto insanguinato?”

“Che?”, mi guarda confuso.

Gli mostro le mie dita sporche di sangue. Lui si imbroncia e scrolla le spalle.

“Non lo so”, scrolla ancora le spalle. “Mi sarà uscito dal naso. Pensavo che fossero lacrime”.

“Hai pianto?”

Scrolla di nuovo le spalle. È seduto sul letto, guarda il pavimento.

“Ehi, non voglio forzarti, ma non ti andrebbe di parlare un po’?”

Scuote la testa. Mi torna in mente Adéle, quando mi ha detto che le sembrava di dover svuotare una barca che affonda.

“Si tratta di una ragazza, vero?”

Ricomincia a piangere. Singhiozza senza far rumore, le spalle che tremano. Pian piano si appoggia a me, e lo abbraccio.

Piove, Vivien, piove tutto il giorno. Cominciava così una poesia che ho scritto a diciassette anni.

Era una pioggia diversa, metaforica, malinconica. Mi ero innamorato per la prima volta ed ero in una tempesta di pioggia e nebbia, sognavo l’amore, una ragazza sfuggente. Era un sentimento ingenuo e romantico e in quel momento non mi accorgevo di essere felice. Io ormai non posso più sperare di spiccare il volo, è questa la cosa che invidio di più a Tobiáš. E non posso nemmeno dirglielo. Non mi crederebbe.

“Come si chiama?”

“Karolína”, risponde con la voce che cede, perché la sua muta vocale non si è ancora conclusa del tutto.

“Mh”, dico. Poi non so come andare avanti.

Lo abbraccio intorno alle spalle, dispiaciuto di non saperlo proteggere.

“Lo so che sono uno scemo”, sospira Tobiáš. Il suo cellulare trilla di nuovo.

“Non lo leggi?”, chiedo. Scuote la testa, prende il cellulare e lo getta in un angolo.

“Lo so che i miei problemi sono stupidissimi. Confronto ai tuoi, per esempio”.

Ora sono io a restare ammutolito. “Che intendi?”, chiedo poi.

“Ma dai”, sventola la mano. “Pensi che non lo sappia? Della neuropatia?”

“Come l’hai…”

“Lo vedo no? Prendi B-komplex e Lyrica, inciampi di continuo e non fai che massaggiarti le gambe. Cos’altro potrebbe essere?”

“Hai guardato su internet?”

Annuisce. Si accosta un po’ a me. Poi mi stringe la mano.

“Qual è la prognosi?” chiede.

“Indefinita”, scrollo le spalle.

“Mh”, risponde Tobiáš. “E che significa?”, chiede poi con tono di scusa.

“Che non si sa. Potrei andare avanti così per vent’anni oppure ritrovarmi fra un anno a camminare con le stampelle o addirittura in carrozzina”.

Tobiáš annuisce serioso. Restiamo in silenzio, ci abbracciamo, guardiamo il pavimento.

“L’hai preso oggi lo Zoloft?”, chiedo poi, per non interrompere il discorso.

“Fanculo le medicine”, dice Tobiáš un po’ incerto. Gli stringo la spalla, come per dire che ha preso la decisione giusta, e lui si raddrizza.

“Bene allora”, dico.

“Tanto non servivano a niente”.

“Già”, dico io.

“La mamma andrà fuori di testa”.

“Sicuro”.

Traduzione di Laura Angeloni.

Foto di Marta Režová

IL LAGO nella recensione-musicale (playlist) di Lorenzo Lampis

IL LAGO nella recensione-musicale (playlist) di Lorenzo Lampis

IL LAGO – Bianca Bellová, edito da Miraggi Edizioni.
Tutti serbiamo dei ricordi della nostra infanzia che custodiamo gelosi nello scrigno della nostra memoria. Ricordi che divengono veri e propri luoghi dell’anima, e in cui ci rifugiamo nei momenti in cui la vita ci sembra insopportabile.
Ricordi che possono essere una stanza, una canzone, uno sguardo, o semplicemente un profumo.
Nel caso di Nami son tre macchie rosse di un costume, e quella voce muliebre che lo placa, lo rasserena.
Nami vive in una piccola e sconquassata casetta di Boros, piccolo villaggio affacciato su un lago ove si vive principalmente di pesca. Vive insieme ai nonni materni. Dei suoi genitori non sa quasi nulla, e quando chiede qualcosa tutti cambiano discorso.
Ma lui ricorda, ricorda sempre quelle tre macchie rosse, e quella voce.
Nel frattempo il lago, mese dopo mese, si ritira, in una sorta di bassa marea senza fine; lago che provoca rush cutanei con talvolta conati di vomito a chi ci si immerge per un bagno. Anche i pesci cominciano a scarseggiare.
Lo Spirito del Lago è infuriato, si dice.
Boros lentamente cade nella miseria.
(Il lago, seppur nel romanzo non venga mai citato, è il Lago Aral, che infatti sotto l’occupazione russa si prosciugò quasi totalmente in quanto i russi deviarono i corsi di alcuni fiumi immissari per irrigare immense piantagioni di cotone, provocando così un’immensa catastrofe ecologica, forse una delle peggiori del novecento)
Dopo la morte dei nonni, mentre il Lago prosegue nella sua disastrosa ritirata, deglutendo e trascinando via vite, sogni, oggetti e segreti, Nami, malgrado non abbia indizi, decide di partire per andare alla ricerca di quelle tre macchie rosse e di quella voce che da piccolo lo coccolava.
Nel suo rocambolesco viaggio vedremo Nami farsi uomo (da Larva a Imago) e di peripezia in peripezia, infine, sanguinante, scalfito, levigato, lo vedremo tornare a Boros, per poter chiudere così il cerchio della sua affannata ricerca.
Lo stile è accuratamente asciutto, rugoso, frutto di un raffinato lavoro di erosione e affilamento, che accresce la forza narrativa del testo; il tutto accompagnato da una dose, mai eccedente, di lirismo.
Insomma: solo come i grandi autori sanno fare, Bianca Bellovà, resta in ombra facendosi serva della storia, in un libro che ha la potenza del romanzo storico, seppur non essendolo affatto, e l’affilatezza del romanzo di denuncia, senza mai essere pedante.
Insomma. Un romanzo che è un piccolo capolavoro. Che farei leggere in tutte le scuole e che consiglierei a chiunque, a prescindere dai gusti e dall’età.
(I complimenti alla traduttrice Laura Angeloni, immensa; e grazie a chi questo libro lo ha portato in Italia, Alessandro De Vito e Mendo Fabio Mendolicchio; e infine grazie ad Angelo Di Liberto, che come al solito consiglia e spaccia libri pazzeschi).

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La playlist che ho associato a questo romanzo, come sempre spazia diversi generi. Ci tengo a precisare che non ho preso in analisi il significato dei testi delle canzoni, ma mi sono lasciato ispirare solo dalla musicalità, considerando la voce come uno strumento.
Inoltre vi avviso che nella didascalia canzone per canzone vi sono numerose anticipazioni.

Ecco dove ascoltare la playlist: https://open.spotify.com/user/11138896871/playlist/2SMZcXurr11uZo3kdALKgO

1) Outro (Preludio al ritorno) – Nefesh: Questo brano a mio avviso s’intona bene al romanzo. E’ un preludio. Tutto deve ancora accadere. Cinematograficamente è come se stessimo vedendo il Lago dall’alto, ancora immenso, prosperoso, che bagna la Capitale brulicante di vita e tutti gli altri villaggi sparsi sulla riva. Le case, viste da quassù, son puntini. Poi lentamente la cinepresa scende, sino a lambire la superficie increspata del Lago, e comincia a muoversi a fior d’acqua alla volta di Boros. Raggiungiamo così le barche attraccate nel porto, troneggia la rupe di Kolos, e cominciamo a risalire la via centrale, polverosa, che risale la collina dove sorgono le casupole dei pescatori, case in muratura, solide, di solito a un piano solo, tranne un paio che ne hanno due. Ed è proprio su una di queste che la ripresa tergiversa, sino a fermarsi sull’uscio. E’ la casa ove Nami vive insieme ai nonni. E con la fine della traccia, il video sfuma.
2) Gobi road (acoustic) – Tengger Cavalry: Minuscola cavalcata sonora vagamente nostalgica e vagamente noiosa (come possono essere noiosi certi pomeriggi d’estate in un minuscolo villaggio di pescatori) con la quale si entra nel vivo della narrazione. Con questa traccia in sottofondo Nami lentamente da Uovo si fa Larva, e flash veloci si rincorrono. Le prime immagini sono di un Nami fanciullo, è tra le braccia del nonno che immergendolo nel Lago quasi lo affoga, poi le favole che gli narra la nonna sullo Spirito del Lago, il Giorno della Pesca interrotto da un nubifragio, il nonno disperso insieme ad altri pescatori, la scuola, le prime scaramucce fra compagni, Zaza, il primo invaghimento, e la nonna issata su una zattera data in pasto al Lago, il presidente del kolchoz che s’impossessa della casa ove vive Nami, i colpi a sangue, le notti nel pollaio, i russi che violentano Zaza sotto gli occhi impotenti di un Nami adolescente, e infine la decisione di quest’ultimo di partire per la Capitale, alla ricerca, senza un indizio che sia uno, di quelle tre macchie rosse di un costume.
3) Aerials – System of a down: Nami, dopo un viaggio di nausea e febbre a bordo di un battello, giunge nella Capitale. E’ lì, in piedi, Larva, appena sbarcato. Davanti a sé un mondo nuovo. Sbalordito spaurito spaesato speranzoso, comincia a muovere i primi passi. Ma presto la Capitale lo inghiotte, e di nuovo flash rapidi che si rincorrono. La fila alla Borsa del lavoro, notti trascorse all’addiaccio, l’attesa, poi lavori estenuanti che lo riconsegnano alla vita sfinito, senza più forze, il Bordello Sinfonia, le lunghe passeggiate senza meta alla vana ricerca di quelle tre macchie rosse di un costume, un collega che diventa quasi un amico, ma che presto perde, come perde diversi lavori tra cui quello di tuttofare di Johnny, esperienza lavorativa che si conclude quasi tragicamente e da cui viene salvato da Vaska che lo consegna, infine, alla Vecchia dama che, commossa dalle sue gesta, raccoglierà informazioni intorno a sua madre e gli indicherà la via per ritrovarla.
4) Arto – System of a down: Kuce, con questa traccia siamo improvvisamente in mezzo al deserto, in un minuscolo villaggio dedito alla raccolta del cotone. E Nami, Crisalide, qui la ritrova, riabbraccia lo sguardo di sua madre, un madre che stenta a riconoscere, e si abbandona febbricitante alle sue cure. Ma presto la pace raggiunta e quel barlume di felicità si disperdono al vento, come polline. Nami sente che deve tornare a Boros, vorrebbe tornarci con sua madre, ma lei no, al Lago non vuole e non può tornarci, e così, da solo, intraprende il viaggio a ritroso.
5) Summon the warrior – Tengger Cavalry: Un Nami Imago dunque fa rientro nella Capitale, che nel frattempo è sfigurata, ammutolita, con carcasse di automobili bruciate al bordo delle strade e pattuglie russe che han dovuto sedare rivolte autoctone. Il Lago continua la sua inesorabile ritirata, mentre tutto si fa decadente, compresa la villa della Vecchia dama, dove Nami alloggia per un po’, il tempo di farle fiorire una rosa bianca per poi ripartire alla volta di Boros. Questa volta a piedi, masticando forse rabbia, pensieri, e poco cibo; Quando giunge però (ri)trova una Boros che sotto le sferzate inesorabili del tempo quasi non riconosce. Sconforto, rabbia, impotenza, stanchezza. Rivede anche Zaza, incinta, che nel frattempo s’è fidanzata con Alex, suo ex-compagno di scuola, e infine, tornando nella sua vecchia casa vi trova ancora il presidente del kolchoz. Sta poco, giusto il tempo di raccogliere informazioni sul suo presunto nonno paterno, e riparte.
6) Ceasuri Rele – Negura Bunget: Con questa traccia m’immagino Nami, di notte, davanti al Lago. Non vi è alcuna descrizione di questa scena nel libro, è mia immaginazione. Ma mi sembra di vederlo, Nami, innanzi a questa entità sempre presente nella sua vita, il Lago, un protagonista a tutti gli effetti (che a tratti sembra quasi il suo antagonista), che respira davanti a lui, tenebroso, emaciato. E Nami piange, singhiozza, si lamenta, gli parla, e urla, liberatorio, disperato, rabbioso, rivolgendosi allo Spirito del Lago, o forse a sé stesso. O forse a nessuno.
7) Against the nature – Gogol Bordello: Infine, il finale. Anche questo di mia immaginazione. Capita infatti che finito di leggere un libro, di quelli che restano e sedimentano, si continui a fantasticare intorno a questo, abbozzando finali quando questi son aperti, o semplicemente fantasticando sul futuro dei personaggi. Io, finito di leggere questo libro, mi sono immaginato questa scena. Mi sono immaginato che Nami, dopo averlo conosciuto, resta a vivere col presunto (anche se poi non sembra esserlo) nonno paterno. E mi sono immaginato che quasi tutti i giorni, dopo essersi immersi insieme nel Lago alla ricerca di oggetti, corpi, ricordi, frammenti di vite, e dopo aver mangiato insieme pane fritto e uova strapazzate, si siedono in riva al Lago, al tramonto, suonando e canticchiando insieme questa canzone: Against the nature.

Tutte le vite sul fondo di un lago – Il Lago: Recensione di Angelo Di Liberto su La Repubblica

Tutte le vite sul fondo di un lago – Il Lago: Recensione di Angelo Di Liberto su La Repubblica

Gentili lettori,

Se scrivere significa spezzare il legame tra la parola e chi la imprime su carta, il libro di cui vi parlerò quest’oggi rappresenta un ottimo esempio di sacrificio, di sparizione, di solitudine, di messa al bando dell’autore. Una forma di liberazione che implica il passaggio dal soggetto alla moltitudine. Per l’autrice de “Il Lago”, Bianca Bellová, deve valere quell’assunto per il quale lo scrittore appartiene a un linguaggio che nessuno parla, incomunicabile, indicibile, che non rivela nulla se non l’interminabile cammino degli uomini, del mondo e la sua impossibilità a conoscersi del tutto.
Se la storia della letteratura è un racconto di anime, ve ne sono di stropicciate, sbrindellate, traviate, corrotte e miserabili nelle vicende delineate dalla scrittrice.
La voce italiana di Bianca Bellová è di Laura Angeloni, traduttrice di fiuto alchemico e di raffinata maestria interpretativa. Non stento a credere che il libro conti traduzioni in quindici lingue e che sia stato premiato nel 2017 con il “Premio Unione Europea per la Letteratura” e col “Magnesia Litera”.
L’editore, che per l’occasione inanella il secondo successo dopo “Volevo uccidere J.-L. Godard”, inserisce “Il lago” nella collana “NováVlna”, letteralmente “Nouvelle Vague”, che racchiude e solidifica quel rapporto costante tra innovazione e esistenzialismo degli anni della Primavera di Praga.
Protagonista della storia è la ricerca delle origini come punto di partenza del passaggio sulla Terra di Nami, un bambino senza genitori, che vive coi nonni, che ha un passato oscuro, inviso alla popolazione di Boros, un paese che confina con un lago, principio cardine della vita della comunità, presenza inquietante e sfigurata.
Il lago alberga nell’immaginario della collettività come origine della vita e caduta nella morte. Ma è anche luogo di perdizione ed emblema dello sfregio della natura. Ogni anno le sue acque si assottigliano sino a restituire corpi, oggetti, forme, fantasmi.
La nonna di Nami accarezza i capelli del nipote, dopo averlo fatto adagiare sulla sua pancia morbida, e gli racconta dello Spirito del lago e dei guerrieri dell’Orda d’Oro, di quanto dormano da secoli sulla rupe di Kolos, aspettando un potente guerriero che li svegli.
Nami non ha nessun ricordo del padre, e della madre rammenta tre macchie rosse, il suo bikini di quando andavano insieme in riva al lago. Perché Nami ha dimenticato il volto di sua madre?
Se apparentemente penserete di avere già sentito storie del genere, resterete di stucco per la lingua usata dalla scrittrice, perché è essa stessa strumento conoscitivo e intuitivo della storia, coi suoi furori sintattici e le sue staffette strutturali, scarni crudeli, rarefatti, necessari.
Si parte dal primo capitolo dal titolo “Uovo” e si procede con “Larva”, “Crisalide” e in ultimo, “Imago”.
E non sarà un caso se l’imago per Jung era un’immagine ancestrale, amata nell’infanzia, che corrispondeva di solito a un genitore, e che rimane, esercitando un’influenza nella psiche dell’adulto.
Nami cerca sua madre, la cercherà sino a quando non lo lasceremo, all’età di diciotto anni, e saremo passati insieme a lui attraverso la fame, la persecuzione, l’amore, la violenza, l’amicizia, la dittatura e il tradimento.
Nonostante non si faccia mai riferimento a un lago che abbia un suo corrispettivo nella vita reale, è indubbia l’affinità con l’Aral, il cui prosciugamento è uno dei più biechi disastri ambientali del novecento.
Il suo destino procede parallelo a quello del nostro protagonista. Nami custodisce memorie e lutti, ingloba l’amore sino a rappresentarlo come perdizione, allarga i suoi confini ma viene depredato di ogni sicurezza, così come succede al lago della storia e a quello della vita reale, a causa delle piantagioni di cotone. Non ultimo, nel libro compare il fantasma della dittatura russa, con le sue violenze, come quella compiuta da due soldati ai danni della fidanzata di Nami, Zaza, sotto i suoi occhi impotenti e pietrificati.
Bianca Bellová raschia via tutte le nostre convinzioni crivellando di colpi la scrittura, rivoltando il paradosso della perdita in una ritrovata comunione con l’elemento primordiale: quell’acqua di cui si avverte “il puzzo del fango fradicio” ma che è ricongiungimento nell’abbraccio finale.
L’Antiquario vi saluta.

Angelo Di Liberto

“Il lago”: la recensione su La Nuova Sardegna

“Il lago”: la recensione su La Nuova Sardegna

La storia narrata dalla scrittrice ceca Bianca Bellovà è quella di un ragazzino, orfano, allevato dai nonni in un piccolo villaggio sulle rive di un grande lago nel cui si specchio si riconosce la vicenda del lago Aral, una delle più grandi catastrofi ambientali del pianeta. La morte improvvisa dei nonni spinge il piccolo protagonista, Nami, a partire dalla ricerca della mamma che è convinto sia ancora viva. Un viaggio epico in un mondo duro e surreale che forgerà il carattere del giovane. Un romanzo ricchissimo a metà tra il racconto di formazione e la fiaba gotica.

“Il lago”: l’autrice Bianca Bellová intervistata da iliteratura.cz

“Il lago”: l’autrice Bianca Bellová intervistata da iliteratura.cz

“…In Italia il libro funziona molto grazie ai consigli degli stessi lettori. Il Lago è stato pubblicato da una piccola casa editrice di Torino, Miraggi Edizioni, che non ha di certo le possibilità delle grandi corporazioni editoriali, ma cura i suoi libri con un amore che non mi è mai capitato di incontrare altrove. Per esempio dopo una presentazione in collaborazione con una libreria, nella cittadina di Alba, hanno organizzato in una cantina locale una cena di varie portate, e il meraviglioso vino che la accompagnava aveva le etichette che riproducevano la copertina del libro. Qualcuno si è davvero preso la briga di organizzare una cena grandiosa per trenta lettori. È una casa editrice che vive grazie a dei lettori fedeli. E ne viene ripagata. Su Facebook è in corso un appassionato passaparola tra blogger, librerie, biblioteche. Probabilmente Il Lago non diventerà un best seller in Italia, ma di sicuro ha colpito profondamente molti lettori. È successa anche una cosa molto interessante: mentre insieme alla traduttrice Laura Angeloni sceglievamo i brani da leggere, Laura mi ha chiesto di includere il pezzo in cui il protagonista incontra per la prima volta sua madre, perché lo trovava così commovente che ogni volta le veniva da piangere. A me non era mai venuto in mente di leggerlo, non era tra quelli che preferivo e non avevo mai pensato che fosse così commovente. Beh, mentre l’attrice Elisa Galvagno lo leggeva erano tutti con le lacrime agli occhi, compresa me…”

Bianca Bellová, Intervista su Iliteratura.cz

traduzione di Laura Angeloni

“Il lago”: l’autrice Bianca Bellová intervistata da iliteratura.cz

“Il lago”: la recensione di Andrea Cabassi su giudittalegge.it

Nell’agosto del 1986 andai con alcuni amici in vacanza a Praga. C’era ancora il regime e fioco era il soffio della Primavera.

Poco tempo prima di partire ero entrato in contatto con uno studioso e traduttore di letteratura ceca che era un amico di amici. Ci eravamo scritti qualche volta e alla vigilia della partenza mi telefonò e mi suggerì itinerari alternativi a quelli turistici consueti. Poi mi chiese un favore. Mi chiese se, durante la mia permanenza, sarei potuto andare in uno dei musei della città. Vi lavorava come impiegato un suo amico. Aveva dei manoscritti che avrebbe voluto e dovuto far arrivare in Italia. Me li avrebbe consegnati in occasione di una mia visita al museo. Quell’impiegato era stato, ai tempi della Primavera di Praga, docente all’Università. Dopo la normalizzazione non lo avevano più assunto e lo avevano collocato in una posizione lavorativa che, certo, non gli competeva. Questo era il prezzo che aveva pagato per il suo impegno.

Senza riflettere molto dissi di sì, che ero disponibile. Le preoccupazioni vennero dopo.

Immaginai che quello scritto fosse un samizdat.

Quando fummo a Praga, proprio il giorno dopo il 21 agosto, quando la polizia e l’esercito presidiavano Piazza S. Venceslao per timore di proteste in occasione dell’anniversario dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia, andammo al museo. Cercai l’impiegato, ma mi dissero che era in ferie. Non ho mai capito se quella fosse la verità. Nei giorni seguenti, però, sia io, sia gli amici con cui ero, avemmo la strana sensazione di essere controllati. Poteva essere una nostra paranoia, però quella sensazione rimase sino all’ultimo giorno della nostra permanenza là. Pensai anche che molti praghesi dovevano vivere quotidianamente quello stato d’animo che noi stavamo vivendo eccezionalmente.

Continuammo la nostra vacanza senza scrollarci di dosso la pesante percezione di essere seguiti e controllati.

L’ultimo giorno del nostro soggiorno partimmo da Praga, destinazione Brno dove andammo a visitare lo Spielberg. Poi proseguimmo fino alla frontiera con l’Austria. Al confine ci smontarono letteralmente l’auto alla ricerca di non so cosa, forse di un samizdat. E’ vero che, a quei tempi, era prassi consolidata fermare per lunghe ore le auto e ispezionarle in modo ossessivo. Ma noi ci insospettimmo ulteriormente e ci preoccupammo molto. Passarono delle ore poi ci lasciarono andare. Quando arrivammo dall’altra parte tirammo un sospiro di sollievo. Eppure né io, né gli amici che mi avevano accompagnato ci pentimmo di essere andati a cercare quell’impiegato che doveva consegnarci i dattiloscritti anche se la missione era fallita, ma non per colpa nostra. Nessuno di noi voleva fare l’eroe -ci mancherebbe altro! Gli eroi compiono ben altre azioni!- però ci dicevamo che sì… per i libri… per la letteratura… per la letteratura si può e si deve rischiare…

Faccio un passo indietro. Per paradosso, mentre stavo facendo la valigia, dopo aver accettato di far visita all’impiegato del museo, non vi misi “Praga magica”, lo splendido libro di Angelo Maria Ripellino.

 

Angelo Maria Ripellino è stato uno straordinario intellettuale e un grandissimo studioso della letteratura ceca. Quello che abbiamo conosciuto di essa, soprattutto in quegli anni, è stato grazie a lui. “Praga magica” (Einaudi. 1973), proibito in Cecoslovacchia, era un libro che avevo letto, riletto, annotato e pieno di post-it. Lo avrei voluto portare con me e usarlo come guida. Dovetti rinunciare.

Angelo Maria Ripellino non è famoso solo per “Praga Magica”, ma anche per a aver scritto una bellissima “Storia della poesia ceca contemporanea” (E/O. 1981), per averci fatto conoscere ed essere stato uno dei traduttori di alcuni testi di uno dei più famosi scrittori praghesi, Bouhmil Hrabal, per averci fatto conoscere un altro grande scrittore di Praga, Ladislav Fuks. Sua la cura de “Il bruciacadaveri” (Einaudi 1972) con la traduzione della moglie Ela Ripellino Hoclova. Suo il merito di aver affidato la traduzione di “Una buffa triste vecchina” (Garzanti 1972), ad una delle sue allieve, che sarebbe diventata un delle più importanti slaviste italiane, Serena Vitale.

La mia vicenda autobiografica, il lavoro di Ripellino, i libri di Ladislav Fuks mi sono venuti simultaneamente alla mente – e non è un caso- e non mi hanno più abbandonato, durante la lettura del bellissimo e sorprendente “Il lago” della scrittrice praghese Bianca Bellovà (Miraggi. 2018), romanzo vincitore, nel 2017, del Premio Unione Europea per la Letteratura e del Premio Magnesia Libera della Repubblica Ceca.

Alcuni personaggi de “il lago”, come la Vecchia Dama, come il presidente del Kolchoz, come Nikitich, come Jhonny, ricordano i personaggi di Fuks: come marionette, appaiano e scompaiono in un clima da fiaba nera.

A questo punto, però, è necessario soffermarsi sul libro di Bianca Bellovà che la casa editrice Miraggi ha pubblicato nell’ottima traduzione di Laura Angeloni in una collana che è stata felicemente battezzata NovàVlana, “Nouvelle Vague”. Bello quello che si legge in fondo al libro:

NovàVlana è la nuova collana italiana di letteratura ceca e prende il nome dalla “Nouvelle Vague” cinematografica ceca degli anni della Primavera di Praga.

In passato come oggi la letteratura ceca è stata molte volte portatrice di freschezza e innovazione, col suo carattere ironico, grottesco e surreale, e la capacità di immergersi nelle profondità esistenziali”.

Aggiungo che è molto bello vedere che tra le prossime pubblicazioni figura proprio il libro di Fuks “Il bruciacadaveri”, ormai introvabile.

“Il lago” è una fiaba nera, nerissima, è un romanzo di formazione, è una ricerca, a tratti disperata, delle origini, è una denuncia della dittatura, della presenza russa, quasi una forza di occupazione, nelle zone del lago di Aral, è una denuncia della terribile catastrofe ecologica che ha colpito il lago . Anche se i villaggi hanno nomi inventati e il nome della capitale non è mai citato, il lago di Aral è facilmente identificabile. Il prosciugamento del lago di Aral è stata, ed è tuttora, una delle più grandi catastrofi ecologiche del novecento. Questo lago salato, di origine oceanica, si trova alla frontiera tra Uzbekistan e Kazakistan. Dal 1960 la sua superficie si è ridotta del 75% e dei 68.000 chilometri quadrati originali ne resta solo il 10%. Il restante 90% è sabbia. Il regime sovietico aveva fatto deviare il corso di due fiumi che si immettevano nel lago tramite dei canali. L’acqua prelevata andava ad irrigare i campi a coltura intensiva, soprattutto quelli di cotone. Senza l’apporto dei fiumi il lago si è prosciugato e, inoltre, nei campi di cotone sono stati usati diserbanti peggiorando la già terribile situazione.

Si diceva che il libro è, tra le altre cose, un libro di denuncia: della catastrofe ambientale e della presenza russa in quelle zone.

La denuncia della presenza russa risulta evidente dalla descrizione delle piazze e dei villaggi: in ognuno di essi troneggia la statua o il busto dello Statista. Che potrebbe essere Stalin ma, ancora più verosimilmente, Putin, quel Putin anche troppo vezzeggiato da alcuni paesi dell’occidente.

E’ soprattutto la descrizione di questa presenza che mi ha fatto rammentare, mentre leggevo, Ripellino e il mio soggiorno a Praga nel 1986, quando si era in piena dittatura.

Bianca Bellovà scrive:

“Questo è l’inferno. Un lembo secco di terra su cui non crescono nemmeno i cardi. Non dà niente di cui vivere. Perché dovremmo rimanere qui a sgobbare per i russi, che hanno cacciato tutta questa gente dalle loro case? Non ha senso!” (pag.143).

Torno brevemente alla trama: Nami è orfano, vive con i nonni che, poi, moriranno sul lago. In un periplo intorno al lago, quel lago così inquinato che produce bambini deformi, eczemi, sintomi di ogni genere in chi si bagna nelle sue acque che sempre più si ritirano, egli è alla ricerca della madre, quella madre che, forse, gli appare nelle prime pagine del romanzo in forma di bikini:

“Dev’essere domenica, se sta lì sulla coperta col nonno e la nonna. C’è qualcun altro, Nami ricorda le tre macchie rosse di un costume. I te triangoli di un bikini, e sopra, un fascio di capelli neri ben pettinati, una coda di cavallo. E due ciuffi di peli neri sotto le ascelle. I tre triangoli si muovono lenti, girandosi e rigirandosi sotto il sole finché ne resta uno solo. Non lontano dalla riva un pesce gatto fa guizzare pigramente la coda” (pag. 5).

Questo è il notevole incipit del libro. Un primo capitolo che si intitola “Uovo” e che è ambientato nel paese di Boros. Ma è l’incipit di ogni capitolo che ha grande forza narrativa e introduce immediatamente al tema. Il secondo capitolo è intitolato “Larva” ed è ambientato nella capitale che è così descritta:

“Se dovesse descrivere la città, Nami non saprebbe da dove iniziare. I palazzi sono così alti che Nami tende istintivamente a farsi piccolo e i suoi occhi cercano di continuo l’orizzonte. L’aria è piena di clacson che strombazzano, di marmitte che scoppiettano e grida. Una donna rimprovera ad alta voce un bambino che piange. Si sente odore di escrementi, ma anche profumi dolci e di grasso di frittura. In aria svolazzano fogli sporchi e polvere. Le persone hanno un aspetto un po’ diverso; gli occhi sono più luccicanti, luminosi, e si muovono più velocemente. Anche i cani vagabondi sembra vadano più di fretta. I muri sono coperti di vari strati di manifesti colorati. In basso si staccano, raccogliendo la polvere nell’aria” (pag,64).

Il terzo capitolo, “Crisalide”, ambientato nel villaggio di Kuce, inizia così:

“Kuce è un villaggio in mezzo al deserto, raggiungibile dalla capitale dopo undici ore di strade polverose. Lungo il villaggio scorre un canale che irriga i campi di cotone. E’ stato scavato anni prima dal fiume Dera, che sfocia nel lago. In qualsiasi direzione guardi, Nami non vede altro che infiniti campi innevati di cotone: cotone, cotone, cotone” (pag.131).

E, infine, il quarto e ultimo capitolo, “Imago”, il capitolo del ritorno, dapprima alla capitale, poi a Boros comincia in questo modo drammatico:

“Il viaggio per la capitale è lunghissimo e spossante. Nami ci mette quasi una settimana intera, un pezzo in autostop e poi dei lunghi tratti a piedi. Dalla strada vede in lontananza un villaggio bruciato. Incontra varie colonne militari russe. I soldati sono taciturni, smarriti nei loro pensieri. Il deserto sembra non aver fine, ormai si trascina fino alla capitale. La città è ammutolita, lungo la strada, a dargli il benvenuto, trova carcasse bruciate di automobili, le vetrine dei negozi sono rotte o coperte da assi inchiodate. Le bancarelle del bazar sono abbandonate e distrutte, in aria svolazzano pezzi di giornale piegati a cartoccio, quelli in cui si vendono i semi di zucca tostati”. (pag. 153).

Il titolo di ogni capitolo è un passaggio evolutivo, segna il processo di crescita di Nami. Egli attraversa paesaggi in cui il lago, con la catastrofe ecologica che porta in sé, è sempre presente. Paesaggi costellati dall’ingombrante presenza russa e costellati di rovine, quelle rovine che hanno ispirato importanti riflessioni a Walter Benjamin e che Bianca Bellovà tratteggia con grande efficacia:

“Il sole è ormai basso, l’orizzonte dietro la baia si colora di rosso. Contro di esso si stagliano gli scheletri dei pozzi petroliferi, alti animali estinti, mostri a sette livelli con le schiene intessute di scale traballanti. Si ergono sulla superficie sopra delle piattaforme che di tanto in tanto lo Spirito del lago fa affondare sott’acqua; ma oggi no, il lago è calmo e la serata gradevole” (pag. 80).

In un mondo dove sembra si sia rotto ogni legame sociale e dove la presenza russa si fa sentire in ogni manifestazione della vita quotidiana, Nami, nel suo viaggio, incontra anche persone a cui è rimasto ancora un barlume di pietas come Nikitich, sfruttato come lui, il marinaio traghettatore Vaska che, con rassegnata indignazione seguirà la caccia agli animali presuntamente contaminati che vivono in un isolotto del lago non lontano dalla capitale e che aiuterà Nami in un momento molto difficile per lui. Nami incontrerà, poi, la Vecchia Dama che sembra uscita, pur nella sua assoluta originalità, dalle pagine di un libro di Ladislav Fuks. Incontrerà anche un altro personaggio  molto importante e sarà un incontro toccante. Lascio al lettore il piacere di scoprire come e con chi sarà l’incontro.

Il linguaggio è scabro, le situazioni spesso violente e che ti lasciano senza respiro. In mezzo ad esse descrizioni improntate ad una certa nostalgia come quando viene descritta la casa della Vecchia Dama:

“Vive in una di quelle ville sontuose, con le recinzioni coperte d’edera e le iniziali dei proprietari incise sulle facciate cadenti, e i giardini pieni di meli selvatici, mandorli, melograni, fichi, e cespugli secchi di malvarosa” (pag.,118);

o liriche come quando viene descritto il deserto intorno a Kuce:

“L’aria è limpida, sembra non contenere assolutamente niente a parte le particelle polverose della sabbia nera del deserto che fluttuano leggere sopra il terreno. Verso l’alto si avvicina a un azzurro accecante. I suoni nell’afa ardente si perdono come nel vuoto, come il grido soffocato di Nami nel cuscino” (pag. 132).

Momenti che sembrano dare un attimo di tregua al lettore. Ma è una tregua che dura l’espace d’un matin. Nami, inesorabilmente, cresce, conosce l’amore, la violenza, l’amicizia, le delusioni e il suo ritorno a casa è un ritorno problematico. Come fa notare il grande filosofo francese di origini russo-ebraiche, Vladimir Jankélévitch nel suo libro “L’irréversible e la nostalgie” (Flammarion. 1974. Pag. 360-67), Ulisse, quando ritorna ad Itaca, non riconosce la sua isola a causa dell’intervento di Atena e non è immediatamente riconosciuto. Anche in un altro suo libro “Il non-so-che e il quasi –niente” (Einaudi. 2011) il filosofo francese torna sull’argomento del ritorno parlando del figliol prodigo:

“… la casa che torna ad accogliere il figliol prodigo  non è la stessa che questi aveva lasciato andandosene via; è ancora la casa del padre, e al tempo stesso non lo e più. E’ un’altra casa! Da parte sua, il figlio, temprato dalle prove sostenute, maturato dalle tribolazioni, non è più lo stesso figlio: è un altro figlio che ritrova un altro padre. Insomma, nulla è più come prima… il tempo si è portato via ogni cosa nella relatività del suo flusso universale, compreso il sistema di riferimento che serviva a conteggiare gli anni. Il tempo è nel frattempo trascorso, e questo tempo è un divenire irreversibile”. (pag.174)

Anche per Nami, sorta di Ulisse dell’Est e figliol prodigo sui generis, il tempo è irreversibilmente  passato quando ritorna a Boros dopo il suo periplo intorno al lago. Fatica a farsi riconoscere, fatica a riconoscere Boros:

“Gli sembra di vedere Boros in lontananza. Sullo sfondo c’è la rupe di Kolos, anche se sembra un po’ più piccola. Più piccoli sono anche la via dei pescatori e il complesso residenziale russo, le strade paiono più strette. Si strofina gli occhi e gli sembra di essere arrivato in un’altra città. Una città piccolissima, una città per bambini. Ma il tronco del trasmettitore interplanetario sulla collina è ancora lì, non ci sono dubbi: Nami è arrivato a Boros.

Nami accelera il passo e si avvicina al paese, ma le proporzioni rimangono invariate. Solo il lago si è rimpicciolito talmente che l’acqua si vede a malapena, lontano. Nami continua a guardarlo ossessivamente, ha l’impressione che il lago si ritiri come si ritira il mare prima di uno tsunami, e che fra un po’ spazzerà via tutto. Ma la superficie dell’acqua luccica in lontananza e rimane immobile. Distante, quasi all’orizzonte, si estendono le flotte delle navi da carico arrugginite, sepolte nella crosta di fango secco. Alla loro ombra riposano dei cammelli” (pag.165-66).

Se il tempo è irreversibile, proprio questa irreversibilità ha fatto maturare Nami, lui così legato ad un passato che non passa, ad eventi con i quali deve ancora fare i conti. Riuscirà, nel divenire irreversibile del tempo, a sciogliere i nodi e a liberarsi di quel passato che non passa? Al lettore scoprirlo.

Il romanzo è in terza persona, ma lo sguardo, per usare termini presi a prestito dalle tecniche cinematografiche, è sempre in soggettiva. Vediamo le cose attraverso lo sguardo di Nami, il senso che diamo loro è il senso che le dà Nami, viviamo con lui le sue paure, le sue angosce, le sue rabbie, la sua trepidazione. Ha ragione la traduttrice Laura Angeloni quando scrive, in bandella del libro,

“Vuoi essere al suo fianco nella dolorosa, sfiancante, ricerca di sua madre e delle sue radici e ciò che ti muove, oltre all’amore per le parole, è la speranza che gli sia concessa una tregua, di vederlo rinascere… Non puoi addormentarti prima di averlo portato in salvo, almeno per un’ora, almeno per un po’”.

“Il lago” è un bellissimo e sorprendente romanzo. E ci fa pensare che i libri dobbiamo difenderli sempre: dagli indici dell’Inquisizione, dai roghi nazisti, dalle liste di proscrizione dell’impero sovietico, dalle tentazioni di censura che ancora si manifestano anche nei paesi europei. Se per un romanzo come quello di Kaouther Amidi, “La libreria della rue Charras (L’Orma. 2018 ) si può dire che i libri hanno il compito di unire le sponde del Mediterraneo, per “Il lago” possiamo e dobbiamo dire che i libri dovrebbero essere l’antidoto alle catastrofi ecologiche, alle dittature, all’avanzare minaccioso della barbarie. Dovrebbero avere il magico potere di non far più accadere quello che mi accadde nel lontano agosto 1986 a Praga.

 

NováVlna, una nuova collana per riscoprire i capolavori della letteratura ceca – di Lorenzo Mazzoni su Il Fatto Quotidiano

 

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La collana ha iniziato con il piede giusto, sono stati pubblicati due testi straordinari: Il lago di Bianca Bellova (traduzione di Laura Angeloni) e Volevo uccidere J.-L. Godard di Jan Nĕmec(traduzione di Alessandro De Vito).

Il lago è, dal mio punto di vista, un autentico capolavoro. Ritmo perfetto, nodi narrativi dosati nei punti giusti, un climax che stravolge completamente la percezione che si fa chiunque sfogli il romanzo, una collocazione geografica inedita e struggente, liquida e grigia come il lago che fa da cornice e coprotagonista alle vicende di Nami, il bambino che diventa uomo e deve continuamente inventarsi la vita e trovare una propria strada.

Come i Balcani immaginari di Zagreb di Arturo Robertazzi o Sniper di Pavel Hak, come l’Ungheria stregata di Ágota Kristóf, Bianca Bellova scrive una storia che affonda gli artigli nella dura realtà di un Paese dell’ex sfera sovietica. Il lago d’Aral, che non viene mai menzionato, tanto che il lettore si chiede continuamente se la vicenda si stia svolgendo in Uzbekistan o in Kazakistan – ma forse il lago non è nemmeno quello e di esso si riprende la tragedia del prosciugamento per colpa di politiche dissennate – è il luogo dove cresce Nami, nella casa dei nonni.

Si tratta di un piccolo villaggio che sopravvive grazie alla pesca. Ma poi i pesci muoiono e i pescatori soccombono allo Spirito del Lago. Rimasto solo, il ragazzino, parte per la capitale dove farà i lavori più disparati, mentre l’acqua del bacino – che ai tempi della sua infanzia ondeggiava tra il turchese e lo smeraldo – è ormai fango putrefatto e opalescente. Rami trasporta zolfo, stende catrame, diventa maggiordomo di un nuovo arricchito modaiolo post-comunista, si fa coccolare da una vecchia nobile decadente. Sempre alla ricerca di una madre perduta, sempre più in profondità nelle bestialità umane e negli orrori che il progresso è in grado di infliggere. L’eco dello Spirito del Lago rimane il richiamo costante, la colonna sonora di questo stupefacente romanzo con un finale altrettanto stupefacente.

Volevo uccidere J.-L. Godard ha tutt’altro ritmo e struttura narrativa. Jan Nĕmec, uno dei più importanti registicinematografici cechi del Novecento, definito l’enfant terrible della NováVlna, tesse un romanzo a episodi. Racconti scritti tra i primi anni Settanta e gli anni Novanta. Il filo si dipana cronologicamente a partire dalla Praga staliniana dell’elettroshock per i deviati sociali, passa per il jazz d’Oltrecortina, analizza in modo originale e dissacrante gli avvenimenti che hanno preceduto, accompagnato e suonato il requiem alla Primavera di Praga, fino a giungere alla fuga nei “liberi” Stati Uniti dove il narratore si troverà a vivere di stenti.

Autoironico, feroce, sarcastico, rabbioso e geniale, Jan Nĕmec riesce a parlare di un’intera epoca – e dei personaggi incredibili che l’hanno popolata – prendendo spunto dalle sue vicende personali. Critico e violentemente derisorio nei confronti del ’68 occidentale (esemplare il racconto Cannes 1968. La verità su quello che accadde, quando il regista e i colleghi cechi Milos Forman e Jiří Menzel erano in lizza per la Palma d’Oro e il festival venne interrotto da Godard e dagli altri intellettuali barricaderi) e dei suoi miti, prepotentemente coinvolto in diatribe sessuali e alcoliche, tenero e sprezzante nei confronti degli amici, l’autore scrive un libro fatto di tanti potenziali soggetti cinematografici. Un vero piacere leggerli.

Due testi riusciti, due coraggiosi manifesti di buona letteratura. Auguro un grande successo a NováVlna e ai suoi curatori. E non vedo l’ora che vengano pubblicati altri titoli.