Le scrittrici ceche e l’editoria italiana. Con un’intervista a Laura Angeloni e Alessandro De Vito, su »Anderground rivista»

Le scrittrici ceche e l’editoria italiana. Con un’intervista a Laura Angeloni e Alessandro De Vito, su »Anderground rivista»

Nella letteratura ceca del Novecento si possono riscontrare, a partire da inizio secolo, un ingente numero di voci femminili. Nonostante questa presenza massiccia e riconosciuta di intellettuali donne, l’editoria italiana sembra non darvi spazio in traduzione, tranne in riferimento a pochissimi casi. Il primo riguarda Božena Němcová, un simbolo della letteratura ceca ottocentesca, le cui opere tradotte sono ormai oggi introvabili sul mercato editoriale, sia le raccolte di fiabe sia il romanzo Babička (“La nonna”, 1855 – tradotto nel 1925 e nel 1951). L’altro caso è invece quello di Věra Linhartová, consacrata da Einaudi in Interanalisi del fluito prossimo e nuovamente pubblicata all’interno della Collana Praghese E/O con Ritratti carnivori. L’ultimo caso, particolarmente curioso, è invece quello dell’opera provocatoria di Jana Černá, che fa la sua comparsa nel panorama editoriale italiano con In culo oggi no, pubblicato per i Tascabili di E/O, e con Vita di Milena, edito prima da Garzanti e, successivamente, da Forum Edizioni con il titolo Lettere a Milena.

Nonostante questi esempi, moltissime opere non sono mai state tradotte in Italia, sebbene le intellettuali e le scrittrici ceche abbiano giocato un ruolo di primaria importanza, soprattutto nel secondo Novecento. Questo impegno femminile si nota sia all’interno della cosiddetta cultura ufficiale, sia nell’ambito della letteratura samizdat durante gli anni del regime.

Riguardo al tentativo di valorizzare l’impegno e l’importanza delle donne ceche, è bene segnalare il lavoro svolto dal Centro Ceco di Milano a partire dalla fine dello scorso anno con il progetto “Eroine ceche”, una mostra online in cui si tracciano i profili di alcune donne che hanno segnato la storia del Paese, come ad esempio Milada Horaková, Olga Hovlová o Vera Čáslavská. Un’altra iniziativa del Centro Ceco di Milano, che si lega nello specifico all’editoria, è rappresentata dalle interviste fatte ad alcune scrittrici ceche edite in Italia all’interno del progetto “La cultura in quarantena”, recuperabili sul canale YouTube del centro.

Nonostante questo interesse, sono molti i nomi che al lettore italiano restano sconosciuti come ad esempio quello della scrittrice e protofemminista Marie Majerová o autrici come Daniela Fischerová, Alexandra Berková o ancora lo sperimentalismo della poetessa Naděžda Slunská. Tra le intellettuali ceche del Novecento poco conosciute in Italia è importante ricordare anche il nome di Bronislava Volková, poetessa e autrice della monografia A Feminist’s Semiotic Odyssey Through Czech Literature.

L’attenzione nei confronti delle autrici ceche sembra essersi risvegliata negli ultimi anni, grazie soprattutto all’interesse manifestato da alcune case editrici. In particolare, la casa editrice Miraggi Edizioni ha pubblicato diversi romanzi all’interno della collana NováVlna. Nel 2018 sono infatti comparse la traduzione de Il lago (2016) di Bianca Bellová e quella de La corsa indiana (1990), di Tereza Boučková, entrambe a cura di Laura Angeloni. Nel 2020 sono stati editi altri tre titoli. Il primo Con Bata nella giungla dell’autrice Markéta Pilátová, già conosciuta con la traduzione del 2018 di In qualcosa dovremmo pur somigliarci, edita da Atmosphere Libri. Il secondo, Mona, ha ripresentato nuovamente la scrittrice Bianca Bellová ai lettori italiani. A fine anno è stato infine pubblicato La teoria della stranezza, il primo romanzo della scrittrice di Pavla Horáková. Nel febbraio del 2021, la collana ha proseguito con la pubblicazione de I tedeschi di Jakuba Katalpa, romanzo tradotto da Alessandro De Vito.

Keller Editore, che ha sottolineato il suo interesse per il panorama letterario ceco con la traduzione di autori come Jáchym Topol o Josef Pánek, ha pubblicato due romanzi appartenenti alla produzione, invece, femminile. Il primo, edito nel 2012, è I soldi di Hitler di Radka Denemarková, autrice conosciuta al pubblico italiano grazie anche alla pubblicazione di Contributo alla storia della gioia, edito nel 2018 dalla casa editrice Roma Sovera. Il 2017 è stato l’anno de L’eredità delle dee di Kateřina Tučková, testo pluripremiato in terra ceca e che ha riscosso un enorme successo anche in Italia, dove è stato definito come uno dei romanzi cechi più interessanti degli ultimi anni. Questo non ha, però, rappresentato il debutto dell’autrice in Italia, nel 2011 era infatti già stata pubblicata l’opera L’espulsione di Gerta Schnirch per la casa editrice Nikita.

Fondamentale è stata anche la pubblicazione delle opere di Sylvie Richterová, importantissima scrittrice e saggista, di cui sono stati editi due romanzi, ovvero Topografia da parte di E/O nel 1986 e Che ogni cosa trovi il suo posto, pubblicato nel 2018 da Mimesis Edizioni. Nel 2014 è stata pubblicata l’opera Sparire dell’autrice Petra Soukupová per la casa editrice Atmosphere Libri. Infine, il 2020 si è concluso con la pubblicazione del poliziesco La casa al civico 6 della scrittrice Nela Rywiková, presso Edizioni le Assassine.


Per l’occasione si è deciso di intervistare la traduttrice Laura Angeloni e Alessandro De Vito, a sua volta traduttore ed editore presso la casa editrice Miraggi Edizioni, dove cura la collana NováVlna.

Intervista a Laura Angeloni

MM: Innanzitutto, le vorrei chiedere, come introduzione alla nostra breve intervista, il significato che ha per lei l’attività di traduzione e come ha deciso di occuparsi, nello specifico, della traduzione di opere ceche.

LA: Innanzitutto un aneddoto: riordinando le mie vecchie cose, non molto tempo fa, ho ritrovato un quaderno che riporta la data: Agosto 1986. È la mia traduzione, rudimentale e scritta a mano, di un romanzo inglese. Era l’estate dopo il terzo liceo, ero appena tornata da un viaggio studio a Londra con una valigia bella piena di libri in inglese, e a quanto pare avevo deciso di trascorrere il mio tempo libero traducendo. Un vecchio cimelio che mi ha commossa, perché mi ha dato misura di quanto la passione per la traduzione fosse già dentro di me. La risposta è qui: la traduzione per me è una passione che con studio e tenacia sono riuscita a trasformare in lavoro. Mi piace lavorare con le parole. Mi hanno sempre affascinato le lingue, mi hanno sempre affascinato i libri, e sono sempre stata attratta dalla scrittura, la traduzione mi appaga in tutti questi diversi aspetti. Per quanto riguarda il ceco, sono consapevole di quanto ciò possa suonare sentimentale, ma mi sono innamorata di Praga. È nato tutto da lì, ho studiato il ceco, ho cominciato a interessarmi della cultura e della letteratura ceca.

MM: Con la seconda domanda entriamo nello specifico dell’emergere delle voci femminili ceche all’interno dell’editoria italiana. Nel corso del Novecento sono state pochissime le autrici ceche tradotte, si possono davvero contare sulle dita di una mano. Come spiegherebbe lei questo aspetto? E, soprattutto, come spiegherebbe, invece, questo aumento di interesse negli ultimi anni?

LA: Credo che dobbiamo soprattutto guardare all’esplosione e al grande successo che hanno avuto le voci femminili nell’editoria ceca, parte tutto da lì. In Italia sono state tradotte tutte autrici che hanno avuto grande fortuna in patria. E la mia sensazione è che negli ultimi anni si traduca in generale più letteratura ceca, rispetto ad anni fa. Miraggi edizioni ha una collana ceca dedicata, Keller ha un occhio molto attento verso la cultura ceca, e sporadicamente se ne interessano anche altri editori. Nell’ottica in cui si cerca di portare in Italia tutta la letteratura di valore che viene pubblicata in Repubblica Ceca, mi pare normale che proporzionalmente siano aumentate anche le voci femminili tradotte. Guardando nello specifico ciò che ho tradotto io personalmente, autori e autrici più o meno si equivalgono.

MM: Lei ha tradotto diverse autrici e diversi autori, anche molto importanti a livello internazionale come nel caso de La perlina sul fondo di Bohumil Hrabal (Miraggi, 2020) o Una persona sensibile di Jáchym Topol. Naturalmente ogni autrice e ogni autore manifestano la propria cifra stilistica. Se dovesse però rivolgere uno sguardo d’insieme alle due produzioni, potrebbe identificare degli elementi discordanti, sul piano dello stile oppure su quello della sensibilità?

LA: Ci ho provato, a pensare a degli elementi discordanti, ma non ci riesco. Posso trovare degli elementi discordanti, sia sul piano dello stile che su quello della sensibilità, tra singoli autori o autrici, ma non mi pare il caso di generalizzare. Forse le scrittrici donne hanno una naturale predisposizione per i personaggi femminili e viceversa, come del resto è normale che sia. Penso per esempio a Tereza Boučková, che ha scritto dei libri autobiografici in cui per forza di cose prevale una sorta di sensibilità femminile, anche quelli di Kateřina Tučková possono forse dirsi “libri di donne”. Ma poi penso al protagonista de Il Lago, per esempio, che è un ragazzo, e Bianca Bellová lo tratteggia con grande sensibilità e profondità, a mio avviso. Allo stesso modo mi ha sempre colpito, per esempio, il modo in cui Jáchym Topol riesce a descrivere i personaggi femminili, in Lavoro Notturno, e anche nel suo ultimo lavoro Una persona sensibile. Le donne del romanzo Lettera in scrittura cuneiforme di Tomáš Změskal sono di grande spessore. È una questione che si affronta spesso, se esistano una “letteratura maschile” e una “letteratura femminile”, ma a me sembra azzardato parlare di stili e sensibilità distinte dall’appartenenza a uno o all’altro genere.

MM: Un’autrice che ha avuto molta risonanza, non solo in Repubblica Ceca ma anche oltre i confini nazionali, è Bianca Bellová, di cui lei per Miraggi Edizioni ha tradotto Il lago e Mona. Potrebbe descriverci alcune caratteristiche della prosa di Bellová che ha riscontrato a livello di lettura e di traduzione?

LA: Bianca Bellová ha uno stile molto definito, consapevole, di una precisione quasi chirurgica, va dritta per la sua strada e non si perde mai. Poche pennellate e ti fa entrare in un mondo, concreto ed emotivo. La sua scrittura si mette a servizio della storia, Quando la traduco, ho la sensazione di percorrere un sentiero ben segnato, seguo le sue orme con fiducia, mi basta mettermi in ascolto. La mia fortuna con lei è anche che ha una voce che mi è molto familiare, un tono e un ritmo che mi risuona dentro fin da subito. Non faccio fatica a trovare la cifra stilistica.

MM: Tra le altre autrici tradotte, vorrebbe parlarci di una o più scrittrici ceche in particolare che lei apprezza particolarmente o le cui opere manifestano degli aspetti particolarmente interessanti?

LA: Adoro Tereza Boučková per il suo coraggio di parlare di sé e della sua vita senza l’artificio letterario di nascondersi dietro a dei personaggi fittizi, per la sua schiettezza, per quel suo scavarsi a fondo senza paura di mostrarsi o rivelarsi. Per la sua capacità di rinascere e ricrearsi anche nelle situazioni più critiche e difficili. Si dà alla scrittura con tutta se stessa, tanto che le sue grida, così come la sua risata cristallina, sembrano materializzarsi anche tra le sue parole scritte.

Petra Hůlová, almeno nei libri che ho tradotto, è una scrittrice molto eclettica che ha la grande capacità di creare mondi altri, di immedesimarsi in personaggi molto diversi da lei (rimarrà sempre un mistero per me la precisione con cui, a soli venticinque anni, è riuscita a descrivere il rapporto di una donna di sessant’anni col suo corpo). Sa vestire diversi stili a seconda delle storie che racconta, delle voci che interpreta, si immerge, inventa, sperimenta, gioca con le parole, e tradurla è stata una bellissima e divertentissima sfida. Mio grande desiderio è che i suoi libri, ormai introvabili, vengano ripubblicati da una casa editrice che possa dar loro il giusto valore.

Marketa Pilatová porta alla letteratura la sua esperienza multiculturale, l’aver vissuto mondi diversi, i suoi libri sono ponti tra paesi quasi agli antipodi tra loro per cultura, storia, mentalità. Mi pare che nel mondo odierno di ponti ci sia un bisogno estremo. Mi piacerebbe molto continuare a tradurla.


Intervista ad Alessandro De Vito

MM: La casa editrice Miraggi, in particolare con la collana Nová Vlna, sta facendo un lavoro davvero prezioso nella diffusione della letteratura ceca in Italia. Proprio all’interno di questa collana sono state tradotti numerosi romanzi di scrittrici ceche, ad esempio La corsa indiana di Tereza Boučková, oggetto di uno degli articoli dell’area di boemistica all’interno di questo numero. Si può dire che ci sia proprio l’intenzione di far scoprire una produzione che in passato è sempre rimasta un po’ in “sordina”?

AD: Oppure, che è in sordina oggi, o entrambe le cose. Da un lato infatti ci sono stati momenti storici in cui gli autori cecoslovacchi venivano tradotti e avevano un certo successo di pubblico, i sempreverdi Hašek, Čapek, Neruda o naturalmente Hrabal, senza arrivare al successo unico di Kundera, da un altro, passata l’epoca del post-sessantotto e dell’attenzione per i dissidenti, sono seguiti decenni di pubblicazioni più sporadiche, soprattutto a opera di case editrici medio-piccole. Io stesso, interessato alla letteratura ceca per via delle mie origini, mi sono mosso in questa direzione innanzitutto con l’idea di recuperare alcuni libri pubblicati decenni fa e ormai reperibili solo nei mercatini dell’antiquariato. Il mio chiodo fisso è stato per anni Il bruciacadaveri di Fuks, anche perché conoscevo meglio il periodo degli anni Sessanta proprio per via del cinema, della Nouvelle Vague ceca su cui ho svolto la tesi di laurea, la Nová Vlna a cui ci è piaciuto intitolare la collana. Poi, tornando a leggere in ceco, mi si è aperto un mondo di autori contemporanei, in grande prevalenza autrici, che era altrettanto un peccato non fossero disponibili per il lettore italiano. Ci sono perle, per dirla con Hrabal, che non si potevano lasciare sul fondo. Bianca Bellová e la sua forza espressiva unica, Tereza Boučková con la sua forza interiore femminile, Jan Balabán con la sua visione acuta e dolorosa del mondo, ma farei un torto agli altri: sono tutti molto particolari, brillanti, spesso così diversi da quello che si trova nei nostri libri.

MM: C’è l’intenzione di procedere su questa linea, nel senso di continuare a tradurre autrici meno note al pubblico italiano, a differenza invece di grandi nomi come quello di Bohumil Hrabal o Ladislav Fuks? Se dovesse fare un nome di un’autrice ancora da “scoprire” nell’editoria italiana, quale sarebbe?

AD: Le linee, di nuove proposte e di recupero dei classici, resteranno entrambe parallele e vitali. Come si fa a non voler proporre, ancora oggi nel 2021, degli Hrabal o dei Čapek ancora inediti? E ci sono tante opere di altri grandissimi autori ancora mai tradotte, o neglette da decenni. E lo stesso si può dire per gli autori, ehm, autrici, contemporanee. Senza farne per forza una questione di genere, dato che credo essenzialmente che la bontà o meno di un libro non dipenda dal sesso di chi l’ha scritto, stiamo comunque riflettendo a fondo sulla particolarità che in un paese europeo – ignoro se accada anche altrove, ma sarebbe interessante verificarlo – la stragrande maggioranza degli autori quotati dalla critica e che hanno successo presso il pubblico, siano autrici. È una diversità che una volta di più può portare, credo, punti di vista differenti, inusuali, moderni, cose che probabilmente abbiamo bisogno di leggere, o farci dire in faccia, da quell’angolo di rifrazione. Non è facile scegliere un nome, ognuna ha punti di forza notevoli, nella densità o nella leggerezza, nella profondità o nella sapiente danza delle parole per comunicare cose spesso tremende, diversamente non accettabili senza quella capacità artistica (questo è il caso di Tereza Boučková, di cui sta per andare in stampa L’anno del gallo). Personalmente mi sono divertito molto a leggere La teoria della stranezza di Pavla Horáková, che pure può sembrare un romanzo più leggero. Io amo Bianca Bellová, che scrive le sue pagine come se le passasse al tornio e alla fresa, togliendo tutto ciò che non serve, ma anche Markéta Pilátová con la sua capacità affabulatrice, una scrittrice che riuscirebbe a romanzare anche una lista di nomi di mobili Ikea. Mi è piaciuto molto l’ultimo libro che ho tradotto, I tedeschi, di Jakuba Katalpa, un vero grande romanzo, per pathos, personaggi ed epica, in un’architettura molto ben congegnata. E pubblicheremo quello che forse sarà il nostro più grande sforzo anche produttivo di sempre, il romanzo-mondo Hodiny z olova (“Ore di piombo”) di Radka Denemarková, scrittrice e intellettuale che vorrei conoscessero tutti, e che resterà a lungo con la sua opera. Quando hai per le mani un libro così, che affronta di petto il destino del mondo in questo nostro tempo, e lo fa in 800 pagine parlando da vicino della Cina nel cd “secolo cinese”, per averci vissuto a lungo fino a farsene espellere, puoi dire almeno di averci provato fino in fondo.

MM: Com’è la ricezione generale da parte dei lettori? Personalmente, noto un crescente interesse per la letteratura ceca, soprattutto noi tra giovani, sia che ci occupiamo di studiare queste realtà “altre” sia in quanto semplici lettori.

AD: Noi siamo una piccola casa editrice, per cui non è mai facile rispondere a questa domanda, o almeno, la risposta non può essere di ordine generale perché ancora molti non ci conoscono, non conoscono la collana e quel che facciamo. Tuttavia ci seguono con interesse ormai in tanti, in quella che tecnicamente resta una “nicchia” editoriale: anche quando un ceco è pubblicato da una grande casa editrice in questo momento non supera certi numeri. Speriamo di contribuire con le nostre pubblicazioni a innescare qualche scintilla in più, non si sa mai da dove nasca poi il fuoco più grande. Ecco, non ne potevo più che, frequentando da anni letterati e addetti ai lavori, citando la letteratura ceca si fosse rimasti solo a Švejk e ai Racconti di Malá Strana

MM: L’ultimo libro pubblicato da Miraggi all’interno di Nová Vlna è I tedeschi. Una geografia della perdita, di Jakuba Katalpa. Essendone lei il traduttore, le vorrei chiedere a cosa si deve la scelta di tradurre proprio questo romanzo.

AD: È un libro che avevo adocchiato da tempo, mi interessa sempre molto la storia, il Novecento, e quell’immenso mistero che ha visto nascere in una delle nazioni più civili e culturalmente avanzate del mondo intero un orrendo buco nero politico e sociale, il nazismo. Naturalmente gli storici hanno molte risposte, ma trovo che siano i romanzi, spesso, a fornire chiavi di lettura interessanti per svelare, o tentare di capire, le motivazioni più intime e umane dell’uomo semplice, di chi si è trovato a vivere in quel tempo senza rendersene conto fino in fondo. Mi interessa per capire, per la memoria e perché spero che non si ripeta, anche se in altre parti del mondo l’orrore spunta fuori ogni momento senza sosta da sempre, connaturato com’è all’animo umano. Ma mi interessa soprattutto l’indagine dell’uomo, delle sue motivazioni, delle sue reazioni a determinati stimoli e reazioni. Cos’è il coraggio? E la vigliaccheria? E, alla fine di tutto, cos’è il Giusto e il suo contrario? Spesso i romanzi rispondono senza rispondere, ma riescono a mettere in luce alcuni aspetti archetipici. Nei Tedeschi non a caso i personaggi sono estremamente ben delineati, reali e epici, credibili ma anche incarnazione di modi di essere. Come nella tragedia antica, come nell’epica. O più semplicemente (o forse non è affatto più semplice) come nelle favole, quelle raccontate dalla protagonista Klara e citate in più punti nella narrazione, dove il Bene e il Male hanno volti e voci e un corpo. Ma sono favole “reali”, in cui il Bene e il Male coesistono nella stessa persona, con l’effetto che nessuno è del tutto colpevole, e nessuno o quasi è innocente. Come nel mondo reale, insomma. L’ho trovato un romanzo potente, che parla del passato, ma dice tanto a noi, oggi. E dato che parla anche della dolorosa questione della forzata espulsione dei tedeschi dalla Cecoslovacchia dopo il 1945, mi interessava un possibile parallelo con la fuga degli italiani da Istria e Dalmazia. La questione dei “vinti”, e di come si fanno i conti con il passato.

MM: Sempre in quanto traduttore, quali sono le peculiarità o le difficoltà nel tradurre una prosa come quella di Jakuba Katalpa o Markéta Pilátová?

AD: Ogni autore ha le sue particolarità, ci sono autori oggettivamente molto difficili, basti pensare a Hrabal e alla sua funambolica e folle inventiva linguistica, che può mettere in difficoltà nell’interpretazione gli stessi lettori cechi, e altri più leggibili, o meno ambigui. I Tedeschi, tra i romanzi della Katalpa, è probabilmente quello con una prosa più piana, al servizio della narrazione, della vicenda e, come si diceva prima, dei personaggi. Ho imparato a non definire mai “facile” una traduzione, una volta colto l’aspetto linguistico, mai scontato, bisogna trovare la “voce” del romanzo, adattare l’italiano, o meglio trovare l’italiano giusto da usare per quel libro, per quell’autore. Lessico, registri, armonia, utilità, efficacia. Serve entrare nel testo, andare a trovare i protagonisti, “sentirli” come uomini e donne, per poterli “riscrivere” in un’altra lingua. E non è stato facile “sentire” tutte le donne protagoniste del romanzo, e la loro intensa sofferenza di donne e madri. E occorre uscire da sé, dalla propria visione, dalle proprie idiosincrasie, anche se ovviamente ogni traduttore darà inevitabilmente la propria impronta indelebile alla propria versione. Una cosa che faccio sempre è rileggere almeno una volta a voce alta (o sussurrando) tutto il libro. Credo che sia l’unico modo per “ascoltare” la lingua, capire se scorre, se si inceppa qualcosa. Per non far inciampare il lettore inutilmente, per fargli un buon servizio. Poi certo, se una cosa è complessa lo resta, e il lettore deve fare la sua fatica.

Il romanzo di Markéta Pilátová Con Bata nella giungla è anch’esso un romanzo di tipo storico, la sua prosa è stata definita affine al “realismo magico”, forse per l’influenza della sua lunga permanenza in Sud America. Si concede dei lirismi, delle variazioni, delle parti di racconto oniriche, dei personaggi che tornano come fantasmi in epoche successive alla loro morte, fa parlare persino la fabbrica di scarpe stessa! È stata un’avventura molto coinvolgente anche quella traduzione (ma forse qualcuna non lo è?), che inaspettatamente mi ha riportato anche a memorie famigliari e infantili. Infatti, parlando della famiglia Baťa, l’autrice utilizza spesso alcune espressioni o piccoli brani in dialetto della Haná o dello Slovácko, in Sud Moravia, zona di origine del “calzolaio che ha messo le scarpe al mondo”. Non è stato facile, ma era il dialetto che parlava mio nonno, originario di quelle parti, già un po’ col sapore dello slovacco: non si sa mai cosa può venire utile per tradurre. Che è un mestiere bellissimo, tradurre. Un artigianato finissimo e molto complesso perché fatto di molteplici aspetti, tecnici e di gusto, in cui si mette dentro la grammatica e decenni di letture altre, soprattutto italiane, palestra della lingua, dove spesso si cammina con finta noncuranza (e molti patemi) su un filo incerto. Sopra, sotto e di fianco, mille insidie. Ma alla fine, di solito si arriva con una grande soddisfazione.

Sitografia:

Interviste a cura di Simona Calboli e Alessandro Catalano nel progetto “La cultura in quarantena” del Centro Ceco di Milano: https://www.youtube.com/watch?v=6n1t9X2KOuA&list=PL_O6Wfo6mSGTLzFtKzFWR4bpa0LFxm24i

Mostra online “Le eroine ceche”: https://milano.czechcentres.cz/it/programma/ceske-hrdinky-vyznamne-zeny-ceske-historie-a-soucasnosti

Traduzioni italiane segnalate dal Czech Lit: https://www.czechlit.cz/cz/languages/italstina/?page=1/

QUI l’articolo originale: https://www.andergraundrivista.com/2021/05/10/le-scrittrici-ceche-e-leditoria-italiana-con-unintervista-a-laura-angeloni-e-alessandro-de-vito/

Laura Angeloni con «Io sono l’abisso» di Lucie Faulerová intervistata da «Posto delle parole»

Laura Angeloni con «Io sono l’abisso» di Lucie Faulerová intervistata da «Posto delle parole»

di Livio Partiti

Passato e presente, realtà e fantasia, compongono un mosaico di continui chiaroscuri, e lo stile è un’architettura perfetta: tenero, poetico, ironico, di straordinaria purezza.

Ascolta l’intervista alla tradutrice:

QUI l’articolo originale: https://ilpostodelleparole.it/libri/laura-angeloni-io-sono-labisso/

QUI il canale YouTube di «Il Posto delle Parole»: https://www.youtube.com/@ipdp

La perlina sul fondo – recensione di Stefania Medda su Mangialibri

La perlina sul fondo – recensione di Stefania Medda su Mangialibri

L’istruttore smonta dalla Java 250 a doppio manubrio, si accende una sigaretta e guarda il suo allievo in maniera truce. Non ci siamo proprio, pensa, mentre il ragazzo tenta in modo frenetico di mettere in folle la moto: è stato un vero disastro, soprattutto in prossimità degli incroci. Quand’è che si deciderà seriamente a studiare il codice della strada? L’esame è alle porte, e sono ormai nove mesi che frequenta le lezioni. Il pomeriggio, al rientro dal lavoro, sarebbe un buon momento per dedicarsi allo studio, azzarda l’istruttore. Ma tra il pisolino, la lettura di un libro mozzafiato da cui non riesce a staccarsi – Il bruto dottor Quartz e la leggiadra Zanoni, è fortissimo, se vuole glielo porto! – e le uscite con la sua ragazza super accessoriata (che tutti gli invidiano), il giovanotto non avanza neanche un briciolo di tempo. Rimane la notte, ma a quel punto è così carico di adrenalina, che il miglior modo per rilassarsi è accendere la radio: Bing Crosby, Eartha Kitt, Luis Armstrong… musica che graffia il cuore! Ad ogni modo, il ragazzo promette che l’esame verrà superato con successo. Ora tocca ad Hrabal: lui è un uomo attempato, già pratico di moto, suo padre le ha guidate per una vita intera. Viscosità, compressione, pistoni, camera a scoppio. Hrabal sa tutto, ma l’istruttore, sebbene compiaciuto, lo mette in guardia: “Si accorgerà presto che gli zucconi, completamente a digiuno di teoria, guidano da dio, mentre lei prima o poi farà una bella caduta”… Quasi mezzanotte. All’acciaieria, dopo aver predisposto tutto per il sistema di colata, Kudla, Jenda e il caposquadra si concedono una pausa. Jenda si appresta a mangiare le sue fette di pane imburrato, e Kudla, tolti dalla sua borsa forbici e macchinetta, è pronto a tagliare i capelli al caposquadra. Accomodatosi su una cassa di cromo vuota, l’uomo si raccomanda: niente taglio drastico, che poi rischia di sentire freddo in testa. Kudla opta per un taglio all’americana, più corto ai lati, mentre Jenda asserisce a gran voce che mai nessuno toccherà i suoi capelli tranne Theodor Olivieri, il francese che lavora al “Parrucchiere dei giovani”. Quello sì che è un grande: un vero maestro, un uomo elegante, e che fa esattamente ciò che gli viene richiesto. Nel raccontare Jenda si toglie il berretto e china la testa, così da mostrare le morbide onde fattegli da Olivieri. Non l’avesse mai fatto: Kudla ne approfitta per soffiare via dal rasoio i capelli del caposquadra, che finiscono dritti a farcire il pane di Jenda. Panino che tra l’altro, si è riempito di polvere poco prima, quando Kudla, togliendo da sotto il sedere la cassetta a Jenda, lo ha fatto ruzzolare a terra. Per Jenda va così, ormai è abituato ad essere lo zimbello: ridono sul suo modo di approcciare le donne, sul suo piedino piccolissimo, sui suoi capelli da fraticello. E quando qualcuno in acciaieria urla, Jenda è sempre convinto che ce l’abbiano con lui… Il ragazzo entra in birreria e ordina trenta sigarette e una birra. Nessuno sa chi è: è un bel giovane, indossa un maglione di lana pesante, di quelli fatti ai ferri; al collo ha annodato un fazzoletto rosso e la sua chioma corvina splende. Da quando è entrato è chino su un libro, niente lo distoglie dalle pagine, nemmeno il chiasso degli avventori esaltati, che sostano al locale prima di dirigersi allo stadio a vedere la partita. Lo guardano tutti con disprezzo, convinti che stia leggendo un libro pornografico o qualche storia sanguinaria. Che gioventù, eh? Intanto il volto del giovane assorto passa invariabilmente dalle lacrime alle risa. Qualcuno gli dà pure della femminuccia, ma il giovane non se ne cura, non interrompe la lettura nemmeno quando va in bagno…

Ironica, grottesca, vivace, anticonformista: la narrativa di Bohumil Harabal (Brno 1914 – Praga 1997) è spiazzante, e difficilmente confinabile in un preciso canone letterario. Sproloqui da taverna che dicono tutto e il contrario di tutto, monologhi sfiancanti che apparentemente non portano da nessuna parte, ma che danno vita a storielle esilaranti; è interessante vedere come racconti banali sul calcio, il sesso o i motori riescano a raggiungere una dimensione quasi epica attraverso le bocche di personaggi stralunati. Sono i pábitel: i cosiddetti sbruffoni, gli straparloni tanto cari ad Hrabal, protagonisti indiscussi di tutte le sue opere. “Quando non scrivo, è allora che scrivo di più. Quando passeggio, quando cammino, quando faccio un monologo interiore, quando assorbo non solo quello che sento e che è interessante ma anche ciò che matura dentro di me… E allora di nuovo esco e vado in giro per le birrerie, è solo nella taverna che i discorsi si muovono”. Assiduo frequentatore delle taverne praghesi, uomo dai mille mestieri – “Ho escogitato per me stesso la teoria del destino artificiale, mi sono andato a cacciare lì dove non avrei mai voluto essere. Io, timido, offrivo assicurazioni sulla vita, vendevo cosmetici, lavoravo nelle miniere, e continuavo a scrivere e scrivere” – Hrabal si è nutrito della vita vera e della creatività della gente comune, riportando sulla carta il linguaggio della strada, fatto di slang ed espressioni dialettali. “Ho reso umani i pettegolezzi da ballatoio e il vituperio e l’ingiuria, ho lanciato in situazioni estreme lo splendore dei chiacchieroni e il loro sollazzarsi, che talvolta finisce alla polizia o all’ospedale”. Una scrittura colorita, palpitante, priva di orpelli letterari a lungo riposta nel cassetto, imbrigliata nel grigio conformismo del regime socialista a partire dal 1948 (anno in cui viene bloccata, a spese dell’autore, la pubblicazione delle sue prime poesie) poi liberata con forza prorompente, proprio con La perlina sul fondo, nel 1963, anno in cui la cultura riprende a respirare e le opere di Hrabal cominciano finalmente a circolare alla luce del sole: l’autore ha quasi cinquant’anni, e per quindici di essi ha vissuto, narrativamente parlando, come un clandestino. Fortissime, le reazioni di alcuni lettori di fronte all’originalità delle sue opere: gli hanno dato del maniaco, del pervertito, del maiale, invocando addirittura la forca. Una narrativa osteggiata da più parti, a ben vedere, un successo arrivato in tarda età, ma che non ha impedito a Bohumil Harabal di diventare a pieno titolo uno dei più acclamati scrittori cechi del Novecento. Diverse sue opere sono state trasposte a teatro e al cinema, e gli è stato intitolato persino un asteroide (Hrabal, n°4112). Un consiglio ai lettori: un approccio troppo leggero ai racconti può essere destabilizzante, necessitano di totale concentrazione per essere davvero apprezzati. Infine, da leggere anche le preziose note al testo della traduttrice, Laura Angeloni, e l’accurata postfazione di Alessandro Catalano, curatore della raccolta: l’esperienza sarà completa.

QUI l’articolo originale:

https://www.mangialibri.com/la-perlina-sul-fondo

La teoria della stranezza – recensione su Alias

La teoria della stranezza – recensione su Alias

I suoi sogni si trasformano in brevetti

Praga, giorni nostri, Istituto di Antropologia Interdisciplinare. Ada, ricercatrice, lavora destreggiandosi tra colleghi che si arrovellano intorno ad annose teorie e direttori afflitti da disturbi psicosomatici. Unica, vera amica lì dentro è Valeria, tormentata dalla misteriosa scomparsa del figlio alcuni anni prima. Nella vita privata e nel suo piccolo appartamento, Ada legge, ascolta musica, accetta disimpegnate avventure amorose, ospita il fratello un po’ scapestrato, si prende cura di sé in bagno, dove ha appeso il poster con la fondamentale Scala di Bristol. Saltuariamente va a dormire dall’ex fidanzato, ma a puro scopo di lucro. I sogni di Ada, infatti, sono forieri di idee che possono trasformarsi in marchingegni da brevettare. La decisione di far luce sul mistero del figlio di Valeria coincide con la comparsa di alcuni eventi, tra loro collegati da quella che sembra una legge universale. Ada inizia allora a elaborare la sua «Teoria della Stranezza». Horáková fa della sua protagonista una giovane donna capace di ironia e autoironia, di riflettere in profondità su sé stessa e la città che la circonda, di accettare la resa finale come esempio dei suoi e dei nostri umani limiti. Quattrocento pagine che meritano di essere lette, 24 euro.

L’articolo originale:

Bianca Bellová intervistata da Valentina Di Cesare su Formicaleone

Bianca Bellová intervistata da Valentina Di Cesare su Formicaleone

Raccontare le prospettive che normalmente non vediamo

Quando ho contattato Bianca Bellová per chiederle di rilasciarmi un’intervista ero, come mi capita spesso dinanzi ad autori che ho molto apprezzato, in forte soggezione. Ho scelto con cura la forma e le parole, ho cesellato ogni vocabolo e poi ho inviato tutto. Bianca ha accettato di rispondere alle mie domande il giorno stesso, con un’energia e una gentilezza non comuni. Non sempre gli scrittori acconsentono a simili proposte, specie se queste giungono dalla redazione di una piccola rivista online nata da pochi mesi che non può vantare alcun blasonato nome o traguardo. Bianca Bellová è, fortunatamente per lei, fuori da questi meccanismi limitanti e non poteva non essere così: a rivelarlo è, del resto, ciò che scrive. 

L’autrice ceca di origini bulgare, nata a Praga nel 1970, è una delle personalità letterarie più autentiche e apprezzate nel suo paese ma non solo. Il suo esordio letterario, avvenuto nel 2009, è solo la prima tappa di un crescendo sempre più meritato che l’ha vista nel 2016, con il suo romanzo “Il lago” tradotto in quindici lingue, vincitrice di due importanti riconoscimenti: il Premio Unione Europea per la Letteratura e il Premio Nazionale Magnesia Litera. È proprio con “Il lago”,edito da Miraggi nel 2018 all’interno della preziosa collana NováVlna diretta da Alessandro De Vito, che il pubblico di casa nostra ha potuto finalmente conoscere questa voce inconfondibile e potente, in grado di raccontare e scandagliare i sentimenti umani, – dai più cupi e dolorosi sino ai più teneri – con un coraggio e una profondità illuminanti. Tradotta in italiano da Laura Angeloni, l’opera di Bianca Bellová sa sempre rivelare ogni nascondiglio umano con una chiarezza e una chiaroveggenza che in tanta letteratura contemporanea è molto difficile rintracciare. Nel 2020 è stato sempre l’editore Miraggi a pubblicare l’edizione italiana del suo nuovo romanzo intitolato”Mona” e di nuovo l’attenzione di molti lettori italiani si è rivolta alla sua opera. Le prospettive umane che Bianca Bellová sa indagare e far emergere sono gli angoli più nascosti del quotidiano, quelli che più difficilmente vogliamo affrontare. Non solo la ricerca delle verità esteriori sembrano stare alla base dei suoi romanzi. A esse si affianca un’altra esplorazione parallela: quella del proprio inconscio, dei simboli che ogni individuo si costruisce per sopravvivere, quegli stessi simboli che un bel giorno vanno conosciuti davvero, affrontati, esperiti, accettati e se necessario abbattuti. 

Nami, il personaggio protagonista de “Il lago”, ha una personalità molto complessa. Com’è stato entrare in empatia con uno come lui?
«Nami è un ragazzo sfortunato che cresce senza gli appigli che tutti diamo per scontati – genitori, casa, comodità – e ha una mappa molto approssimativa grazie alla quale navigare nella vita. Devo dire che non auguro a nessuno di essere nei panni dei miei personaggi. Di solito hanno sfide incredibilmente difficili da superare. E sì, mi dispiace per loro, ma si deve andare molto in profondità nella disperazione o persino nel trauma per iniziare a crescere. E poi ci sono sempre altri umani sulla strada per aiutarti a portare la tua croce».

“Il lago” è un romanzo di violenza e compassione, un romanzo di dolore ma anche di resistenza. Non ci sono giudizi, c’è solo l’umanità. Credi che la letteratura possa aiutarci ad osservare meglio il mondo e a capire gli altri più a fondo?
«Ebbene sì, lo hai detto. È il lavoro delle persone che scrivono, fanno musica, dipingono, ballano o fanno qualsiasi altra cosa per mostrare agli altri il mondo da prospettive che normalmente non vediamo».

È da poco uscito anche in Italia e sempre per Miraggi il tuo nuovo romanzo “Mona” . Quali sono i temi più ricorrenti della tua scrittura e perché?
«Quando guardo indietro, ci sono davvero temi che si ripetono: di solito si tratta di un individuo con una situazione familiare difficile, quasi sempre danneggiata. Ecco, il protagonista spesso deve far fronte a situazioni che mettono in discussione la sua integrità o conformità morale. Deve affilare bene gli attrezzi, insomma. 
Inoltre, mi rendo conto che per qualche motivo non ancora ben chiaro a me stessa, c’è un tema assai ricorrente che è quello dell’acqua. È forse quasi un personaggio.
Questo vale per i miei testi più lunghi; quando si tratta di racconti, i temi variano molto, dai thriller noir, all’ironia situazionale a gravi e importanti drammi storici.
Non saprei dirti perché accade tutto ciò, io penso sempre che sono i temi a scegliere me , e non il contrario. Mi sento più come se fossi l’intermediario, una sorta di strumento o semplicemente una macchina da scrivere in grado di  catturare idee e immagini che non sono interamente mie, sono solo là fuori, in attesa di essere colte, plasmate e narrate».

Hai debuttato nel 2009 e da allora hai avuto una buona risposta dal pubblico. La tua scrittura è maturata in questi anni? Cosa è cambiato nel tuo modo di fare letteratura e cosa invece è rimasto intatto? 
«Credo che ci sia stato un certo sviluppo nella mia scrittura. Dopotutto, ognuno di noi dovrebbe essere in grado migliorare le proprie abilità se le mette in atto costantemente, che tu sia un falegname o un pastaio è lo stesso. Probabilmente con il passare del tempo arrivo più rapidamente ai miei obiettivi, e per obiettivi intendo le storie da raccontare. Certo, mi capita ancora iniziare a scrivere un testo che non porta da nessuna parte ma ora lo riconosco molto più velocemente e non provo più a rianimare una pagina se non respira. Rispetto a prima , la mia prosa attuale è molto più semplice o più pura di una volta, provo maggiormente a  concentrarmi sulla storia e a dare al lettore più spazio per usare la propria immaginazione. Sono anche più cauta, cerco di evitare di causare troppi “traumi” al lettore, a meno che non sia davvero richiesto dalla storia. Sono sempre stata abbastanza realista, ad esempio nella rappresentazione del sesso o delle scene violente, non tralasciavo nulla, ero davvero precisa ma ora uso sempre meno scelte di questo tipo. Spero che quando sarò anziana la mia scrittura si ridurrà al minimo. Ecco, mi vedo già, con i miei capelli bianchi a pronunciare solo brevissime sentenze o piccole frasi. Possibilmente un haiku».

Pensi che si possa essere scrittori senza provare emozioni forti?
«Questa domanda è interessante, ma non so forse uno psicologo potrebbe rispondere meglio. Conosco un gran numero di autori di successo, alcuni estremamente introversi, altri estremamente estroversi, ma come e se provano emozioni forti possono saperlo solo loro. Certo, credo che serva una dose elevata di empatia e capacità di osservazione estrema per scrivere testi che siano coinvolgenti per gli altri.
L’estrema sensibilità e l’estrema creatività spesso vanno di pari passo: questa sensibilità è insieme una benedizione e una maledizione per chi la possiede.  La percezione del mondo per la persona sensibile è molto più densa e colorata, ricca di sfaccettature e visioni, ma la sua vita quotidiana può essere davvero dura; è più reattiva agli stimoli e questo può riversarsi anche non positivamente sul suo sistema immunitario. Questo tipo di persona si stanca facilmente, ha reazioni molto più emotive rispetto al normale e spesso non è in grado di gestire il rumore o la folla per periodi di tempo lunghi. È come se dovesse in qualche modo pagare questo dono che possiede la sensibilità appunto, ma dall’altra parte ha il privilegio di averla e usarla per gli altri, per stimolare e nutrire la loro immaginazione».
 

La scrittrice italiana Elsa Morante ha detto: “Una delle possibili definizioni giuste di scrittore per me, sarebbe anche la seguente: una persona a cui importa tutto ciò che accade, tranne la letteratura”. Sei d’accordo? Qual è la tua definizione di scrittore?
«Sono assolutamente d’accordo. Non mi interessa la letteratura, mi interessano solo i buoni libri e le storie buone.  Ed è molto importante essere intuitivo e “prensile” su tutto ciò che accade: chi scrive dovrebbe essere sempre pronto a trarre ispirazione da qualsiasi angolo, anche il più improbabile della conoscenza umana, che si tratti di uno stralcio di  poesia cinese del IV secolo o di notizie di microcriminalità su un giornale di provincia. Per me lo scrittore è qualcuno che scrive per vivere ma qui ci inerpichiamo in un percorso pericoloso e complesso. 
Puoi essere super bravo – come Ian McEwan, diciamo, o Stephen King – ma puoi anche essere condizionato da bisogni materiali e quindi decidere di abbandonare la tua autenticità di autore solo per scrivere ciò che sai che lettori apprezzeranno (e compreranno). Questo è un vicolo cieco troppo pericoloso per l’esplorazione e la creatività e non vorrei mai percorrerlo. Non voglio dipendere finanziariamente dalla mia scrittura, voglio solo ottenere piacere e soddisfazione dal processo di scrittura».


Bianca Bellová è una scrittrice ceca di origini bulgare. Nata a Praga nel 1970, ha scritto una serie di libri: Sentimentální Román (Sentimental Novel, 2009), Mrtvý muž (Dead Man, 2011), Celý den se nic nestane (Non accade niente tutto il giorno, 2013) e Jezero (The Lake, 2016).  Con Jezero ha vinto il maggior Premio Letterario della Repubblica Ceca, il Magnesia Litera e inoltre nel 2016 si è aggiudicata il Premio dell’Unione Europe per la letteratura. Jezero è stato tradotto in numerose lingue tra cui l’italiano con il titolo Il lago per le edizioni Miraggi (traduzione di Laura Agnoloni). Il 3 giugno 2020, sempre per Miraggi Edizioni è uscito Mona, il suo ultimo romanzo.

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Mona – recensione di Giulia Sardi su La Balena consiglia

Mona – recensione di Giulia Sardi su La Balena consiglia

In uno stato che non trova coordinate reali, in un tempo indeterminato della seconda metà del Novecento, una dittatura di stampo religioso sta prendendo sempre più piede. La piccola Mona racconta al suo bue Mun dei morti inquieti che cadono lontano da casa. A salvarli ci sono i trasportatori, che con la loro magia conducono i cadaveri ai villaggi cui appartengono. La stessa storia Mona adulta, ormai donna matura, la racconterà nell’ospedale in cui presta servizio come infermiera a un suo paziente, Adam, un ragazzo tornato da poco dalla guerra con un’infezione che i medici cercano di fermare amputandogli sempre più una gamba. Bianca Bellová sviluppa nella sua scrittura evocativa e densa un romanzo che si dirama in tre linee narrative: la cornice dell’ospedale e i ricordi di Mona e del giovane soldato. Mona racconta il suo passato, Adam sogna il proprio e, in questo scavo nel tempo, i due personaggi si innamorano. Mona è un romanzo breve e potentissimo che ci ricorda che la letteratura è prima di tutto magia che salva le anime inquiete. La sua autrice, Bianca Bellová, è una tra le più importanti scrittrici della narrativa ceca contemporanea, vincitrice con il suo romanzo precedente, Il lago, del Premio Unione Europea per la Letteratura e di quello nazionale Magnesia Litera. In Italia è pubblicata da Miraggi, per la collana NovaVlná, nella splendida traduzione di Laura Angeloni.

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https://www.labalenabianca.com/2020/12/23/la-balena-consiglia-i-libri-per-natale/?utm_campaign=shareaholic&utm_medium=twitter&utm_source=socialnetwork
LA TEORIA DELLA STRANEZZA – recensione di Giorgia Gatti su I libri di Mompracem

LA TEORIA DELLA STRANEZZA – recensione di Giorgia Gatti su I libri di Mompracem

Così imprevedibile, così strana la vita

Miraggi Edizioni arricchisce la collana Novavlna con La teoria della stranezza di Pavla Horáková, solo all’apparenza leggero, che ha la forma di una narrazione che scorre fresca e con la giusta dose di ironia.

In realtà, tra le pagine si attraversa la città di Praga e ci sofferma sulla sua storia recente, invogliati dalle riflessioni di Ada, la protagonista, che di fronte agli edifici, ai parchi, ai quartieri, ne coglie i tratti risultanti dagli avvenimenti.

Sono passati appena centocinquant’anni da quando, proprio qui, i condannati sottoposti a tortura morivano di scorbuto, settant’anni da quando dal cielo cadevano le bombe, appena trent’anni da quando Havel veniva pedinato, proprio su queta strada.

Ada è una ricercatrice in Antropologia, il suo sguardo sul mondo allarga l’applicazione del metodo scientifico di ricerca al quotidiano, dando luogo a prospettive inaspettate anche ad una semplice passeggiata nel parco:

In anni di osservazione ho capito una cosa. I barboni sono per la maggior parte dotati di una chioma foltissima. È evidente. Ho preso in esame talmente tanti esemplari che posso escludere qualsiasi pregiudizio o errore. I pelati sono meno dell’un per cento. Ma cose dedurne? Le dure condizioni di vita preservano in qualche modo dalla perdita dei capelli? Si tratta di una sorta di irsutismo secondario attribuibile alla vita all’aperto? O c’è una qualche relazione tra il gene della folta chioma e l’incapacità di adattamento alle regole sociali?

Da queste riflessioni disseminate per il romanzo, frequenti nei pensieri di Ada, si compone il quadro più affascinante di questa teoria: la possibilità che l’apparente caos sia il risultato di una catena di cause e conseguenze scientificamente tracciabile. E di come, all’opposto, la realtà dimostri che una catena di cause e conseguenze tracciabili può comunque dare luogo ad eventi totalmente inaspettati. Arrivando a far aderire questa stranezza anche alla Storia.

I copricapi si trascinano dietro una vera carica esplosiva. […] 

Pare che non sia un caso che nella civiltà occidentale le guerre siano passate di moda proprionel periodo in cui gli uomini hanno deposto i cappelli e le donne hanno smesso di annodarsi  foulard e indossare gli articoli creati dalle modiste. Come se coprire la testa causi un onnubilamento della mente, forse blocca i chackra principali, impedendo l’uso del buonsenso.

La stranezza, appunto, l’imprevedibile corso di una vita, che sembra però prevedibile a posteriori, seguendo le tracce al contrario, sapendole forse intercettare nel momento presente, eppure, l’esistenza dimostra che ogni vita rimane così, imprevedibile.

Ada osserva che forse anche i miracoli o i fatti soprannaturali, inspiegabili, sono solo eventi di cui non riusciamo a trovare le tracce a ritroso, per ora.

Ciononostante, ciò che rende la vita degna è proprio questa sua stranezza e il fatto che raramente ci fermiamo ad individuare gli anelli di quella catena che formano il percorso alle nostre spalle, e che già indicano, forse, il percorso che abbiamo davanti. 

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LA TEORIA DELLA STRANEZZA – recensione di Andrea Cabassi su Giuditta legge

LA TEORIA DELLA STRANEZZA – recensione di Andrea Cabassi su Giuditta legge

La strana Praga della fisica quantistica

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Recensione al libro di Pavla Horàkovà

È indubbio che la letteratura ceca contemporanea goda di ottima salute. Ne siamo informati grazie al meritevole lavoro della casa editrice Miraggi che ha pubblicato e pubblica testi di grande valore. E, sempre grazie a Miraggi, sappiamo che, nella letteratura ceca, gode di ottima salute anche la scrittura al femminile. Basti qui citare i libri di autrici ceche usciti negli ultimi anni per la casa editrice torinese: “Il lago” (2018) e “Mona” (2020) di Bianca Bellovà; “La corsa indiana” (2017) di Tereza Bouckovà; “Bata nella giungla” (2020) di Markéta Pilàtova.

Infine “La teoria della stranezza” (2020) di Pavla Horàkovà  che prenderò, qui, in esame, tradotto da Laura Angeloni, una delle migliori traduttrici dal ceco che abbiamo in Italia.

Pavla Horàkovà è scrittrice, traduttrice, giornalista letteraria e radiofonica. Ha pubblicato una trilogia poliziesca per ragazzi; per quattro anni (dal 2014 al 2018) ha lavorato a un progetto radiofonico che ha avuto come soggetto l’esperienza dei soldati cechi al fronte durante la prima guerra mondiale, progetto da cui sono nati due libri; nel 2018 ha pubblicato la novella “Johana” insieme a Alena Scheinostovà e Zuzana Dostàlovà. Nel 2019, proprio con “La teoria della stranezza” ha vinto il prestigioso premio letterario Magnesia Litera.

Ma di cosa parla “La teoria della stranezza”? Forse è un frusto gioco di parole dire che “La teoria della stranezza” è un libro strano. Comunque non è solo un libro strano. È, soprattutto, un libro molto bello, coinvolgente, che ci induce a riflettere sui limiti della nostra razionalità.

Ada, la narratrice, è una ricercatrice dell’Istituto  di Antropologia Interdisciplinare impegnata in una “strana” ricerca che ha per titolo: “La percezione soggettiva della compatibilità visiva reciproca”. Inoltre è impegnata nell’indagine sulla misteriosa scomparsa del figlio della sua collega Valerie Hauserovà, Kaspar Hauser. È durante questa ricerca che Ada si imbatte in strani fenomeni, in strani eventi che sembrano tutti connessi tra loro e che le fanno concepire una teoria che chiamerà “teoria della stranezza”. In questa sua ricerca Ada utilizzerà la fisica quantistica, la teoria olografica dell’Universo, si interrogherà sul paradosso dei gatti di Schrodinger.

Come si può capire da queste note sulla trama, la fisica quantistica assume un ruolo centrale nel libro. Possiamo allora domandarci, per allargare il discorso, come mai in questo periodo storico escano tanto romanzi che hanno come centro la fisica quantistica e escano tanti libri di divulgazione su di essa. Forse, dopo tanti strumenti teorici che abbiamo utilizzato per decifrare il mondo in cui abitiamo e che si sono rivelati inadeguati, come per fare un esempio, una certa vulgata marxista, siamo alla ricerca di un teoria che ci spieghi il funzionamento dell’universo. Abbiamo l’illusione che la fisica quantistica sia il grimaldello che ci serve allo scopo. Basterebbe, però, leggere i bellissimi libri di divulgazione sulla fisica quantistica di Carlo Rovelli per renderci conto che, sì, la fisica ci può dare la chiave per interpretare alcuni fatti e eventi del mondo che ci circonda, ma che è proprio la fisica quantistica a farci capire come il mondo sia molto più complesso di quanto noi non lo percepiamo.   

Ada lavora nello “strano” Istituto di Antropologia insieme ad alcune colleghe e colleghi: Valerie di cui ho già parlato; Ivan Mrazek, che la intrattiene spesso con le sue “teorie edilizie”; Patrick Svàcek, conformista e arrivista; Honza Mikes che, dopo una bouffée delirante a sfondo paranoico verrà ricoverato in ospedale psichiatrico; la sorella di Mikes, Hana; Ales Drik, strano sperimentatore sul sonno che ha come cavia proprio Ada; il direttore Jirecek.

Tutti loro rappresentano una Praga che non è più quella della Primavera, che non è più quella della Rivoluzione di Velluto. È una Praga dove dominano gli arrivisti, dove domina gente senza più ideali, dove la cosa più importante è arricchirsi, fare carriera. È la Praga del neoliberismo imperante  in cui Ada fatica a trovare una sua dimensione. Non è un caso che, qua e là nel libro, ci siano riferimenti alla storia recente della Cecoslovacchia, poi Repubblica Ceca,  e alla psicologia dei cechi, un po’ come accade nel bel romanzo di Jaroslav Rudis “Grand Hotel” (Miraggi. 2019).  Ne è un esempio la riflessione della madre di Ada che Ada è andata a trovare alla radio praghese per cui lavora, sulla provincialità dei cechi:

“Secondo mia madre la provincialità riflette l’atmosfera generale del nostro paese. Quando eravamo parte dell’impero austro-ungarico l’élite ceca, spesso bilingue e forte di un’educazione internazionale conseguita nelle metropoli europee, interagiva con una grande fetta di Europa e aveva una mente aperta. Ai tempi della Cecoslovacchia, pre e post bellica, operavano ancora persone che avevano viaggiato e si sentivano a loro agio in diverse culture. E pur puntando a un pubblico che ormai spaziava soltanto dalla città di As a quella di Cierna, manteneva comunque uno sguardo periferico anche sul resto del mondo. Con lo smembramento della Cecoslovacchia l’ambito si è ulteriormente ristretto. Come se per dispetto ci fossimo raggomitolati in noi stessi. Nemmeno l’ingresso nella Comunità Europea ha cambiato questa prospettiva” (Pag. 39).

Un altro esempio lo troviamo in un altro brano del libro. Qui Ada riflette sul carattere dei cechi:

“Noi oggi non abbiamo nemici esterni, ma il nostro continuo bisogno che qualcosa accada ci porta a intraprendere guerre nei nostri rapporti personali, oppure contro noi stessi.

È una cosa che i cechi possiedono all’ennesima potenza. Sono talmente tanti anni che non combattono armi in mano contro gli occupanti, che l’impulso frustrato di salvaguardare la propria vita e i propri averi si è trasformato in una malattia autoimmune. Non potendosi più opporre a un invasore esterno, hanno rivolto i loro meccanismi difensivi contro se stessi. Informatori, collaboratori, miliziani, agenti segreti, normalizzatori, Svàcek di ogni tipo. L’energia che dovrebbe essere rivolta verso l’esterno si è riversata all’interno” (Pag. 194-95).

Ho introdotto più sopra la madre di Ada, In effetti, nel libro, ci sono altri personaggi importanti oltre a quelli che gravitano intorno all’Istituto. C’è il padre di Ada, Karel, che avrà un ruolo fondamentale nell’economia del romanzo; c’è la sorella di Ada, Sylvia, primogenita e viziata; c’è il fratello Gregor, persona fuori dagli schemi; c’è Max, amico di Gregor, che avrà una storia con Ada; c’è il cane Bubàk.

Infine c’è Kaspar Hauser. Chi è Kaspar Hauser ne “La teoria della stranezza”? È un personaggio enigmatico, figlio di Valerie, che era stata a scuola con la mamma di Ada. È un personaggio enigmatico che si volatilizza, scompare, ricompare. Incerta la sua identità, non si sa bene cosa egli voglia dalla vita, almeno questo è quanto affermano quelli che lo hanno conosciuto. Pavla Horàkovà non ha scelto questo nome a caso. Sul vero Kaspar Hauser sono stati scritti moltissimi libri e articoli, è stato girato un bellissimo film da Werner Herzog nel 1974. “L’enigma di Kaspar Hauser”. Quando leggiamo non possiamo prescindere da tutto ciò e neppure dai brevi riferimenti storici sul misterioso padre di Kaspar Hauser che la stessa Horàkovà ci dà, per ritornare, poi, al figlio di Valerie:

“Riguardo al padre del trovatello di Norimberga del 1828 furono fatti diversi nomi di nobili, compreso Napoleone Bonaparte. Con chi ha avuti Valerie quel figlio illegittimo? Aveva forse una discendenza aristocratica da parte di padre?” (Pag. 56-57).

Che rapporto intratterrà Ada con Kaspar Hauser? Al lettore scoprirlo.

Questo ulteriore riferimento ad Ada  mi permette di aprire una nuova parentesi: qual è la relazione tra autrice e narratrice? Ada narra in prima persona. A volte pare di cogliere che l’autrice sia la portavoce di Ada, altre che ci sia uno spazio in cui si differenziano e che Ada vada in piena autonomia, quell’Ada così insicura nelle relazioni d’amore, quell’Ada che va da una psicologa, Nora, anche lei un po’ “strana” e non propriamente ortodossa in quanto a setting, quell’Ada spesso depressa, quell’Ada che si scontra con fenomeni strani cha paiono tutti accadere nel distretto di Sumperk, quell’Ada che si rivolge alla fisica quantistica perché la realtà sembra sfuggirle da ogni parte. Pensando a Mikes, ricoverato in ospedale psichiatrico,  guarda un video in cui un certo Dott. Quantum parla della fisica quantistica. La conclusione a cui la ricercatrice arriva è questa:

“L’elettrone si comporta in maniera diversa solo per il fatto di essere osservato. Quando avviene l’osservazione la funzione d’onda collassa. Da ciò si potrebbe dedurre che noi creiamo la realtà attraverso l’osservazione… E così mi convinco  di aver causato io stessa le cose spiacevoli che mi sono accadute nella vita, col semplice atto di osservarle. Tutto esiste e allo stesso tempo non esiste, finché non lo guardo. E ciò dipende dalla mia convinzione pregressa sulla sua esistenza o inesistenza” (Pag. 149-50).

Nella bellissima e drammatica scena della visita al collega Mikes nell’ospedale psichiatrico di Bohnice, fatta con Valerie, confessa alla collega la sua paura di uscire di senno:

“Rifletto sulle situazioni in cui si sovrappongono due possibilità; su tutti i bivi che offrono una soluzione binaria. Dove mi avrebbe portato la vita, se quella volta avessi detto sì, o al contrario no. Al pensiero di tutte quelle biforcazioni mi si annebbia la vista. Confesso a Valerie che ho spesso la sensazione di uscire fuori di senno” (Pag. 255).

Il luogo in cui Ada cerca di chiarirsi, di dipanare i misteri, di svelare eventuali segreti di famiglia è la casa del padre. C’è una pagina in cui cita implicitamente Kant e che ha un afflato lirico che, per certi versi, è struggente. Mentre si legge risuonano in noi le pagine dell’ultimo libro di Carlo Rovelli “Helgoland” (Adelphi. 2020) sulla fisica quantistica, un libro in cui Rovelli sostiene che tutto è connesso, tutto è relazione, che la fisica quantistica è una scienza molto difficile e complessa.

Ancora una volta Ada arriva alla conclusione che tutto è connesso, che tutto è relazione, che noi vediamo le cose partendo dallo spazio e dal tempo in cui osserviamo. E struggente è il riferimento al cane Bubak e a quale potrebbe essere il suo punto di vista in questo mondo fatto di connessioni e relazionalità. Mi si scusi la lunga citazione, ma ne vale la pena:

“Guardo le stelle, poi un camion che passa, e per quanto ci pensi non riesco a decidere quale dei due sia il miracolo più grande. Quale dei due è il più assurdo, il meno probabile, quello che contrasta maggiormente il senso comune, quello che si oppone di più alla logica, qual è la sfrontatezza e impudenza più sfacciata? Il cielo stellato sopra di me, o il Mercedes di fianco a me? Assurda è l’esistenza in quanto tale. Dal punto di vista energetico sarebbe molto meno impegnativo se non esistesse niente. E questo rende la vita ancora più assurda. Tanto inverosimile è l’esistenza di Bubàk, un ammasso di amminoacidi, tanto lo è la mia, un raggruppamento degli stessi composti organici, e in più dotata di coscienza. Gli elementi che sono nei nostri corpi, come quelli utilizzati per la produzione e la trazione dei camion, derivano dall’esplosione delle stesse stelle che baluginano sopra di noi, solo molto più vecchie. Ogni fredda pietra porta con sé un potenziale di rinascita e in fin dei conti di autoconsapevolezza. La materia dispersa torna a unirsi, a ridisporsi, a prendere coscienza di sé, l’universo osserva se stesso  con quadrilioni di occhi, medita su se stesso con miliardi di menti, denomina la realtà in migliaia di lingue, si contempla, inghiotte e rigurgita. Cosa sarà in gradi di vedere Bubàk, seduto accanto a me a osservare concentrato la strada, col suo sguardo bianco e nero? Quali angoli dell’esistenza percepisce, a me invisibili, con quelle orecchie perennemente tese, le narici che vibrano e soffiano? Esistono sincronicamente tantissimi mondi, quelli che ciascuna creatura vede, ognuna per suo conto. E’ questo che si intende per realtà parallele, o universi paralleli? Tutti gli universi che esistono in contemporanea nella consapevolezza degli esseri in grado di percepirli? E cosa risulterebbe se da tutte queste immagini se ne formasse una sola? Quale grandiosa composizione? Forse nessuna, forse tutto collasserebbe sotto il suo peso” (Pag. 285-86).

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MONA – recensione di Mariangela Lando su Tropismi

MONA – recensione di Mariangela Lando su Tropismi

Di donne e testimonianza. Mona di Bianca Bellová

Fin dalle prime righe di Mona, il romanzo verità di Bianca Bellová per Miraggi Edizioni, ci si addentra in una vicenda in cui gli eventi, così drammaticamente raccontati nella loro crudezza, rivelano un mondo dove le donne vengono considerate esseri non solo secondari, ma spregevoli.

Ma la protagonista non si arrende. 

Mona è un’infermiera che accoglie, cura e si dedica con grande passione alla cura dei feriti di guerra e deve essere abituata a gestire le situazioni tragiche cui versano i malati che giungono al campo. L’ambiente è estremamente maschilista. Parecchi uomini la disprezzano. Le persone arrivano in ospedale con ferite profonde, dolori lancinanti, amputazioni e necessitano di qualsiasi cosa. Anche Adam, un giovane gravemente ferito, ha bisogno di cure specifiche perché ha una brutta ferita alla gamba.

Sullo sfondo di una guerra segnata dalla dittatura, guerra che irrompe con violenza inaudita nella vita della comunità e di ogni singola persona, ecco dipanarsi il percorso di crescita di questa donna. Certi ricordi tornano vivi nella memoria e rivelano una verità dominata dalla brutalità umana.

Quello che maggiormente colpisce in questa storia è l’aspetto orripilante dell’altra faccia femminile: sono le stesse “anziane”, o altre donne a compiere gli atti più crudeli nei confronti del loro stesso sesso. Sono loro infatti a decidere le mutilazioni genitali delle bambine; sono sempre loro a rispedire in casa le mogli picchiate a sangue dai mariti.

E sono state sempre loro ad aver insultato e ad aver deprecato la stessa protagonista rinchiudendola quando “loro” ritenevano fosse stato doveroso.

 È questa la tragedia nella tragedia. L’orrore perpetuato da chi dovrebbe stare dalla tua parte per difenderti.

La nonna non le badava. Quattro donne la tenevano bloccata sopra una semplice branda sul pavimento, mentre la nonna guardava dalla porta. “Aspettiamo che tornino mamma e papà! Loro non lo permetterebbero! Loro non vorrebbero!” La nonna scosse la testa. Tocca a te stupida!

Mona è sposata con un uomo che per fortuna non la picchia. Si considera fortunata ad aver avuto pochi figli e ad aver in qualche modo allontanato l’interesse sessuale del marito per lei. Un appagamento che per queste donne è negato da sempre. La tradizione impone e vuole altro e non servono molti commenti a riguardo.

È un brav’uomo Kamil. Non la picchia, non la prende mai con la forza. La loda sempre per quello che cucina, anche quando non è un granché. Il marito di Mara la sua amica, l’ha trascinata per i capelli e le ha dato un calcio in pancia così forte da farle uscire gli escrementi. Invece il marito di Azum ha ingaggiato un drogato per strada perché le buttasse addosso dell’acido in cambio di una dose.

Uno spiraglio di luce arriva dalla scuola per infermiere in città, ancora in funzione nonostante i bombardamenti. In ospedale si devono prendere le decisioni più difficili e risolutive per la sopravvivenza dei giovani.  Il sovraffollamento  nelle corsie e nei vari reparti diventa, man mano che si prosegue nella lettura, molto estenuante. La donna dedica molte ore ad un lavoro che ama. Ed è proprio in corsia che si instaura un rapporto particolare tra lei ed Adam: l’uomo deve subire un’altra delicata operazione.

Se è possibile, voglio vivere.

È ciò che vogliamo tutti. Ciò che desideriamo da sempre. Abbiamo il diritto di essere felici. Dovremmo esserlo senza mettere al primo posto sempre gli altri. Ma per Mona non è così. La tradizione culturale, le brutalità umane, il contesto sociale, le guerre, le devastazioni, le mancanze materiali hanno sempre fatto in modo che a prevalere per lei sia qualcos’altro.

Per lei, in tutte le crepe della vita, l’unica luce emergente è quella per Adam; il solo vederlo le dà sollievo, il dato di fatto che lui sia ancora lì le rischiara la giornata al punto che riesce a lavorare incessantemente per ore e quando sedendosi con un bicchiere di granita alla frutta qualcuno le rivolge la parola disprezzandola con un

Perché non sei accompagnata donna immorale?

lei con grande fermezza e coraggio riesce a rispondere: Scusi, mi fa ombra.

Molte volte abbiamo letto e sentito racconti simili. Leggendo questa storia non solo ci si affeziona alla protagonista, ma la sensazione netta è che esista un’altra via.

Rimaniamo inorriditi di fronte a questi eventi così vicino a noi. Ed è anche per questo che serve la letteratura come testimonianza. Non possiamo solo  commentare. È arrivato il momento che le parole diventino azioni concrete. I romanzi come questi non rappresentano per chi legge solo evasione.

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MONA – recensione di Anja Widmann su Exlibris20

MONA – recensione di Anja Widmann su Exlibris20

Se raccontare è mettere ordine nella vita e trovarne un senso, i personaggi di Mona ricorrono alla narrazione per prendere possesso della propria storia, mettere in fila gli accadimenti che ne hanno delineato l’andamento e riappropriarsi così della propria identità.

Come nel precedente Il Lago, Bianca Bellová ambienta questo romanzo in un tempo e in un luogo non definiti: un paese senza nome straziato dalla guerra e vessato da una dittatura religiosa. 

Tutto, qui dove siamo, sembra fatto per cancellare l’identità personale: le grida di soldati senza nome, l’annullamento delle donne, che possono uscire solo accompagnate e con il capo coperto, la miseria di chi ha perso tutto, le sparizioni politiche e una natura inclemente che si riprende ciò che l’uomo cerca di strapparle.

Mona lavora come infermiera nel reparto militare dell’ospedale ed è qui che incontra Adam, poco più che un ragazzo, che oscilla tra la veglia e il delirio della febbre in cui continua a sprofondare in seguito all’amputazione della gamba. Gli analgesici scarseggiano, gli antibiotici sembrano non avere alcun effetto; Mona ha solo le parole per tentare di trattenere Adam nel mondo dei vivi e le usa come le ha già usate per tenere attaccata alla vita sé stessa in passato, ricorrendo al potere salvifico della narrazione. 

Adam si attacca alla voce di Mona come all’eco di una felicità scomparsa per sempre: la mamma francese di Mona così simile alla sua nonna che, avendo lavorato per una famiglia francese, aveva ricreato per la sua famiglia, con il duro lavoro, lo stesso clima elegante che il ragazzo ritrova nei ricordi di Mona, a tenere lontano lo squallore e la distruzione che avrebbero divorato la città. 

Bianca Bellovà non risparmia nulla di questa crudezza nelle sue pagine, ci mostra gli arti cauterizzati e le bende che trasudano sangue, le discariche dei rifiuti medici saccheggiate dai derelitti della città, l’ospedale che cede all’incuria, il silenzio rassegnato della gente comune.

C’è un cielo immenso che pesa sopra le teste dei personaggi di questa storia, che si muovono impotenti sotto di esso. “Fa caldo” si dicono,  ed è una constatazione che resta sospesa, non c’è azione possibile, solo l’enorme fatalità delle cose.

Con questa accettazione Mona ha vissuto gli stavolgimenti che sono stati la sua vita, passivamente, come qualcosa di troppo grande per poterla provare a contrastare; e solo adesso, raccontando la propria storia a Adam, può riappropiarsene, scrollandosi di dosso l’apatia che la immobilizza. Mona passa quindi dalla passività del subìto al racconto attivo, valutando gli esiti e rimettendo in discussione il suo presente. Lo fa come una rivolta, come una scelta che non le può essere rubata, non stavolta.

La trama di questo romanzo non è l’ordito che allontanandosi mostri un disegno più vasto e preciso, è sfilacciata e discontinua, invece; se un disegno è presente non è per i nostri occhi coglierlo per intero. L’autrice ci mostra i suoi personaggi per frammenti, lasciando al lettore il compito di intuirne le traiettorie. C’è un prima e un dopo, però; Mona è una storia di trasformazione. 

E c’è una levità particolare nel rappresentare, a pennellate lievi, i momenti di cambiamento profondo della protagonista; ed è qui che traspare tutta la maestria di Bianca Bellová.

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