Viaggio al termine dell’amore in cerca di una verità dolorosa
Gentili lettori, quante volte abbiamo temuto che il corso delle nostre vite quotidiane si interrompesse di colpo per un evento imprevisto? E non mi riferisco alla contingenza sanitaria, ma a una frattura nella propria storia personale. Se perdere qualcuno è una delle esperienze più dolorose, cosa ne è della sottrazione di un’identità? Jakuba Katalpa è una scrittrice ceca di arguto intuito letterario, che ha fatto della geografia della perdita il fulcro di una storia. “Nèmci”, potente metafora di un’assenza, che assurge a emblema di tutto ciò che ci manca. In Italia Miraggi Edizioni ha pubblicato il libro con il titolo “I Tedeschi”, nella traduzione di Alessandro De Vito (che è anche uno dei tre editori Miraggi), e l’ha inserito nella collana NováVlna, che ormai vanta un elenco di scrittori cechi di grande respiro stilistico e ideativo. È proprio la lingua di De Vito che valorizza la parola calibrata e capace di creare chiare immagini conoscitive di Katalpa, premiando il lettore con un ritmo intenso, un effetto domino che costringe a non sottrarsi alla bellezza della storia e del linguaggio.
La vicenda si apre con un funerale a Praga, ma si sviluppa su un dubbio: «È tutta qui la questione, se invitare al funerale anche i parenti tedeschi». La figlia di Konrad, il defunto, è stata abituata dal padre a una strana storia. Durante quasi tutta la vita dell’uomo, a casa della famiglia arrivavano puntualmente dei pacchi pieni di dolciumi e altre cibarie da parte di una signora tedesca di nome Klara Rissmann, madre biologica di Konrad, che aveva affidato il figlio in tenera età a una donna di nome Hedvika, che viveva nella Repubblica Ceca, senza mai più rivederlo. Perché aveva fatto questo? “Scrive di nuovo la troia” diceva di solito con scherno. Parlava di sua madre.
Cercando di svelare il mistero, la figlia di Konrad decide di partire per la Germania, alla volta di Lahnstein, dove abitano ancora due sorelle del padre. Inizia da qui la geografia della perdita, intrecciandosi con gli anni bui della Germania, con la Seconda guerra mondiale e con la condizione delle donne nell’Europa della prima metà del Novecento.
La scrittura di Katalpa è un magnete a cui non ci si può sottrarre, per un bizzarro gioco di scatole cinesi, entro le quali si annidano le ragioni del male e dell’incomprensione. La specularità delle storie dei personaggi con la grande Storia crea un meccanismo ipnotico in grado di svelare la verità che risiede dietro l’identità di ciascuno di noi. “Konrad non hai mai fatto parte della nostra famiglia” mi spiega Gertrude. “Nostra madre gli mandava i pacchetti, questo sì, e non ha mai nascosto la sua esistenza. Ma non ci ha raccontato niente di lui”. Chi è Konrad? Qual è la verità della sua esistenza? Qual è il peso della memoria? Forse ci sono destini votati alla perdita, come fosse una condizione connaturata a quell’essere. E, forse, certi segreti dovrebbero rimanere tali, perché se la verità è un dovere, ciò che ne deriva è una dannazione.
«A volte sognavamo che un giorno la nonna avrebbe ripreso piena coscienza, guarita e con una memoria perfetta, e ci avrebbe raccontato tutto quello che volevamo sapere. Non ci passava neanche per la testa che i suoi segreti li avrebbe voluti preservare, che avrebbe potuto rannicchiarsi intorno a essi, circondarli con le braccia e non lasciarci passare; che non avrebbe voluto condividere. Con un retrogusto amaro, sentivamo che la sua appartenenza dalla nostra famiglia ci desse il diritto di insinuarci nel suo passato.
Jakuba Katalpa, I tedeschi. Una geografia della perdita, traduzione di Alessandro De Vito, Miraggi Edizioni 2021
ultimo nato nella collana di narrativa ceca NováVlna di Miraggi edizioni, curata da Alessandro De Vito, è giunta al dodicesimo titolo con I tedeschi di Jakuba Katalpa, romanzo intriso di tematiche di grande valore sociale e individuale.
Ricordiamolo, NováVlna è la collana di letteratura ceca che prende il nome dalla Nouvelle Vague cinematografica attiva negli anni della Primavera di Praga. Una letteratura portatrice di freschezza e innovazione, spesso dal carattere ironico, grottesco e surreale, sia quando si tratta di opere di autori contemporanei – come in questo caso, visto che l’autrice è nata nel 1979, sia quando recupera testi preziosi ingiustamente dimenticati o mai tradotti.
Il libro di Jakuba Katalpa, che ha esordito nel 2006, è stato pubblicato nel 2012 collezionando diversi importanti premi, come il Premio Josef Škvorecký 2013 e il Premio Libro Ceco dell’Anno 2013, più una nomination al Magnesia Litera 2013 categoria Prosa. Inoltre è stato tradotto in cinque lingue e ora, finalmente, giunge ai lettori forti italiani nella precisa e fluida traduzione di Alessandro De Vito.
L’autrice crea con I tedeschi una indagine privata e familiare che affonda le radici nella storia del nostro Novecento, riuscendo anche nella non facile impresa di essere originale in una materia su cui molto è stato scritto. Interessante il focus sul punto di vista dei “tedeschi ”, fino a quel momento dominatori del mondo e qui ritratti in un momento storico preciso, ovvero quando si ritrovano allo sbando, come individui e come popolo.
Fin dalle prime pagine siamo testimoni della costruzione di una “geografia della perdita”, come recita il sottotitolo. Del resto è il romanzo stesso che si apre con una perdita importante.
Siamo nel 2002 e a Praga muore Konrad, padre di tre ragazzi e di una ragazza che vive in Inghilterra. È lei che diventa la voce narrante di questa epica familiare. Suo fratello Martin vive in California, Pavel in Australia, solo il più piccolo Daniel esercita la professione di medico nella Repubblica Ceca e si è laureato in coincidenza con la morte della madre.
Tutti perdono qualcosa in questo libro e sembrano destinati a perdere altro nella complessa giostra della vita. Ma il dilemma iniziale della giovane protagonista è se avvertire o meno della morte del padre i parenti tedeschi indicati nel titolo. I fratelli vi si oppongono fermamente, al fine di onorare le volontà del padre.
Per loro quei parenti rappresentano l’altro, il diverso, qualcuno con cui non c’è niente da condividere, che non va accolto anzi, verso cui si erige una ulteriore barriera.
Da qui parte un viaggio alla scoperta di una complessa verità. Veniamo a sapere col procedere delle pagine che per anni – a partire dal 1947 e fino alla caduta del muro, nel 1989 – questa famiglia praghese ha ricevuto pacchetti di piccoli doni dall’Ovest. Contenevano dolciumi, cioccolata, confetture in barattoli di lusso e orsetti gommosi. Il loro arrivo era cessato con la caduta della cortina di ferro. A spedirli fino ad allora era stata Klara Kolmann Rissmann. Li mandava al figlio da cui si era separata poco dopo la nascita, alla fine della guerra, quando aveva fatto ritorno in Germania. Prima aveva insegnato alcuni anni nel villaggio di Rzy, vicino a Ticky Brod nel Protettorato dei Sudeti.
Konrad è infatti cresciuto con un’altra donna, Hedvika, che da suo marito Jaroslaw non poteva averne, di figli. Solo con l’approssimarsi di un tumore, nell’età adulta del figlio, gli confessa che quei pacchi erano della vera madre.
La figlia di Konrad, dopo la morte del padre, mentre si occupa dello svuotamento della casa paterna trova delle bretelle per la cura della displasia dell’anca. Da quel preciso momento decide di intraprendere un percorso di ricerca. Dopo il ritrovamento la ragazza va sulle tracce degli sconosciuti parenti tedeschi per scoprire almeno un barlume di verità su quel particolare dramma famigliare. Così facendo arriva, con sua figlia Dorotka, nella casa a due piani di Gertrude, una delle due figlie che Klara ha avute da un architetto sposato nel 1949 a Lahnstein.
Con lei ripercorreremo la vita di Klara, immersa nel flusso spesso tragico della storia tedesca ed europea del Novecento. Scopriremo inoltre che questa signora nata nel 1912 è ancora viva, ma avendo l’Alzheimer è ricoverata in un istituto.
A questo punto,tutto il libro comincia a ruotare intorno alla figura della vera protagonista, Klara, donna ribelle ed emancipata che sceglie di andare a insegnare nei Sudeti, dove è percepita come estranea e nemica.
Sempre avvolta nella nuvola di fumo delle sue sigarette, prova a cercare indipendenza in una società maschile e maschilista, dibattendosi tra l’attrazione verso un brutale tassidermista, il disagio e il male di vivere del padre di Konrad, il poetico insegnante Erich Fuch.
È un libro potente e dal ritmo incalzante I tedeschi, composto da nove macrosezioni, ognuna portatrice di un titolo evocativo e suddivisa in tanti piccoli capitoli sui rapporti familiari incrinati e sulle assenze ingiustificate, che diventano perdita e ferita sanguinante. Una perdita legata soprattutto alla maternità. Infatti, siamo in presenza di un romanzo di donne e di madri: Klara, Hedvika, Anna, Franziska, Gertrude, Joanna. Donne buone o cattive, madri mancate o defraudate, a seconda dei punti di vista.
Dunque un romanzo anche sulla memoria, quella che tende a svanire senza rimedio, tra le cose non dette e la cattiva coscienza, ma soprattutto un romanzo storico sugli effetti del nazismo e del declino dei suoi valori in anni di terribili deportazioni. Un libro di grande Storia, che incontra le storie minime dei familiari. Come quella di nonna Anna Mary o dei genitori di Klara, Franziska e Karl o dei nuovi coloni Barbora e Martin Levicka. Una storia di traumi e disagi che investono i personaggi maschili: Melman, Fuch, Malke.
Attraverso lo spessore e l’analisi di ogni singolo personaggio si comprende chi è il vero nemico della specie umana.
Sullo sfondo della Grande Storia, che inevitabilmente va a influenzare le storie minime dei singoli e le loro scelte, è il lettore a essere scosso e interrogato sul senso della vita e sul potere della cattiveria umana. La cronaca è ritmata dalla scelta stilistica di un linguaggio pulito, lineare, essenziale, capace di far risaltare potentemente la narrazione storica.
Sulla ragione ignota di un abbandono che fa da innesco alla storia ci si interroga continuamente, tra fenditure temporali e declino, tra disgregazioni familiari e crepe profonde della Storia. Un romanzo complesso intorno a un trauma originario e alla ricerca di possibili spiegazioni e verità, dove spesso nulla è come sembra.
La scrittura come ricerca della verità. “I tedeschi” di Jakuba Katalpa
I tedeschi. Una geografia della perdita (Němci, 2012) è il primo romanzo della scrittrice ceca Jakuba Katalpa ad essere pubblicato in Italia. L’opera è tradotta da Alessandro De Vito ed edita lo scorso febbraio da Miraggi Edizioni come dodicesimo volume della collana NováVlna. Nel 2013 il romanzo è stato insignito del prestigioso Cena Josefa Škvoreckého (Premio Josef Škvorecký) e del Cena Česká kniha (Premio Libro Ceco dell’anno). Jakuba Katalpa è lo pseudonimo utilizzato da Tereza Jandová nelle vesti di autrice, dove “Katalpa” (in italiano Catalpa) è il nome di un albero dalle foglie caduche.
Katalpa è già autrice di altre opere, tra cui la raccolta di racconti Povídka beze jména (“Racconti senza nome”, 2003) o i romanzi Hořké moře (“Mare amaro”, 2006) e Doupě (“La tana”, 2017). L’ultima pubblicazione della scrittrice è invece il romanzo Zuzanin dech (“Il respiro di Zuzana”, 2020). Si segnala, inoltre, l’incontro con l’autrice organizzato dal Centro Ceco di Milano, che si può recuperare al seguente link.
All’interno di uno dei suoi saggi, la studiosa tedesca Aleida Assmann sostiene che il ricordare e il dimenticare risultano strettamente legati perché insieme organizzano i ritmi mutevoli dell’esistenza. Ciò che affiora grazie al ricordo non è altro che la superficie della coscienza, una materia in continuo movimento, tra la riscoperta e il riconoscimento. L’atto del ricordare si materializza quando si dissolve quella distanza temporale che si situa tra il soggetto e l’evento, oppure quando viene superata una condizione priva di consapevolezza. All’interno del romanzo di Jakuba Katalpa il recupero del passato è alimentato da entrambi questi aspetti. Innanzitutto, occorre chiedersi quale sia il passato che viene rievocato, sebbene sia meglio parlare di diverse manifestazioni di quest’ultimo. Infatti, la prosa di Katalpa è rappresentata da un continuo intersecarsi di due dimensioni: quella intima, legata al contesto famigliare, e quella di un passato che si identifica con la Storia stessa.
La narrazione ha inizio con la morte di Konrad, che riporta sua figlia e due dei suoi tre figli a rincontrarsi a Praga. Tutti a parte uno hanno già da tempo lasciato il paese e per la figlia il ritorno nella città d’origine rappresenta un’occasione inaspettata di indagare sulla vera origine della propria famiglia. Il ricordo dei dolciumi che ogni anno giungevano per posta dalla Germania e il ritrovamento delle bretelle sono i due aspetti che mettono in moto questa sua necessità e fanno scattare in lei il dubbio sulle verità che le sono sempre state date per assodate – secondo lo stesso meccanismo che alimenta la verità delle masse. La questione messa in gioco da Katalpa è quella che ruota intorno al problema dell’identità e che si costituisce tanto del presente quanto di un passato di cui, paradossalmente, non si è stati protagonisti diretti e di cui sono rimaste poche tracce effimere. Konrad ha sempre rifiutato ogni contatto con “i tedeschi”, quei parenti che vivono oltreconfine e che per quarant’anni a partire dal ‘47 hanno spedito in dono dei dolciumi.
“Con gli anni i pacchetti di nonna Klara sono entrati a far parte delle leggende d’infanzia, e a prova della loro esistenza sono rimasti solo i francobolli tedeschi che i miei fratelli avevano incollato negli album.”
La figlia di Konrad, nonostante sia stata educata a non porsi domande su questi “parenti fantasma”, decide di tentare di fare chiarezza su una vicenda che ha un sapore del tutto generazionale. Per riuscire in quella che si rivela essere una vera e propria impresa è necessario per la protagonista, che nel romanzo è curiosamente l’unica ad essere priva di nome nonostante il suo ruolo chiave nella storia, crearsi un percorso fisico all’interno di quello spazio che nel sottotitolo viene definito in termini di “una geografia della perdita”. La chiave di volta di questa riscoperta non solo del passato, ma di una verità raggiungibile solo grazie alla presa in considerazione di più prospettive, è rappresentata proprio dalla nonna Klara, la nonna tedesca che non ha mai conosciuto. Nonostante la figlia di Konrad riesca a ritrovarla, la faccenda viene ulteriormente complicata dal fatto che la donna soffre di Alzheimer, altro emblema che enfatizza il tema della perdita.
La storia procede allora nel tentativo di ripercorrere le tappe della vita di Klara, dall’infanzia passata in una famiglia alto-borghese, al momento del trasferimento a Rzy, il paese che di trova “nel distretto dei Sudeti, quattrocento chilometri a Est di Praga.” Katalpa non sceglie un luogo qualunque per l’ambientazione della vicenda, ma la colloca in un paesino inserito in una zona fondamentale per le questioni che riguardano i rapporti tra cechi e tedeschi nel corso del secolo scorso. Arrivata a Rzy, Klara viene etichettata come “straniera”, oltre a sentirsi lei stessa estraniata osservando quanto accade fuori dalla sua finestra.
“Erano tedeschi diversi da quelli che conosceva nel Reich, rapaci e scontenti. La studiavano, valutavano fino a che punto per loro potesse rappresentare un problema, e lei non aveva idea di come convincerti di non essere un pericolo.”
Per Klara inizia un vero e proprio processo di integrazione tutt’altro che semplice, in quanto identificata immediatamente come “tedesca del Reich” e automaticamente associata alla figura di Goebbels. Rzy non è solo l’ambientazione del romanzo, ma anche un microcosmo creato dall’autrice stessa, all’interno del quale indagare la questione sociale tout court. Katalpa, infatti, intreccia la storia di Klara con quella degli abitanti del villaggio, analizzandone le inclinazioni psicologiche e, si potrebbe dire, quasi patologiche. La messa a fuoco dei personaggi corrisponde al volerne sottolineare la fragilità, spesso invece celata nella dimensione quotidiana. Attraverso questa messa a nudo vengono proposti temi che si accavallano a complicare una vicenda che, al contrario, è raccontata da Katalpa con una prosa piuttosto tradizionale. Tra questi, il tema della malattia che compare a più riprese nel romanzo e che in Melman si lega alla paura della morte. L’ombra di una fine spinge Melman a liberarsi della sua figura istituzionale e alla necessità di prendere coscienza di sé, mettere in atto un’analisi della propria condizione esistenziale, nonostante tutti i danni che questa potrebbe arrecare. Un altro tema fondamentale è quello della maternità, legato alla dimensione della donna – non a caso, infatti, le figure femminili hanno un ruolo di particolare importanza nel romanzo.
Oltre al riferimento spaziale, non bisogna però dimenticare il ruolo che viene giocato dalla dimensione temporale della narrazione, nella quale si staglia questa costellazione di eventi. A questa ricerca delle radici più intime si connette il tentativo di Katalpa di mettere in discussione degli aspetti che hanno a che fare una memoria di stampo collettivo, riallacciandosi ad eventi del secolo scorso che, per certi versi, rappresentano dei nervi ancora scoperti nella grande narrazione della Storia. L’autrice spinge il lettore a porsi delle domande simili a quelle di Klara, che hanno un respiro nettamente più ampio di quello del singolo personaggio. Katalpa stessa, in occasione dell’intervento che si citava inizialmente, sostiene che esista una necessità impellente di interrogarsi riguardo ad aspetti che rappresentano ancora una sorta di ferita nella memoria collettiva europea. Le domande che la Storia pone all’individuo hanno molto spesso un carattere profondamente morale, illudendo chi ne fa parte attivamente che quest’ultima sia in qualche modo afferrabile, nonostante non lo sia affatto. La questione della verità e quella della colpa vengono evocati col fine di mettere l’accento sulla loro natura profondamente cangiante, un terreno instabile in cui bisogna cercare di fare chiarezza ponendosi delle domande. L’opera si presenta solo nelle vesti come la storia del recupero del passato di una singola famiglia, per aspirare invece a una dimensione universale. La forza della prosa di un’autrice come Katalpa si rivela chiara già in un romanzo come I tedeschi, dove gli eventi frastagliati in uno spazio che sfugge a qualificazioni si rincorrono e concorrono a creare una nuova immagine della verità, che sembra essere afferrata solo dalla pratica della scrittura.
“Mi ha colpita un dolore risalente a quasi sessant’anni fa, e stavolta non è solo il dolore di mio padre, tante volte declamato e sofferto con un certa solennità, è qualcosa di ancora diverso a rodermi dentro, un’incertezza e una pena, scoprire che tra verità e menzogna c’è un confine così labile che lo si può rimuovere con un semplice gesto della mano, con un battito di ciglia.”
Per anni una famiglia praghese riceve dei pacchetti di piccoli doni, dolciumi, orsetti gommosi. Li manda Klara Rissmann, dalla Germania, a suo figlio e alla sua famiglia. Un figlio da cui si è separata poco dopo la nascita, alla fine della guerra, lasciandolo crescere con un’altra donna, che credeva sua madre. La ragione, ignota, di quell’abbandono (volontario o obbligato?), spinge una nipote di Klara, dopo la morte di suo padre, a ricercare le tracce della possibile verità, e delle proprie origini. Alla ricerca della spiegazione di quel trauma originario e di chi sono “i tedeschi”, ripercorriamo tutta la vita di Klara, immersa nel flusso spesso tragico della storia tedesca ed europea del ‘900. Assistiamo così all’incompleta ricostruzione di una “geografia della perdita”, come recita il sottotitolo. Perdita strettamente legata con la maternità – è un romanzo di donne e di madri: buone, cattive, mancate e defraudate – e con la memoria, che svanisce, spesso senza rimedio, tra le cose non dette, e la cattiva coscienza.
Introduzione
Che cosa significa amare? Ci siamo mai chiesti perché fin dai Greci il binomio del sentimento del cuore si crea con il morire che non solo è il contrasto ma anche il suo prosciugamento? Έρως e θάνατος sono veramente in lotta tra loro o sono uno il proseguimento dell’altro? Sono elementi interscambiabili in questa giostra che qualcuno ha chiamato vita. Si sono susseguite varie teorie teologiche e filosofiche sull’amore sulla morte e sulla sua casa che è l’anima e dove la persona si spoglia di ogni orpello per mostrarsi nella sua nuda essenza. Non è forse vero che per amare realmente dobbiamo tutti un po’ morire? Riusciamo tutti ad amare col sole ma quella è soltanto una subdola finzione perché già appena appare una nube, gli altri mutano il comportamento nei tuoi confronti, sono pronti a sostituirti come un giocattolo vecchio. Eppure c’è sempre qualcuno che resta anche quando la nube si trasforma in temporale, perché ha scelto di combattere con te le intemperie del destino. Solo nel momento della caduta nel baratro profondo e oscuro quando sembrerà di aver toccato veramente il fondo è in quell’attimo che comprendiamo la vera forza dell’amore sottoforma di luce della rinascita. Si muore anche perché quello che sta battendo non è più il nostro cuore ma quello di una persona nuova che ha abbandonato ogni personale egocentrismo per seguire sentieri inesplorati. Amare è una scoperta, un affidarsi, un donarsi, un’ammissione di liberta ma è anche un peso e una rinuncia. L’atto del lasciare andare è la forma più alta d’amore. Non dovrebbe mai accadere, eppure ci sono sempre accadimenti e impedimenti che ci spingono verso tale direzione. Il più triste degli arrivederci che ha il sapore amaro di un addio. Quando qualcuno cui teniamo muore, abbiamo sempre il rimorso del non detto, quelle parole che ci muoiono in gola tra le lacrime della disperazione. Per chi resta, non è solo una lotta contro la mancanza ma soprattutto una missione, perché la famiglia è un albero che ha ramificazioni molteplici e complesse. Di tutto questo tratta il romanzo I tedeschi di Jakuba Katalpa che narra la storia di una giovane donna che non solo deve affrontare i propri dolori ma soprattutto essere per la sua famiglia la custode della memoria.
Aneddoti personali
Quando esce un nuovo titolo di Novavlna la mia collana preferita tra quelle di Miraggi, mi emoziono sempre particolarmente. Quando ho visto l’uscita di questo libro, l’ho messo subito in lista. Di lì a qualche giorno i miei amici Stefano e Cinzia, avrebbero presentato alcuni libri di questa sorprendente casa editrice. Il caro Fabio uno degli editori, ci sorprende mostrandoci in anteprima la copertina. Mi sono detto non è possibile che in pochi giorni questo libro incroci il mio cammino già due volte. Lo porto sul blog perché avevo già captato che potesse avere quel quid in più che vado cercando nelle storie. In seguito sempre Stefano e Cinzia sul canale della libreria di quest’ultima hanno in qualche modo raccontato le loro impressioni e ora posso comprendere pienamente perché l’hanno amato così tanto La lettura del romanzo, mi ha piacevolmente devastato facendomi provare emozioni contrastanti. Quando l’ho cominciato, ho pianto, poi ho avuto un attimo di sbandamento durante le annotazioni storiche e qualche digressione che personalmente ho trovato lunga a tratti dispersiva. Quando l’autrice ha finalmente ripreso la trama principale , è come se avessi ritrovato la via di casa .Devo dire senza remore che questa storia mi è piaciuta tantissimo e ti sorprende con pennellate di autentica poesia anche quando deve narrare la crudeltà umana. Chi legge questo libro ha inevitabilmente un rapporto viscerale con la storia perché I tedeschi non è un romanzo meteora, ti tocca l’anima, si posiziona in un cantuccio del cuore e lo fa per restarci per sempre.
Recensione
Il titolo originale di questo romanzo è Nemci. Questo è il termine ceco per indicare I tedeschi. La geolocalizzazione è immediata ma non è un caso se la parola ha assonanza con l’italiano nemici. Se al focus narrativo, diamo una connotazione emotiva. ci si accorge di come il paragone sia perfettamente calzante . Il libro si apre con un funerale e il dilemma di una giovane donna se informare oppure no i parenti tedeschi della morte del padre. I fratelli della giovane si oppongono fermamente. Per loro quei parenti rappresentano l’altro, il diverso, qualcuno con cui non c’è niente da condividere, che non va accolto ma anzi verso cui si erige un’ulteriore barriera. L’autrice attraverso ogni personaggio ci fa comprendere che il vero nemico dell’essere umano è se stesso. L’altro è la proiezione contraddittoria della nostra anima, che funge da specchio e per questo ne abbiamo paura. La protagonista in quanto custode della memoria familiare, compie però il salto nell’ignoto tracciando un impervio e tortuoso sentiero nella geografia della perdita tra le pieghe annichilite del tempo. Chi è realmente Klara Kollmann- Rissmann? Su quest’ interrogativo si dipana tutto il libro e ogni lettore ne fa un suo personale ritratto in sospensione tra l’assoluzione e la condanna . Sullo sfondo la Storia che inevitabilmente influenza la microstorie e determina le scelte dei singoli. Il romanzo è suddiviso in nove parti. Il ritmo è incalzante, la scrittura è vivida e nello stesso tempo poetica, tutti questi elementi sono perfettamente mantenuti nell’ottima traduzione di Alessandro De Vito. La società descritta è ovviamente patriarcale divisa tra dominazione e sottomissione. Nell’analisi socio antropologica svolta dalla Katalpa la bontà è sporadica e la brutalità è pregnante, per rilevare volutamente fin dove si può spingere la cattiveria umana. I tedeschi è un romanzo sull’imperfezione, i personaggi a loro modo sono caratterizzati da corpi deturpati e anime mutilate. La caratterizzazione dei personaggi maschili si sofferma maggiormente sulla carriera politica – amministrativa e la loro virilità ad eccezione di Erich Fuchi, un insegnante che tra pregi e difetti è la nuda rappresentazione del male di vivere. Lui non è conforme alla tipologia d’uomo descritta e come i personaggi virgiliani di Didone e Camilla deve pagare il prezzo della diversità arrivando a un comune destino. Quelli femminili invece nella loro variegata differenziazione hanno una loro uniformità, sono accomunate dalla ribellione e dalla ricerca perenne d’indipendenza e accettazione della propria esistenza da parte della società che le voleva, relegate al ruolo di moglie e madre. Questo è un romanzo sulle donne, la vita di Klara s’intreccia con quella di Anna – Marie, Franziska, Anna, Hedvika e Gertrude. Donne che cadono ma si rialzano, rinascendo come fenici pur portando al loro interno cicatrici insanabili. Con loro non solo ripercorriamo pagine di Storia novecentesca ma altresì ci s’interroga sulla maternità e sulle varie forme d’amore. Un’analisi introspettiva che parte dalla carnalità dell’atto procreativo per poi dispiegarsi sulla presenza – assenza dell’amore materno. Tra guerre, dolori, amori, abbandoni, ossessioni e follie un romanzo indimenticabile alla ricerca del segreto nascosto nelle caramelle a forma di orsetto che racchiudono al loro interno il vento sussurrato del perdono .
Conclusioni
Consiglio questo romanzo a tutti coloro che amano le saghe familiari e sono alla ricerca di una storia che in questo periodo faccia riflettere riscaldando il cuore.
Praga, giorni nostri, Istituto di Antropologia Interdisciplinare. Ada, ricercatrice, lavora destreggiandosi tra colleghi che si arrovellano intorno ad annose teorie e direttori afflitti da disturbi psicosomatici. Unica, vera amica lì dentro è Valeria, tormentata dalla misteriosa scomparsa del figlio alcuni anni prima. Nella vita privata e nel suo piccolo appartamento, Ada legge, ascolta musica, accetta disimpegnate avventure amorose, ospita il fratello un po’ scapestrato, si prende cura di sé in bagno, dove ha appeso il poster con la fondamentale Scala di Bristol. Saltuariamente va a dormire dall’ex fidanzato, ma a puro scopo di lucro. I sogni di Ada, infatti, sono forieri di idee che possono trasformarsi in marchingegni da brevettare. La decisione di far luce sul mistero del figlio di Valeria coincide con la comparsa di alcuni eventi, tra loro collegati da quella che sembra una legge universale. Ada inizia allora a elaborare la sua «Teoria della Stranezza». Horáková fa della sua protagonista una giovane donna capace di ironia e autoironia, di riflettere in profondità su sé stessa e la città che la circonda, di accettare la resa finale come esempio dei suoi e dei nostri umani limiti. Quattrocento pagine che meritano di essere lette, 24 euro.
Karel Čapek e la pandemia letteraria del 1937 come sintomo della catastrofe incombente
“In Cina, caro mio, quasi ogni anno spunta fuori qualche nuova malattia interessante” è la battuta, dal tono vagamente premonitore, pronunciata da un cinico personaggio del testo teatrale Bílá nemoc (La malattia bianca), portato sulle scene a Praga nel 1937 da Karel Čapek (1890-1938). Come in tutte le opere dello scrittore ceco che, tra le altre cose, ha creato il personaggio letterario del robot, il fantastico irrompe nella quotidianità con tutta la sua carica di devastazione, come purtroppo avviene in occasione di ogni pandemia imprevista e sconvolgente. Dopo un sofferto dialogo con pesanti toni da tragedia medievale tra tre appestati, il vanitoso consigliere di corte Sigelius, nel corso di una autoreferenziale intervista propagandistica, spiega a un giornalista la natura della pandemia in corso: la malattia infettiva morbus tschengi (dal nome del medico cinese che l’ha descritta per primo), trasmessa “da un agens ancora ignoto”, contagia le persone con più di 45 anni, si manifesta con l’insorgere di macchie bianche sul corpo e ha già portato alla morte “almeno cinque milioni di persone”. Legata alla cupa atmosfera della fine degli anni Trenta, La malattia bianca rappresenta molto più che la dissoluzione di una società, affrontando il complesso problema del legame tra pandemia e svolta autoritaria. Čapek cerca affannosamente un artificio letterario per combattere la vertiginosa ascesa della dittatura militare in un bellicoso paese limitrofo, ricorrendo a un sofisticato rovesciamento del tema della degenerazione della razza, visto che a venire colpiti dal nuovo morbo sono proprio gli uomini dalla pelle bianca.
Il caso dello scrittore ceco non è certo nuovo e, com’è noto, le epidemie hanno offerto ripetutamente, nella storia recente e più remota, lo spunto per raccontare il crollo delle società e la disperazione individuale di fronte all’improvvisa diffusione di un nemico subdolo e invisibile. Spesso portata dall’esterno da inconsapevoli untori, poi liquidati come capri espiatori, la pandemia si è dimostrata uno strumento letterario potente per disegnare mondi distopici attigui al nostro, senza dover inventare complesse società sviluppatesi dallo sfruttamento di mirabolanti scoperte scientifiche o in conseguenza di incredibili viaggi intergalattici. Spesso metafore di derive ideologiche e sociali, le epidemie sono state sfruttate da scrittori molto diversi tra loro, da Daniel Defoe ad Albert Camus, passando per Edgar Allan Poe, Alessandro Manzoni, Jack London e molti altri. Ma, nelle società occidentali, in tempi recenti le pandemie sono tristemente tornate di attualità anche come fenomeni reali, rendendo nuovamente attuali testi e pellicole di molti anni fa.
Non c’è troppo da meravigliarsi che uno scrittore come Karel Čapek, da sempre legato al tema del difficile rapporto tra scienza e potere, abbia sentito, nel 1937, l’esigenza di scrivere un’opera teatrale in cui l’epidemia si fa metafora delle preoccupanti pulsioni totalitarie della vicina Germania. Sintomatiche delle preoccupazioni di molti intellettuali cechi, dopo l’ascesa di Franco in Spagna e la generale militarizzazione europea, sono anche le illustrazioni, opera del fratello dell’autore, il pittore Josef Čapek, tratte dal ciclo Gli stivali del dittatore, anch’esso del 1937. Nella Malattia bianca il tema della contrapposizione tra dittatura e democrazia si fonde in modo originale con quello della diffusione incontrollata della pandemia e della lotta per il dominio del pianeta per sollevare un profondo e sostanziale interrogativo: è lecito sottoporre i potenti del mondo a un “ricatto pacifista”, negando loro la cura di una malattia spaventosa, a meno che non rinuncino alle guerre?
Gli stivali del dittatore
Va ricordato che Karel Čapek aveva scritto un primo “ciclo” di opere a carattere distopico tra il 1920 e il 1924, in cui scoperte di carattere scientifico-alchemico alteravano l’ordine naturale delle cose, provocando la rovina del mondo. Nella fortunatissima opera teatrale R.U.R. Rossum’s Universal Robots (1920), di recente pubblicata in una nuova traduzione da Marsilio, aveva presagito l’introduzione nel mercato dei robot (in realtà sotto forma di androidi) che avrebbero dovuto affrancare l’uomo dal lavoro, creando un neologismo, in verità coniato dal fratello Josef a partire dalla parola ceca robota (lavoro servile, fatica) destinato a un incredibile successo.Poco dopo i palcoscenici mondiali hanno accolto con favore anche Věc Makropolus(L’affare Makropulos, 1922), messo in scena con grande successo anche in Italia da Luca Ronconi, in cui la scoperta dell’elisir della lunga vita rappresenta in realtà un pretesto per indagare i problemi connessi al desiderio di liberare l’uomo dalla morte. Nello sperimentale romanzo-feulleiton Továrna na absolutno(La fabbrica dell’assoluto, 1922), di cui Voland ha appena proposto una nuova traduzione, protagonisti sono invece degli stupefacenti “carburatori” nucleari che producono come materiale di scarto nientemeno che l’assoluto, la divinità, con il conseguente stravolgimento di ogni valore umano. Questa serie è stata chiusa da Krakatit (Krakatite, 1924), che finalmente Miraggi ha presentato per la prima volta anche ai nostri lettori sanando uno dei maggiori debiti dell’editoria italiana. Quest’ultimo romanzo vede il febbrile protagonista Prokop, scopritore di un devastante esplosivo basato sulla fissione nucleare, alle prese con la concreta opportunità di poter dominare il mondo. Se in tutte queste opere l’unica possibile soluzione al conflitto era la distruzione della scoperta che aveva provocato lo stravolgimento dell’ordine e il conseguente ritorno alla vita “naturale”, molto più cupo sarà il finale del secondo ciclo di opere utopiste della seconda metà degli anni Trenta. Del romanzo 1936 Válka s mloky (La guerra delle salamandre), uno dei testi in assoluto più noti di Čapek, esistono varie edizioni della stessa traduzione italiana, particolarmente preziosa è quella del 1961, arricchita dalle curiose illustrazioni di Tono Zancaro. Il romanzo riprende in una nuova forma sperimentale la formula dei robot, dando vita però all’evoluzione di un nuovo alter ego dell’uomo dalle caratteristiche ridotte e alterate, ideale per essere sfruttato a fini lavorativi e bellici. Il fossile di una grande salamandra estinta, all’inizio erroneamente attribuito da Johann Jacob Scheuchzer, nel 1725, a “un uomo che fu testimone del Diluvio universale” offre a Čapek la straordinaria opportunità di analizzare il totale fallimento dell’uomo nel rapporto con questo essere dalla “natura golemica e diabolica” (G. Giudici), che lo priverà progressivamente di ogni spazio vitale.
La malattia bianca, pubblicata dalla rivista Sipario nel lontano 1966 in un numero speciale dedicato al teatro cecoslovacco e mai più riproposta in italiano, porta invece sul palcoscenico un insolito scontro tra le pulsioni totalitarie della società e il curioso tentativo di imporre l’utopia della pace. Il medico Galén, ennesimo nome “parlante” dell’opera di Čapek, è infatti l’unico in grado di curare la pandemia ma, in cambio del siero, pretende dai potenti del mondo l’impegno a rinunciare alla guerra (“E io non la darò finché… finché non mi prometteranno che non si ucciderà più”). L’irremovibilità del medico, in evidente contrasto con il suo giuramento, incontra comunque il netto rifiuto del dittatore: “Non possiamo mica permettere che un qualsiasi utopista c’imponga le sue condizioni!”.
In un’atmosfera di febbrile militarizzazione e fabbriche a pieno servizio dell’industria bellica, di produzione di gas tossici e proposte di rinchiudere i malati in campi di concentramento, un inquietante Maresciallo vuole realizzare la sua “missione superiore” nell’interesse del suo popolo, e sta per proclamare la guerra contro “quel piccolo, miserabile staterello che aveva creduto di potere impunemente provocare e offendere il nostro grande popolo”. Il contesto non può naturalmente non richiamare la contrapposizione tra la piccola Cecoslovacchia democratica e la Germania nazista, che da lì a poco avrebbe portato alla fallimentare Conferenza di Monaco, che Čapek ha commentato infatti con queste amare parole: “non ci hanno venduti, ci hanno dati in regalo”. Non stupisce dunque che La malattia bianca, in modo alquanto inconsueto rispetto alla produzione dell’autore ceco, si chiuda senza alcuna speranza: quando il Maresciallo malato sembra deciso a proclamare la pace, Galén resta schiacciato nella ressa mentre sta andando a portargli la medicina. Il passo indietro del dittatore è quindi impedito da una folla ottusa che grida “Un traditore di meno. Gloria al Maresciallo!”.
Se Krakatite è un romanzo-mondo, che attira il lettore in un vortice di temi e stili diversi, anche La malattia bianca, diviso in tre atti intitolati “Il Consigliere di Corte”, “Il barone Krüg” e “Il maresciallo”, è un’opera che osserva le vicende da punti di vista divergenti e con cambiamenti di scena repentini. I tre atti possono essere infatti letti come i frustranti incontri/scontri di questo “bambinone”, com’era scherzosamente chiamato Galén da giovane, con la scienza, la grande industria e lo stato militare, in un momento di evidente deformazione del funzionamento delle società moderne. E qui il Maresciallo, il grande imprenditore Krüg (dal tedesco Krieg, la guerra), lo scienziato Sigelius (dal tedesco Siege, la vittoria) e la folla ideologizzata testimoniano il fallimento di un’intera società, chiaramente modellata su quella tedesca, anche se in Čapek non mancano mai i riferimenti al modello originale delle dittature degli anni Trenta, il fascismo italiano. Con grande gusto l’autore ceco si sofferma in particolare sulla malleabilità della scienza di fronte alle pulsioni totalitarie, offrendo una mordace satira del servilismo e sciovinismo di quelle classi intellettuali che, in un articolo, ha definito “prostitute dei regimi contingenti e delle loro ideologie”, vendutesi per “un piatto di lenticchie”. Ciò che sta a cuore all’autore è infatti il confuso legame tra populismo, potere e malattia, che tristemente vediamo all’opera anche nel tempo presente.
A questo piano della “grande storia” si alterna la storia privata di una famiglia normale, grazie alla quale l’autore, attraverso il carrierismo del padre, può rappresentare la pandemia anche come bieca occasione di guadagno economico e sociale. Non a caso alla fine proprio il figlio sarà uno dei capi della folla che provoca la morte di Galén, questa sorta di Don Chisciotte dell’epoca totalitaria. Figura dai tratti di un messia, obiettore di coscienza a qualsiasi costo, quest’ultimo è un cittadino greco naturalizzato, ex assistente universitario, ora medico della mutua per via della sua origine sospetta, non è un grande arringatore di folle, anzi spesso si limita a ripetere frasi semplici («ma davvero non è possibile»), e si comporta come uno straniero che osserva, suo malgrado, una società malata. La sua scoperta del siero permette a Čapek di sviluppare il tema del singolo che tiene in scacco l’intera umanità: nella prefazione ha ricordato che era stato un amico dottore a suggerirgli l’idea di un medico che scopre nuovi raggi potentissimi in grado di distruggere i tumori, cosa che dà presto allo scienziato un potere assoluto. Quello della responsabilità della scienza è del resto un tema che Čapek ha affrontato ripetutamente, in quest’opera rovesciando l’assunto di Krakatite: se lì era stato tratteggiato l’angosciante dilemma interiore di chi potrebbe diventare dittatore assoluto del mondo, qui è invece un medico che cerca di utilizzare il suo potere per il bene dell’umanità intera.
Se nella versione manoscritta dell’opera il medico si chiamava Herzfeld ed era ebreo, a testimonianza della critica espressa nella prefazione (“non più l’uomo, ma la classe sociale, lo stato, la nazione o la razza è ora portatrice di tutti i diritti”), nella versione definitiva il rimando è stato spostato dall’autore verso la cultura greca. Com’era già avvenuto in R.U.R. e Krakatite, la perdita dell’eredità classica segna infatti, nella nostra storia e nella nostra cultura, una cesura di tali proporzioni da spalancare la strada alla barbarie. L’ingenuo tentativo di Galén di sfruttare l’influenza sociale delle élite per ottenere la pace a ogni costo, contrapponendosi al vero dittatore ed ergendosi a medico-dittatore e fanatico della pace, termina però con un completo fallimento. Come purtroppo vediamo anche ai giorni nostri, conoscere i sintomi di una malattia, come a volte la letteratura è in grado di fare con grande anticipo rispetto alla scienza, non significa certo aver trovato una cura. Da questo punto di vista Galén è stato quindi giustamente considerato la «prima vittima della Seconda guerra mondiale».
Come spesso avviene nel caso delle opere letterarie dense e polisemiche, anche La malattia bianca assume oggi una serie di nuovi significati e si colloca in modo originale nella linea di opere letterarie centrate sulle pandemie che abbiamo tratteggiato. L’intera opera di Karel Čapek è infatti a lungo rimasta nell’ombra di una precisa linea evolutiva della distopia che, per semplificare, viene di solito descritta lungo la direttrice Wells-Zamjatin-Huxley-Orwell. Lo sperimentalismo con i generi letterari, il rifiuto del finale distopico e la mancata descrizione della società del futuro, collocano di per sé l’opera di Čapek in una posizione diversa. Anche se naturalmente non sono pochi i punti di contatto con molte importanti distopie della cultura occidentale, merita qui di essere citato almeno il film Vita futura (1936), con sceneggiatura di H.G. Wells, in cui un mondo distopico sconvolto dalla seconda guerra mondiale è attraversato in un lontano futuro da un’epidemia devastante («la piaga errante»).
Va inoltre ricordato che La malattia bianca rappresenta per Karel Čapek un ritorno al teatro dopo una pausa di vari anni, legato evidentemente alla necessità di far tuonare nuovamente la sua voce sul palcoscenico, nella sua concezione dello spazio teatrale come un pulpito da cui ammonire l’umanità. Le prime notizie su una nuova opera teatrale risalgono al dicembre del 1936, e il testo è stato pubblicato e messo in scena per la prima volta, a Praga e a Brno, nel gennaio del 1937. La rappresentazione ha suscitato, anche per l’attualità internazionale del tema, un’eco notevole, seguita poi dal conferimento del premio di stato per la letteratura. Uno dei grandi promotori della letteratura ceca all’estero nel periodo tra le due guerre, Max Brod, ne ha subito predetto il sicuro successo internazionale e Thomas Mann ha poi parlato di “successo trionfale” e di una fusione di elementi fantastici e simboli realizzata “con la maggiore vitalità e plasticità possibili”. Meno entusiasta è stato Karel Čapek rispetto alla messa in scena londinese del 1938 (con il titolo Power and Glory), in cui il regista ha deciso di far recitare i ruoli del dottor Galén e del Maresciallo allo stesso attore. Nella rassegnata riflessione affidata a una lettera inviata al Manchster Guardian, Čapek, pure avvezzo al continuo fraintendimento delle sue intenzioni, si è rammaricato della stravaganza di alcuni registi, paragonando l’intervento sulla propria opera a una rappresentazione in cui Otello e Desdemona venissero impersonati dallo stesso attore.
Senz’altro con maggiore interesse deve avere invece accolto la riuscita trasposizione cinematografica, realizzata in tempi brevissimi con gli stessi attori della messa in scena teatrale, anche se con un’importante modifica del finale: il Maresciallo infatti firma la pace e Galén, prima di morire, lascia a un collega la formula della medicina (il film si può vedere sul canale dei classici cechi: https://www.youtube.com/watch?v=HJMUIBEzYnI). La prima proiezione ha avuto luogo il 21 dicembre del 1937 ed è stata seguita, due giorni dopo, dalla vibrante protesta dell’ambasciata tedesca. Non c’è quindi da meravigliarsi se, dopo la conferenza di Monaco, nel novembre del 1938, il film sia stato immediatamente bandito dalle sale cinematografiche, anche se per fortuna, grazie a una copia portata all’estero, siano state poi prodotte le versioni francese e inglese.
Il tentativo di Karel Čapek di richiamare l’attenzione sui cambiamenti antropologici in atto nelle società occidentali e impedire la caduta della Cecoslovacchia era ovviamente destinato al fallimento, come hanno da lì a poco sancito le lugubri parole di Chamberlain nel suo discorso Peace for our Time, in cui, lasciando mano libera a Hitler, rifiutava la guerra “per una lite in un paese lontano, di cui non si sapeva niente”. La morte di Čapek, che ha assunto nel contesto ceco una chiara valenza simbolica, è apparsa qualche settimana dopo, davvero come la fine di un’epoca, anche se forse ha evitato all’autore una fine ancora peggiore. Qualche mese dopo infatti il fratello Josef, uno dei pittori cechi più significativi della prima metà del XX secolo, sarebbe stato arrestato e trascinato nei campi di Dachau, Buchenwald e Sachsenhausen, per morire poi a Bergen-Belsen poche settimane prima della fine della guerra.
Come dimostra la sensazione di assoluto pessimismo con cui termina La malattia bianca, in Karel Čapek si era indebolita la fiducia nella gente comune e nella reale possibilità di fermare l’avanzare del totalitarismo. Anche se la situazione storica è oggi completamente diversa, si tratta di temi tornati di grande attualità ed è sempre più necessario tornare a interrogarsi su quali siano i rapporti tra potere, populismo, fanatismo e pandemia. Il grande potere della letteratura è in fondo proprio quello di anticipare molti problemi prima della loro esplosione e Čapek, negli anni Venti e Trenta, ha sollevato delle questioni nodali che hanno poi angosciato l’immaginario delle nostre culture per tutto il XX secolo. Nel 1937, agli occhi di un autore ceco sulla soglia di una catastrofe che sta per inghiottire tutto il mondo, la risposta è tristemente univoca: nemmeno una pandemia è in grado di bloccare la deriva militarista della società europea e, una volta linciato Galén, il corteo prosegue urlando i suoi triti slogan, “Viva la guerra! Viva il Maresciallo!”.
Karel Čapek (Malé Svatoňovice 1890 – Praga 1938), giornalista, drammaturgo e narratore, è stato uno dei maggiori scrittori cechi del Novecento ed è stato ripetutamente tradotto in italiano fin dagli anni Venti. Grande sperimentatore di nuove forme e generi letterari, ha affrontato nella sua opera temi di grande attualità: l’intelligenza artificiale, l’energia atomica, la diffusione di epidemie etc. Deve la sua consacrazione internazionale all’opera teatrale R.U.R. Rossum’s Universal Robots (1920), che ha introdotto nella cultura mondiale il termine “robot”. Molto noti sono anche l’opera teatrale L’affare Makropulos (1922), i Racconti da una e dall’altra tasca (1929) e i romanzi La fabbrica dell’assoluto (1922), Krakatite (1924) e La guerra delle salamandre (1936).
L’incubo dello scienziato sulla forza della sua scoperta
Gentili lettori, è davvero portentoso come l’anno scorso un piccolo ma valoroso editore abbia avuto l’arguzia di pubblicare un libro, “dimenticato” per novantaquattro anni, in corrispondenza di un discorso mediatico focalizzato sull’influenza della scienza nella vita politica e sociale del paese, quando proprio quel libro, “Krakatite” di Karel Čapek, ha fatto della responsabilità morale dello scienziato il fulcro della narrazione. In assonanza con “I fisici” di Friedrich Dürrenmatt, che lo scrittore svizzero compose nel 1959 consacrando nell’immaginario collettivo la figura di Möbius, un fisico che aveva scoperto una formula scientifica universale capace di configurare tutte le scoperte, Čapek crea Prokop e assieme a lui un universo morale, fantasmagorico, un sogno come porta conoscitiva e creativa. Prokop è un chimico geniale che ha sintetizzato la krakatite, una polverina bianca con un enorme potenziale esplosivo reso instabile dalle onde elettromagnetiche. A partire da queste premesse, lo scrittore ceco teorizza il rapporto di responsabilità tra lo scienziato, la creazione e il suo eventuale impiego a scopi distruttivi. Krakatite, nella traduzione cristallina di Alessandro Catalano, esprime un conflitto principalmente all’interno del protagonista, costringendolo in una serie di mirabolanti avventure in cui l’elemento comico-grottesco allevia quel senso d’impotenza dell’uomo alle prese con le convenzioni e le imposizioni del potere.
Čapek soleva dire che l’arte non dovesse mai essere al servizio della forza e forse questa è la spinta più illuminante della narrazione. La completa libertà del suo protagonista, il suo affrancamento dall’ideale di gloria, di ricchezza, la sua distanza dalle logiche del potere politico. Il forte senso di giustizia sociale che permea l’umanità di Prokop gli impedisce di cedere anche quando si tratta dell’amore. Saranno tre donne, principalmente, a costituire il tessuto sentimentale della storia; tre differenti modi in cui il chimico sperimenterà la sua lacerazione, sempre pervasa da incubi freudiani che non faranno altro che offrirsi come metafora della forza inconscia insita nell’uomo e nella società. Prokop è l’essenza dell’instabile, l’esplosione rimandata, l’energia potenziale pronta a manifestarsi. Čapek ne rimanda la visionarietà nell’uso di una lingua che irrompe nel fantastico così come la realtà prende la via del racconto fiabesco pur mantenendo le sue coordinate di tangibilità. Gli stili e i generi che seppe mescolare corroborano il suo sperimentalismo. Gli elementi del romanzo d’avventura, del giallo, del melodramma creano suggestioni capaci di generare a loro volta ulteriori significazioni. «Chi pensa all’essenza suprema distoglie lo sguardo dalle persone. Tu invece le aiuterai», ed è il dialogo col Creatore, con quella forza arcaica contro cui è impossibile salvarsi.
Prokop era destinato a fare cose grandi ma le rifiutò, perché era il custode delle cose piccole, chiuse nello scrigno carnale di ogni vita.
I lampi illuminavano l’orizzonte con ampie fiammate gialle, ma la tempesta salvifica non si era ancora scatenata…
Krakatite, Karel Čapek, Miraggi, traduzione di Angela Alessandri, postfazione di Alessandro Catalano. Distopico, fantascientifico, profetico, soprattutto per quel che concerne i rischi e i pericoli della disumanizzazione del progresso scientifico quando troppo stretto si fa il connubio con una visione utilitaristica e intrecciata al mero profitto, il romanzo, ispiratore di due film, il primo dei quali fu definito nell’immediato secondo dopoguerra, per la precisione nel millenovecentocinquantuno, appena uscito negli USA, tre anni dopo il debutto in patria, dal New York Times anche come un’orazione stridente per la pace, che ha novantasei anni ed è più attuale che mai, dello scrittore, giornalista e drammaturgo ceco, narra la storia di un dottore che possiede la formula per il più deflagrante di tutti gli esplosivi, ma non quella per la pace o la felicità, e… Imperdibile.
Credo che tutti noi negli anni della scuola abbiamo avuto prima o poi occasione di ascoltare l’imprescindibile lezione sul finale de La coscienza di Zeno, in cui il nevrotico protagonista immagina un individuo ancora più nevrotico che inventa un ordigno esplosivo dalla potenza distruttiva inimmaginabile e un terzo individuo (forse più nevrotico degli altri due, forse tutto sommato più saggio nella misantropia radicale) che lo utilizza per polverizzare il pianeta intero. L’anno successivo alla pubblicazione del capolavoro di Svevo, Karel Čapek, figura fondamentale nella fantascienza della prima metà del novecento (Darko Suvin lo definisce addirittura “lo scrittore di fantascienza in assoluto più significativo tra le due guerre”) prende il secondo di questi personaggi e ci costruisce attorno un intero romanzo tutto giocato sulla soglia della distruzione totale.
Krakatite, tradotto per la prima volta in Italia e presentato da Miraggi in una bella edizione corredata da illustrazioni di gusto futurista che ricordano i poster Agit-Prop di Vladimir Majakovskij, è un’opera dalla forma e dai contenuti complessi. La storia di Prokop, chimico geniale e afflitto da un esaurimento nervoso cronico è un ibrido, instabile come la materia esplosiva che le dà il titolo, di romanzo picaresco, romance, fantascienza e allegoria. La scrittura oscilla tra un distacco denotativo pseudoscientifico, sperimentalismo e lirismo, faticando quasi a star dietro alle avventure senza fine del protagonista. Inventore dell’esplosivo definitivo, capace di liberare l’energia racchiusa nella materia in esplosioni devastanti, e per questo al centro di un intricato complotto internazionale, Prokop agisce in maniera spesso incomprensibile, muovendosi più che altro per spinta di violente passioni amorose che lo lasciano puntualmente in fin di vita. Non a caso, la quarta di copertina definisce Krakatite “il libro dell’amore atomico”, sottolineando come i sentimenti dell’instabile protagonista siano capaci di scatenare detonazioni non meno pericolose di quelle derivate dai prodotti chimici. C’è una probabile nota autobiografica nella centralità dei rapporti amorosi sui quali Čapek indugia ossessivamente. Come nota Alessandro Catalano nella postfazione, infatti, l’autore era all’epoca diviso tra l’amore per due donne diversissime che, unito a dei problemi di salute, gli causò una seria crisi nervosa, chiaramente ravvisabile nella follia inarrestabile del protagonista.
Ma forse né le esplosioni né l’amore sono davvero il centro della narrazione tanto surreale quanto torrenziale di Čapek. La riflessione sul potenziale distruttivo (e auto-distruttivo) dell’umanità, comprese le sue possibili declinazioni sentimentali, infatti, è sempre inserita all’interno di una ben precisa struttura sociopolitica che sembra avere un effetto decisivo sull’evoluzione della storia. Ognuna delle tappe del delirante viaggio sentimentale e chimico di Prokop include anche un ritratto compiuto delle diverse realtà sociali: quella rurale, quasi bucolica, della giovane e ingenua Anči, quella dittatoriale e soffocante della monarchia di Balttin (luogo del più travolgente e doloroso degli amori raccontati nel romanzo) e quella dell’organizzazione rivoluzionaria, dove l’afflato libertario si volge alle possibilità più oscure. In definitiva, Krakatite è un romanzo impossibile da incasellare, che pare sfuggire da tutte le parti e cambiare forma ogni volta che si cerca di etichettarlo. Una storia vulcanica come la caldera dalla quale prende il nome, caotica, che lancia uno sguardo sull’umanità sempre diviso tra la derisione cinica e la compassione dolorosa.
Raccontare le prospettive che normalmente non vediamo
Quando ho contattato Bianca Bellová per chiederle di rilasciarmi un’intervista ero, come mi capita spesso dinanzi ad autori che ho molto apprezzato, in forte soggezione. Ho scelto con cura la forma e le parole, ho cesellato ogni vocabolo e poi ho inviato tutto. Bianca ha accettato di rispondere alle mie domande il giorno stesso, con un’energia e una gentilezza non comuni. Non sempre gli scrittori acconsentono a simili proposte, specie se queste giungono dalla redazione di una piccola rivista online nata da pochi mesi che non può vantare alcun blasonato nome o traguardo. Bianca Bellová è, fortunatamente per lei, fuori da questi meccanismi limitanti e non poteva non essere così: a rivelarlo è, del resto, ciò che scrive.
L’autrice ceca di origini bulgare, nata a Praga nel 1970, è una delle personalità letterarie più autentiche e apprezzate nel suo paese ma non solo. Il suo esordio letterario, avvenuto nel 2009, è solo la prima tappa di un crescendo sempre più meritato che l’ha vista nel 2016, con il suo romanzo “Il lago” tradotto in quindici lingue, vincitrice di due importanti riconoscimenti: il Premio Unione Europea per la Letteratura e il Premio Nazionale Magnesia Litera. È proprio con “Il lago”,edito da Miraggi nel 2018 all’interno della preziosa collana NováVlna diretta da Alessandro De Vito, che il pubblico di casa nostra ha potuto finalmente conoscere questa voce inconfondibile e potente, in grado di raccontare e scandagliare i sentimenti umani, – dai più cupi e dolorosi sino ai più teneri – con un coraggio e una profondità illuminanti. Tradotta in italiano da Laura Angeloni, l’opera di Bianca Bellová sa sempre rivelare ogni nascondiglio umano con una chiarezza e una chiaroveggenza che in tanta letteratura contemporanea è molto difficile rintracciare. Nel 2020 è stato sempre l’editore Miraggi a pubblicare l’edizione italiana del suo nuovo romanzo intitolato”Mona” e di nuovo l’attenzione di molti lettori italiani si è rivolta alla sua opera. Le prospettive umane che Bianca Bellová sa indagare e far emergere sono gli angoli più nascosti del quotidiano, quelli che più difficilmente vogliamo affrontare. Non solo la ricerca delle verità esteriori sembrano stare alla base dei suoi romanzi. A esse si affianca un’altra esplorazione parallela: quella del proprio inconscio, dei simboli che ogni individuo si costruisce per sopravvivere, quegli stessi simboli che un bel giorno vanno conosciuti davvero, affrontati, esperiti, accettati e se necessario abbattuti.
Nami, il personaggio protagonista de “Il lago”, ha una personalità molto complessa. Com’è stato entrare in empatia con uno come lui? «Nami è un ragazzo sfortunato che cresce senza gli appigli che tutti diamo per scontati – genitori, casa, comodità – e ha una mappa molto approssimativa grazie alla quale navigare nella vita. Devo dire che non auguro a nessuno di essere nei panni dei miei personaggi. Di solito hanno sfide incredibilmente difficili da superare. E sì, mi dispiace per loro, ma si deve andare molto in profondità nella disperazione o persino nel trauma per iniziare a crescere. E poi ci sono sempre altri umani sulla strada per aiutarti a portare la tua croce».
“Il lago” è un romanzo di violenza e compassione, un romanzo di dolore ma anche di resistenza. Non ci sono giudizi, c’è solo l’umanità. Credi che la letteratura possa aiutarci ad osservare meglio il mondo e a capire gli altri più a fondo? «Ebbene sì, lo hai detto. È il lavoro delle persone che scrivono, fanno musica, dipingono, ballano o fanno qualsiasi altra cosa per mostrare agli altri il mondo da prospettive che normalmente non vediamo».
È da poco uscito anche in Italia e sempre per Miraggi il tuo nuovo romanzo “Mona” . Quali sono i temi più ricorrenti della tua scrittura e perché? «Quando guardo indietro, ci sono davvero temi che si ripetono: di solito si tratta di un individuo con una situazione familiare difficile, quasi sempre danneggiata. Ecco, il protagonista spesso deve far fronte a situazioni che mettono in discussione la sua integrità o conformità morale. Deve affilare bene gli attrezzi, insomma. Inoltre, mi rendo conto che per qualche motivo non ancora ben chiaro a me stessa, c’è un tema assai ricorrente che è quello dell’acqua. È forse quasi un personaggio. Questo vale per i miei testi più lunghi; quando si tratta di racconti, i temi variano molto, dai thriller noir, all’ironia situazionale a gravi e importanti drammi storici. Non saprei dirti perché accade tutto ciò, io penso sempre che sono i temi a scegliere me , e non il contrario. Mi sento più come se fossi l’intermediario, una sorta di strumento o semplicemente una macchina da scrivere in grado di catturare idee e immagini che non sono interamente mie, sono solo là fuori, in attesa di essere colte, plasmate e narrate».
Hai debuttato nel 2009 e da allora hai avuto una buona risposta dal pubblico. La tua scrittura è maturata in questi anni? Cosa è cambiato nel tuo modo di fare letteratura e cosa invece è rimasto intatto? «Credo che ci sia stato un certo sviluppo nella mia scrittura. Dopotutto, ognuno di noi dovrebbe essere in grado migliorare le proprie abilità se le mette in atto costantemente, che tu sia un falegname o un pastaio è lo stesso. Probabilmente con il passare del tempo arrivo più rapidamente ai miei obiettivi, e per obiettivi intendo le storie da raccontare. Certo, mi capita ancora iniziare a scrivere un testo che non porta da nessuna parte ma ora lo riconosco molto più velocemente e non provo più a rianimare una pagina se non respira. Rispetto a prima , la mia prosa attuale è molto più semplice o più pura di una volta, provo maggiormente a concentrarmi sulla storia e a dare al lettore più spazio per usare la propria immaginazione. Sono anche più cauta, cerco di evitare di causare troppi “traumi” al lettore, a meno che non sia davvero richiesto dalla storia. Sono sempre stata abbastanza realista, ad esempio nella rappresentazione del sesso o delle scene violente, non tralasciavo nulla, ero davvero precisa ma ora uso sempre meno scelte di questo tipo. Spero che quando sarò anziana la mia scrittura si ridurrà al minimo. Ecco, mi vedo già, con i miei capelli bianchi a pronunciare solo brevissime sentenze o piccole frasi. Possibilmente un haiku».
Pensi che si possa essere scrittori senza provare emozioni forti? «Questa domanda è interessante, ma non so forse uno psicologo potrebbe rispondere meglio. Conosco un gran numero di autori di successo, alcuni estremamente introversi, altri estremamente estroversi, ma come e se provano emozioni forti possono saperlo solo loro. Certo, credo che serva una dose elevata di empatia e capacità di osservazione estrema per scrivere testi che siano coinvolgenti per gli altri. L’estrema sensibilità e l’estrema creatività spesso vanno di pari passo: questa sensibilità è insieme una benedizione e una maledizione per chi la possiede. La percezione del mondo per la persona sensibile è molto più densa e colorata, ricca di sfaccettature e visioni, ma la sua vita quotidiana può essere davvero dura; è più reattiva agli stimoli e questo può riversarsi anche non positivamente sul suo sistema immunitario. Questo tipo di persona si stanca facilmente, ha reazioni molto più emotive rispetto al normale e spesso non è in grado di gestire il rumore o la folla per periodi di tempo lunghi. È come se dovesse in qualche modo pagare questo dono che possiede la sensibilità appunto, ma dall’altra parte ha il privilegio di averla e usarla per gli altri, per stimolare e nutrire la loro immaginazione».
La scrittrice italiana Elsa Morante ha detto: “Una delle possibili definizioni giuste di scrittore per me, sarebbe anche la seguente: una persona a cui importa tutto ciò che accade, tranne la letteratura”. Sei d’accordo? Qual è la tua definizione di scrittore? «Sono assolutamente d’accordo. Non mi interessa la letteratura, mi interessano solo i buoni libri e le storie buone. Ed è molto importante essere intuitivo e “prensile” su tutto ciò che accade: chi scrive dovrebbe essere sempre pronto a trarre ispirazione da qualsiasi angolo, anche il più improbabile della conoscenza umana, che si tratti di uno stralcio di poesia cinese del IV secolo o di notizie di microcriminalità su un giornale di provincia. Per me lo scrittore è qualcuno che scrive per vivere ma qui ci inerpichiamo in un percorso pericoloso e complesso. Puoi essere super bravo – come Ian McEwan, diciamo, o Stephen King – ma puoi anche essere condizionato da bisogni materiali e quindi decidere di abbandonare la tua autenticità di autore solo per scrivere ciò che sai che lettori apprezzeranno (e compreranno). Questo è un vicolo cieco troppo pericoloso per l’esplorazione e la creatività e non vorrei mai percorrerlo. Non voglio dipendere finanziariamente dalla mia scrittura, voglio solo ottenere piacere e soddisfazione dal processo di scrittura».
Bianca Bellová è una scrittrice ceca di origini bulgare. Nata a Praga nel 1970, ha scritto una serie di libri: Sentimentální Román (Sentimental Novel, 2009), Mrtvý muž (Dead Man, 2011), Celý den se nic nestane (Non accade niente tutto il giorno, 2013) e Jezero (The Lake, 2016). Con Jezero ha vinto il maggior Premio Letterario della Repubblica Ceca, il Magnesia Litera e inoltre nel 2016 si è aggiudicata il Premio dell’Unione Europe per la letteratura. Jezero è stato tradotto in numerose lingue tra cui l’italiano con il titolo Il lago per le edizioni Miraggi (traduzione di Laura Agnoloni). Il 3 giugno 2020, sempre per Miraggi Edizioni è uscito Mona, il suo ultimo romanzo.
In uno stato che non trova coordinate reali, in un tempo indeterminato della seconda metà del Novecento, una dittatura di stampo religioso sta prendendo sempre più piede. La piccola Mona racconta al suo bue Mun dei morti inquieti che cadono lontano da casa. A salvarli ci sono i trasportatori, che con la loro magia conducono i cadaveri ai villaggi cui appartengono. La stessa storia Mona adulta, ormai donna matura, la racconterà nell’ospedale in cui presta servizio come infermiera a un suo paziente, Adam, un ragazzo tornato da poco dalla guerra con un’infezione che i medici cercano di fermare amputandogli sempre più una gamba. Bianca Bellová sviluppa nella sua scrittura evocativa e densa un romanzo che si dirama in tre linee narrative: la cornice dell’ospedale e i ricordi di Mona e del giovane soldato. Mona racconta il suo passato, Adam sogna il proprio e, in questo scavo nel tempo, i due personaggi si innamorano. Mona è un romanzo breve e potentissimo che ci ricorda che la letteratura è prima di tutto magia che salva le anime inquiete. La sua autrice, Bianca Bellová, è una tra le più importanti scrittrici della narrativa ceca contemporanea, vincitrice con il suo romanzo precedente, Il lago, del Premio Unione Europea per la Letteratura e di quello nazionale Magnesia Litera. In Italia è pubblicata da Miraggi, per la collana NovaVlná, nella splendida traduzione di Laura Angeloni.
Il bruciacadaveri: uno studio ceco sulla banalità del male
Repubblica Ceca, correva l’anno 1967. A pochi mesi dalla Primavera di Praga, un ironico Ladislav Fuks scriveva: “Viviamo nell’Europa del ventesimo secolo in un mondo civilizzato”. Sono passati più di cinquant’anni, e, per metterla in termini prettamente contemporanei, viviamo ancora in una società. Un clown world, a essere precisi.
Come si suol dire tra le fila dello stesso contesto che vorremmo denigrare, fa ridere, ma fa anche riflettere. Eppure, al di là del nichilismo post-ironico tanto caro alla mia generazione, esiste un’ulteriore via per fronteggiare l’assurdo della società in cui viviamo, la più simile ad un senso di rivolta prometeica: ridere in faccia con malinconia all’amara tragedia dell’esistenza, soprattutto quando, giunti sul pinnacolo della civiltà, si arriva alla meccanizzazione e alla burocratizzazione del genocidio. Ma senza mai dimenticare, sotto la facciata del riso, il senso di responsabilità civile.
Questo è esattamente ciò che fa Spalovač mrtvol, in italiano Il bruciacadaveri: dapprima romanzo di Ladislav Fuks, poi anche pellicola diretta da Juraj Herz, è una storia che regala un tipo di orrore diverso, sia per l’umorismo che reca in sé sia per la vicenda narrata. Nella letteratura sull’Olocausto, un romanzo che tratta l’argomento non soltanto dal punto di vista dei carnefici, ma addirittura con un impiego peculiare del ridicolo è qualcosa di incredibilmente innovativo, ancor più se raccontato in maniera clinica, senza condanna né approvazione da parte dell’autore, lasciando il verdetto ai lettori. Ripubblicato di recente da Miraggi Edizioni, Il bruciacadaveri riesce ad offrire sulla storia uno sguardo diverso, tagliente, raccontando con stile quasi gotico la connivenza delle masse di fronte ai totalitarismi e i processi psicologici delle propagande.
Sebbene oggi risulti difficile reperire narrativa ceca all’infuori di Hrabal, recentemente riscoperto, e del più che inflazionato Kundera, non è sempre stato così: la prima traduzione italiana di Spalovač mrtvol comparve nel 1972 grazie al lavoro di Ela e Angelo Ripellino, che importarono qui in Italia una cospicua fetta di letteratura ceca; mentre la recente pubblicazione, tradotta da Alessandro De Vito, è opera di Miraggi Edizioni nella collana Nová Vlna, incentrata per l’appunto sul recupero e sulla traduzione di capolavori dimenticati o sconosciuti della temperie sessantottina che trovava Praga come centro culturale.
Ladislav Fuks
L’autore, Ladislav Fuks, si inserisce tra le fila del fermento artistico e culturale praghese degli anni ’60. Studiò psicologia e filosofia, e una volta terminati gli studi si impose sulla scena letteraria ceca grazie al romanzo Pan Theodor Mundstock, del 1963, e la raccolta di storie brevi Mí černovlasí bratři, uscite l’anno successivo. In questi primi scritti sono riscontrabili già molte delle particolarità dell’autore: Fuks ebbe una particolare fascinazione per il macabro e l’attenzione psicologica, declinate nella sua opera col fine di accomunare la sorte degli ebrei a quella dei cechi. Pan Theodor Mundstock, infatti, accompagna il lettore nella paranoia allucinata che ghermisce il protagonista con una storia alquanto semplice: la graduale discesa di un ebreo praghese in una spirale di angoscia e terrore della deportazione, il quale finisce per per prepararsi fisicamente e psicologicamente a tale eventualità. Nel romanzo, Fuks gettò le basi dei caratteri tipici della sua poetica, dalla costruzione di un’intricata rete di simbologie anticipatrici (riscontrabili anche ne Il bruciacadaveri) alla crescente, inesorabile immedesimazione del lettore con un narratore inaffidabile, quando non già al di là della soglia della nevrosi.
Pur da gentile, Fuks diede eco al tema dell’Olocausto e dell’occupazione nazista in un’ampia fetta della sua produzione. Tuttavia, se da una parte i riflettori erano puntati principalmente sull’umiliazione e sullo sconforto delle vittime (è il caso di Mí černovlasí bratři, antologia dei tristi destini delle amicizie di un ragazzo ebreo), dall’altra Fuks si avvalse del grottesco per illustrare la componente paradossale degli eventi: fu proprio ne Il bruciacadaveri che tratteggiò uno dei ritratti più riusciti della sempre attuale banalità del male, quella che, nelle parole della postfazione di Alessandro Catalano al romanzo, è la patologia collettiva del nazismo.
Assolutamente evocativo, capace di dar vita con successo ad un non facile connubio tra suggestioni figurative e dialoghi grotteschi, lo stile di Fuks riesce a trattare tematiche pesanti, eviscerando gli aspetti più torbidi della psiche individuale e sociale e suggerendo al lettore la presenza di leitmotiv capaci di racchiudere e dischiudere l’intero universo narrativo. Strizzando l’occhio agli studi storici e sociali di Mosse, da Sessualità e nazionalismo ai sottotesti simbolici analizzati ne La nazionalizzazione delle masse, vi è un continuo parallelismo tra il deterioramento psichico dell’eroe e l’ascesa del nazismo, con insistenza particolare sulla fragile rispettabilità della vita familiare e professionale, su cui è facile glissare una volta soppesate sulla stessa bilancia dell’ambizione opportunistica. Del resto, l’intero romanzo è una feroce satira al collaborazionismo arrivista mascherato da decenza borghese, ancor più pungente e sconfortante se ne si considerano gli esiti fin troppo noti.
Il romanzo
Come abbiamo già avuto modo di accennare, la storia di Karel Kopfrkingl è una cupa parabola sui risvolti del filisteismo sotto i regimi totalitari, tradotta nella folle scalata al potere di questo ambizioso impiegato di crematorio. Ci troviamo calati nella realtà del 1938, ai tempi dell’accordo di Monaco: il partito nazista stava negoziando l’occupazione del territorio dei Sudeti, zona cruciale per la difesa del territorio cecoslovacco, con il pretesto di curare gli interessi della popolazione di lingua tedesca stanziata nell’area. I membri del partito locale cercavano quindi appoggi tra la popolazione ceca, diffondendo propaganda ariana e antisemita. Karel, il nostro protagonista, è la caricatura del tipico borghese: uomo rispettabile, padre di famiglia amorevole -e visitatore abituale di case chiuse-, fine conoscitore dell’arte (o meglio, del kitsch così ben delineato da Broch). Ma dietro a questa facciata di apparente normalità si nasconde un soggetto viscido e ambiguo, ossessionato dal proprio lavoro e dalle distorte implicazioni filosofiche che ne fa derivare.
Non è la prima volta che la letteratura dell’area mitteleuropea si destreggia fra luci e ombre della classe borghese, basti pensare alle Confessioni di Márai o all’iconoclastia dell’Austria postbellica, ma Karel ne diventa insieme archetipo e caricatura. Grazie alla sua fallace interpretazione del buddhismo tibetano, infatti, scorge nella sua mansione al crematorio una sottesa missione religiosa: quella di liberare attraverso le fiamme un individuo dal peso del corpo, rendendone più agevole la reincarnazione.
Questa apparente distanza tra il misticismo spirituale buddhista e le teorie naziste, quasi assurda per un lettore che non ha una conoscenza approfondita in materia, ha però un riscontro storico. La stessa scelta del Tibet non fu casuale: nella postfazione all’edizione del 2018, Catalano osserva un interessante dettaglio. Negli anni della dittatura nazista, il Tibet divenne –su direttive di Himmler- meta di spedizioni atte a dimostrare l’origine himalayana degli antichi ariani. Di primo acchito ciò potrebbe apparire curioso, eppure si tratta di una suggestione connotata da un profondissimo significato simbolico per l’immaginario nazista. La purezza incontaminata delle montagne e dei suoi abitanti, archetipo per eccellenza dei teutonici forti e vigorosi, venne ampiamente celebrata dal popolo e dal cinema tedeschi: nel filone di film per le masse ivi ambientati, che si potrebbero definire senza troppi sensi di colpa i cinepanettoni del terzo Reich, spiccano su tutti le pellicole di Fanck e Pabst La montagna dell’amore, La tragedia di Pizzo Palù e Tempesta sul Monte Bianco. Questo espediente narrativo fu ciò che consentì alla politica di essere investita di una missione divina, da portare a termine ad ogni costo sotto la guida di un uomo illuminato. Peraltro, varrebbe la pena notare che il testo non nomina direttamente nessun personaggio realmente esistito: per vie ufficiali è infatti il Dalai Lama a fare le veci di questo prescelto, ma la presentazione delle manie di grandezza di un individuo grottesco che ha come obiettivo la creazione di un mondo migliore attraverso credenze distorte è, com’è facilmente intuibile, l’eco di un palese richiamo alla realtà storica.
In seguito alla frequentazione con l’ex commilitone Reinke, Karel entrerà in contatto con il nazismo, cedendo alle lusinghe e ai vantaggi che il partito andava offrendogli. Al che, una volta suggerito per il ruolo di kapò, Kopfrkingl sceglie di diventare un infallibile ingranaggio della macchina di sterminio: da iniziale entusiasta della concezione buddista di “cerchio della vita”, Karel deciderà di utilizzare il suo posto al crematorio a servizio del partito, nella speranza di salvare più persone possibili risparmiando[le] dalla sofferenza. Sarà proprio questo suo zelo implacabile, applicato all’ideologia antisemita che si stava affermando nella Praga occupata, ad innescare una serie di tragici eventi che coinvolgeranno lui e la sua famiglia, nella quale non è difficile riconoscere la sorte dell’intero popolo ebraico. Questo delirio filosofico ha il suo parossismo nella visione in cui immagina di diventare il nuovo Dalai Lama: la soluzione finale è il macabro disegno a cui Karel, in quanto eletto, dovrà adempiere.
Quella che inizialmente sembra la semplice descrizione -certo, forse un po’ bizzarra- della vita di un uomo qualunque e delle sue buffe idiosincrasie fa trapelare presto la sua vera natura. Il sentimento di disagio che trapela da quest’individuo rientra a pieno titolo nella definizione dell’Unheimliche freudiano, quel perturbante nato dalla compresenza di elementi estranei e familiari, che Fuks traspone in prosa tramite la ripetizione sempre più deformata delle parole, in un telefono senza fili che precipita verso il disastro. Questa discrepanza testuale e fattuale tra quanto detto da Karel e quanto invece accade è peraltro uno degli stilemi chiave del teatro dell’assurdo, utilizzato in questo caso non per intrattenere ma per inquietare.
Proprio come negli anni del Reich, nel romanzo coesistono due realtà parallele: quella delle parole e quella delle azioni. Un mellifluo Karel declama al mondo la propria soddisfazione familiare, l’orgoglio per i figli e l’amore per la sua Lakme, tronfio di integrità borghese, ma frequenta abitualmente i bordelli e rivolge premure non richieste alle dipendenti del crematorio. Quanto è affidabile come narratore, specialmente se inquadrato nell’ottica storica? Molto spesso le frasi vengono ripetute, rubate, riciclate o addirittura rimodellate in base alle circostanze. Un simile eroe senza personalità, Karel, un uomo così facilmente plasmabile, non può che suscitare il riso del lettore per la sua inconsistenza e per la trivialità del suo gusto spiccatamente kitsch: il mondo come ci viene presentato è una proiezione della sua individualità, nel bene e nel male, ragion per cui la logica e la consequenzialità di cui siamo passivi spettatori non rispondono a legge alcuna, se non al suo capriccio. Proprio per questo, ogni tentativo di decifrare Karel svanisce in una manciata di interpretazioni confuse e raffazzonate, dal momento che l’eroe sembra agire scevro da qualsiasi orientamento logico e morale. Eppure, se gettiamo lo sguardo al di là della patina conformista, si può notare che a non cambiare per tutto il romanzo è soltanto la sua facciata filistea ed ossequiosa: l’ipocrisia borghese è la sola a mantenersi tale nel maelstrom di ideologie e propaganda che andava trasformando la società in un distorto coacervo di connivenza e follia. Come se ciò non fosse sufficiente, sono anche la fascinazione per il macabro, la sensibilità alle lusinghe e la mancanza di autonomia a rendere Kopfrkingl un male inarrestabile e, al tempo stesso, il più comune degli uomini. Il vero orrore descritto da Fuks non è un’astratta macchina di sterminio, bensì l’uomo medio: un individuo malleabile, che esegue gli ordini con solerzia ed efficienza rinnegando la propria famiglia, le proprie tradizioni e la propria patria.
Non mancano i momenti comici, in particolar modo nelle circostanze più sconvenienti, e la sagacia di battute che nascondono un’interpretazione più macabra rende la lettura ancora più scomoda. L’efficacia della storia, in virtù dell’efficacia della comicità stessa, è tanto più forte quanto più è amara. In una vicenda così drammatica e seria, almeno stando alle premesse storiche, l’impiego di elementi grotteschi sembrerebbe addirittura inopportuno. Eppure, l’Est Europa ha da sempre fatto uso del grottesco e dell’ironia per veicolare la satira politica e ridere in faccia agli orrori della storia, caratteristica che nel Bruciacadaveri sconfina nel territorio dell’assurdo, quell’umorismo nero che Stig Dagerman, nel suo Autunno tedesco, definisce in termini splendidi “la consapevolezza di non dover soffrire in solitudine”.
È proprio grazie a questa consapevolezza storica che il processo di straniamento si fa più forte: risulta difficile sospendere l’incredulità davanti all’assurda trasformazione del personaggio di Karel, specie in una prosa congegnata come il bizzarro teatro delle figure di cera delle scene iniziali, dove l’ironia di una semplice parola fa da contraltare al risultato iperbolico e catastrofico delle azioni descritte. L’epilogo degli eventi è ben noto e anzi, fornisce ulteriori chiavi di lettura e analisi, in maggior misura proprio perché il seguito di tali avvenimenti non è esplicitato.
La scelta di un simile antieroe, per quanto discutibile, genera e nutre un sospetto costante che distanzia dalla possibilità di immedesimazione, facendo al contempo il verso allo stereotipo del freddo, integerrimo soldato teutonico. Del resto, è difficile capire, ed è naturale che lo sia. Come porsi di fronte ad un individuo che reca in sé le caratteristiche dell’uomo più comune e di ciò che è sempre stato associato al male più puro resta il grande interrogativo del Novecento, già dai fasti della cronaca del processo di Norimberga e, successivamente, del processo Eichmann, ma l’aggrapparsi al senso dato dai preconcetti non fa che distanziare dalla comprensione effettiva di un fenomeno che la collettività ha sempre voluto allontanare dal proprio vissuto e dalla propria coscienza. E se la conoscenza degli eventi storici è necessaria, altrettanto necessario è conoscere il tacito assenso dei cittadini su cui storia e società hanno spesso e volentieri glissato anche negli anni successivi.
Il film
Nel nostro immaginario collettivo, gli unici estremi a delimitare il vuoto della cinematografia dell’Europa centrale e orientale sono, da un lato, Kusturica e Tarkovskij per addetti al settore e radical chic, e dall’altro gli strascichi della recalcitranza pop nell’aprirsi a quei film cecoslovacchi in bianco e nero con i sottotitoli in tedesco. Non c’è quindi da stupirsi se della Nová Vlna in Italia si sappia ancora molto poco, sia per quanto concerne le pellicole in sé sia per l’interpretazione storica della temperie sociale di quegli anni. La liberalizzazione del clima culturale, in atto dall’inizio del 1960 alla fine della Primavera di Praga, permise la produzione di film a tematica ebraica in Cecoslovacchia. L’Olocausto, difatti, era ancora impresso a fuoco nella memoria culturale e artistica della nazione, e tali pellicole rendevano possibile la messa in scena di temi quali moralità individuale e relazione tra singolo e società, individuo e storia, discostandosi dagli ideali del Realismo Socialista. Nel fitto sottobosco di temi e tradizioni che la Nová Vlna fece fiorire nel cinema ceco e slovacco, la Shoah fu quindi un filone molto popolare che impegnò numerosi registi, guidandoli nell’esplorazione dei generi più disparati.
Tuttavia, nel 1968, anno delle riprese del film, l’Unione Sovietica invase la Cecoslovacchia, mettendo la parola fine a quel periodo così creativamente felice. Le forze occupanti, Germania nazista e Unione Sovietica, divennero quindi equivalenti nel loro modus operandi repressivo: l’iconografia del potere e del totalitarismo si prestava ad interpretazioni multiple, alludendo allo stesso modo ai crimini di guerra nazisti e al regime comunista che si era instaurato. Vi fu un interessante processo di mutamento: se prima l’identificazione del lettore doveva corrispondere all’ideologia dominante, come richiesto dai dettami del Realismo Socialista, il riflettore si spostò poi verso chi subiva i meccanismi repressivi del potere, ponendo l’accento sulla paura originata dal conflitto tra individuo e società. L’utilizzo del nazismo era un espediente narrativo atto a mettere in guardia la popolazione dalle facili lusinghe della propaganda sovietica, che avrebbe messo a dura prova l’etica individuale. Prima della Rivoluzione di velluto del 1989, ogni critica diretta al governo comunista era proibita. Come è naturale aspettarsi, numerosi film dell’area si ingegnarono per aggirare questo divieto utilizzando con intelligenza il sottotesto politico, ma le autorità sovietiche misero comunque al bando gran parte dei film della Nová Vlna, tra i quali figurava proprio Spalovač mrtvol, riabilitato in seguito dall’opinione popolare e divenendo, ad oggi, uno dei migliori film cecoslovacchi di tutti i tempi.
Certo, il film si colloca all’interno di tale filone, tuttavia l’approccio al tema da parte del regista slovacco Juraj Herz, figura liminale della Nová Vlna e sopravvissuto egli stesso ai campi di sterminio, è alquanto peculiare. Egli si presentò sempre come un outsider, affemando di “non [poter] dire di avere un senso di appartenenza alla Vlna, [di sentirsi] un tutt’uno con alcuni individui – con Jires, o Schorm, ma non con la Vlna”. Nato il 4 settembre 1934, lo stesso giorno di Jan Švankmajer, e formatosi al dipartimento dei burattini dell’AMU, l’Accademia di arti performative di Praga, Herz prese parte alla raccolta-manifesto Perličky na dně (Perline sul fondo). Spalovač mrtvol, conosciuto all’estero come The Cremator e candidato all’Oscar nel 1970 come miglior film straniero, si è col tempo guadagnato a buon diritto un posto nell’immaginario collettivo ceco, ed è, insieme a a Obchod na korze (A Shop on the High Street, di Kadár e Klos) e Démanty noci (Diamonds of the Night, di Němec), uno dei film più rappresentativi del genere, raggiungendo addirittura lo status di cult.
Presagita l’azione repressiva sovietica che sarebbe entrata in atto di lì a poco, con la conseguente limitazione della libertà espressiva per tutti gli intellettuali, Herz tentò di girare il film il più velocemente possibile. Eppure, proprio grazie allo stigma di outsider, riuscì ad assicurare la propria posizione e mantenere l’integrità artistica anche negli anni del regime comunista. I suoi film successivi sfoggiano lo stesso immaginario gotico e nichilista delle pellicole d’esordio, sempre con un occhio di riguardo allo sconforto per il genere umano, restando però nell’ambito degli adattamenti letterari, scelta che generalmente non risultava passibile di censura sotto la morsa sovietica. Tra le opere maggiormente note del suo corpus ricordiamo Lampade a olio, del 1971, tratto da un romanzo di Jaroslav Havliček, e Morgiana, dell’anno seguente, da un testo di Aleksandr Grin.
Spalovač mrtvol è spesso e volentieri descritto come uno strano ibrido tra l’amarissima commedia apocalittica del Dottor Stranamore e la spirale di follia di Repulsion, ma l’occhio di Herz è assolutamente clinico. Né lui né Fuks, con cui ha scritto la sceneggiatura a quattro mani, vogliono edulcorare l’orrore della vicenda agli occhi del lettore e dello spettatore.
La caratteristica più spiccatamente originale del film è senza dubbio il montaggio. Sin dai titoli di testa si viene messi di fronte all’utilizzo di immagini parziali, lacerate, frammentate e ricucite tra loro, sintomatiche dei tagli e delle ellissi della memoria e di una narrazione a focalizzazione interna. L’utilizzo creativo del montaggio alternato, che in sequenze veloci, quasi fulminee, alterna il punto di vista soggettivo di Kopfrkingl alla narrazione esterna, offre allo spettatore un assaggio di ciò su cui Karel sceglie di riversare la propria attenzione, che il più delle volte si sofferma su particolari sessualmente espliciti. Altre volte, invece, alla componente voyeuristica si sostituisce l’espressione diretta dei pensieri di Kopfrkingl, dischiudendo progressivamente la vertigine della sua follia. Lo spettatore è costretto a guardare la realtà come la vede Karel, e percepisce con maggiori immediatezza e potenza narrativa la sua inaffidabilità tramite la sovrapposizione immediata di immagini, come nella scena in cui la soluzione finale acquisisce il respiro solenne e grottesco del Giudizio Universale di Bosch.
Per immergere lo spettatore nella dimensione interiore di questo antieroe dissociato, il direttore della fotografia Stanislav Milota sceglie di distorcere la prospettiva attraverso un ampio utilizzo del fisheye e del grandangolo. Le stesse transizioni da scena a scena sono estremamente peculiari: da un primo piano di Karel si zooma indietro fino a rivelarne la figura intera in un ambiente diverso. In questo modo, risulta pressoché impossibile collocare le vicende in uno spazio e in un tempo precisi e consequenziali, dando ulteriore risalto alla dimensione psichica del personaggio come unico indice di affidabilità. Spalovač mrtvol non condanna e non giustifica, ma offre uno spaccato della psicosi storico-sociale attraverso l’identificazione forzata con il voyeurismo e l’egomania di Kopfrkingl. La scelta del bianco e nero, e soprattutto della composizione, è un omaggio al cinema espressionista tedesco. Tutti gli elementi, nel loro rigore, hanno una loro funzionalità caricaturale: architettura, quadri, poster, persino gli stessi volti dei personaggi. Hrusinský, l’attore protagonista, vessillo in carne e ossa dell’inquietante associazione tra volto serafico e psiche marcia, sconfina a pieno titolo nell’Unheimliche freudiano di cui sopra. Per metterla in termini lombrosiani, è praticamente impossibile non percepire lo straniamento emanato da un nazista le cui fattezze somigliano più alla definizione di Untermensch che ad un vigoroso eroe ariano. È un disegno che fa parte dell’intento paradossale della narrazione, per quanto, nella sua personale interpretazione dei fatti, Karel si ritenga un’incarnazione visibile del superuomo tedesco.
Estremamente funzionale è anche l’utilizzo delle scenografie, che gradualmente, con il procedere della narrazione, vengono inquadrate sempre più secondo i canoni dell’estetica totalitaria, con la sua preferenza per il rigoroso e il monumentale. Il lugubre crematorio, nelle prime scene abbozzato appena, acquisisce la corporeità ieratica dei monumenti nazionalisti tedeschi, con le loro geometrie classiche e pulite che miravano a ricreare il senso più puro del sacro a partire dai modelli greci. Ed è proprio così che la definizione di tempio della morte datogli da Karel varca i confini dell’ironia per lasciare spazio soltanto ad una crudissima inquietudine. Se, seguendo quest’ottica, l’Olocausto è quasi un’allucinazione, un capriccio delle velleità carrieristiche di Kopfrkingl, è purtroppo l’unico elemento al quale gli spettatori possono collegare la realtà dei fatti, e vale la pena osservare che il crematorio è il solo ambiente, all’interno della narrazione, a fornire uno spiraglio di inquadramento storico e politico.
Risulta difficile credere che il pessimismo decadente di questa danza macabra, pungente e feroce critica al vetriolo nei confronti di qualsiasi ideologia totalitaria, abbia ottenuto l’approvazione delle autorità comuniste (Herz stesso, peraltro, si astenne dal nominare esplicitamente il nazismo nei discorsi di Reinke, riferendosi semplicemente ad un generico “Partito” lasciando ambigua l’interpretazione). Eppure la sceneggiatura brillante, la messa in scena grottesca e disorientante che strizza l’occhio all’Espressionismo tedesco, l’interpretazione convincente e fenomenale di Hrusínský nel ruolo del viscido protagonista e la splendida colonna sonora che accompagna la vicenda ai confini del perturbante rendono Spalovač mrtvol una perla rara, che unisce magistralmente l’estetica dell’eccesso camp ad uno stile morboso e sublime.
Usiamo cookie per garantirti un servizio migliore.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.