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Il richiamo del dirupo – recensione su L’Opinionista

Il richiamo del dirupo – recensione su L’Opinionista

Il Richiamo del dirupo” è il romanzo d’esordio della scrittrice torinese Mìcol Mei, Genere: narrativa. Pubblicato per la casa editrice Miraggi Edizioni, “Il richiamo del Dirupo” racconta di un ambiguo propietario e della sua villa a picco sul mare, “Il Pallido Rifiugio” dove una combriccola di intrepidi ma problematici personaggi cercano salvezza dalla mestezza delle proprie vite. Per conoscere meglio la storia e i progetti dell’autrice l’abbiamo intervistata per L’Opinionista.

  1. “Il richiamo del Dirupo” è stato il romanzo che ha segnato il Suo ingresso nella narrativa italiana. A quasi due anni di distanza dalla pubblicazione, c’è qualcosa che modificherebbe del “Richiamo del Dirupo”? Oppure che non cambierebbe per nessuna ragione al mondo? Qual è il suo rapporto con le Sue opere precedenti? Le sente sempre figlie sue o le capita di rinnegarle?

Se fosse possibile modificherei ogni singola cosa che abbia mai scritto in vita mia. Sarei come uno di quei pittori che aggiungono o tolgono qualcosa al colore all’infinito. La perfezione non è interessante, come scrivo nel libro, è terribile. L’unica cosa su cui sarò sempre d’accordo con me stessa è l’autenticità nel comunicare.

Tutto ciò che scrivo e firmo è figlio mio, certe ingenuità col tempo si perdono, si sviluppa uno stile e un percorso nella propria narrazione e certamente guardando indietro si osserva come un maestro il lavoro di un allievo. Per diventare bravi c’è solo una cosa da augurare che ci capiti: invecchiare.

  1. Pubblicare in Italia, soprattutto con una casa editrice valida come la Miraggi Edizioni, è impresa ardua per gli autori esordienti. C’è un consiglio che si sente di dare a tutti gli aspiranti scrittori e scrittrici che ancora faticano a trovare un editore? Nella quarta di copertina del Suo primo libro, d’altro canto, svetta una frase eloquente: “la speranza è davvero il peggio che possa capitare a una persona”.

Credo che la differenza tra un autore che continua a fare questo mestiere e uno che invece lascia perdere stia proprio nella perseveranza. Il talento è fortuna come diceva Woody Allen, per cui al mondo ci saranno moltissimi autori di talento che non hanno ancora avuto la loro occasione. L’unica cosa che conta veramente è crederci, sapere incassare e fidarsi delle persone giuste.

Il mio punto di vista sulla ‘speranza’ riguarda ciò che definisco ‘alibi’, traslitterando liberamente e modestamente Pasolini. Detesto il pensiero di non agire ma attendere che Tizio o Caio intervengano per risolvere le cose per conto loro. Penso che bisognerebbe sforzarsi di avere un po’ di coraggio nella vita e senso di responsabilità personale, per quanto duro sia da mettere in pratica.

Si tratta per l’appunto di rendersi consapevoli della propria vita.

  1. A proposito di speranza: nel “Richiamo del Dirupo” molti personaggi sono aggrappati alla speranza, eppure presto o tardi faranno i conti con la realtà dei fatti e con le conseguenze delle proprie azioni. Che cosa è per lei la speranza? È davvero un sentimento negativo? Pensa che, da sola, possa bastare a raggiungere i propri obiettivi?

No, come ho appena menzionato votarsi a qualcosa o qualcuno perché ci tolga dai pasticci lo ritengo vano. Comprendo i sentimenti che spingono le persone a cercare questo genere di conforto e giustificazione rispetto a ciò che non vogliono ammettere con se stesse, ma preferisco vivere sapendo di essere responsabile e talvolta spettatrice.

  1. È piuttosto risaputo che nell’atto compositivo ogni autore lasci nella propria opera qualcosa di sé. C’è un personaggio dietro cui si rivede maggiormente?

Tutti. Tutti loro sono una piccola frazione di me. Ogni personaggio riecheggia le mie cicatrici e i miei sorrisi. Tutte le mie storie sono la mia storia. Il mio debole per Thymian è però evidente.

  1. Quali sono le fonti di ispirazione di cui si serve durante la scrittura? Parte da esperienze reali – in parte autobiografiche – o dalla sua immaginazione? In altre parole: quali sono per Lei le influenze reciproche fra letteratura e vita?

Entrambe le cose. Prendo delle fette di vita e di esperienza e ci costruisco una casa sopra. Poi qualcuno ci viene a vivere e inizia l’avventura. La vita è finzione e la finzione è la vita, quello che raccontiamo sono storie e nelle storie raccontate c’è sempre del vero e del creativo.

  1. Concentriamoci per un attimo sulla persona a cui ha dedicato “Il richiamo del Dirupo”, Chiara Fumai. Vuole raccontarci qualcosa di quest’artista eclettica? Perché ha deciso di dedicare a Fumai le Sue pagine?

Non posso essere obbiettiva quando si tratta di Chiara Fumai, perché la considero un genio ma sono troppo coinvolta emotivamente e individualmente per poter dire ciò che è più giusto su di lei. Grazie al cielo c’è chi è riuscito a farlo e sono Nero Editions con il volume a cura di Francesco Urbano Ragazzi, Milovan Farronato, Andrea Bellini, POEMS I WILL NEVER RELEASE: CHIARA FUMAI 2007-2017. consiglio vivamente a chi è interessato o anche solo vagamente incuriosito di cercarlo online o in libreria.

  1. Il “Richiamo del Dirupo” poeticamente può essere considerato un’oasi all’interno di cui convivono varie arti: la narrativa, in primis, poi la pittura, la poesia, la musica. Tutta l’arte assurge a essere luogo privilegiato: qual è per Lei il ruolo dell’arte nella vita delle persone? E nella Sua? Qual è il suo valore? Qual è il suo rapporto con l’arte e quando ha capito che non potesse farne a meno?

Ciascuno di noi giustifica la sua esistenza con ciò che significa più profondamente del resto, per me si tratta dell’arte e della curiosità, dell’imparare e scoprire, conoscere. Non ho potuto fare a meno dell’arte nella mia esistenza da quando ho imparato a camminare e ancora oggi è il leitmotiv della mia quotidianità. L’arte conta per tutti, solo che molti non se ne rendono conto.

  1. Se si cerca il Suo nome in rete saltano subito agli occhi le tante persone che la seguono sui social network. Senza voler andare fuori tema, come considera questi strumenti? Che cosa rappresentano per Lei e per il Suo percorso artistico?

I social sono un male necessario per arrivare alle persone e raggiungere chi può amare ciò che facciamo, io da un paio d’anni mi sono affidata a persone competenti per aiutarmi in questo e nella mia carriera più in generale. Mi auguro di poter continuare a spacciare cultura e bizzarria con le mie opere e non solo.

QUI l’articolo originale:

Più di là che di qua – recensione su Blow Up

Più di là che di qua – recensione su Blow Up

Per festeggiare lo stato di prolifica grazia in cui versa la sua prosa da qualche anno a questa parte, Morelli si concede un vagabondaggio oltre la soglia non oltrepassabile che divide perentoriamente in due le esistenze di noi tutti: il di qua della vita e il di là della morte. Nell’intercapedine, quello che i buddisti chiamano Bardo, l’interregno di 49 giorni prima dell’ingresso in nuovo corpo e via così. Se Saunders si era dilettato di buttarci Lincoln, in quella terra di mezzo, crogiolandosi (anche) nel lacrimevole dolore, Morelli prova ad attraversarla in bicicletta, inanellando una schidionata di incontri che si riappropriano delle salutari rughe della commedia, sorridendo di fronte all’imperscrutabile. Fedele alla strampalatezza, il nostro crea un pretesto ridicolo per violare il diaframma e dilagare tra le anime dei morti, millenarie o giovani che siano.

Che sia Elvis o Napoleone, Gesù o Omero, Nerone o Salomone, Hitler o Socrate; ma anche Totò, o Marx, Bela Lugosi o Luigi Malabrocca la celebre maglia nera del ciclismo eroico, il punto vitale sta sempre nella felicità dell’incontro. Non c’è mai abbassamento o sarcasmo, piuttosto una serena attenzione di sguardo, pronto al riso, certo, ma anche all’inevitabile malinconia della finitezza, a una salutare saggezza del non sapere.

Colloqui con il Pesce Sapiente – recensione di Anna Cavestri su Exlibris20

Colloqui con il Pesce Sapiente – recensione di Anna Cavestri su Exlibris20

Sulla consultazione dei sogni. Il sogno vien su durante il sonno, attratto dalla sua luce come lo sono
i pesci dalla lampara. Come quelli della fiocina, viene arpionato e ucciso dall’interpretazione (…) Un’antica sapienza vuole invece che lo si consulti come un Pesce Sapiente e poi, spenta la luce del sonno, lo si lasci tornare intatto nel profondo e si tragga profitto dai suoi insegnamenti.


Paolo Brunati è un fiume in piena, in questo libro, Colloqui con il pesce sapiente, disserta sui fatti della vita quotidiana, riflette sulle caratteristiche degli umani, usi e costumi , con occhio critico e acuto.

A volte canzonatorio, ironico quasi si diverta a beffeggiare anche se stesso.

Ci sono temi ricorrenti quali la morte, la poesia, lo scrivere e la lettura, di cui parla con ironia o con convinti disappunti.
Della lettura (…) a me per leggere non fa più bisogno del libro. O, meglio, di tutto il libro. Mi si è sviluppato un sistema per cui me ne basta un pezzetto (…) Potrei dire che come alla Rana cade la coda del girino, ho abbandonato la lettura del libro come una spoglia, come in una muta

Gli animali compaiono spesso, nei ricordi di bambino quando “mutilai molti insetti e altri ne arsi vivi con la lente a scopo scientifico, lo stesso che perseguono con gran merito Entomologhi laureati “. Geniale.
O come paragone con gli umani. Anche i ricordi tornano spesso, nei capitoli “Delle colpe la seconda colpa inespiabile “ quando a un compleanno della madre ebbe l’impulso di tirarle in faccia la torta che lei aveva preparato con tanto amore.

L’animo fanciullesco ritorna spesso ed è molto divertente. Di tutto scrive: A proposito della mia vita, Del nudo, Del tempo, Sulla Trinità, senza mai annoiare anzi lasciando al lettore punti di riflessioni su argomenti che magari non sono proprio all’ordine del giorno.

È una raccolta di pensieri diventati libro, che ha accolto con meraviglia, meraviglia e stupore che ha avuto di fronte ad ogni situazione trattata. E per citare un evento particolare, che esprime bene la “filosofia “ dello scrittore: “Il giorno che la nonna cadde all’indietro è rimasto per me un giorno di chiarezza. Come uno di quei giorni di primavera dove senti nell’aria odore di resurrezione. Cadde all’indietro scendendo dal tram della linea 16. E già questo è strano (…) Quello della nonna fu un ribaltamento importante, una prova generale, una simulazione della sua uscita dal mondo (…) Andare in cielo in tram“. “Del nascere. Io nacqui nell’ottobre del 1989 dall’amore di mia moglie, una donna bellissima, con il suo amante. È stata per me una liberazione, perché fino ad allora qualcosa di plumbeo aveva gravato sulla mia testa dandomi un’andatura curva.

E tanto altro tutto da leggere e sempre con almeno un mezzo sorriso. Purtroppo Brunati, se n’è andato poco dopo la pubblicazione del libro, in tempo per provare ancora con lo stupore di bambino questa nascita.

Libro profondo, lettura divertente.

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Il bambino intermittente – recensione su Tuttolibri

Il bambino intermittente – recensione su Tuttolibri

L’intermittenza rende unici

Leggere Il bambino intermittente di Luca Ragagnin è un’esperienza formativa, divertente e anche ancestrale. Conosciamo Berg, uno dei più interessanti personaggi della letteratura contemporanea, fin da quando maneggia il biberon e gironzola intorno alla mamma impegnata nel rito del trucco. È figlio unico, i genitori sono separati, ha una madre professoressa, un padre che lo porta in giro con un Maggiolino giallo a pois rosa insegnandogli i nomi degli alberi e dei funghi e i nonni di mare e quelli di città. Con una sorella immaginaria e l’amico Paul, Berg vive l’infanzia nella Torino degli anni 70. Trascinati dalla sua straordinaria immaginazione ne attraversiamo l’adolescenza fino all’età adulta.

Berg sente di avere molti «nemici», persone, luoghi, oggetti, ostacoli che gli impediscono di diventare chi vuole davvero essere. Anche per questo Berg cambierà nome molte volte, scoprendo così, e noi con lui, il valore salvifico dell’Intermittenza: accettarla lo porterà a diventare adulto mantenendo la sua identità cangiante e variopinta, scontrandosi con la realtà, con i suoi aspetti duri, feroci ma anche di commuovente bellezza, e trovando infine il modo di armonizzarli. Il bambino intermittente mostra a noi lettori il valore inestimabile dell’unicità dell’essere umano, rivivendo il nostro passato, le nostre meraviglie, le nostre paure e arrivando a definire chi siamo veramente.

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I Pellicani – recensione di Leonardo Malaguti su LiminaRivista

I Pellicani – recensione di Leonardo Malaguti su LiminaRivista

Sintassi, solitudine e Simmenthal. I Pellicani di Sergio La Chiusa

A cavallo tra Beckett e Lo Sgargabonzi, tra Topolino e Kafka, I Pellicani di Sergio La Chiusa (Miraggi 2020) si snoda come un sogno lucido, un’allucinazione verbale in cui il lettore viene risucchiato e imprigionato in un trilocale claustrofobico assieme al protagonista e al suo (presunto) padre.
L’appartamento dell’anziano Pellicani è assieme stanza, mondo, e l’interno della mente di Pellicani figlio (?), che – narratore prepotente e assolutamente inaffidabile – filtra attraverso la sua logorrea ogni frangente della realtà, rendendola indistinguibile dalle sue fantasie e angosce. 
Il libro è l’appartamento e l’appartamento è il libro, e i protagonisti non possono uscirne perché vorrebbe dire uscire dalla narrazione, staccarsi dalle pagine. 

«Il corpo è la gabbia dalla quale nessuna fuga è ammessa e che ci rende tutti simili […] anche l’immobile fatiscente in cui entrano in contatto i Pellicani potrebbe essere visto come un grande corpo-gabbia, o, meglio, un corpo sociale in rovina – e se un’etica del corpo è rintracciabile nel romanzo va forse cercata nella presa d’atto di questa precarietà e impossibilità di fuga che ci rende tutti simili.» [1]

Questo corpo-gabbia di cui parla La Chiusa, prima ancora di essere «immobile fatiscente», pezzo di carne o costrutto etico-sociale, è il testo stesso. O meglio, è soltanto il testo: la scrittura non s’immerge nella storia e nei personaggi, non si mimetizza, non si fa immagine, ma seguendo un moto inverso che dalla profondità porta alla superficie mette al centro se stessa e le parole, il loro suono, il flusso che creano. Utilizza un italiano eccentrico, desueto e pop, che attraverso un’ipotassi prepotente spinge il testo a perdersi in mille diverse linee di pensiero, voli pindarici senza capo né coda, un vortice senza un centro che col sorriso sotto i baffi fa progressivamente sfaldare il senso del discorso e delle parole. L’incertezza tracotante di Pellicani figlio, l’angoscia muta e scatologica di Pellicani padre, la decadenza marcescente del palazzo, non vengono tanto descritte, quanto letteralmente incarnate dalla prosa stessa. Tutto viene messo in discussione, anche l’identità della voce narrante in prima persona, che – nel momento di massima incertezza semantica e formale – non regge la tensione e, prendendo le distanze da sé e persino dal lettore, muta per qualche paragrafo in una terza persona.

«Il vecchio ci stava ipnotizzando, risucchiando nei vortici del suo naso, e anzi in un certo senso eravamo tutti accucciati lì dentro, rannicchiati, al calduccio, trasportati nel suo mondo, incavernati, per così dire, inselvati tra ruvidi peluzzi e ivi vezzeggiati da una brezzolina […].» 

L’attenzione di La Chiusa alle possibilità espressive della prosa è senza ombra di dubbio l’elemento più originale e riuscito del libro (che non a caso ha ricevuto la Menzione speciale Treccani alla XXXII edizione del Premio Calvino), approccio in controtendenza rispetto un panorama letterario che solitamente privilegia l’eccessiva semplificazione, e che ricorda per certi versi quello (più filologico ma altrettanto fantasioso) di Massimo Roscia, un tour de force linguistico venato di un’ironia nera e surreale. Non sempre però la lettura scorre, non tanto per la lingua, quanto per certi momenti di ridondanza, che, a volte, più che scelte di stile sembrano provare a nascondere una prematura stanchezza drammaturgica. Come nel recente La Madre Assassina di Ermanno Cavazzoni (La Nave di Teseo, 2020) – formalmente opposto, ma dalle tematiche simili, entrambi racconti kafkiani incentrati su protagonisti che mettono in dubbio tutto ciò che vedono e che sono, intrappolati in un mondo ostile ma da cui dipendono, uno che cerca di emanciparsi da una madre/mostro, l’altro da un padre/parassita – l’impressione è che quello che sarebbe stato un racconto incisivo sia stato diluito in un romanzo sì piacevole, ma meno pregnante. 

Con I Pellicani, La Chiusa ha tentato l’impossibile: una summa della trilogia beckettiana – di cui tocca tutti i temi salienti, dall’identità sfaldata, alla solitudine esistenziale, al caos, alla malattia, alla morte, all’incomunicabilità, e di cui rievoca la prosa fiume – ibridata con una vena satirica allucinata che, tra il trash e il nostalgico, tra la Simmenthal e Amleto, racconta di un Paese infantile e senile assieme, che si riconosce soltanto nella pubblicità andata in onda tra un cartone e l’altro quando eravamo piccoli. Un’ambizione mastodontica, insomma, destinata a fallire in partenza: ma La Chiusa sa che, stando a Beckett, il fallimento non è che il risultato ineluttabile di ogni azione umana, il motore che ci muove e paradossalmente ci spinge a vivere, e che, non a caso, è anche il fulcro de I Pellicani; dunque si può tranquillamente affermare che si tratta di un fallimento riuscito. In fondo il sottotitolo del libro è storia di un’emancipazione: emancipazione dalla società, da se stessi, dal falso mito capitalistico del dover “riuscire” per potersi definire umani.

«You must go on. I can’t go on. I’ll go on.» [2]





[1] Intervista a Sergio La Chiusa di Angelo Di Liberto.
[2] da Samuel Beckett, L’innominabile

QUI l’articolo originale:

https://www.liminarivista.it/comma-22/sintassi-solitudine-e-simmenthal-i-pellicani-di-sergio-la-chiusa/?fbclid=IwAR1NUmFm7vo9HFnzW5ERfCfxw0F_7iXWvep4utYeKmaUgrup5hDXEsVkoPs&cli_action=1631806272.318

Più di là che di qua – recensione di Anna Cavestri su LoScrivodaMe

Più di là che di qua – recensione di Anna Cavestri su LoScrivodaMe

Secondo un rito arcaico della religione tibetana chiamata “ divagazione o vagabondaggio dell’attenzione “ lo sciamano specializzato è in grado di fare dei veri e propri viaggi nell’aldilà , o meglio, può vedere nello stato post mortem delle persone.

Il protagonista esperto, monaco buddista, va nell’aldilà di alcuni personaggi famosi in bicicletta, che è un’altra delle sue passioni.

Ci sono delle condizioni affinché questo possa avvenire radicate in quella visione della vita e della morte di questa religione, il concetto viene chiarito nel libro.

I personaggi che vengono osservati nel momento della loro transizione, che ha una durata che è tutto un programma pure quella, sono i più diversi nei periodi più lontani e meno rispetto al nostro tempo.

Dice il monaco:” sono proprio le cose che non capiamo a tenerci vivi e non solo, per quanto mi riguarda quelle che capiamo o crediamo di capire più tempo ci mettiamo a capirle e più si allunga la vita…..”

E quindi troviamo Archimede, Lucrezia Borgia, Attila, Napoleone, Marx, Hitler, Elvis Presley, Freud, Frida Kalo e tanti altri a vivere situazione diverse da quelle che hanno vissuto.

Marx a dire che “ il lavoro è una funzione animale “, Freud rimasto piegato su se stesso, come un libro dal titolo: “L’interruzione dei sogni “ per esempio. E che dire di Dante che “appena giunto sull’altra sponda si è visto arrivare contro migliaia di persone illustri e sconosciute ma tutte arrabbiate…..che lui non ricordava cosa gli aveva fatto…”

E tanto altro.

Il libro l’ho trovato originale e divertente. Questo “ritorno in vita “, che è quasi una ritorsione per i personaggi presi in considerazione è interessante e pieno di riferimenti letterari e culturali. .

Ed è anche l’occasione per ripassare la storia, in cui i personaggi sono esistiti o per scoprirne altri di cui magari si è solo sentito nominare.

È un libro molto originale, una lettura piacevole.

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Il bambino intermittente – recensione di Silvia Acierno su Exlibris20

Il bambino intermittente – recensione di Silvia Acierno su Exlibris20

In questa storia le parole vengono in qualche modo prima di tutto. E allora comincio proprio dalle parole che riempiono gli spazi, le distanze tra le mots et les choses, tra Luca Ragagnin, l’autore, e le cose, tra sé e il mondo. Tra i mobili della stanzetta in cui era bambino, la sua scrivania, il suo lettino, e i muri perché da bambino il narratore non sopportava che il suo letto fosse stretto alla parete. Quello spazio è l’insostenibile vertigine del vuoto. E le parole che devono riempirlo, “mettersi tra” (intermettersi), diventano infinite, quasi quanti sono gli atomi che ci separano, sempre più lontane dalle cose, che finiscono per perdersi in descrizioni e sovradescrizioni, voragini e burroni. Per avvicinarsi però all’autore, alla sua psiche e nevrosi. Berg, così si chiama il narratore, in fondo sta lì, in quello scarto, in questa distanza. Dove appunto la digressione e i suoi flussi sono uno stato d’animo, un modo di stare al mondo. L’opposto della digressione è la mancanza di immaginazione, la pigrizia, così ci dice. L’immaginazione invece per Berg è quello che separa la parola dall’azione, il reale dalla realtà, tutto quello che sta lì in mezzo. Lì senza argini, il bambino che contava numeri si allunga nell’adulto che conta parola per allungare il tempo.

Le parole hanno un’origine materna o paterna. Quelle del padre sono tassonomie, quelle della madre aspettative. Tra parentesi mamma o papà perché i genitori sono separati e quindi non solo doppie vacanze ma anche cose separate, quelle di mamma e quelle di papà, parole separate, e in qualche modo due universi separati, gli uomini da un lato e le donne dall’altro. Ad un certo punto della storia la madre di Berg, una maestra, compra una casupola in campagna che il narratore descrive nei minimi particolari con la solita autoironia che è un modo per nascondere a se stesso quei sentimenti scomodi che si nutrono nei confronti dei nostri genitori e che non sempre siamo disposti a vedere ed accettare. Questa casina dove tutto batte contro tutto, dove ogni spazio si scontra con quelli contigui, avviluppata da erbe e cose ed insetti minuscoli, una casa giocattolo, una casina delle bambole, un fortino è, allo stesso modo del romanzo, una rappresentazione perfetta dello scrittore, almeno di quello che si nasconde dietro Berg, e delle sue fobie. Ma è anche la forma del ricordo. Cos’è in fondo quella casa in cui siamo vissuti quando cresciamo e tutto cambia, e siamo nelle nostre case e ci mancano tante cose, se non uno spazio minuscolo, un nocciolo, chiuso e perfetto nelle sue imperfezioni come un carillon, come una casa giocattolo, appunto?

Ma anche la casa o stanza che il narratore va costruendosi è un piccolo cerchio forse ancora più angusto della casetta della madre. Un cerchio che allontana tutti gli altri, per snobismo, le ragazze stupide, i figli di papà, e tutti quei nemici, reali o immaginari, che ci costruiamo, forse solo per paura, prima che quegli altri ci facciano del male o ci feriscano di nuovo. “Non sarà un cerchio perfetto, probabilmente non sarà nemmeno un cerchio; sarà una forma chiusa, irregolare, spezzettata, ma avrà una porta, per lasciare fuori”.

Nella stanza, tra i muri e sipari del cerchio, le parole devono assolutamente sostituirsi agli oggetti, coprirli, nasconderli. Soprattutto alcuni: quelli che hanno occhi e ingranaggi, quelli da cui il narratore anche adulto continua a distogliere lo sguardo. Le cose che lo fissano con occhi inanimati, come le bambole di pezza nella stanza della madre. Le bambole sono come tre bambine che odiano Berg. Così come la sveglia, che il bambino osserva mentre la madre riposa nella sua stanza, scatena la visione del cadavere di una donna nuda (di nuovo una figura femminile, di nuovo legata alla stanza intima della madre) e insidiosa. Oggetti che portano con sé quell’angoscia che nel romanzo di Saramago, Las intermitencias de la muerte, è per assurdo moltiplicata dall’assenza del tempo e della morte. Quegli oggetti sono il tempo che si prende beffa di te andando indietro per poi prendere quella rincorsa che si porta appresso tutte le illusioni.

Intorno alle parole ci sono le parentesi anche loro oggetto di infinite moltiplicazioni. Poi ci sono le forme che non si adattano alle cose e alle parole che le descrivono, ma hanno una consistenza propria, un’idea, forse l’immaginazione propria dell’infanzia, che si interpone tra la cosa e la parola, trasformandola e creando un lessico molto intimo.

Le parole-talismano o piuttosto parole-leggendarie attorno a cui si materializzano i passaggi da un età ad un’altra, che sono sempre piccoli salti o piuttosto passi attorno a un punto, sempre lo stesso, in sfere che da quel punto si allontanano sempre di più. Fino a quando quel punto resterà dentro pulsante o soffocato. Catavoletto è una di queste: il tavolo posato su due cavalletti che gli regala il padre e che in qualche modo rappresenta il luogo della scrittura che per Ragagnin è un tavolo-sorella. Una sorellina immaginaria, Kyoko, (ancora una versione della femminilità della madre) della cui mancanza il bambino in qualche modo si è fatto una specie di colpa. Un cappello che è un po’ come un orsetto. C’è la panchina. Nel mio immaginario la panchina è un posto romantico, lo spazio stretto di un appuntamento, un bacio svolazzante come quelli di Doisneau sulle piazze e i bancs publics di una Parigi che sopravvive ancora, fedele a se stessa. Niente di più lontano dalla panchina di Ragagnin: luogo della comitiva ristretta di pochi ragazzi, sicuramente appassionati di musica cult, non il pop dei comuni mortali. Solo ragazzi, magari un po’ misogini ma per timidezza. Queste parole sono soprattutto oggetti su cui ancora scorre il tempo. Ma questa volta non minacciano Berg, piuttosto lo difendono come bastioni.

Ragagnin si mette sotto torchio. E quando ci si mette sotto torchio le parole diventano labirintiche e hanno ganci che trascinano con sé tutto, pieni e vuoti. Ganci ancora sono quelle parole tra parentesi a fine capitolo che visivamente devono anticipare ed afferrare l’inizio del capitolo successivo. Il suo bambino intermittente è un bambino distratto, un adulto con la testa tra le nuvole, incapace di portare a termine qualsiasi progetto, uno che inciampa, si scontra continuamente nelle cose che sporgono e quando resti impigliato anche le parole e i ricordi fanno cadute rocambolesche, giri vorticosi. E allora possono far male. È un bambino che probabilmente la madre ha sempre cercato di incasellare. Il biglietto da visita che la madre gli regala in una risma e che il bambino riscrive continuamente è una metafora di questa necessità di inquadrarlo. Che poi diventa una necessità quasi maniacale del ragazzino e dell’adulto di nascondersi, e di coprire sotto tutto il suo vero me. E su quel biglietto ci sono alcune delle definizioni che sentiamo dire distrattamente o con grande apprensione ai nostri genitori: bambino iperattivo, bambino problematico, Ragagnin aggiunge, bambino tra parentesi, bambino maltagliato, bambino indeciso… Tutte tristi testimonianza della difficoltà dell’adulto di accogliere un bambino. Lui quei biglietti racconta di averli inceneriti ma nel romanzo ritornano. Il romanzo stesso è l’ennesimo biglietto da visita, un’altra identità.

Berg è un collezionista, di libri, di musica e vinili, di erudizione musicale. Ma soprattutto di parole e ricordi e di immaginazioni, che hanno una consistenza diversa dalla sabbia della famosa collezione che Calvino sceglie come metafora della sua raccolta. Eppure anche tutti quegli oggetti e fantasie ancora così corporee, accumulate, a volte affastellate in queste pagine finiranno per diventare granelli di sabbia, edifici che crollano.

Come raccontare la propria infanzia? Forse meglio nello spazio incompiuto del frammento, di quelle poche scene che sopravvivono di un tempo del prima. Difficile farlo in una narrazione classica, dove a una pagina segue un’altra, ad un anno segue quello successivo. Difficile farlo quando si pretende di raccontare invece di mostrare. In questa narrazione l’adulto Ragagnin è sempre presente anche troppo, accompagna sempre per mano quel bambino ne completa il gesto, lo interpreta, lo racconta con parole troppo adulte. Eppure, nonostante il narratore si intrometta continuamente, provi a rientrare negli spazi vuoti, quel bambino impacciato, che pende dalle labbra degli adulti sta lì, eccolo. E quanto più l’io narrante non si ridimensiona, non si rimpicciolisce, dà libero corso alle sue fantasie gotiche e non, tanto meglio vedo quel bambino protetto ma sempre vigile, che ha paura di dormire, paura di mangiare, paura che accada qualcosa alla madre mentre dorme. Il bambino che guarda gli enormi vagoni merce dal terrazzo della nonna.

Il bambino intermittente è un bambino che avanza e si ferma, si accende e si spegne. Ma è anche quel bambino che ritorna continuamente e involontariamente nell’adulto, nella scrittura. Evoca le “intermittenze del cuore” di Proust. La memoria involontaria che sola può farci sperimentare il vero dolore, e restituirci la persona che si ricorda assieme a un sé più vero e autentico. Un sentimento intermittente è incompleto, anacronistico, non freudiano. Una rivelazione in cui si inciampa senza volere.

All’intermittenza del cuore si addice forse uno stile frammentario (Roland Barthes nel Journal de deuil, e in La chambre claire), invece qui il ricordo è sostenuto da una narrazione fitta, lunga, più o meno cronologica, stilisticamente agli antipodi di qualsiasi frammentarietà. Eppure a ben guardare la scrittura non è un ponte che conduce dal passato al presente. Ragagnin si muove piuttosto nell’indeterminatezza, una specie di confusione che forse è il suo modo di sopravvivere. Così la scrittura confonde e trasforma un imbarcadero nel punto romantico in cui Berg immagina che i suoi genitori si siano scambiati quella lontana promessa, nel punto dannato in cui si ritrova con un gruppo di musicisti, l’infelicità dei bicchieri vuoti sul tavolo, dei travestimenti ben stirati, delle parole acide, fino a dissolversi in un luogo di occasioni mancate avvolte in una nebbia che morde le parole.

Nella nebbia dove la realtà compare a blocchi intermittenti, nonostante tutte le parole e tutti gli appigli, il ricordo è ancora più rotto di un frammento, più frammentario di una scaglia, è un punto statico, desolatamente irraggiungibile, amplificato all’infinito. Sul quel punto Ragagnin-Berg si ferma e cerca di imbalsamarlo, “non dimentico più nulla”, applica gli unguenti, l’impronta morbida del silenzio delle nonne “su tutti quei bambini che sono stato” e sull’unico bambino che è stato, sulle sue paure e solitudini che sono forse il biglietto da visita più vero.

QUI l’articolo originale:

https://www.exlibris20.it/il-bambino-intermittente-di-luca-ragagnin/

I Pellicani – recensione di Raffaella Romano su Mangialibri

I Pellicani – recensione di Raffaella Romano su Mangialibri

La sua intenzione non è quella di stabilirsi, di “installarsi” a casa del padre; sta solamente passando per quelle zone -per impegni di lavoro, naturalmente- e sarebbe poco cortese non andare a trovarlo; giusto una visita di cortesia, per educazione. Al massimo potrebbe fermarsi per una notte, certo non di più. Alla fine, si tratta sempre di suo padre. Chissà che faccia farà, pensa Pellicani figlio, dopo vent’anni di assenza. Sarà stupito, sorpreso di vederlo in quel suo completo grigio con la valigetta ben salda in mano. “Affari, un’impresa import-export” gli spiegherà, ponendo ben in mostra la valigetta, mentre il padre si adopererà per mettere a suo agio il figlio, rispettabile uomo in carriera. Certo, il vestito non è perfettamente stirato, appena un po’ sgualcito -ma sono gli effetti dei continui viaggi di lavoro, le trasferte, i voli. Ed è vero, la valigetta contiene solo qualche oggetto di cancelleria di cui Pellicani figlio si è appropriato prima di andarsene dalla sua occupazione precedente e, che altro? Ah sì, una mutanda pulita come ricambio, che non si sa mai. Il palazzo non è, però, come se lo ricordava. Tutta la via, in realtà, si mostra come un cumulo di macerie e pilastri e tubi ed il caseggiato nel quale viveva Pellicani da giovane si staglia come unico edificio sopravvissuto, quasi vergognosamente, tra i resti di altre costruzioni. Pellicani figlio entra nel caseggiato attraverso il portone d’entrata tenuto aperto da un mattone e imbocca le scale…

Partiamo dai fatti: il romanzo in questione è stato finalista alla XXXII edizione del Premio Italo Calvino e in questa occasione ha avuto la Menzione Speciale Treccani: in effetti, l’elemento che forse maggiormente caratterizza e conquista di questo romanzo è l’utilizzo della lingua, puntuale e affascinante. La scrittura è davvero equilibrata, sapiente e il lettore si sente rassicurato, guidato dall’autore cui si affida pienamente: tale precisione e armonia cozzano irrimediabilmente con la storia raccontata, che narra di decadenza sociale, personale, fisica. Il tema centrale è il rapporto fra padre e figlio (o, per la precisione, fra Pellicani figlio e quello che si presume essere suo padre) che implica il conoscersi e il riconoscersi, comprende la necessità di fare i conti con il ciclo della vita, la necessità di dialogo e l’incomunicabilità fra diverse generazioni o ruoli sociali. Mentre i personaggi – limitati, essenziali – sembrano non riuscire a instaurare una comunicazione alla pari, gli oggetti attorno a loro hanno una potenza espressiva e iconica sorprendente (la valigetta, la carne Simmenthal, i fumetti e i giocattoli). Pur svolgendosi effettivamente e quasi completamente entro quattro pareti, il romanzo parla di una realtà (e follia) attualissima e universale, incrociando sensi di colpa e voglia di riscatto, malattia fisica e squilibrio mentale, disagio sociale subito e incapacità di adattarsi alle norme imposte. Un romanzo consigliatissimo.

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I Pellicani – Daniela Morandi intervista Sergio La Chiusa sul Corriere della Sera

I Pellicani – Daniela Morandi intervista Sergio La Chiusa sul Corriere della Sera

Padri tormentati dai figli, tra immaginazione e realtà

La scrittura è fitta. Trascina il lettore in una spirale ossessiva, a tratti claustrofobica. «I Pellicani, cronaca di un’emancipazione» di Sergio La Chiusa si consuma all’interno di un edificio decadente e disabitato. O meglio, un residente c’è: Pellicani padre, anche se l’io narrante del figlio, in visita dopo vent’anni d’assenza, ha qualche dubbio sulla reale paternità. Unica somiglianza? Un naso ingombrante. In un continuo rimando tra realtà, finzione, aspettative, vecchiaia e giovinezza, si assiste all’immobilismo di un giovane uomo alle prese con temi sociali ed esistenziali. Lo scrittore, tra i finalisti del Premio Bergamo, ne parlerà oggi alle 17 sui canali social della manifestazione, intervistato da Maria Tosca Finazzi.

Come nasce il titolo?

«Pellicani è il cognome dei protagonisti, richiama il loro naso ingombrante e ironicamente anche la simbologia cristiana del pellicano: il padre che si sacrifica per i figli, mentre nel romanzo un ipotetico padre è tormentato da un ipotetico figlio».

Il sottotitolo «cronaca di un’emancipazione» è più ironico che reale.

«Sì, gioca con il sentimento del contrario che anima il romanzo. Non si tratta di una cronaca, ma di una continua interpretazione tendenziosa e contraddittoria. Poi le emancipazioni sono parodie di un’emancipazione: il giovane vive confinato nella trappola della propria mente, il vecchio nella trappola del proprio corpo, entrambi nella trappola dell’immobile».

Nel testo si relaziona molto con gli oggetti, valigetta, pantofole, peluche, Pinocchio, mollette… Perché?

«Gli oggetti affollano il romanzo supplendo alla povertà di personaggi. Sono usati come protesi del corpo, simboli, sintomi, indizi e agenti provocatori. Formano una specie d’inconscio fisico e si presentano allo sguardo paranoico di Pellicani come maschere dietro le quali si nasconde qualcosa di minaccioso, enigmatico, ostile. Anche se il rapporto che egli v’instaura ha spesso esiti comici, risultano perturbanti e possono essere visti come fili di un’immensa ragnatela tesa intorno alle nostre esistenze dalla società dei consumi».

L’io narrante afferma che «l’ozio è la forma assoluta della ribellione», «il nullafacente il vero sovversivo dei tempi moderni». Lo crede anche lei?

«No. L’io narrante è un portatore di conflitti, contraddizioni, ambiguità. Non il portavoce dell’autore. In taluni casi però la diserzione, non l’ozio, è la sola forma possibile di ribellione».

Nel romanzo il protagonista afferma che l’inclinazione a scomparire è una prerogativa degli asociali. Lei è sociale o asociale con la tendenza a scomparire nei suoi libri?

«Mi ritengo un essere sociale. Scrivere però è intimamente contraddittorio: un lavoro di solitudine e tuttavia rivolto idealmente a una folla ignota d’individui, sconosciuti gli uni agli altri, distanti nello spazio e nel tempo».

Si ritrova una continua relazione tra realtà e finzione.

«Uno dei temi del libro è il rapporto tra immaginazione e realtà, tra la fabbricazione di un mondo fittizio e la miseria del reale e della nuda vita, con i suoi limiti biologici, e il vecchio, con le sue esigenze di semplice sopravvivenza, rappresenta per il giovane uno specchio deformante che produce ossessioni».

La storia è ambientata in un caseggiato disabitato e decadente. È reale o il labirinto della mente?

«È un caseggiato reale, ma anche metafora d’una società in rovina e soprattutto labirinto mentale, intrico di stanze, scale e corridoi immateriali nel quale si consuma il confronto tra vecchiaia e giovinezza».

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I Pellicani – recensione di Giorgia Gatti su Premio Comisso

I Pellicani – recensione di Giorgia Gatti su Premio Comisso

Pellicani figlio si presenta dopo 20 anni alla porta del padre. Non si vedono da quel giorno in cui lui se n’è andato sottraendo al genitore i risparmi che erano in casa.Pellicani arriva e trova un caseggiato disabitato e in rovina, l’unico appartamento ancora abitato sembra essere proprio quello di suo padre, ma al suo interno non trova il genitore, ma un vecchio paralitico, immobilizzato a letto e assistito quotidianamente da una donna, che ogni mattina lo nutre, si occupa della sua igiene e del lavaggio della biancheria.Fin qui tutto normale, tutto plausibile, tutto verosimile, vero?E invece no, non è così. Pellicani figlio racconta in prima persona ogni suo movimento e ogni suo pensiero, ed è così che ci accorgiamo che siamo all’interno di una mente allucinata, che siamo nella mente di un Don Chisciotte al contrario.Un eroico renitente, che con fierezza critica e si sottrae alla società, che non riconosce il padre in quel vecchio paralitico, che vede in ogni gesto umano, in ogni oggetto inanimato intorno a lui, un qualche messaggio diretto a lui, un giudizio, un rimprovero, che lui, da renitente, rifiuta.L’allucinazione è la realtà in cui Pellicani si muove, portando i suoi gesti al grottesco e crudele, verso se stesso e verso il padre, in nome di quel rifiuto della società che lo anima.È un romanzo esilerante, eppure scioccante e doloroso. Sergio La Chiusa è geniale e senza remore varca i limiti del verosimile e del moralmente accettabile, con una capacità narrativa e di pensiero che generano nel lettore un’empatia disturbante.

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Il bambino intermittente – recensione di Anna Cavestri su LoScrivodaMe

Il bambino intermittente – recensione di Anna Cavestri su LoScrivodaMe

Quando la potenza della scrittura e la fantasia si coniugano nascono questi gioielli.
Il libro inizia con una sorta di vademecum che è preambolo ai capitoli e un elenco di nomi -Cerca di ricordarti.

Conosciamo Berg che è un bambino che va alla scuola materna, non va affatto volentieri.
Lui non è un bambino e basta è: goffo, distratto, impreciso, stupido, bambino parentesi, maldestro incompreso, intermittente e ha tanti nomi tutti inventati così come inventata è la sorella con la quale discute come fosse sempre con lui, assumendo le forme di oggetti vari a lui preziosi, ed ha le sue “copertine “ come Linus ma non sono copertine.

“Ho tre anni e la vita sta diventando difficile……”

E a tre anni trova la radio noiosa e comincia il suo ritornello “ mamma, comprami GIRADICCHI! Io DICCHI…..”
Comincia da piccolo ad amare la musica che insieme alla fantasia e ai tratti della sua personalità non l’abbandoneranno mai.

E con questo bagaglio già così pieno fin da piccolo affronterà la vita, con delle difficoltà ogni volta diverse e uguali con cui fare i conti.
La madre insegnante, il padre con un maggiolino giallo a pois rosa.
I nonni di mare e quelli di città.
Con ognuno crea un rapporto unico, con qualcuno anche speciale e sarà la nonna di mare quella con la quale vivrà esperienze di complicità e amorevolezza e che lo porterà un giorno anche a crescere più in fretta e a scoprire l’inutilità del dolore.

Lo troviamo tra i ragazzi dell’orario alla scoperta di se e degli altri, a volte impacciato o timido, “la prima ombra di barba … la barba fu un piccolo trama “, a 16 anni Amanda “ era come arrivare impreparati ad una interrogazione”.

Con “ gli amici della panchina “ a parlare della passione comune: LA MUSICA , forse l’amore suo più grande, quello che non è mai svanito.
La musica diversa da quella che ascoltavano gli altri “stavo sviluppando una curiosità maniacale e bulimica “.
Sopra un treno per andare a pranzo dalla nonna di mare durante il periodo del servizio militare, vicino casa di nonna, che buttava la pasta quando vedeva il treno passare dal balcone.

E in crescendo a fare per un periodo il commesso in un negozio di dischi e poi in un’altra città e un’altro amore e…
Con salti temporali tra un capitolo e l’altro e tanti rimandi in cui la vita del bambino, ragazzo, adulto è un vortice che assorbe tra fantasia e realtà e tanta tanta umanità.

È un racconto ironico, pieno di tenerezza di malinconia di una vita unica e speciale che appassiona dalla prima pagina.

E non finisce con l’ultima pagina del libro ( pag 665), perché c’è una playlist di tre pagine da sentire

“ per chi ha paura della fine, del silenzio, ovvero l’inutilità del dolore ……………..Se vuoi farne parte ti serve un suono “.

Non è facile recensire questo libro perché c’è tanto da dire, può essere solo letto.
E merita di essere letto, si cresce insieme al bambino intermittente e a volte ci si scopre intermittenti , quasi come lui.

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I Pellicani – recensione di Maria Laura Labriola su Cronache di Caserta

I Pellicani – recensione di Maria Laura Labriola su Cronache di Caserta

“I Pellicani”: romanzo allucinato e burlone

Chi sono i Pellicani? Sono realmente ciò che appaiono nelle prime pagine? Vi è una specie di burla e di ricerca d’identità all’inizio del romanzo di Sergio La Chiusa, “I Pellicani” edito da Miraggi edizioni. Un racconto che è arrivato finalista al 32° Premio Calvino con la Menzione Speciale Treccani. Alla maniera di Dino Buzzati, un giovane con la valigetta va a trovare un anziano paralitico in un palazzo fatiscente. Sulla carta, lui dovrebbe essere il giovane Pellicani, e l’anziano suo padre. Ma già dalle prime battute il vecchio non viene riconosciuto, se non che per il naso. “Che ci faceva un tale relitto in casa di mio padre? Come si permetteva di occupare il suo posto?“. Si presenta tutto come un equivoco al lettore, il quale non è certo più di nulla. Una storia vaga, priva di collocazione geografica, di limiti spazio-temporali. Non vi sono nomi propri e vi è un dialogo non dialogo, direi “muto” tra figlio e padre. Kafka e Landolfi vengono evocati in ogni dove con una scrittura allucinata e aliena. Un monologo che non finisce e che avvolge il lettore imbrigliandolo in un vortice di supposizioni, ripetizioni, ipotesi e convinzioni.

Un fiume di parole che denuncia un’inerzia dell’uomo moderno che anela a dominare gli esiti della civiltà. La Chiusa crea mondi inesplorati e al contempo riflessi nel presente, forse all’avanguardia rispetto al patrimonio letterale attuale. Abbiamo una certa etica del corpo che appare certamente al centro del romanzo. Non è solo uno, ma due di cui uno è in movimento e l’altro immobile rinchiusi dalle parole in uno spazio ristretto di un appartamento.

“I Pellicani appaiono come eredi di un teatro di Beckett”, ove personaggi sono costituiti di flussi torrenziali di parole e la cui vecchiaia perde il suo colore e la sua identità nell’infanzia e nel nulla. Tutto il romanzo è pervaso inoltre da un torpore, da una stanchezza fisica e mentale che non permette di raggiungere la verità più intima delle cose.

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