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La vita moltiplicata – recensione di Teodora Dominici su Flaneri

La vita moltiplicata – recensione di Teodora Dominici su Flaneri

Trasfigurare la realtà in un carosello di sogni

Alla sua terza raccolta di racconti dopo L’ora migliore e altri racconti (Il Foglio, 2011) e Non risponde mai nessuno (Miraggi, 2017), Simone Ghelli raccoglie qui una teoria di narrazioni brevi collegate tra loro dall’atmosfera rarefatta e onirica, in cui i protagonisti si muovono galleggiando a metà tra le trasfigurazioni di cui è capace l’inconscio e una realtà talvolta amara da digerire.

I dieci racconti di La vita moltiplicata (Miraggi, 2019) ci proiettano in un universo in cui la nota di fondo è malinconica, fin dai titoli, che risuonano di un’eco sognante e ineluttabile – “L’ineluttabile” è tra l’altro il titolo dell’ultimo racconto, tra i più belli, dedicato a un ex studente di Siena che vi ritorna per un posto da ricercatore e, in un locale di via Pantaneto che ha ormai cambiato gestione, ha una intensa conversazione notturna con un bizzarro personaggio che si intende di cinema e filosofia.

Il titolo della raccolta sembra volerci introdurre, in maniera sintetica quanto incisiva, alla materia che troveremo affrontata nella raccolta: spezzoni, frammenti in perenne mutamento, stati di transizione, momenti clue – o meglio, epifanie –, una vibratile costellazione di esistenze sempre sul punto di “spiccare il volo”, come la figuretta in copertina, da una fase all’altra della vita o da un piano all’altro della propria essenza profonda.

Vi è, in questi racconti, un senso dell’attesa, dello stare a guardare, come nel primo, “Oboe d’amore”, che parla del difficile rapporto con la musica e con la madre di un bambino e poi adulto invaso dalle proprie personalissime muse.

«Accadeva che io fossi un’ombra, e che perciò strisciassi silenzioso tra i tappeti di foglie autunnali; e che ricoperto in testa d’un cappuccio di pelliccia, restassi a fiutarla tra i folti cespugli, a respirarla di lontano».

Ci sono situazioni allucinate, come nel caso di Vera, dove dai ricordi, dalle fotografie, dalle memorie di vita di coppia lei scompare, lasciando al compagno il dubbio che non sia mai esistita («Vera divenne ben presto Era, terza persona singolare del verbo essere, passato imperfetto»), sullo sfondo di una città post-apocalittica in cui stuoli di uccelli imperversano sull’orizzonte «gravido di antenne».

Molto emblematici sono i personaggi di “La somma dei secondi e dei sogni” e “L’ultima vetrina”, rispettivamente uno stagista di casa editrice e un libraio indipendente. Il primo, seppur consapevole che sarebbe stato più saggio imparare, fare esperienza, è irrimediabilmente attratto solo dai manoscritti che continuano a fioccare in casa editrice nella speranza di esser valutati (metafora delle aspirazioni di sconosciuti e velleitari scrittori), il secondo, che ha ereditato carattere fumantino e piccola libreria dal genitore, è colto nel terribile momento in cui decide di chiudere per sempre, facendo calare per l’ultima volta la saracinesca sulla vetrina del suo eroico negozietto.

Vi sono poi i postini anti-Internet, il professore di provincia triturato dai social per aver voluto lasciare i suoi pestiferi ragazzi liberi di esprimersi aggirando le disposizioni ministeriali, ragazzi spenti a casa ma indisciplinati a scuola, risucchiati dai loro telefonini in un’illusione di vitalità. «E come dargli torto?», osserva questo professore. «Per loro la scuola dev’essere una specie di mondo in bassa definizione».

In “La grande divoratrice” e “La sentinella di ferro” troviamo invece la critica sociale, uno sguardo più lucido su alcune realtà scomode del nostro tempo, il lavoro spersonalizzante dei call center – in generale dei servizi di assistenza/vendita ai clienti, con i loro annessi e connessi di postazione pc, credenziali di accesso, team leader e piani produzione – e le vecchie fabbriche che mangiano sia il paesaggio sia gli operai che ci lavorano.

Nel primo il protagonista «prendeva appunti sul portatile e provava a scrivere qualcosa che non sapeva se sarebbe diventato mai un libro o se sarebbe rimasto soltanto un lamento in prosa, il tracciato emotivo di un soggetto defraudato di qualcosa». Nel secondo un vecchio operaio osservando la ex fabbrica si rammenta «del tempo in cui contava soltanto produrre, e poi di quello in cui se n’erano vergognati, ma in cui era comunque necessario continuare».

I personaggi che Simone Ghelli sceglie sono tutti specchi di qualcos’altro, emblemi e maschere utilizzati per proiettare momenti e sentimenti stratificati nel tempo. Sono sentinelle costantemente in bilico tra l’infanzia e l’età adulta, tra quel che volevano fare e quel che invece fanno, tra l’incredibile qui e ora in cui l’azione sembra possibile e il successivo attimo di dispersione.

Queste figure, il postino, il professore, lo stagista, l’operaio, l’impiegato, il libraio, il pianista coatto, appaiono nello stesso tempo molto reali e assolutamente avulse. Nell’economia della raccolta, servono però a veicolare pensieri e significati che convergono tutti in una stessa direzione, quella di una velata critica al vivere contemporaneo, una sensazione di “fuori sincrono”, di spaesamento. Che senso ha farsi fotografie da soli? Per testimoniare cosa? Non sarà che questo grande universo di dati e informazioni in cui tutti sono immersi è una grande illusione, il miraggio di una vita piena? Non sarà che alle persone ora basta un’idea, la possibilità di questa libertà illimitata? Perché nessuno scrive più lettere e riceviamo solo estratti conto e pubblicità, sarà che non abbiamo più niente da dirci? Perché dobbiamo farci venire delle crisi di rabbia guidando per strada dietro a una persona lenta, e arrivare in ritardo a un lavoro da automi in cui non conosciamo neanche tutti i nomi degli altri dipendenti?

Allora può essere che un personaggio, stufo di tutto, per reazione, non desideri altro che «vivere in mezzo ai boschi […] diventando semplicemente terriccio per i funghi».

Che pace. Che pensiero vitale anche se raccoglie un’idea di scomparsa. Soprattutto se a fare da contraltare vi è una città del genere (è Roma): «Si era a tal punto elevata sul proprio passato da assomigliare a una millefoglie: strati e strati di asfalto, di laterizi poggiati l’uno sull’altro, di fondamenta accavallate tra loro. E ogni volta che si apriva una voragine sulla strada, lui si affacciava di sotto con la speranza di vedere l’inferno, o almeno un antico centurione sulla biga, mentre invece non c’era che qualche centimetro di nulla in cui si sentiva l’odore del catrame bruciato».

Lo stile di Ghelli è ben calibrato, piano ma con aperture al ricercato, e nel tessuto della narrazione sono frequenti le incursioni di sensazioni e stati d’animo. Talvolta si accumulano passaggi disorientanti in cui il filo si aggroviglia, strati di parole che conducono a una stanza sempre diversa del labirinto. La forma preferita è quella della brevità senza troppo indulgere al dialogo, che è invece protagonista nel già citato ultimo racconto, quello che accoglie anche, nelle parole dell’uomo misterioso incontrato dall’ex studente, il pensiero che pervade e attraversa l’intero libro:

«È difficile aderire all’immagine che gli altri pretendono da noi. È il piccolo o grande dramma dell’adattamento dell’individuo ai canoni sociali. La forma comica sancisce l’appartenenza alla società, così come la forma tragica ne sancisce l’esclusione».

QUI l’articolo originale:

http://www.flaneri.com/2021/11/15/vita-moltiplicata-ghelli-recensione/?fbclid=IwAR0SY_VtpWFZh2kXrI-qtnsGMuNSbG-Ef3mu459BcE5p3CwQgt7Uq3eA0uI

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Marina Guarneri su il Taccuino dello Scrittore

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Marina Guarneri su il Taccuino dello Scrittore

Leggo i primi due racconti in metro; mi sorprende subito la natura delle storie: le seguo come quando tentiamo di ricostruire nella mente un sogno appena svanito, al risveglio. Mi ritrovo a percorrere le sinuose vie dell’insondabile umano, con una sensazione piacevole, che passa dall’alienazione iniziale a un grande entusiasmo alla fine. C’è qualcuno che mi sta dicendo delle cose, forse importanti, su come reagisce la mente di fronte a determinati eventi della vita: un adolescente che riceve un’educazione severa, in uno spazio familiare militarizzato, che fugge dalla realtà che lo opprime, alimentando fantasie morbose fortemente aggrappate alla propria passione per la musica e c’è un uomo che percorre i sentieri della memoria in cui la protagonista è una donna, Vera, di nome, ma di fatto? La sua presenza, come un fantasma, si nasconde nelle immagini che vengono fuori da un vecchio album di fotografie. Cavalcare i ricordi è un gioco pericoloso per la mente e, in un attimo, tutto può diventare solo una proiezione dell’inconscio.Torno a casa entusiasta. Mi piace la scrittura di Simone Ghelli, genera empatia e io la trovo piena di suggestioni, a tratti anche poetiche. La malattia di Ascanio Ascarelli è una sorta di porta segreta verso un mondo interiore in cui la riflessione diventa una lunga pausa dalla vita più che preoccupazione per la sorte della stessa; la mania di un giovane apprendista, che legge i manoscritti spediti a un editore, di attaccarsi alla spazzatura letteraria come un accumulatore seriale, racconta una verità che conosco. La somma dei secondi e dei sogni: quante vite fanno tutti quei minuti passati a scrivere? Mi immedesimo anche nel libraio che chiude la libreria con la morte nell’anima e la lettura dei racconti a seguire è un’occasione per incontrare un’umanità varia in cui ci si riconosce e per la quale si fa persino il tifo, come per il professore che compie un atto rivoluzionario, interpretando in senso letterale il “compito di realtà” previsto in una circolare ministeriale e invita i propri studenti a descrivere come vedono la scuola e come vorrebbero che fosse. Le conseguenze sono quelle che ci aspettiamo ma che sarebbero diverse, se fossimo in una società che non ragiona seguendo sempre i soliti schemi mentali. Tra le righe di ogni storia risulta chiaro il messaggio dell’autore: la vita che viviamo, in fondo, è un insieme di dimensioni sovrapposte, che moltiplicano la realtà in piani invisibili, ma indispensabili.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://trentunodicembre.blogspot.com/2020/06/miraggi-edizioni-grand-hotel-romanzo_18.html

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Geraldine Meyer su L’Ottavo

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Geraldine Meyer su L’Ottavo

La vita moltiplicata. Perché una vita non basta

Dieci racconti, dieci personaggi, dieci storie. In bilico tra realtà, sogno, inconscio. Questo è La vita moltiplicata di Simone Ghelli, pubblicato da Miraggi Edizioni. Un libro che suggerisce una riflessione a partire dal titolo in cui La vita e non Le vite sembra indicare una sottile linea rossa che fa da cifra di lettura e scrittura. Quasi ci fosse un legame tra le storie raccontate, talmente forte da diventare un unico canovaccio, un unico percorso. Seppure complesso e sfumato, come appunto la vita.

I dieci racconti, come i dieci protagonisti ci appaiono tutti alla disperata ricerca di una via di fuga. Dal presente, da un attuale che più che creare disagio sembra, semplicemente, non bastare a contenere tutto ciò di cui si compone un’esistenza. Ogni cosa in bilico tra passato e futuro, a sostenere un presente che fugge, che stritola, che inchioda, che imprigiona.

E allora la vita moltiplicata diventa, per ciascuno dei protagonisti, una sorta di riscatto, di resa, di sogno, di ricerca estrema di ciò che c’è di più estremo: l’identità. Ma anche la realtà. La domanda che ci arriva, in sottofondo, dalla lettura di ciascuno di questi racconti, potrebbe proprio essere questa: cos’è la realtà? Quella che viviamo e dentro la quale ci muoviamo, costretti dalle convenzioni, dai sottili equilibri (anche psichici) che costituiscono l’impalcatura di una costruzione fragile? Oppure la realtà è quella che ci costruiamo nei sogni, nell’immaginazione e nell’immaginario refrattario alle regole?

Simone Ghelli (Foto da giacomoverri.wordpress.com)

Ghelli è scrittore dalle potenti letture e questi racconti restituiscono quello che deve essere stato (e che presumibilmente ancora è) il suo percorso di lettore. E forse, azzardiamo, anche il suo percorso di “consumatore” di cinema. Perché c’è molto di cinematografico in queste pagine. Non nel ritmo, non nella dinamica ma, certo, nell’uso forte delle immagini. Sì, perché i protagonisti di queste storie noi lettori ci troviamo a seguirli quasi come su uno schermo. Che è quello che costituisce un confine fisico in cui le cose più interessanti avvengono oltre esso, oltre quello spazio, dove apparentemente non si vede più nulla ma dove succede tutto. Tutto quello che sappiamo immaginare.

Che è un po’ quello che avviene nella vita dei vari protagonisti dei racconti, ciascuno dei quali viene dal lettore salutato sulla soglia di qualcosa. Perché ciascun racconto si conclude senza finire. In un moltiplicarsi di ipotesi, di sviluppi, di proseguimenti.

La vita moltiplicata è un atto d’amore, soprattutto, verso la letteratura e la scrittura, verso il loro potere di scrivere ciò che ancora non esiste e che non è mai esistito ma che, proprio per questo, è tutto ciò che davvero, forse, possiamo chiamare realtà.

Un libro molto più complesso di quanto possa apparire ad una prima lettura, sorretto da una scrittura la cui semplicità si avverte essere frutto di un lungo lavorio. Che è esattamente il contrario dello spontaneismo. Non vi è nulla di spontaneo in questi racconti. Semmai qualcosa quasi di automatico, come se l’autore si fosse lasciato andare ad un flusso incontenibile, come se si fosse messo accanto ai suoi personaggi, ascoltandoli, come uno psicoanalista con i suoi pazienti. Solo che qui non c’è nessun paziente perché il disagio o l’incapacità di farsi bastare la vita che manifestano i personaggi non è patologico, anzi. È la più vitale delle rivolte a tutto ciò che vuole ridurre la vita a qualcosa di razionale e senza sfumature e stonature.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.lottavo.it/2020/06/la-vita-moltiplicata-perche-una-vita-non-basta/

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Lara Santini su Read and Play

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Lara Santini su Read and Play

Quante volte abbiamo cercato di fuggire, scivolando tra le pagine per giungere laddove non saremmo mai riusciti ad arrivare da soli?
E quante altre abbiamo invece mendicato conforto, provando a cogliere gli scorci di una quotidianità troppo spesso data per scontato?

Il titolo di questa raccolta di racconti, pubblicata da Miraggi Edizioni a ottobre 2019, potrebbe apparire emblematico, ma smetterà di esserlo dopo poche pagine.
La vita moltiplicata è la storia di Livio, di Ascanio, di Marcello, e di tutti quelli che davanti a una vetrina hanno smesso di guardare solo il proprio riflesso.
Molteplici i protagonisti, molteplici le vicende, in equilibrio tra realtà e mondo onirico.

L’autore, Simone Ghelli, non è uno scrittore al suo esordio ma già autore di altre opere, come Non risponde mai nessuno, e racconti pubblicati su varie riviste letterarie, tra le quali Cadillac Magazine.
Se siete curiosi di saperne di più, troverete recensioni e altro alla pagina: https://genomis.wordpress.com/.

Con la sua scrittura, Simone Ghelli avvicina il lettore a piccoli passi per poi catturarlo completamente, attraverso un lessico fluido ed essenziale.

Nel suo racconto, chiaramente autobiografico, Grossi si dipinge come un grumo di rabbia e disperazione conficcato nella carne di una città ormai marcia. Non è l’unico, ne vede tanti intorno a sé, pronti a rivalersi sui vecchi, sui bambini, sui brutti, sui grassi, sui poveri di tasca e di spirito. Grossi si vede così perché sta diventando così; anzi, è già così. È il prodotto precotto di una società che li ha ingozzati di sogni, che li ha tirati su come polli da batteria per poi farli sedere a una tavola apparecchiata con gli avanzi. Grossi vede la sua vita come il resto di qualcos’altro e ogni giorno si sente come se avesse i postumi senza essersi preso una sbronza”.

Per la playlist ringraziamo l’autore, che ha accettato con grande disponibilità di crearla e condividerla con Read and play.
I brani sono quasi tutti strumentali: “Anche se non corrispondono esattamente ai racconti rispecchiano le atmosfere dilatate e oniriche”.

Ascolta la colonna sonora.

La soundtrack de “La vita moltiplicata” di Simone Ghelli
  1. Pavane pour une infante défunte – Maurice Ravel
  2. Claire de lune – Claude Debussy
  3. The girl with the sun in her head – Orbital
  4. Orion – Metallica
  5. Hunted by a freak – Mogwai
  6. Penguin Serenade – Giardini di Mirò
  7. Tatàna – Moltheni
  8. Glass museum – Tortoise
  9. Hoppìpolla – Sigur Ròs
  10. Autumn’s in the air – Mercury Rev

QUI L’ARTICOLO ORGINALE:

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Martino Ciano su Gli amanti dei libri

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Martino Ciano su Gli amanti dei libri

Dieci racconti costellati da personaggi “divisi in loro stessi”. Storie di anime scisse che vivono in piani diversi della coscienza. In poche parole, Simone Ghelli dà voce a una prolifica commedia umana in cui nessuno si accontenta della realtà e che, pertanto, trova il suo habitat al di là dell’oggettività.

C’è un tempo esterno e un tempo interno. La percezione dell’uno e dell’altro origina un discorso intimo. Infatti, l’irreversibilità delle ore mai coincide con la reversibilità dei ricordi e con il futuro-presente in cui dimorano speranze e desideri. Eppure, è qui che tocchiamo con mano il patire, ossia, il “sentirsi”, che non vuol dire a tutti i costi “appartenersi”, anzi, spesso crea la famigerata incomunicabilità che si instaura tra mondo e soggetto.

Chi sono quindi i personaggi dei racconti di Ghelli?

Sicuramente, sono personaggi che dialogano con il disagio, che vivono un presente che non  appartiene loro, che si difendono prendendo le distanze dal mondo pur attraversandolo con grande dignità. Eppure, nonostante i loro sentimenti contrastino con la realtà, essi cercano quel medium capace di instaurare un dialogo con la quotidianità. Insomma, per loro dar voce ai pensieri vuol dire moltiplicare i punti di vista attraverso cui valutare il Mondo. Le loro doglianze alimentano una rivolta solitaria che non esclude la Terra, ma ne allarga l’orizzonte.

È facile entrare nei pensieri di questi personaggi, Ghelli ha uno stile asciutto che prende per mano il lettore. Proprio il lettore è chiamato a seguire la trama, che non si sviluppa orizzontalmente, ma verticalmente. Si sale sempre di più fino a giungere alla sintesi perfetta, ossia, all’impatto con la quotidianità.

Cos’è la realtà secondo Ghelli?

Il mondo si addensa negli occhi di chi lo guarda, pertanto, non esiste l’oggettività, ma solo una intima decodificazione di tutto ciò che si percepisce. La realtà che lo scrittore ci pone davanti è quel gran spettacolo che ci coinvolge e che sa ingannarci. È quindi la soggettività il gran rifugio, una sorta di “camerino” in cui possiamo prendere fiato e ripetere il copione prima di tornare in scena. Fatto sta, che è difficile recitare una parte che non piace, ed è in quel momento che tutto diventa faticoso e farraginoso; anzi, impossibile da mascherare.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.gliamantideilibri.it/la-vita-moltiplicata-simone-ghelli/

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Raffaele Mozzillo su Banda di Cefali

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Raffaele Mozzillo su Banda di Cefali

«Rosa, io sono un metodico. Ho dovuto fare colazione in un altro bar, sono già abbastanza sconvolto per oggi.»

La vita moltiplicata di Simone Ghelli è una raccolta di racconti in cui ciò che ci viene mostrato il più delle volte non corrisponde a ciò che si pensava di leggere: accade quella cosa che uno dei personaggi della raccolta definisce «contraffazione del reale».
Ghelli è molto bravo a “rifilarci” la sensazione di essere trasportati in un mondo altro, come sospinti in altre dimensioni, mentre invece – una volta storditi – ci ritroviamo davanti a racconti di vita che fanno del quotidiano, della semplicità, della normalità la loro cifra straordinaria.
Ogni racconto parte da un elemento minimo che spezza la routine di un personaggio qualsiasi: un professore che la mattina non può mangiare il suo danese con scaglie di cioccolato perché il bar dove va sempre ha un problema elettrico; un impiegato in una società di servizi che fornisce assistenza ai clienti per conto di terzi, una mattina si ritrova a fare tardi al lavoro per vari motivi – il traffico, la giornata uggiosa, le buche delle strade – ma tutto comincia quando un vecchietto compie una manovra azzardata ad un incrocio con il semaforo rosso; un postino che si alza già stanco una mattina a causa di un incubo notturno e non ne infila una giusta; e così via.
Quando qualcosa cambia all’improvviso arriva la vita, e i personaggi di Ghelli restano lì non sorpresi, non sopraffatti, ma assistono a quello che avviene come se fossero dentro a un sogno, come se dormissero un sonno profondo, tanto profondo da sembrare reale, vero ma innocuo. Come se la vita si moltiplicasse, in qualche modo, e diventasse tante vite diverse. E invece un risveglio c’è sempre.
Dai racconti di Ghelli si apprende che a sconvolgerci la vita è la vita stessa nella sua normalità. Non soltanto i grandi eventi, non solo i grossi traumi, ma sono gli avvenimenti del quotidiano che possono stravolgere così come possono appiattire un’esistenza. Tutto dipende da noi, da come li affrontiamo, e con che occhi li guardiamo (appena svegli).

Ogni personaggio, alla fine, torna indietro e dopo quello che ha appena vissuto – il sogno, «il miraggio di una vita piena», il tempo di un mondo altro che non è il tempo di questo mondo qua – ricompare la vita vera. O forse no.
La scrittura di Ghelli è raffinata, ricercata, a volte si fa rumore di quello che accade – «La casa scricchiolava e brontolava, era un enorme stomaco che stava digerendo la sua vita» –; altre, immagine nitida – «Immobile dinanzi alla distruzione, come l’osservatore esterno nel Naufragio della speranza dipinto da Caspar David Friedrich –; altre ancora suono – […] si eseguono, di nascosto, centinaia di sinfonie di vite separate.»; ma rimane attaccata alle cose, alle storie e ai suoi personaggi – come il pennarello del fumettista Osvaldo Cavandoli alla sua linea –,nel tentativo di tamponare le falle delle loro esistenze tenendole insieme, attraverso un’estetica funzionale che non perde mai di vista ciò che vuole raccontare e anche ciò che vuole immaginare.

«Forse aveva avuto soltanto una passata di febbre e non se n’era neanche accorto.»

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE: https://www.bandadicefali.it/2020/03/23/la-vita-moltiplicata-simone-ghelli/?fbclid=IwAR3FGnQpr0ODrDwdujd-DYjEJE3CCcqOtlGd5hul243UHATt2lNXyqLP4-4

La vita moltiplicata – recensione di Riccardo Meozzi su Il loggione letterario

La vita moltiplicata – recensione di Riccardo Meozzi su Il loggione letterario

Quant’è difficile fuggire: qualche parola su La vita moltiplicata di Simone Ghelli

Tutti i pensieri rimasti, e i sentimenti, e le frasi ancora da dire; tutto questo e altro ancora si era riversato a terra: un minestrone in cui galleggiavano come zattere parole di tutte le dimensioni. Alcune erano in parte mangiate, e lasciavano scoperto il bianco delle ossa; altre erano molli e intrise di sangue come interiora.

Dal racconto “Vera”.

Un libro è un oggetto strano: esiste nel mondo materiale attraverso la soglia fisica della sua forma, ma al suo interno la realtà è diversa dalla nostra. Se decidiamo di entrare, il minimo che possiamo aspettarci è dunque il contatto con una narrazione che non ci appartiene. Ma se, come in questo caso, all’interno dell’oggetto fisico vi sono racconti, ciò che subiamo leggendo è una rifrazione totale, una scomposizione attraverso uno spettro che cambia a ogni titolo.

I racconti di La vita moltiplicata compiono proprio una rifrazione continua: si muovono, in modo più o meno dichiarato, sulla soglia che separa realtà e visione. Il problema critico di questa raccolta risiede però non su questo confine, ma su individui annebbiati che, all’improvviso lucidi, osservano la realtà andare in frantumi. Il punto di vista dei personaggi del libro di Simone Ghelli è spesso disilluso e freddo, emotivamente distante dagli eventi in cui sono coinvolti. Questo stesso punto di vista è adottato anche a livello narratologico: la narrazione infatti si compie a una distanza di controllo che non può ferire i lettori e, nei pochi casi in cui gli eventi vengono raccontati nel loro svolgersi, come in “Vera” o in “Compito di realtà”, l’impatto traumatico dei fatti viene subito ammorbidito da un uso inoppugnabile della lingua. La cornetta del telefono in “Vera”, ad esempio, diventa lo sfrigolio degli ultimi resti carbonizzati di un pezzo di carne.

La prospettiva tematica adottata dall’autore si concentra sulle realtà abbandonate, a volte ricordate, che hanno bisogno dello sforzo del soggetto per esistere. I suoi personaggi sono macchine narrative ben costruite il cui scopo è di rielaborare costantemente quello che gli è successo o quello che gli sta succedendo; sono, nella loro laconicità, osservatori attenti che non danno nulla per scontato in ciò che vedono. Ghelli, gli sforzi che i suoi personaggi fanno per mantenersi attaccati alla realtà sensibile, li descrive con maestria proprio dimostrandone la futilità. Comprendiamo, leggendo le pagine di questa raccolta, che l’unica realtà davvero esistente è quella raccontata; fuori, il nulla.

I personaggi di Ghelli godono, inoltre, di una forte dimensione purgatoriale. Si muovono, ma soltanto nelle loro teste, avanti e indietro nel tempo e nello spazio: hanno qualcosa in comune con i personaggi di Silenzio in Emilia di Daniele Benati.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

Simone Ghelli (La vita moltiplicata) intervistato da Gianluca Massimini su Lankenauta

Simone Ghelli (La vita moltiplicata) intervistato da Gianluca Massimini su Lankenauta

“Immobile dinanzi alla distruzione, come l’osservatore esterno nel Naufragio della speranza dipinto da Caspar David Friedrich, Iuri ebbe una visione nitida del quadro che aveva davanti: la realtà era lì a due passi, tumultuosa incandescente, fatta di banchi che si scontravano – proprio come le lastre di ghiaccio nell’opera del pittore tedesco – e che promettevano l’avvento di un mondo nuovo, finalmente libero (forse) dal dominio delle apparenze.” 

Abbiamo letto di recente, e con vero piacere, il nuovo libro di Simone Ghelli La vita moltiplicata, una raccolta di racconti edita da Miraggi Edizioni che ci ha colpito per la potenza data dall’autore all’onirico, allo psichico, alla vita interiore dei personaggi, che in questo moltiplicare la vita cercano una via di fuga dalla vita stessa, da una realtà che spesso li sconfessa, li disattende.

Abbiamo approfittato della sua disponibilità per porgli qualche domanda.

Innanzitutto, come è nata l’idea di questo libro, di questa raccolta?

Le mie raccolte sono nate sempre a posteriori, nel senso che dopo un po’ mi sono reso conto di aver scritto dei racconti che avevano per così dire un’aria comune, un’atmosfera che li teneva insieme. Non sono mai partito dall’idea di una raccolta, da un filo conduttore da seguire. È qualcosa che realizzo soltanto dopo. Ovviamente, una volta deciso di metterli insieme, ci torno sopra. Èsuccesso così anche con questa.

Hai affermato in più occasioni che le tue due ultime raccolte di racconti (Non risponde mai nessuno e La vita moltiplicata) andrebbero lette insieme, che ci sono dei fili sottili che le uniscono. Puoi chiarirci meglio questo aspetto?

Le considero un po’ come i due lati di un disco. La raccolta Non risponde mai nessuno è arrivata dopo un lungo periodo di crisi in cui niente di quello che scrivevo mi piaceva. Quando ho realizzato che ero finito in un vicolo cieco, in cui la spasmodica ricerca di una lingua mi aveva fatto perdere del tutto il gusto per la storia, ho sentito il bisogno di rimettere per così dire i piedi per terra. E così sono venuti fuori dei racconti che qualcuno ha definito realisti, degli spaccati di vita in cui emergono delle figure che potremmo definire, con tutto il rispetto per Verga, dei vinti. Dopo quel libro sono riuscito a ripartire da dove ero arrivato; non a caso il primo racconto de La vita moltiplicata, cioè Oboe d’amore, era già uscito in una raccolta di autori vari (Toscani maledetti, a cura di Raoul Bruni) nel 2013. Quello era stato il punto in cui mi ero arenato e dal quale ho ripreso, ovvero l’esplorazione, per mezzo della lingua e dello stile, della dimensione più onirica e inconscia della vita. 

Si tratta perciò di due raccolte a specchio, dove il riflesso del realismo è il fantastico. A unirle c’è proprio questa polarità.

Quasi tutti i personaggi de La vita moltiplicata mettono in mostra un tentativo di fuga o di ribellione che prende forma attraverso l’onirico o lo psichico. Questo succede in Oboe d’amore, ne La somma dei secondi e dei sogni, in L’ultima vetrina… Ma la realtà è davvero cosi terribile come sembra?

La realtà sta diventando sempre più complessa, evolve a una velocità che supera le umane possibilità. Questo si traduce, dal mio punto di vista, in una sorta di vita fuori sincrono (a meno che non ci si accontenti di sopravvivere senza provare a capire), in cui gli strumenti a nostra disposizione sembrano sempre insufficienti a comprendere fino in fondo le cose, le connessioni tra i fatti e le persone. Inoltre questa velocità mi pare che tenda ad assottigliarci come esseri, costringendoci a vivere sempre più in superficie, senza avere il tempo di sentirci in profondità. La televisione e internet sembrano dirci che la nostra immaginazione sta già tutta là fuori e così il nostro inconscio (non è un’idea mia, lo diceva già Serge Daney a proposito della televisione), tutto a portata di clic o di telecomando, tracciabile e remunerabile. Messa così direi di sì, che la realtà un po’ terribile lo è.

Si potrebbe parlare, nel caso de La vita moltiplicata, di letteratura o di scrittura onirica? Saresti d’accordo con questa definizione?

In alcune parti direi di sì. Ci sono pagine in cui si potrebbe parlare addirittura di scrittura automatica, o qualcosa del genere. In altre è come se mi fossi messo davanti ai miei personaggi e li avessi psicanalizzati, in certi casi addirittura ipnotizzati.

Fa eccezione, mi è sembrato, il Giovanni de La scatola nera che, di fronte al futuro funesto che sembra attendere la nostra specie, va in giro a far campionamenti, registrando suoni e rumori per poi rimodularli a piacimento, con vero estro artistico. Si potrebbe leggere in questo suo modus vivendi la volontà di riscattare la realtà stessa? E potrebbe essere letta, questa sua predisposizione nei confronti della realtà, anche come una metafora dell’attività dello scrittore?

La figura di Giovanni è un po’ ambigua e in un certo senso leggendaria, perché nel racconto sono gli altri a parlare di lui. Esiste davvero? Chi può testimoniare della sua attività? Si potrebbe dire che Giovanni voglia salvare la realtà, che voglia risarcirla di una dimensione estetica. In questo senso sì, potrebbe essere letta come una metafora dello scrittore, o almeno di un certo tipo di scrittore. Credo che in effetti sia quello che cerco di fare io, anche se i tempi in cui viviamo sembrerebbero dirci che uno scrittore del genere, che creda nel compito di riscattare la realtà, sia destinato al fallimento. Eppure è proprio questo che mi spinge a insistere.

C’è un racconto di questa raccolta al quale sei particolarmente legato per motivi o vicende personali o perché ti ha dato particolari soddisfazioni?

Direi Vera, perché è quello in cui ho sperimentato di più, in cui mi sono veramente lasciato andare, in cui ho abbandonato il controllo per seguire il flusso, superando così il mio limite più grande come scrittore.

Se posso permettermi una domanda più personale, cosa c’è di Simone Ghelli nei personaggi del tuo libro, nelle vicende da loro vissute?

Come sempre c’è molto: ci sono ad esempio le esperienze lavorative (il postino, la fabbrica, la scuola, il call center). Io parto sempre dall’esperienza, anche quando si tratta di trasfigurarla. Credo che in fondo sia così un po’ per tutti, non s’inventa certo dal niente. Io sono la somma di quello che sento, di ciò che ho sperimentato con tutti i sensi, compreso tutto quello che non registro consapevolmente. Vedo ognuno di noi come un cinema ambulante: siamo pieni di immagini, di suoni e parole che dobbiamo soltanto trovare il modo di tirare fuori componendole in nuove forme.

Un aspetto che non è stato ancora messo in luce dei tuoi racconti è, a mio avviso, il legame che essi hanno con il cinema. In una mia lettura de La vita moltiplicata, già apparsa su Lankenauta, ho avanzato l’idea che si possa in fondo leggere la tua raccolta come una sorta di cronofotografia alla Muybridge, come quella evocata nel tuo L’ineluttabile, attraverso la quale, con l’ampio spazio che dai alla vita interiore dei personaggi, metti assieme più momenti, più immagini delle storie di ognuno di noi per cogliere la vita umana nel suo movimento, nel suo farsi. Cosa puoi dirci del legame tra la tua scrittura e il cinema?

Si tratta di un legame fortissimo e la lettura che tu dai della raccolta è assolutamente pertinente. D’altronde il cinema è l’arte su cui mi sono formato, almeno teoricamente. Quella dello scrittore la definisco la mia terza vita, ed arriva dopo quella di musicista prima e di critico cinematografico poi. Le due persone a cui è dedicato il racconto L’ineluttabile fanno infatti parte della mia vita universitaria, quando studiavo il cinema sui libri di Deleuze (e non solo, ma a Siena, alla fine degli anni Novanta, quella corrente di pensiero rappresentava un po’ lo spirito del tempo). 

Nel mio caso l’influenza del cinema riguarda sia l’immaginario che un certo modo di vedere – l’importanza dunque del punto di vista, ma anche del montaggio. Quasi sempre inizio a scrivere partendo da un’immagine e procedendo per immagini. Per me è molto importante che il lettore riesca a vedere attraverso le mie parole.

A cosa è dovuta la tua predilezione per il racconto? Qual è la tua idea su questa forma letteraria?

Il racconto è stato definito in tanti modi. Non saprei dire in che cosa consista veramente, se non che necessita di una scrittura in cui ogni riga deve sembrare necessaria. La differenza dal romanzo è essenzialmente questa. In un racconto non ci dovrebbe essere una singola parola superflua, nemmeno una virgola. È esattamente questo il motivo per cui trovo estremamente faticoso lavorare a un romanzo. Per quanto io continui a provarci, ormai da tempo, c’è sempre un momento in cui mi viene naturale isolare l’idea da cui sono partito e trasformarla in un racconto. E poi non riesco ad andare avanti se non sono convinto fino in fondo di quello che ho scritto prima. Non credo che sia possibile scrivere un romanzo a queste condizioni, senza concedersi la libertà di qualche sbavatura.

È opinione diffusa che il racconto sia un qualcosa di semplice, addirittura di occasionale, o peggio ancora il fratello minore del romanzo. Qual è la tua opinione in merito?

Che il racconto sia più semplice del romanzo è una sciocchezza, così come l’idea che possa essere un esercizio per avvicinarsi a quest’ultimo. Per molti scrittori e addetti ai lavori il racconto è anche un modo per farsi conoscere e arrivare alla pubblicazione con un editore; alcuni arrivano addirittura a paragonarlo alla palestra (e con esso le riviste e i siti letterari dove i racconti si pubblicano), dunque a un mezzo per allenarsi e farsi i muscoli. Questa è esattamente la visione che porta poi a considerare il racconto come il fratello minore del romanzo. L’ho già detto che è una stupidaggine? Ecco, lo ripeto, perché il racconto, così come qualsiasi altra forma letteraria, presenta delle difficoltà proprie. Anzi, a dirla tutta penso che sia più difficile scrivere un buon racconto che un buon romanzo, perché nel racconto i trucchi si svelano più facilmente (ok, questa l’ho presa da Carver). E questo è il motivo che mi fa un po’ imbestialire quando vedo che certe riviste di racconti chiedono di scriverne ai romanzieri solo per avere il nome di richiamo in copertina, come se fosse automatico che un romanziere sappia scrivere un buon racconto. Che stupidaggine!

Tu che hai praticato entrambe le forme: il racconto e il romanzo, in base a cosa decidi se usare l’una o l’altra quando hai un tema da proporre? Come cambia l’atteggiamento dell’autore quando si accinge a scrivere l’una o l’altra? E come lavora?

Ho scritto due romanzi, anche se in parte non li considero tali. Il primo (L’albero in catene, pubblicato da NonSoloParole nel 2003) è una specie di viaggio che ho intrapreso senza avere la minima idea di dove stessi andando a parare e, complice anche il fatto che ogni capitolo abbia un titolo, non sono pochi quelli che lo hanno letto come se fosse una raccolta di racconti. Il secondo (Voi, onesti farabutti, pubblicato da CaratteriMobili nel 2012) è stato definito romanzo, ma io lo considero piuttosto un’invettiva, un pamphlet in forma romanzata. Non credo insomma di aver mai scritto un vero e proprio romanzo e questo mi rende difficile rispondere alle domande successive. Immagino che scrivere un romanzo significhi avere ad esempio a che fare con degli schemi, delle schede coi personaggi, tutto un lavoro sulla struttura che mi fa annoiare al solo pensiero. Come ho già detto, per me il racconto parte da un’immagine, dal tentativo di mettere in risalto ogni dettaglio di quell’immagine e trovare il punto (quello che Roland Barthes definisce il punctum) verso cui la storia inizia a precipitare.

Dopo La vita moltiplicata cosa devono aspettarsi i lettori che amano Simone Ghelli? Quali sono i tuoi progetti futuri? A cosa stai lavorando?

In questo momento non sto lavorando a niente di preciso. Leggo, studio e metto da parte le idee. Il lavoro di insegnante, che amo, mi porta via la maggior parte del tempo. Sono fortunato perché è la parte più bella della scrittura: quella in cui s’immagina.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

LA VITA MOLTIPLICATA. “Dieci racconti uno più bello dell’altro” – recensione di Gabriele Ottaviani su Convenzionali

LA VITA MOLTIPLICATA. “Dieci racconti uno più bello dell’altro” – recensione di Gabriele Ottaviani su Convenzionali

LA VITA MOLTIPLICATA

Chissà se era ancora un sogno, si chiese Ascanio…

La vita moltiplicata, Simone Ghelli, MiraggiOboe d’amore, Vera, Piano inclinato, La somma dei secondi e dei sogni, L’ultima vetrina, Compito di realtà, La grande divoratrice, La scatola nera, La sentinella di ferro, L’ineluttabile: dieci racconti uno più bello dell’altro, come del resto splendida è la copertina, per il tramite dei quali Simone Ghelli, con maestria, profondità, eleganza, raffinatezza, cura e delicata tenerezza per le fragilità delle anime che arrivano alla soglia della sua coscienza, presentandosi fra parole e righe, per raccontargli la propria vicenda, indaga, semplicemente, ma nessun sentiero è più impervio di quello che in apparenza appare senza ostacoli, l’esistenza, in tutte le sue forme. Eccellente.

 

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“La vita moltiplicata”

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Ippolita Luzzo su Ippolita – La regina della Litweb

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Ippolita Luzzo su Ippolita – La regina della Litweb

LA VITA MOLTIPLICATA

La vita moltiplicata di Simone Ghelli è una raccolta di dieci racconti declinati fra realtà e sogno, racconti che si svolgono in un tempo che è fatto di tre tempi.
Trovo di grande interesse ciò che fa Simone Ghelli, una resistenza letteraria allo spirito del tempo attuale, una resistenza al raccontare i fatti col piattume del presente, una resistenza che ci regala la complessità del nostro vivere, così umiliato da tanti romanzi scialbi e da tanta pubblicità ignobile.
Con Simone riflettiamo: “ Due persone si conoscono, ma si conoscevano già e non si conoscevano ancora” così nel L’Ineluttabile, il racconto di un incontro che ho imparato a memoria.
Giorgio, il protagonista, si trova a Siena, deve partecipare ad una “Procedura di valutazione comparativa per la copertura di un posto di ruolo di ricercatore universitario L-Art/06” dopo aver preso la laurea, sempre a Siena anni prima, dieci anni prima.
Incontra al Civico 90 di via Pantaneto un uomo sui cinquanta anni o più e tramite il libro, un libro, quel libro, e su una sciarpa regalata, in un locale che non è più il Pozzo, si svolge il dialogo sul cinema e sulla vita.
La nostra vita.
Tutto ciò che va dove non deve andare, tutto ciò che avviene senza il nostro volere, tutto ciò che noi siamo senza saperlo.
L’immagine- movimento di Gilles Deleuze è il libro che Giorgio ha in mano, un libro sul cinema, su “l’eterno ritorno come resurrezione, nuovo dono del nuovo, del possibile” di Bunuel e poi andiamo indietro nel 1996 l’anno in cui Giorgio inizia a seguire storia e critica del cinema.
Si era poi laureato nel 1999.
Negli anni la città è cambiata, Siena è cambiata ed anche l’ex Ospedale Psichiatrico è stato trasformato in una sede universitaria.  Mi immergo nel racconto, vedo gli occhi verde smeraldo dell’altro uomo, lo sento dire con me, con Artaud, che si scrive per uscire dall’inferno.
Chi è l’interlocutore di Giorgio? Un professore universitario?
Così parrebbe visto che conosce bene il professore di filosofia politica di Giorgio.
Giorgio non lo saprà mai e terrà in regalo quella sciarpa.  Non lo incontrerà più malgrado lui ritorni, speranzoso, più volte in quel locale.
Nemmeno noi lo sappiamo ma io lo conosco, lui è diventato una mia presenza in casa, perché esiste “un tempo interno all’avvenimento, che è fatto della simultaneità di tre presenti“:    < Secondo la formula di Sant’Agostino, esiste un presente del futuro, un presente del presente, un presente del passato, tutti implicati nell’avvenimento, simultanei> ed è per questo che nulla è come sembra.
La realtà poi è implacabile.
Ci prova, in un’altro racconto, il professore Iuri Bettalli a far scrivere ai suoi alunni cosa sia la realtà e la realtà sarà terribile, contro di lui nemica.
Compito di realtà.
Leggiamo i racconti di Simone Ghelli, con l’emozione di aver a che fare con uno scrittore vero, con un autore che rispetta la straordinaria storia che è la vita, un autore che ci regala con Lucrezio, la forza vivida dell’animo.
Leggiamolo e conserveremo ancora con noi la bellezza della letteratura.

Ippolita Luzzo

 

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

http://trollipp.blogspot.com/2019/12/simone-ghelli-la-vita-moltiplicata.html

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Gianluca Massimini su Lankenauta

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Gianluca Massimini su Lankenauta

LA VITA MOLTIPLICATA

Se l’opera precedente di Simone Ghelli (Non risponde mai nessuno, Miraggi edizioni, 2017) ci aveva proposto delle piccole e grandi vicende del quotidiano narrate con un alto grado di realtà, in cui spesso i protagonisti, con le loro insicurezze e fragilità, stentavano a trovare una relazione empatica, motivo esemplificato dalle loro “chiamate mai risposte”, questa nuova raccolta di racconti dal titolo La vita moltiplicata (Miraggi edizioni, 2019, pp. 128) sembra costituirne allora il giusto complemento, il degno contraltare, poiché esibisce al suo interno, con la perizia ormai consueta all’autore, dieci titoli nei quali la potenza dell’onirico e dello psichico è declinata ed esaltata al massimo grado.

Se c’è infatti un tema ricorrente che accomuna la maggior parte dei personaggi del libro, a fronte di un vita che li nega o che non corrisponde alle loro attese, è proprio il moltiplicarsi delle immagini, dei quadri e delle scene della loro vita interiore, che si succedono, si sovrappongono, scorrono come davanti allo schermo di un cinematografo, restituendoci in modo chiaro il bisogno che questi sentono di rifugiarsi nel sogno ad occhi aperti o in mondi più pensati che vissuti, quasi sempre nel tentativo di salvarsi da coloro che li circondano e che non li comprendono, da una realtà misera e triste che non amano, con cui non sono in sintonia, e che pertanto li delude, li nausea (come ne L’ultima vetrina o in Compito di realtà), realtà che nel corso delle pagine può incarnarsi esemplarmente nella città de La grande divoratrice, in cui si dissolve ogni possibile segno di umanità, di gioia, col suo livellare gli uomini a pure macchine la cui vita è regolata dalla fretta e dall’alienazione (“Tutto intorno la città gorgogliava, era un intricato apparato digerente all’interno del quale si stava estinguendo un’altra infinitesima parte della loro vita.“) o che assurge addirittura a mostro orrifico in La sentinella di ferro, probabilmente il più bel racconto dalla raccolta (assieme a Oboe d’amore), in cui apprendiamo del povero Ermete che ha passato diciannove lunghi anni “fra gli ingranaggi della grande macchina, che inghiottiva carbon fossile e sputava ghisa, e lanciava fiamme e sbuffava fumo e si mangiava anche le persone, non solo i loro corpi, ma anche le loro vite.

Protagonista di Oboe d’amore, per esempio, è un giovane perso dietro le proprie fantasie (le sue tre muse, le chiama lui), che rincorre affannosamente, con slanci eroici più pensati che fattivi, a cui si oppone una madre poco comprensiva che vorrebbe riportarlo coi piedi per terra. Più che l’elemento diegetico, che lascerebbe credere inizialmente in un piccolo racconto di formazione (quanto pure al resoconto di una dolce alterità dal sapore schizoide), qui (come altrove, nella raccolta) l’aspetto che più colpisce è il ritmo, vero cardine che regge il tutto (il tema del racconto del resto è la musica), frutto di un lavoro egregio condotto sulla lingua e sulla sintassi, sulla musicalità della frase, sull’alto valore timbrico della parola che ne viene così esaltata mediante una modulazione non comune affinché riverberi come uno strumento.

Ma è in Vera che afferriamo ancor meglio la valenza dei versi di Lucrezio posti in epigrafe (tratti dal primo elogio di Epicuro, l’eroe “incivilitore” che per primo si oppose a un mondo chiuso dalle tenebre dell’ignoranza e della superstizione, di cui apprendiamo il viaggio oltre i confini del mondo per portare la verità agli uomini), quando l’evasione dai limiti tangibili e razionali del quotidiano è tradotta da una prosa plastica e ardita, che straborda dall’ordinario, che si presta a soluzioni inusuali, nella quale il confine tra lo psichico e l’onirico è molto labile, e che esibisce a tal motivo un’aura che sfiora il poetico.

Sempre il sogno pare essere l’ultima via d’uscita che può salvare il Marcello de L’ultima vetrina dall’incomprensione generale, da una delusione profonda che pare avere ereditato dal padre, con il quale condivide anche la necessità di sprofondare nelle vite inventate dei libri, che contengono più verità delle vite vere (“entrambi avevano passato la vita a pretendere troppo, ad aspettarsi che gli altri sentissero quella stessa necessità di sprofondare nelle vite inventate, che capissero quanta più verità contenessero quelle che non le vite vere da cui prendevano spunto“), situazione molto simile a quella proposta in La somma dei secondi e dei sogni, in cui il protagonista evapora totalmente dietro ai manoscritti che giungono alla casa editrice per la quale lavora, fermamente convinto che la realtà dell’arte sia più vera del reale, e a quella di Piano inclinato, in cui solo col sogno ad occhi aperti Ascanio Ascarelli riesce a sottrarsi ad una vita monotona e ripetitiva.

Anche Compito di realtà, in una sorta di continuità ideale, ci propone un contesto ostile nel quale il protagonista stenta a trovare il proprio posto, ancor più quando si tratta di scendere a patti con l’ipocrisia generale, cosa che in fondo potrebbe anche giovargli, situazione che spinge il lettore, alla fine, a chiedersi se non siano proprio gli adulti, gli insegnanti, a sbagliare quando vorrebbero sentirsi dire dagli alunni solo quello che essi stessi pensano, rinunciando ad indagare il vero.

In questa molteplicità di fughe o di ribellioni tentate, fa eccezione però il Giovanni de La scatola nera che, di fronte al futuro funesto che sembra attendere la nostra specie (“Per me è tutto un caos indistinguibile. Ho disimparato persino a vedere, figuriamoci ad ascoltare.“), va in giro a far campionamenti, registrando suoni e rumori per poi rimodularli a piacimento, con grande estro artistico, per farne sinfonie, un modus vivendi in cui si potrebbe leggere la volontà di riscattare la realtà stessa.

Si rimane pertanto, a lettura conclusa, con la sensazione di avere tra le mani un libro ben pensato, che si propone come un’idea compiuta, con un’identità di stile, in cui Ghelli esibisce senza dubbio una valida padronanza dei mezzi e un’alta consapevolezza di quello che sta facendo (a dispetto di tante scritture banali odierne, tutte uguali) e in cui, come nella cronofotografia di Muybridge evocata ne L’ineluttabile, attraverso la scrittura e l’ampio spazio dato alla vita interiore dei suoi personaggi, mette assieme più momenti, più immagini delle storie di ognuno per cogliere la vita umana nel suo movimento, nel suo farsi, cercando con questo di aiutarci a trovare un senso, una direzione, quanto meno ad arrivare ad una presa di coscienza.

QUI L’ARTICOLO ORGINALE:

La vita moltiplicata