Questi immigrati brutti e sporchi, che vengono a degradare le nostre città, a contaminarle… Leggere il verdetto su una panchina qualsiasi, con in mano una busta qualsiasi, la differenza tra la libertà e la galera… Figlio mio, che ne sanno gli altri, quando ti chiamo così, di cosa condividiamo io e te, mio peloso compagno… Perché non possiamo anche noi darci un bacio per la strada, camminare mano nella mano?… Da tanto tempo non succedeva, di svegliarmi così angosciato, di soprassalto. È bastato incrociarla per strada e tutte le antiche ferite si sono riaperte… Mi chiamate tutti Dondolo perché per me dondolare è stare in equilibrio in mezzo al vostro clamore, magari un modo per tenervi lontani… Iole si laurea, oggi, Iole la temeraria, Iole dalle mani veloci con cui comunica con tutto il mondo… La spiaggia al tramonto è il ritrovo ideale degli innamorati, ma chi ha detto che debbano essere per forza ragazzini al primo bacio?… Sto male papà, ho una malattia incurabile, e tu sei vecchio papà, chi si prenderà cura di te quando io non ci sarò più?… Solo adesso mi ricordo di cosa aveva biascicato tutto il giorno mio padre, furioso, tra i denti stretti, quando aveva dato un passaggio a quella ragazza, diceva “uomini di merda”… Sto uscendo di galera, sono libero ma questo odore non se ne andrà mai… Antonio mi citofona a mezzanotte della Viglia di Natale. È solo, vuole uscire. Anto, ma sei pazzo?… Alessandro e Anita in un attimo sono nudi nella camera d’albergo, a farsi una scopata di puro istinto e passione… Ulisse proprio non se l’aspettava, un ritorno così…
Quattordici racconti piccoli piccoli, storie di vita, momenti segnanti di intere esistenze. O forse è meglio dire esistenze segnate, perché i racconti fotografano vite diverse, al margine della società o della normalità o dell’equilibrio. Ma poi diverse per chi? I protagonisti si sentono diversi perché qualcuno, il mondo, la società, gli altri appiccicano loro questa etichetta. Così, è diverso l’immigrato, il disabile, l’omosessuale, l’ex galeotto, il malato terminale. E perfino chi ha un cane. Perfino chi è vecchio. Perfino chi ha subito una violenza. Come a dire, a ben pensarci, che siamo tutti diversi, perché vittime o carnefici siamo comunque diversi agli occhi di qualcun altro. Un tema attualissimo trattato senza retorica che, anzi, dalla formula breve del racconto trae una maggiore forza perché gli stati d’animo sono cristallizzati lì, in quel preciso momento, senza quindi dare l’occasione al lettore di seguire un percorso razionale ma quasi chiedendo la pura e semplice adesione empatica, umana. Una raccolta che ben si inserisce nella generosa produzione dell’autore, che già conosciamo grazie anche alla bella intervista proprio su “Mangialibri” e che non poteva che concludersi con un racconto tutto capitolino, un finale alternativo, amaramente comico, per l’amore tra Ulisse e Penelope, che qui sfugge alla retorica dell’eroismo del poema per prendere una dimensione, di nuovo, completamente umana.
«Musica solida», un colossal, si direbbe al cinema, sulla storia dei supporti fonografici da fine Ottocento ai giorni nostri. Ne è autore il torinese Vito Vita, giornalista e musicista leader della band Powerillusi. In quel “solida” c’è tutto l’amore per il vinile, per l’oggetto disco, a 78, 33 o 45 giri che sia, contrapposto alla bufera di musica liquida che non risparmia nessun angolo del mondo.
«L’idea mi venne dieci anni fa a Roma – racconta l’autore – durante un pranzo di lavoro in trattoria con la redazione del periodico “Musica Leggera”. Mi dissero che un tempo in quei locali si ritrovavano gli artisti della famosa RCA Records, indicandomi i punti della sala in cui De Gregori realizzò il primo provino di Rimmel e l’angolo in cui scriveva i pezzi Rino Gaetano». Ora l’ambiente è una trattoria, e solo gli specialisti sanno cosa accadeva lì dentro negli Anni ’70: «In Francia l’avrebbero trasformato in un museo, e così pure gli uffici della RCA, che ora sono un anonimo magazzino di scarpe. Qui non ne siamo capaci, così decisi di raccogliere la sfida: salvare la memoria della discografia italiana». Partendo anche da una suggestione personale: proprio “Rimmel” di Francesco De Gregori fu il primo disco che l’autore del libro acquistò a 11 anni rompendo il salvadanaio.
Non è materia da poco. Tagliando al massimo sulle illustrazioni l’oggi cinquantacinquenne studioso torinese è riuscito a stare nelle 400 pagine, fitte di notizie, interviste, ricostruzioni storiche. Con un’altra missione in cuore: rendere giustizia al ruolo della sua città in questa vicenda: «L’etichetta più famosa era la Cetra, ma intorno a essa si svilupparono altre vicende significative. Penso alla Emanuela Records, cui va il merito di aver fatto decollare i Brutos, con lo storico album Destinazione Luna, come pure alla Shirak Records di Jonny Betti, cui si deve un gioiello ingiustamente dimenticato della canzone d’autore italiana, il 33 giri di Carlo Credi». Si intitola “Chi è Carlo Credi”, e chi lo ha di solito se lo tiene stretto.
Regola che dovrebbe sempre valere per il vinile, additato da qualcuno come inquinante: «Certo, è pur sempre un derivato del petrolio. Ma per noi appassionati il problema dello smaltimento non si pone: non si buttano mai via i dischi. E non dimentichiamo che possono essere custodi del suono anche il giorno in cui venisse a mancare la corrente elettrica: bastano un cavo e un corno per sentore, girando a mano, la musica che comunque i solchi contengono. Il cd senza elettricità è morto».
Quella della discografia italiana è anche una storia industriale, e come tale viene trattata nel corposo tomo di Vita: «Torno alla RCA, un’azienda che dava lavoro a circa tremila dipendenti. E poi c’era tutto l’indotto, un fiorire di piccole aziende anche di dimensione artigianale che con l’avvento del monopolio delle multinazionali sono andate a rotoli. Una grande, lunga avventura iniziata dai rulli e passata dalla gomma-lacca per poi approdare al vinile che tutto conosciamo. E che è in ripresa, i dati sono inoppugnabili. Sta finendo l’era dei cd, è al top la musica digitale, ma come supporto fisico 33 e 45 giri sono alla riscossa. Rispetto a Stati Uniti e Inghilterra l’Italia è più lenta, ma sta a sua volta dando segnali importanti.
Gentili lettori, in quanti modi si può guardare alla Storia? Ci sono eventi chehanno inciso solchi nelle coscienze e impedito, per contro, l’intuizione di un’esistenza minima.
Roger Salloch, scrittore, sceneggiatore e fotografo statunitense sembra avere trovato una chiave di lettura di un periodo cogente del nostro passato che, sublimando il dolore, rappresenta una metafora storica d’incisiva visione filosofica.
«Quando tutto diventa collettivo, il privato diventa compulsione». È una frase contenuta in “Una storia tedesca”, libro che inaugura la collana “tamizdat” dell’editore “Miraggi”.
«Col termine tamizdat si indicavano, nel blocco comunista e in Urss, le opere straniere, per lo più occidentali, fatte circolare clandestinamente». E clandestinamente “Una storia tedesca” si aggira per il mercato editoriale, fatto dai giganti ingordi di spazi e lettori.
Laura Berna traduce con soavità un dispositivo narrativo di grande caratura letteraria e metafisica, fatto di rimandi continui alla pittura, alla filosofia, al cinema, alla musica e ai miti religiosi.
Siamo a Berlino nel 1935 e seguiamo la vita di Reinhardt Korber, maestro d’arte in una scuola frequentata da adolescenti come potrebbero essere quelli attuali. Leggono poco, sono immersi nel contesto politico per via del nazismo. Si odono gli stivali dei soldati in adunata. Si respira il clima del totalitarismo. Tra gli studenti spiccano Rebecca e Lotte, le allieve predilette. Korber
ha un dialogo onesto, emancipato e lungimirante con le ragazze. Rebecca è ebrea e seguirà il suo destino; Lotte è ariana ma nemmeno per lei l’esistenza sarà libera. Ogni pagina è intrisa di splendore e miseria, tanto quanto è possibile vivere dell’uno e dell’altra in tempo di guerra. Korber di tanto in tanto va a trovare la madre, che ha l’ossessione per la storia dei tre Re Magi. Essi, nonostante gli ordini di Erode, fecero ritorno nei loro paesi per un’altra strada per non fornire alcuna informazione circa il luogo in cui si trovava Gesù.
Sembra prendere vita da questo passo biblico la metafora di Salloch sulla storia. Korber, Rebecca e Lotte, seppur travolti dalla vita, manterranno integri gli spazi esistenziali che hanno creato insieme. Quando Korber viene sorpreso durante la sua lezione al bianco, al vuoto di senso, all’interno della Stadt-Galerie, da un delegato dell’esercito che proclama: «Non c’è niente da guardare qui», il maestro d’arte dice che sono lì per quel motivo e Lotte risponde: «Siamo qui per chiudere gli occhi». È la soluzione finale, il male che annichilisce. L’arte ha fatto il suo tempo, è stata svuotata, censurata, proibita. Ci si rivolge al vuoto, al mistero. Salloch interroga quel mistero e lo sostanzia con la Storia per disarcionare ogni certezza. In fondo la vita vera nasce dal buio, ma solo la consapevolezza ci può scuotere e portarci in salvo. Come per Rebecca e la sua piccola casa su una foglia adagiata sull’acqua. Sarà in salvo, lontana dal male.
L’Antiquario vi saluta,
Il mondiale di calcio polarizza l’interesse di molti anche non direttamente coinvolti dall’avvenimento sportivo e a sua volta risente di eventi più grandi e catalizzanti. Altre volte l’evento sportivo e gli accadimenti estranei ad esso camminano come rette parallele che mai si intersecano. Nel libro In un cielo di stelle rotte(Miraggi Edizioni, 2019) di Lorenzo Mazzoni il mondiale è coprotagonista o spettatore o semplicemente convitato di pietra nel grande spettacolo dell’esistenza.
Si parte dal primo mondiale nel 1930 via via fino all’ultimo che ha visto la presenza della squadra italiana e cioè l’edizione del 2014. L’autore sceglie in parallelo partite a volte importanti e nell’immaginario collettivo altri incontri meno noti a chi non è troppo calciofilo per costruire dei racconti paralleli o influenzati o influenzabili dall’evento sportivo. Il lettore si tuffa in situazioni decisamente originali. Nella fascistissima Italia del 1934 Mazzoni descrive con dovizia i riti voodoo che avrebbero favorito la prima conquista della coppa Rimet da parte degli azzurri. Nel 1982 mentre la Nazionale Italiana si muove prima imbrigliata poi sempre più libera verso la conquista del terzo titolo, si parla di una squallida vicenda di bassa criminalità con implicazioni più politiche, ma altre situazioni decisamente extra sportive sono al centro del libro.
In In un cielo di stelle rottetroviamo una scrittura originale, che non celebra lo sport più bello del mondo, né lo demolisce, ma semplicemente lo inserisce nelle umane vicissitudini.
Traduzione dall’italiano di Christian Abel, Nota critica di Biagio Cepollaro
Francesco Forlani è poeta, cabarettista, traduttore dal francese, conduttore radiofonico, scrittore-calciatore…fondatore di una rivista qua, redattore di un’altra là. Un esempio raro di agitatore culturale. Un performer vulcanico, un folletto che legge benissimo le sue opere (e di quanti autori si può dire davvero?), un fiume di idee costantemente in allerta alluvione. Non dovrei scrivere di questo libro perché non è il mio lavoro (ma qual è, poi?).
Scrivo già di musica, storia, romanzi gialli, tento spericolati approcci culturali tra mondi lontani, mescolo pastiche tuttologi. Scrivere di poesia così, d’emblée? Non dovrei, però sento di volerlo fare perché la vita di Forlani -transfuga in Francia per insegnare in una scuola di banlieue, un universo raggiungibile via metropolitana partendo dal centro della più bella città del mondo- è di per sé una metafora della vita di molti, ovunque. Siamo tanti a essere penultimi. Allora visto che questo libricino, una volta richiuso, mi ha imposto di reagire, salvo la mia bronzea faccia di mestatore culturale affermando con certezza che qui tutte le frasi e i componimenti di Forlani possiedono una propria musica interna. Un lungo blues che attraversa le pagine, che segue le fotografie a corredo del testo, che parla di partenze all’alba e di sfatti rientri serali.
Sono davvero poche le cose che il penultimo
chiede alle cose, a volte solo un segno, un cenno,
da parte a parte della vita, ma inequivocabile
preciso che non solo ti indica il cammino e la distanza
ma sembra quasi che ti tenga la porta al vivere.
Un inizio sommesso che in qualche modo prende di petto l’argomento e invece lo sfiora soltanto, con delicatezza. Un blues dei migliori.
La stanchezza del ménage nella vita globalizzata, nella quale gli essere umani sono sbatacchiati ovunque a faticare in maniera indicibile per guadagnarsi la sopravvivenza. La sera tutta la stanchezza di questo tipo di vita ci piomba addosso e ci impone un esame. Quanto abbiamo combattuto? Quanto ci siamo arresi all’ordine costituito delle cose?
Dovremmo forse smettere di pensare alla vita in modo militare, accettare la resa alle cose nell’ordine naturale in cui ci parlano, generalmente alla fine del giorno.
La vita dei pendolari assume a volte nella descrizione di Forlani una densità dantesca, mentre le persone scendono silenziose nella metro e affrontano il viaggio-purgatorio verso gli inferi lavorativi.
Se ne stanno seduti i penultimi
alle cinque e mezza del mattino
tutti occupati i sedili sulla banchina
prima che il primo treno del giorno
salpi e porti per mari di moquettes
e vetri negli uffici le donne delle pulizie
o gli operai giù in fabbrica, i travet per piani
senza più nulla chiedere né altro domandare
Lavoro, routine quotidiana, ma anche amore. L’amore assume i toni di una ballata lentissima, dall’incedere quasi sfinito nel tentare delle riflessioni di autobiografia metafisica.
Nelle storie d’amore ho a volte come l’impressione che tutta la propria storia, le proprie storie d’amore, non siano altro che il tentativo di forgiare le armi che in quella prima grande storia avrebbero potuto salvarci dalla disfatta.
La ballata sfuma e torna il blues, prepotente:
perché nero è il colore della pelle
e perché fuori l’alba è ancora senza luce
Potrebbero tranquillamente essere le parole cantate da un uomo di colore con la sua chitarra in spalla, all’angolo di una dura strada degli Stati Uniti del Sud. O degli stati di tutto il mondo e di ogni tempo.
Bolaño, un florilegio di scritti per ricostruire le influenze continentali
Critica latinoamericana. Contributi saggistici e accademici sullo scrittore cileno: «Bolaño selvaggio», da Miraggi
In un memorabile passaggio dei Detective selvaggi uno dei due protagonisti, Arturito Belano – giovane poeta invischiato nelle prime, focose battaglie stilistiche ed esistenziali – sfida alla sciabola un critico letterario che forse vuole dire male del suo ultimo libro. L’esito del duello, su una spiaggia isolata di Barcellona verso sera, è incerto.
Non è dato sapere se la lama del poeta abbia raggiunto l’insoddisfatto recensore, tuttavia ben altri sentimenti avrebbero animato Roberto Bolaño se avesse potuto tenere tra le mani il florilegio di scritti che lo riguardano e che ora arrivano in Italia tradotti da Marino Magliani e Giovanni Agnoloni per Miraggi.
È una raccolta pubblicata in spagnolo nel 2008 e rivista nel 2013, sotto il titolo Bolaño selvaggio (pp. 437, euro 24,00) a cura di Edmundo Paz Soldán e Gustavo Faverón Patriau, studiosi e scrittori sudamericani di formazione accademica statunitense; un volume che cerca di dare conto della vastità dell’influenza dell’opera di Bolaño mettendo assieme testi tra loro molto disomogenei, organizzati con un criterio improntato più alla suggestione che non a un vero rigore espositivo.
Apre un’illuminante introduzione di Paz Soldán, mirabile nel chiamare in causa Julio Cortázar e il suo racconto seminale Apocalisse a Solentiname per collocare Bolaño nella «tradizione apocalittica» della letteratura sudamericana. Il primo e l’ultimo testo della raccolta riportano parole dello stesso autore cileno («Discorso di Caracas» e un’intervista inedita di Sónia Harnández e Marta Puig). Nel mezzo, alcuni studi inediti (non tutti significativi) danno un saggio dei nuovi percorsi che la critica accademica – in America latina, in Spagna e negli Stati Uniti – ha intrapreso nello studio di un corpus letterario che va acquisendo, negli anni, una forma sempre più consistente.
Molti lavori di natura saggistica guardano allo scrittore cileno da prospettive biografiche e bibliografiche non convenzionali: alcuni inediti, ma anche molti testi già noti, a firma di scrittori e critici, in alcuni casi autori vicini a Bolaño o più spesso appassionati conoscitori della sua opera. Tra i più significativi, il saggio dello stesso Faverón Patriau sul rapporto dell’autore di Puttane assassine con la tradizione letteraria argentina, e lo scritto di Enrique Vila-Matas tra ricordo personale e sovrapposizioni Bolaño-Perec. E, ancora, i testi di Jorge Volpi, di Juan Villoro, e soprattutto del cileno Carlos Franz sulla malinconia in Bolaño. Allucinato dai «poeti senza opera» dei Detective selvaggi, Alan Pauls dichiara anch’egli la sua ammirazione.
Di certo utile, Bolaño selvaggio restituisce bene la tentazione di canonizzare in fretta uno scrittore che forse non lo avrebbe gradito: non al punto di arrivare a brandire la sciabola, certo, anche se a un intervistatore secondo lui troppo generoso con la sua opera, rispose, mimando Breton: «Chi sono io»?
Di recente Walter Siti, parlando della scrittura di Roberto Saviano, ha dichiarato che ‘difendere la letteratura non è meno importante che difendere i migranti’. E’ un assunto condivisibile e necessario, che riporta le due questioni al denominatore comune del loro carattere di urgenza. Esiste però anche una terza possibilità e cioè che le due cose non debbano affatto essere contrapposte, e semmai che si rafforzino sinergicamente. E’ in questa direzione che va Uno di noi di Daniele Zito (Miraggi Edizioni), che scegliendo di farlo in forma drammaturgica racconta la vicenda di quattro quasi cinquantenni che dopo una partitella di calcetto, fanno una bravata e danno fuoco a un campo rom, uccidendo colposamente una bambina disabile e dunque impossibilitata a scappare. Storie di povertà spirituale ma anche storie di una follia un bel po’ ordinaria, in anni in cui in Italia è diventato normale autorizzare sui migranti scelte politiche di morte, in qualche caso persino legittimate da un’accorta retorica dell’odio e da una violenza di Stato avallata dallo scorso governo, un odio irrelato che spesso discende da generiche frustrazioni personali camuffate da necessità logistiche (“o noi o loro. Non c’è posto per tutti, etc.”). Daniele Zito affida a voci diverse la narrazione di una verità che per forza di cose risulta prospettica, raccontata in soggettiva dai personaggi che in quella verità hanno un ruolo: il carnefice (“Uno di noi”, appunto) che in sé riassume anche gli altri tre balordi che hanno incendiato il campo, sua moglie, il medico dell’ospedale dove viene portata la piccola vittima, il padre, la bambina stessa. Fa da sapiente controcanto il coro che, come è tradizione della tragedia antica, esprime il punto di vista della città, della comunità entro cui la vicenda si svolge. E dunque parla quel linguaggio ‘comune’ che ben conosciamo, si serve di espressioni come “Prima gli Italiani” e affini, ormai diventate automatismi al punto che rischiano di risultare scusabili, di non produrre più l’indignazione che meritano senza tuttavia perdere nulla della loro violenza. Ma l’opera di Zito non è un documentario, non è un’inchiesta e intenzionalmente non si inserisce nel genere tardo neorealistico (alla Saviano, per intenderci) che nell’urgenza di denunciare l’orrore, considera la forma un fatto accessorio. Già nella scelta del genere infatti, Zito si posiziona su un versante più sperimentale e, trascegliendo volutamente solo alcuni elementi strutturali della tragedia greca (mancano infatti molti tratti distintivi: agnizione, espansione tragica, complessità dell’eroe e sua dialettica interna ed esterna, catarsi, fato e necessità, etc.), racconta una storia di privata aberrazione che consiste innanzitutto nella mancanza di coscienza del protagonista che non si pente affatto del suo gesto e non mostra nessun senso di colpa, in tal senso smarcandosi completamente da potenziali modelli dostoevskiani, esclusivamente agito dalla paura d’essere scoperto, dalla volontà ‘di farla franca’. Zito mette in gioco un contro-eroe umanamente poverissimo, un nano se paragonato ai titanici protagonisti della tragedia greca, un personaggio che non evolve e in nessun momento ci dà speranza di redenzione, incapace fino alla fine di maturare una consapevolezza. ‘Uno di noi’ è quello in cui non vogliamo immedesimarci perché ci disturba e che proprio in assenza di una punizione o un ravvedimento, cioè di una rassicurante catarsi finale, resta a molestarci ancora e ancora. Come deve essere. È qui lo scopo di quest’opera drammaturgica ed è forse questa la ragione per cui Zito intende ricollegarsi alla tragedia greca: la sua militanza civile, l’intenzione destabilizzante che però qui, in questo consiste la modernità dell’opera, non viene compensata. Il carnefice infatti non guadagna la conoscenza profonda del senso della sua azione né della sua povertà spirituale, proprio perché sennò sarebbe in contraddizione con sé stesso: non ne ha i mezzi, non può. Nell’intenzione di raccontare questa storia così tristemente plausibile nel nostro tempo, Zito fa delle scelte stilistiche accorte che miscelano il linguaggio mimetico, trito e basico con cui i personaggi si esprimono, con un registro poetico che via via nel testo progredisce verso un abbandono del primo a favore di un linguaggio sempre più onirico, poetico fino a diventare musica soltanto, con cui, altra scelta felicissima dell’autore, viene data voce alla bambina rom (vero ‘pharmakos’, capro espiatorio innocente su cui si riversano tutti i mali della comunità). Con ritmo pienamente drammaturgico e agio tecnico, Zito fa dunque frequente ricorso all’anafora ossessiva (“Nessuno ha visto niente/Nessuno ha sentito niente/Nessuno è in grado di testimoniare”, oppure ”Tu prova ad andare nelle fabbriche/Tu prova ad andare nei bar/Tu prova ad andare nei cantieri”), alla ripetitività di alcuni mantra (“Il buonismo ci sta ammazzando”, “Questa è un’invasione bella e buona”) che hanno infestato l’immaginario collettivo verbale fino a pochi mesi fa e che ora l’autore fissa sulla pagina nella loro posa sconcia, nella banalità espressiva cui fa da contrappunto la finezza lirica che dà espressione ai pensieri della bambina, metafora di tutte le vittime che subiscono la Storia. Come è norma della tragedia greca, non vediamo l’atto criminale compiersi sulla scena ma l’orrore che si consuma affiora poco a poco dalla ricostruzione a posteriori che ne fanno le voci, riemerge e galleggia una bruttura morale che resta anche dopo, quando il martirio della bambina diventa metafora di tutti i morti in mare, vittime come lei di una collettiva ingiustizia autorizzata dalla legge, e che sono tanti. Tantissimi. Come le stelle, innumerabili. L’orrore resta e ci interroga, anche quando ‘Uno di noi’ rimane “a guardare quei granuli dissolversi nel liquido aromatico/finché non ne è rimasta più alcuna traccia”; anche quando ognuno di noi, che l’autore chiama a testimoni responsabili di questa Storia, lascia dietro di sé “soltanto le barchette”.
L’IMPERATORE DI ATLANTIDE DI ULLMANN E KIEN DI ENRICO PASTORE. RESISTERE FIN DENTRO IL PARADOSSO
Felix Nussbaum, Il Trionfo della Morte
L’inesauribile questione dei rapporti tra opera e autore e tra autore e contesto, che si è a fatica districata nel Novecento tra frigido strutturalismo, critica storicista (marxista e post-) e letture psicanalitiche, incontra uno scoglio particolarmente aspro quando ci si imbatte in opere che trattano dall’interno il fenomeno estremo del lager. Ancor di più, poi, se si parla di quelle concepite nel lager stesso, ineludibilmente marchiate da contingenze tanto atroci da restituirne come monumentale la semplice esistenza. In tali casi, se richiesti di un giudizio di valore, ci si sente quasi obbligati a quell’atto della sospensione del giudizio di cui parlava, ma da un punto di vista morale, Primo Levi ne “I sommersi e i salvati”, riferendosi alla ‘zona grigia’ dei piccoli collaborazionisti ebrei, dei kapo, degli appartenenti ai famigerati Sonderkommando. Salvo poi registrare che i testimoni capaci di raccontare e dunque di svolgere l’insostituibile funzione sociale della memoria sono stati molto spesso proprio coloro che hanno militato tra quelle discutibili file, e che grazie ai minimi privilegi che il loro ruolo comportava, hanno conservato la vita. E con essa, talvolta, la voce.
Tale inquietante cortocircuito, che sembra adombrare il sospetto dell’arte/testimonianza nell’orbita-lager come correità, assume peraltro nel caso de “L’imperatore di Atlantide” (opera lirica composta da Viktor Ullmann e Petr Kien nel 1943-44, mentre erano prigionieri del ghetto di Terezín) una misura inaspettatamente calzante.
Alla breve opera in un atto e quattro quadri, della durata di un’ora circa, dedica ora un agile saggio il regista e critico teatrale Enrico Pastore (“L’imperatore di Atlantide o l’abdicazione della Morte di Viktor Ullmann e Petr Kien”, Miraggi Edizioni 2019), uno scritto pieno di non celato amore, e insieme strutturato con efficaci strumenti critici. Amore, perché l’autore confessa già in sede di prefazione di aver subito una fascinazione immediata per il lavoro, nato nel ghetto-lager ceco di Terezìn: ne era stato colpito durante gli studi universitari, aveva ipotizzato di farne l’oggetto della propria testi di laurea, e infine si è cimentato, dopo un lavoro teorico di studio di documenti e di viaggi di reperimento di fonti, nella sua messa in scena, seppure con i dialoghi parlati, in Italia e all’estero. Una lunga appassionata frequentazione, che però non tarpa mai le ali a considerazioni scientifiche, benché l’autore ritrosamente rifiuti per sé la definizione di «studioso di professione». Strumenti critici, si è aggiunto: perché a una ricostruzione storica sono affiancate, nell’architettura del saggio, l’analisi dell’opera, che occupa un buon quarto del libro, una lettura più strettamente musicologica della partitura, affidata a Marida Rizzuti, e l’edizione del libretto con testo a fronte (traduzione di Isabella Amico di Meane) che segue le poche ma significative varianti che ci sono pervenute, tra cui quella del finale – dell’opera è peraltro disponibile dal 2015 un’edizione critica.
È noto che Terezìn fu un campo particolare: organizzato nel 1941 come “ghetto degli anziani”, o “degli artisti”, divenne pian piano il volto, o meglio la maschera pseudo-umana, del disumano progetto di genocidio nazionalsocialista accelerato con la conferenza di Wansee e la Soluzione Finale. Era, o meglio doveva diventare per un momento ciò che si riteneva potesse essere accettato dalla comunità internazionale quando si affrontava lo spinoso argomento ‘condizione degli Ebrei nel Reich’. Terezìn fu infatti visitata in due occasioni dalla Croce Rossa e da rappresentanti di Svezia e Danimarca che, bene o male, caddero nella trappola ordita da Eichmann e collaboratori, per cui Theresienstadt (così fu rinominata Terezìn, con quel revisionismo toponomastico prurito delle dittature, da Stalingrado ad Agrigento) apparve agli inviati come ghetto modello, una «città donata da Hitler agli Ebrei». Una normalità di cartapesta, costruita per durare poche settimane, preparata nel modo e con gli accorgimenti che Pastore riporta, e visibile seguendo il link agli spezzoni superstiti di un “documentario” che fu girato su un set così accuratamente allestito, nel quale non poteva mancare la finzione di una vita culturale: caffè, scuole, concerti e opere liriche e di prosa di nuova composizione dovevano brillare agli occhi dei visitatori. Tra di esse il nostro Kaiser, l’altrettanto famosa Brundibar e un’esecuzione straziante del Libera me domine dal “Requiem” verdiano, con un’orchestra dai ranghi più volte falcidiati dalle improvvise deportazioni.
Ecco quale fu la temperie in cui prese forma l’opera di Ullmann e Kien, dei quali non manca l’appassionante ricostruzione biografica e a cui si tenta con acume di restituire uno spessore artistico e psicologico. Uno, musicista che il successo non aveva ancora sfiorato, psicologicamente provato da affanni privati e dalla condizione di perseguitato, entrato nell’orbita antroposofica e sostanzialmente prosciugato nella vena compositiva; l’altro artista visivo, assai più giovane, praticamente esordiente nella scrittura poetica.
Quanto all’opera, essa fu probabilmente proibita ancor prima della messinscena, dopo una prova generale che doveva rivelarne i caratteri intrinsecamente provocatori più che le forme e i modi schiettamente afferenti alla vasta galassia della Entartete Kunst, etichetta di cui fecero le spese Brecht, Hindemith, Schoenberg, Kokoschka, Grosz e infiniti altri, molti dei quali nati dal fertile e doloroso laboratorio della repubblica di Weimar – ma di tutto ciò conviene approfondire nelle pagine del libro e attraverso i richiami bibliografici.
Ecco, ciò è curioso e paradossale: che nella particolare situazione di Terezìn, quegli stessi autori che altrove sarebbero stati ridotti al silenzio, non solo sono tollerati, ma, poco per volta, vengono incentivati alla produzione artistica, in un contesto che, come nota Pastore, fa di Terezìn la città probabilmente più libera dal punto di vista creativo dell’intero Grande Reich. Il tutto pur mantenendo, tranne che nella prossimità delle visite internazionali, le usuali privazioni, a partire dalle razioni alimentari.
Ma il paradosso maggiore è un altro, ed è ciò a cui si faceva riferimento nella spericolata estensione della citazione leviana: e cioè che la libertà creativa che si è costretti ad ammettere nel ghetto-lager, era funzionale a un obiettivo il più antitetico a quella stessa libertà, ne era il più radicale capovolgimento, giacché fungeva da copertura allo sguardo internazionale per l’intero sistema dei campi di sterminio. Il tutto nell’assurdo metateatrale di un’opera scritta e messa in scena in una città a sua volta di finzione, che sarebbe stata di lì a poco spazzata via, con l’avvicinarsi del fronte orientale, insieme alle vite dei due autori, passeggeri di uno degli ultimi ‘trasporti’ verso est.
Le qualità del libro, agile nell’impaginato (136 pagine escluso il libretto con testo a fronte), sono soprattutto due. La prima è quella di riunire, riassumendole con garbo e spigliatezza, una considerevole mole di notizie sulle condizioni materiali del ghetto di Terezìn, nelle quali Ullmann e Kien hanno operato, attraverso testi più generali, tra cui l’irrinunciabile Hilberg e altri più particolari, accompagnati anche da qualche lacerto dell’essenziale “Theresienstadt 1941-1945” di Hans Günther Adler, tempestivamente pubblicato in tedesco nel ’55, recentemente tradotto in inglese ma di cui ancora manca una versione italiana.
Il secondo evidente pregio è invece il coraggioso tentativo di ricollegare in sede analitica ogni momento del Kaiser a un movente politico, con la chiara e spesso convincente tesi di farne un’opera coscientemente e persino apertamente ribelle, a partire dalla scelta della città di Atlantide quale ribaltamento del mito fondativo nazista di Gorsleben e Lindt-Lindenhoff per i quali era, in modo diverso, figura del Reich, passando attraverso dati cronologici citati nel libretto che si riferirebbero a contingenze storiche precise, per concludere col riconoscimento di citazioni all’interno del testo musicale riferibili a opere di compositori di origine ebraica: Mendelssohn, Meyerbeer, Offenbach. Né manca l’attenzione ai particolari, come l’accurata ricostruzione del nome di uno dei personaggi, Bubikopf, che alluderebbe al motto «Arish ist der Zopf, judisch ist der bubikopf», ariana è la treccia, ebreo il Bubikopf (taglio di capelli a caschetto, acconciatura evidentemente più espressionista che wagneriana).
Di contro, un punto debole potrebbe essere la tentazione, comprensibile ma a suo modo consolatoria, di “far quadrare il cerchio” percorrendo in avvio di ‘Conclusioni’ l’evitabile strada dell’etichetta: “Der Kaiser von Atlantis” costituirebbe un «mito» in un secolo, il XX, che, a detta dell’autore, non sarebbe stato in grado di proporne altri, a parte forse “Il signore degli anelli”. Senza entrare nel merito, l’inesausta analisi e il competente uso di fonti e testi avrebbero già reso il libro autoportante, senza bisogno del ricorso a un sigillo teorico che potrebbe suonare affrettatamente sistematizzante e correrebbe il rischio di offrire il fianco a una leva tale da mettere in discussione porzioni più ampie dell’opera.
Rimane a concentrare su di sé l’attenzione quel paradosso a cui si accennava, e così brillantemente suggerito, che trascina le vittime nella complicità e mette gli artisti davanti alla lacerante scelta tra il silenzio, tetro anticipatore della morte, e un’attività che, per quanto fin nell’intimo resistente, caparbia, antagonista, inevitabilmente si sporca di quel grigio stigma evocato da Levi. Contingenze inaudite, certo, quelle di Terezìn, tali appunto da sospendere il giudizio. Capaci però di consegnare a una penna altrimenti spuntata e a una voce ancora acerba un’imprevedibile fiammata di genio.
Ho letto con grande godimento le oltre 400 pagine di questo libro, scritto dal competentissimo Vito Vita, che amplia e completa il lavoro del rimpianto Mario De Luigi nel suo “Storia dell’industria fonografica in Italia” (recensito qui più di dieci anni fa https://www.rockol.it/recensioni-musicali/libri/537/mario-de-luigi-storia-dell-industria-fonografica-in-italia) avendo come sottotitolo “Storia dell’industria del vinile in Italia (interessante notare come non sia stata scelta la dizione “Industria discografica”: del resto ormai parlare di “dischi” non ha quasi più senso, e il destino di un’industria privata dell’oggetto che le ha dato il nome è inevitabilmente grigio se non nero).
Vita mette in fila, cronologicamente secondo la loro data di nascita, le mille (o quasi) aziende produttrici di dischi che sono nate, cresciute e morte in Italia a partire dalla fine dell’Ottocento. Il suo è un lavoro certosino e meritorio, non solo perché ci ricorda che ci sono stati momenti (creativamente ed economicamente) assai più gloriosi di quello che stiamo vivendo, ma anche perché riporta alla memoria i nomi delle persone che alla discografia italiana hanno dato lustro. A titolo del tutto personale, mi ha anche fatto ricordare tanta gente che credevo di aver dimenticato, e che invece era solo nascosta in qualche intreccio arrugginito dei miei neuroni cerebrali (Mela Bacchini! Giusta Spotti! Gianna Morello!).
Se questo libro ha un limite, è che spesso la massa enorme di informazioni che contiene lo riduce, inevitabilmente, a un mero elenco di nomi e di titoli – e non dubito che Vita avrebbe potuto scrivere il doppio delle pagine (ma chi gliele avrebbe pubblicate?) arricchendolo ulteriormente di informazioni e riflessioni. Ecco, magari le tre interviste conclusive sono pleonastiche, ma le scelte autoriali vanno comprese e accettate.
Tuttavia, “Musica solida” – bel titolo, in contrapposizione alla fastidiosissima definizione di “musica liquida” – ha i pregi del libro storico, e sono certo che Mario De Luigi l’avrebbe apprezzato come indubitabilmente merita.
Prima delle periferie urbane ci sono quelle della ragione, prima dell’occupazione abusiva c’è una casa del cuore non autorizzata a odiare, prima delle mense per i poveri ci sono le tavole imbandite di rancore, prima dei campi Rom ci sono le anime nomadi che si spostano tra un ghigno e un urlo, prima delle ruspe ci sono i barconi fatti rovesciare nel Mediterraneo con il loro carico di morte innocente, prima degli italiani c’è uno di noi, uno qualunque perduto nell’abisso della propria inadeguatezza e sconfitto dalla rabbia e dall’astio covati nel chiuso di vite banali. Uno, uno qualunque può bruciare la propria abiezione morale tra le fiamme di un campo di emarginati, può non avere consapevolezza delle conseguenze del proprio sardonico gesto, può uccidere una bambina, la più fragile di tutte, lei che somma su di sé tutta l’ingiustizia del mondo, lei così piccola e rom e disabile. Uno, uno qualunque può continuare a non comprendere davanti alla sofferenza e alla morte. Uno, uno qualunque può continuare a giustificarsi, a stordire il proprio cuore con parole d’inumana sensatezza. Uno qualunque non ha la caratura di un eroe tragico: occorrono sentimenti forti, azioni grandi, magnificenza di pensiero. Eppure, mettilo, uno qualunque, dentro una sequenza barbara del romanzo del nostro tempo ed ecco che al romanzo subentra la tragedia, il canto terribile e terrificante di un’umanità ancestrale diretta verso la catastrofe. La tragedia greca chiamava catàrsi la catastrofe, purificando il pathos nella libertà, fosse questa persino una punizione divina. Se non fosse troppo meschino nei pensieri e negli atti, uno qualunque potrebbe restare schiacciato dall’anànke che schiacciò il più contrastato degli eroi tragici, l’Edipo di Sofocle. Ma l’anànke a volte ha un’armonia di fisarmonica, mentre suona a un angolo di strada o si “sfarina” nel mistero del confine grigio e acquoso tra la vita e la morte. La necessità fatale ignora il risarcimento. Il lutto non presuppone la luce. L’eroe non è l’eroe e la nuova Ifigenia muore per una guerra ancora più assurda di ogni altra guerra, della prima delle guerre terminata nell’infamia del fuoco: nel buio tempo di quell’uomo e ancora adesso nel buio del tempo di quest’uomo “ciò che brucia/ non ritorna/mai”. Non è un essere straordinario ad appiccare il fuoco ma uno qualunque, uno apatico, annoiato, livoroso, frustrato. Un idiota, l’avrebbero detto ai tempi dei tragici; magari anche utile avrebbero detto secoli dopo. Utile a chi? Utile a cosa? “ero come incantato/tutto questo vociare/ tutte queste parole”. Parole d’ordine, propaganda. Uno qualunque con i tacchetti alle scarpe da calcetto, una moglie e una figlia, un lavoro, gli amici, lo stress, la paura. L’indifferenza, l’egoismo. Uno qualunque è un dis-eroe al quale può scattare l’adrenalina e allora agisce e incendia una baraccopoli, mentre dentro gli risuona l’eco nefasta “o noi o loro/questa è un’invasione bella e buona”. Ma loro abita un fiume di miserie e di sofferenze, loro è la bambina ustionata. Uno qualunque non ha pietà ma paura, la guarda nel letto d’ospedale e spera che si salvi per salvarsi lui stesso. Dalle indagini. Uno qualunque perde tutto per la follia di una sera, ma non se ne rende conto. Uno qualunque può riempire le pagine di una tragedia classica. Una storia di criminale guerriglia urbana entra nei luoghi del più alto dei generi letterari. Accade però che la forma letteraria dei conflitti estremi si plasmi dentro una materia paradossalmente antitragica in cui la mediocrità dell’azione e dei personaggi fluisce dentro un contesto anch’esso mediocre. Non esiste l’eccezionalità, piuttosto avvampa in un’inarrestabile deriva di luoghi comuni, alimentati da pericolose idee sovraniste e razziste. La tragedia di un uomo e di una bambina, il razzista e la diversa, si fa manifesto contro l’idiozia degli italiani, contro il rissoso spirito del tempo, contro la disumanizzazione dell’uomo. Noi che siamo tutti quell’uno, noi colpevoli “viviamo l’abbaglio di una visione/ abitiamo il frastuono”: canta il popolo/coro che dà ora voce agli zingari ora fa rimbombare gli slogan dei razzisti, ora ricrea il Kommos, lo scambio tra l’uno e il noi, tra coro e personaggio. E il tirso dionisiaco chiede ai Don Caballero il ritmo metallico, perché c’è rumore di ferraglie e di coscienze arrugginite là dove si è spianato il fiume, che ora scorre nella memoria disperata della bambina. Sono tre i fiumi, gli episodi della tragedia. A tre fiumi somiglia la baraccopoli all’uno qualunque sulla cartina mostratagli in commissariato. Il fiume è l’agorà- tempio- bosco della tragedia classica. Il fiume non è lavacro né trascina detriti dell’anima ma fa scorrere vite non vite: della bambina ferita, della moglie incredula, della figlia inconsapevole, dei testimoni, di “uno di noi”. Tutti sospesi nell’indeterminatezza morale, tutti stasimi di un patetico coro. Tutti dentro l’ultimo libro di Daniele Zito “Uno di noi”. Una tragedia contemporanea: intensa, disturbante, crudele, straziante, dirotta, sconcertante. Una formidabile intuizione di scrittura. Da leggere tutta d’un fiato e d’un pudore. E poi aspettare di vederla in scena. Perché no?
Quattro amici di vecchia data, alla fine di una partita di calcetto, decidono di dare fuoco a una baraccopoli. Lo fanno così, senza una ragiona precisa, spinti dall’euforia del momento. Purtroppo, il loro gesto si trasformerà in tragedia. Il drammatico evento lascia su tutti i personaggi coinvolti tracce indelebili, Uno di noi ne è il resoconto, senza escludere nessuno, né le vittime, né i carnefici. È un libro duro, fatto di rabbia, di odio, di frustrazione. Parla di padri minuscoli, delle loro colpe, del loro inutile pentimento. Parla del ventre molle del Paese, della sua inesorabile deriva forcaiola. Parla dell’impossibilità del perdono. E poi c’è la scrittura, che divora ogni cosa, trasformandola in letteratura.
* * *
Daniele Zito ha trentanove anni, è nato a Siracusa, vive e lavora a Catania. Collabora con L’«Indice dei libri del mese» e «Che fare». Ha esordito nel 2013 con La solitudine di un riporto (Hacca). Il suo secondo romanzo, Robledo (2017, Fazi) è stato pubblicato anche in Francia. Nel 2018 ha pubblicato: Catania non guarda il mare (Laterza Contromano).
MUSICA SOLIDA. STORIA DELL’INDUSTRIA DEL VINILE IN ITALIA
L’industria discografica italiana nasce tra il 1899 e il 1901 a Milano e a Napoli, fiorisce per tutto il Novecento riempiendo di milioni di copie di pesanti 78 giri le case degli italiani, esplode negli anni 60 e 70 con i 45 giri e gli Lp e inizia un inesorabile declino negli anni 80, soppiantata dalla musica liquida. In 120 anni di storia, ci sono meno di dieci libri che possono concorrere a storicizzare il supporto fonografico, e sono tutti incompleti e parziali.
Oggi, ed è il caso di sottolineare finalmente, esce il testo di riferimento: Musica solida. Storia dell’industria del vinile in Italia (408 pagg., Miraggi Edizioni, 23 euro), di cui è autore una nostra vecchia conoscenza, Vito Vita. Nei nostri oscuri anni, in cui oltre alla musica si è liquefatta la memoria storica, si mandano al macero gli archivi, non si leggono più i giornali e i libri, la scrittura e la lingua parlata si sono impoverite come mai, c’è ancora qualcuno che raccoglie le informazioni con il metodo classico dello storiografo. Vito Vita ha concepito questo libro durante una cena nel 2009, nel ristorante Terra, sulla via Nomentana a Roma, sorto negli ex locali del Cenacolo della RCA Italiana. complici della sua visione, il sottoscritto, Michele Neri, Maurizio Becker e Luciano Ceri, praticamente il nucleo fondatore della nostra rivista «Vinile» e della mitica «Musica Leggera». In dieci anni di lavoro, Vito Vita ha fatto centinaia d’interviste, ha compulsato migliaia e migliaia di pagine di periodici e quotidiani nelle biblioteche, ha ricostruito, con la certosina e ossessiva precisione che ben conosciamo, gli avvenimenti, le circostanze, le date, e la storia delle persone che hanno vissuto l’avventura di cento anni di discografia italiana. Un libro di Storia che gratifica i sopravvissuti che ne hanno condivisa una parte, un libro di riferimento che traccia la strada per la ricerca che, ci auguriamo, fiorisca nei prossimi anni.
Il corredo di note a piè di pagina percorre la bibliografia e le fonti, l’indice dei nomi è presente ed efficace, la cura editoriale del volume è ineccepibile, e son tutte rarità nella cialtronesca editoria attuale. La prefazione di Giangilberto Monti non saltatela perché è divertente. Questo libro dobbiamo acquistarlo tutti!
Per gli antichi greci le tragedie erano rappresentazioni teatrali con una forte valenza religiosa, morale e sociale. Opere affascinanti e mistiche che hanno lasciato un’impronta nella storia del teatro, del costume, ma anche della letteratura.
Uno di noi, Miraggi edizioni, è l’ultimo lavoro editoriale di Daniele Zito. Siracusano, autore influenzato dalle radici culturali della sua terra, ripropone qui una tragedia in chiave contemporanea, ambientata in Italia.
Quattro amici con l’abitudine della partita di calcetto settimanale, a fine serata, cercano brio e spensieratezza giocando col fuoco.
Chi merita il fuoco?
Sicuramente i “neri”, gli invasori, “che tornassero a casa loro”, questi i pensieri striscianti della combriccola sportiva. Mariti, padri di famiglia, lavoratori, persone dotate di un organo pulsante nel petto, trasformano una serata come tante in un buco nero. Le fiamme appiccate in una baraccopoli prendono il sopravvento e a farne le spese è una bambina. Una piccola disabile che vede fumo, fiamme, ma non può scappare.
Costretta a respirare esalazioni tossiche e crudeltà fluttuanti e gratuite. Vittima sacrificale della stupidità umana. Una piccola anima sospesa nel limbo tra vita e morte, al cospetto della certezza spavalda di quattro miserabili convinti di non essere scoperti.
La verità, prima o poi, viene sempre a galla. E se quasi tutti i protagonisti non riescono a fare i conti con la propria coscienza, non possono sfuggire ai conti con un altro stato d’animo: la paura.
Paura di essere scoperti. Paura di perdere la libertà. Paura di essere arrestati.
Le voci dei protagonisti si susseguono in un vorticoso tifone di stati d’animo, contrastanti tra loro. Crudeltà ed efferatezza di ciò che hanno consapevolmente fatto tornano in superficie, proprio come l’olio sull’acqua. L’eco struggente dell’agnello sacrificale e la sua voce infantile e tenera squarcia il cuore come se fosse una lama.
Uno di noi è un’opera estremamente attuale: un libro che si stratifica nei meandri del male. In un periodo storico nero, in cui il diverso, lo straniero, l’immigrato, diventano capro espiatorio di frustrazioni e intolleranze becere. Stati d’animo che armano il polso di guerrieri “italici”, che, in nome di un falso patriottismo ideologico, scalfiscono la dignità umana, calpestando etica e moralità.
Leggere questo libro è stato difficile (e necessario), perché l’epica di Zito rimbalza dalle pagine e arriva prepotente al lettore, quasi fosse un ceffone in piena faccia. Attraverso le voci disparate e disperate degli “attori in scena” osserviamo la realtà che ci circonda come attraverso un caleidoscopio.
Questa tragedia 2.0 ha il dono dell’immediatezza, brutale e concreta. Difficile abbandonare quest’opera a cuor leggero, perché il sentimento della vergogna emerge tra acque stagnanti. Un germoglio di speranza, che può far fiorire le coscienze. Sperando, come scriveva il buon vecchio Queneau, che dal fango possano nascere fiori blu.
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