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L’IMPERATORE DI ATLANTIDE – recensione Salvatore Massimo Fazio su L’urlo

L’IMPERATORE DI ATLANTIDE – recensione Salvatore Massimo Fazio su L’urlo

“L’imperatore di Atlantide”: l’analisi di Enrico Pastore

Straordinaria ricostruzione del dietro le quinte dell’opera musicale concepita in un campo di sterminio morale

L’imperatore di Atlantide (Miraggi Edizioni, 2019), è una opera straordinariamente completa, che consegna al pubblico uno spaccato, non molto conosciuto, di un luogo-lager che i nazisti crearono per apparire innanzi alle delegazioni di due paesi del nord Europa, Danimarca e Svezia, e innanzi alle visite della Croce Rossa Internazionale, come gruppo ad hoc al fine di migliorare “quella razza” che tutti pensavano essere sterminata dagli stessi.

L’intento di Hitler, fu quello di far credere, riuscendoci, che i prigionieri ebrei dislocati a Terezín vivessero in ottime condizioni, al pari dei tedeschi medesimi che inneggiavano alla razza pura.

Null’altro che finzioni su finzioni, assurdità al limite dell’accettabile; ma tutto ciò accadde, e a renderlo noto furono le testimonianze e il capolavoro musicale scritto da Viktor Ullmann e Petr Kien, prigionieri a Terezín, città ghetto, dove tutto era credibilmente meraviglioso.

Chi ha dato tanta luce a questo superamento di Brecht, è lo scrittore, intellettuale e regista stresiano Enrico Pastore.

L’imperatore di Atlantide: folgorazione Pastore

La spettacolarizzazione esiste, ma troppe volte viene intesa come inutile interesse, come spocchiosità, come eccesso. Preparatevi al meglio ad incassare il gancio destro. Enrico Pastore, regista e intellettuale classe ’74, assieme ad un gruppo di compagni e colleghi universitari, durante un corso di Storia del teatro all’Università Ca’ Foscari di Venezia (i docenti non vanno citati perché sono la categoria che più detesto!, questa è mia, ma lo sapete già) che seguì nel 1995, conobbe “L’Imperatore Atlantide”. Fu folgorazione.

 

Mettere in scena L’imperatore di Atlantide?

L’idea prima fu quella di farci una tesi di laurea, tanto fu l’interesse dell’allora giovanissimo stresiano, che non andò mai in porto, e fu una fortuna il fallimento accademico, proprio perché non avremmo forse assistito a questo gran lavoro racchiuso in 200 pagine c.ca compreso di libretto, a fronte in lingua originale, dell’opera scritta da Viktor Ullmann e Petr Kien.

 

 

Cosa fa Enrico Pastore?

Enrico Pastore
Enrico Pastore

Semplicemente racconta i retroscena di dove si plasmerà la più importante opera del periodo nazista, scritta da due grandi artisti, che assieme ad altri conosceranno la fine e le camere a gas. Ma prima ancora, conosceranno invece l’assurdo teatrante brechtiano che era Hitler.

I prigionieri a Terezín scrivono L’imperatore di Atlantide

Terezín fu una città ghetto lager creata per far apparire che tutto andava bene alle istituzioni di controllo come la Croce Rossa. Lì c’erano scuole che i bimbi non potevano frequentare, perché ebrei, c’erano i parchi che gli ebrei non potevano calpestare, c’erano i bar dove il caffè non dovevano venderlo, perché il cliente era ebreo. Insomma, i nazisti con a capo Heichmann, cosa fecero? Si inventarono una città modello, dove la vita era dignitosa: finto; dove gli ebrei non erano abusati: finto; dove le premesse erano le migliori per far vivere e potenziare le bellezze degli ebrei: finto! Finto! Finto ! Finto! Tutto finto! Bastardi tedeschi!

L’ebreo Salvini?

Sembra una provocazione? Non lo è. Vi dico il perché. Nella città di Terezín, dove tutto era finto, anche l’operazione di abbellimento (la povertà era al limite del ridicolo per chi doveva culturalizzare la città), anche le più importanti messe in scena culturali, se non venivano cassati dai tedeschi, succedeva che li cassavano i medesimi ebrei: perché? Perché la paura dei tedeschi era troppa, nonostante si sapesse che tutto era fittizio, tant’è che “allora meglio tirar per le lunghe questa via nel paradossale mondo di Terezín”.

E che c’entra Salvini? Boh!

E che c’entra Salvini? Boh, mi è venuto in mente, perché ce l’ha con i tedeschi e ci scassa la minchia con la questione di star fuori dall’Europa. Che però, si legga tra le righe, la storia gli da ragione: i tedeschi sono sempre i tedeschi, i soliti tedeschi, cattivi, che mai un Salvini potrebbe emularli: stiano tranquilli gli immigrati pertanto. Ma gli immigrati sono tranquilli, chi non è tranquilla è la sinistra (PD: può chiamarsi sinistra? ‘nsomma!!!); e poi ci siamo tutti noi, perché paradosso dei paradossi, Salvini, risulta essere la consecutio temporum dell’anti germanicità messa in atto dagli ebrei! Stupore? Prendetevela con Enrico Pastore, che a furia di scavare per trovare fonti ci ha messo in crisi!!!

Enrico Pastore: L’imperatore di Atlantide

Il libro si presenta bene e affronta tutto il dietro le quinte di quella bellissima opera che è L’imperatore di Atlantide. Ci racconta di Ullmann e di Kien, della loro collaborazione, di come quando e perché sono nati gli interessi condivisi coi colleghi, e di quanti artisti furono deportati. Psicologicamente ci inquieta pure con il disastro della memoria: non più importava loro dove fossero o cosa facessero, producevano bellezza e questo bastava. Poi, poi si tornava indietro, per poi un giorno non tornare più.

 

Libro ottimo

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Libro ottimo, ben curato, scritto e armonizzato. Dattiloscritto che Miraggi Edizioni ha fatto bene a pubblicare con l’inserimento del libretto dell’opera in appendice, che poi tanto appendice non è dato che un terzo del libro è tutto il libretto con traduzione a fianco. Conoscere un’opera musicale è molto bello, sapere chi sono i suoi autori, e in quale triste e doloroso contesto si son dovuti muovere e son riusciti a creare, lo è ancor di più. Andare all’ etimologia di ogni singolo termine che compone il titolo, aprire con un capitolo che ti dice tutto: “Il campo delle menzogne”, non ha più motivo di dare spiegazione. Questo libro va letto: assolutamente!

Miraggi riesuma miracoli e capolavori, non possiamo rendergliene atto che giorno dopo giorno si impone come realtà editoriale per tutti, mantenendo quell’aurea di nicchia.

 

 

 

 

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://lurlo.news/limperatore-di-atlantide-lanalisi-di-enrico-pastore/

L’imperatore di Atlantide: l’opera ribelle scritta nel lager di Terezín di Sergio Roca su LIMINATEATRI.IT

L’imperatore di Atlantide: l’opera ribelle scritta nel lager di Terezín di Sergio Roca su LIMINATEATRI.IT

La storia à la nostra memoria mentre l’oblio è il punto in cui la coscienza termina a causa dalla perdita delle conoscenze pregresse.
Tutti siamo in grado di focalizzare il periodo storico dell’ascesa al potere del Nazismo così come siamo capaci di provare orrore per ciò che accedeva nei campi di concentramento che quel regime costruì e sistematicamente utilizzò per lo sterminio degli ebrei, di altre minoranze etniche e di soggetti non graditi. Non molti sono a conoscenza, forse, che la propaganda nazionalsocialista riuscì a tenere nascoste per un lungo periodo di tempo, sia in Germania che fuori dallo stesso Paese, quali fossero le reali funzioni di quei luoghi di dolore, terrore e morte e questo anche grazie ad alcuni abili stratagemmi.
Terezín (in tedesco Theresienstadt), una piccola città fortificata del XVIII secolo sita nella Repubblica Ceca a circa 60 km da Praga, fu il perfetto “palcoscenico” per il mascheramento della verità. In questo campo, dove erano internati principalmente «anziani decorati, eroi di guerra e personalità illustri», le “personalità illustri” erano: pittori, attori, scrittori, musicisti che, proprio per la loro “notorietà”, godevano di una certa libertà quantomeno “creativa”. Sotto la supervisione dei loro aguzzini infatti, in quella sede, era tollerata una discreta attività artistica che già dal 1943 portò a: «una fioritura culturale […] che non aveva paragoni non solo in nessun altro territorio dell’Europa occupata, ma persino di molte città di medie dimensioni […]» tant’è che un programma della Freizeitgestaltung (l’Organizzazione per il Tempo Libero del campo) mostra che: «dall’ 1 all’8 novembre 1943 [… si tennero] diciotto rappresentazioni per una popolazione di quarantamila persone, con dieci diverse opere di cui cinque serie, quattro leggere ed una per bambini».
Sotto le pressioni del governo danese e sotto l’egida della Croce Rossa e, dopo un primo controllo effettuato nell’estate del 1943 (il cui esito non venne divulgato per ragioni politiche in quanto metteva in mostra le reali condizioni di vita degli internati), se ne ebbe un secondo, l’anno successivo, che dopo una “approfondita” ispezione internazionale (23 giugno 1944) dichiarò che la vivibilità nel campo era buona oltre ogni ragionevole dubbio. Come si era riusciti a costruire una tale mistificazione? L’apparato nazista aveva coinvolto i deportati rendendoli protagonisti di una enorme farsa – durata alcune ore, a favore del “pubblico” degli ispettori – in cui i prigionieri risultavano essere più degli “ospiti” che dei reclusi. La “recita” riuscì così bene che le SS pensarono di sfruttare fino in fondo la mefistofelica idea realizzando, nel successivo autunno, una pellicola di propaganda (dal titolo incerto) conosciuta come: Die jüdische selbstverwaltung in theresienstadt (ma anche come Theresienstadt. Ein Dokumentarfilm aus dem jüdischen Siedlungsgebiet o anche Theresienstadt, l’ironico Der Führer schenkt den Juden eine Stadt o, più semplicemente Theresienstadt) con la regia di Kurt Gerron (l’interprete del mago Kiepert nel film L’angelo azzurro) di cui si sono salvati alcuni brani visibili anche su YouTube.


È in questo quadro generale che nella prigione-ghetto di Terezín si incontrarono l’anziano e affermato compositore, Viktor Ullmann (allievo di Schönberg) e il giovane drammaturgo e poeta Petr Kien. I due artisti, pur provenendo da esperienze culturali molto differenti e nati in epoche distanti tra loro, riuscirono a realizzare, con intenti comuni, Der Kaiser von Atlantis (L’imperatore di Atlantide), un’opera del genere Singspiel composta in quattro quadri e un prologo salvatasi, a dispetto degli autori, dai campi di sterminio.
Proprio a Der Kaiser von Atlantis, Enrico Pastore, noto regista e scrittore (con il contributo della musicologa Marida Rizzuti e la traduzione del libretto di Isabella Amico di Meane) ha dedicato un interessante volume di ricerca, edito dalla Miraggi edizioni, dal titolo: L’imperatore di Atlantide di Viktor Ullmann e Petr Kien.
Dopo una ampia introduzione della situazione del campo di Terezín e, dopo aver ricostruito, nei limiti del possibile, le biografie dei due autori e le condizioni operative/produttive degli spettacoli sotto l’egida del sistema concentrazionario, Pastore si sofferma ad analizzare il Singspiel alla ricerca del messaggio universale, mitico, in esso contenuto.
La storia narra che l’Imperatore di Atlantide (1), Overall, tramite i suoi “meccanizzati” strumenti di propaganda e morte, un Altoparlante e un Tamburo, tenti di consolidare il suo potere grazie alla sopraffazione derivante da un continuo stato di guerra. Tutto ciò accade sotto lo sguardo dolente e disincantato di un Arlecchino anziano (che rappresenta lo spirito annichilito del “vivere”) e della Morte. Ma la protervia di Overall è tale che anche la Morte, disgustata dal suo comportamento, non può far altro che ribellarsi alla volontà distruttiva dell’uomo scegliendo di entrare in “sciopero”. Smetterà, quindi, di accogliere anime, impedendo ai viventi di terminare la loro esistenza. Sul campo di battaglia due opposte fazioni si scontrano: sono il Soldato e Bubikopf (una ragazza con i capelli alla garçon) ma, riconosciutisi uomo e donna, si innamorano cessando di combattere. Stremati dal loro stato di indeterminatezza anche i “non morti” decidono di porre fine alla loro sofferenza e assaltano il palazzo del Kaiser per farlo capitolare. Questi, vedendosi sconfitto, si consegna alla Morte che lo accoglie ritornando a svolgere il suo compito di mietitrice di anime.
Nell’accurata analisi dell’opera, Pastore rileva gli innumerevoli richiami, sia testuali che musicali, alle tante allegorie in essa contenuta.
Nella parte testuale, solo per accennare ai personaggi, non è difficile riconoscere in Overall lo stesso Hitler, mentre nei suoi collaboratori – Altoparlante e Tamburo – si intuiscono le figure di Goebbels e, presumibilmente, Göring. Nell’allegoria del Soldato e di Bubikopf si intravedono: «i rappresentanti di tutte le vittime del nazismo e di coloro, soprattutto in Germania, che avevano dimenticato i valori della democrazia», mentre in Arlecchino e nella Morte si esaltano i valori – universali – dell’esistenza.
Anche la partitura è piena di richiami a significati “reconditi”, almeno per i non addetti ai lavori, ma la vera “ricchezza” della trama musicale è nascosta negli arrangiamenti. Se è vero che i brani, a volte, fanno riferimento a composizioni pregresse di autori di musica “colta” come Schönberg o Mahler è pur vero che, nella maggioranza dei casi, essi vengono costruiti usando un insieme di stilemi: «dallo shimmy, al blues, al fox-trot, [… un] trionfo dell’entartete Musik» tipici della musica “degenerata” tanto odiata dai nazisti. Per Ullmann e Kien questo è, chiaramente, un atto di piena e consapevole ribellione artistica e tutto, in qualche modo, preconizza (auspica) la fine del regime. «Limperatore di Atlantide […] propone una opzione alternativa al pensiero unico nazista: una visione costituita da differenze che si integrano in una unità».
Lavoro pregevole quello di Pastore che permette di focalizzare le numerose chiavi di lettura de L’imperatore di Atlantide, opera creduta persa e rinvenuta solo alla fine degli anni Sessanta presso lo studio del Prof. H.G. Adler che l’aveva ricevuta dal direttore della biblioteca di Terezín cui Ullmann l’aveva affidata prima di partire per il suo ultimo viaggio verso la camera a gas.
Gli autori non videro mai la messa in scena del loro lavoro (anche se è il componimento, nel campo di concentramento, fu provato più volte e, probabilmente, presentato in una sorta di “prova generale” per il vaglio di gradimento da parte delle SS).
Nel dicembre del 1975, il direttore d’orchestra Kerry Woodward, dopo aver ritrovato la partitura originale da Adler, ebbe l’onore di dirigere la Nederlandse Opera, presso il Bellevue Centre di Amsterdam, per la prima rappresentazione mondiale.

1)  Atlantide era considerato dai nazisti, a seguito degli studi teosofici di Helena Blavatsky, il continente da cui provenivano gli ariani; tale tesi fu avvalorata, nel 1934, anche dal responsabile della formazione e dell’educazione del Partito Nazista, Alfred Rosenberg, con la stesura del volume Der Mythus des 20. Jahrhunderts (Il mito del XX secolo).

Enrico Pastore, L’imperatore di Atlantide di Viktor Ullmann e Petr Kien, Miraggi edizioni, Torino 2019, pp. 210, euro 18,00.

ARCHEOLOGIA DEL PRESENTE, NEL GHETTO DI TEREZÍN – Recensione di Michele Pascarella su Gagarin-Magazine

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Brevi note su L’imperatore di Atlantide di Viktor Ullmann e Petr Kien di Enrico Pastore.

Libro chiama libro. Vien da pensare a Ernst Bloch, al suo Lo spirito dell’utopia, a una idea di arte (e in particolar modo di musica) che non realizza l’utopia, ma la preannuncia: la musica, per Bloch, è forma che prelude all’espressione, lingua non ancora formata, «balbettio di bimbo» che tende alla condizione di linguaggio.

Libro chiama libro. Come non ricordare la raccolta poetica di Andrea Zanzotto, La beltà? Siamo nel 1968, a far rivoluzioni dentro e attraverso la lingua. Parola come istanza di liberazione dalla repressione e dalla scontata omogeneità dell’idioma ufficiale, alla ricerca del dire primordiale: il balbettio del petèl è l’incarnazione linguistica del desiderio.

Libro chiama libro. Desiderio e morte si agitano nella Fenomenologia dello spirito di Hegel, nell’incessante lavorìo volto a identificare le manifestazioni (la “scienza di ciò che appare”: fenomenologia, appunto) attraverso le quali lo spirito si innalza dalle forme più semplici di conoscenza a quelle più generali.

Si potrebbe a lungo continuare, tanto è feconda di stimoli e sviluppi rizomatici quest’opera minuscola e monumentale di Enrico Pastore, intellettuale piemontese che con rigorosa attitudine da «storico immediato del reale» racconta la vicenda del «ghetto modello» di Terezín attraverso la lente de L’imperatore di Atlantide di Viktor Ullmann e Petr Kien, «una di quelle rare opere che hanno il potere di portare alla luce un frammento di verità abbagliante», come lo stesso autore annuncia in Premessa (p. 7).

 

 

Il libro di Pastore parla di Terezín, «il ghetto modello voluto da Eichmann per ingannare il mondo» (p.9), e lo si fa con solida attitudine scientifica, affondando con precisione analitica nel «campo nelle menzogne», nelle biografie degli autori, nelle paradossali condizioni produttive, per poi analizzare da molteplici punti di vista l’opera e riportarne, infine, il libretto.

Vien da pensare a Foucault, alla sua Archeologia del sapere, a un’idea e una prassi di cultura che mette al centro le conoscenze imperfette, le lingue fluttuanti.

Il grande merito di questo saggio, si può forse sintetizzare, è quello di aprire una quantità di fonde domande sull’oggi e sul nostro essere attraversati dal (e costituiti di) linguaggio, mediante il rigoroso affondo in una vicenda storica e dunque, a rigore, affatto altra da noi.

Come non istituire un feroce parallelo tra «l’illusione messa in scena per raggirare il mondo» (p. 17) e la manipolazione della quale tutti oggi siamo oggetto nella «società dello spettacolo» (Debord docet), anche se con mezzi più suadenti e sottili?

Come non accorgersi che i modi di reagire all’infida, bipolare, sbandierata opportunità di praticare le arti nel Campo di Concentramento Theresienstadt, tra coloro che «dimenticarono il ghetto e si gettarono nell’attività artistica come se si trovassero sui palcoscenici di Praga o Berlino prima dell’avvento del nazismo» (p.17) e quelli che «continuarono a utilizzare l’arte come forma di diniego e resistenza all’orrore nazista a rischio della propria incolumità» (ibidem), rispecchia esattamente le analoghe, opposte attitudini degli uomini e delle donne di scena d’oggi?

«Gli strumenti musicali furono da principio vietati e il loro solo possesso passibile di pena capitale» si legge a p. 56 «Solo in un secondo momento, quando i nazisti realizzarono di poter sfruttare le attività spettacolari per i loro fini di propaganda essi furono resi disponibili, anche se spesso erano di cattiva, se non pessima, qualità»: come non pensare alle dinamiche familistiche, se non di smaccata convenienza, che regolano le scelte di coloro i quali, nelle odierne posizioni di potere, hanno la possibilità di decretare la (s)fortuna, se non addirittura la sopravvivenza, di questo o quel soggetto artistico?

Detto altrimenti: questo affondo su L’imperatore di Atlantide dà la possibilità di «rovesciare il piano estetico della composizione e dell’esecuzione su quello etico», come efficacemente sintetizza Marida Rizzuti nella densa Guida all’ascolto (p. 120).

Un libro che ci sentiamo di consigliare con calore a tutti: per conoscere meglio una vicenda non abbastanza nota e, attraverso di essa, porsi molteplici, salutari domande sul nostro sghembo, smemorato presente.

Chapeau. 

MICHELE PASCARELLA

 

Enrico Pastore, L’imperatore di Atlantide di Viktor Ullmann e Petr Kien, Miraggi edizioni, Torino, 2019, 208 pagine, € 18

Articolo originale qui: https://www.gagarin-magazine.it/2019/06/libri/archeologia-del-presente-nel-ghetto-di-terezin-brevi-note-su-limperatore-di-atlantide-di-enrico-pastore