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LA CONFUSIONE NON È MAI STATA COSÌ BELLA recensione di Mariangela Taccogna su Mangialibri

LA CONFUSIONE NON È MAI STATA COSÌ BELLA recensione di Mariangela Taccogna su Mangialibri

Davanti al mare crollano le barriere e si apre lo scrigno delle emozioni. Tra il desiderio di essere trascinati via dall’amore e la realtà, restano le domande e la nostalgia. Nostalgia di un amore intenso fatto di piccoli gesti, di quotidianità. A nulla serve cancellare ogni traccia se nella mente indelebili restano i ricordi. Fuggire via ma insieme, godersi il mare, i baci e gli abbracci, le risate e gli sguardi. Passeggiare mano nella mano, dormire teneramente vicini e struggersi dal desiderio. Nottate ad occhi spalancati e cuore ferito, pensare e ripensare a chi è lontano ma non smette di essere lì, nello stesso letto che odora ancora d’amore. Un amore che non è mai abbastanza, una fame di baci che non saziano, un desiderio di ‘per sempre’ che ritorna prepotente ad ogni sguardo. L’amore è tutto ciò che serve, è il luogo dove far riposare il cuore dalle scorribande della giovinezza, è il sogno che si avvera, è un corpo da esplorare. Ma anche vuoto da colmare, dolore che non permette di reagire, attendere e sperare in un ritorno. Ritrovarsi a cercare ancora lei e illudersi di trovarla in una bottiglia di Jack Daniels o nelle braccia di un’altra. Fermare il tempo nel ricordo dell’ultimo bacio fino a smettere di aspettare…

Quattro capitoli (Il mare, Io e te, Il cuore spezzato e Il tramonto) per dipingere, attraverso più di cinquanta poesie, una storia d’amore contemporanea, fresca e giovane come i protagonisti. Stefano Colucci, classe 1995, rappresenta certamente la “generazione 2.0” e racconta, con una scrittura liquida e veloce (espressione di una instancabile frequentazione di numerosi social network), l’amore attraverso gesti, luoghi ed oggetti anche banali: le sigarette, le felpe oversize, il Mc Donald’s. Un autore giovane e molto ‘social’, un linguaggio schietto e concreto, un tema evergreen, una pioggia di ‘like’ sui social che precede la pubblicazione e la raccolta di poesie è presto fatta. Successo garantito tra i giovani lettori che possono rispecchiarsi in un linguaggio fatto di brevi, lapidarie frasi (lo stesso che sperimentano quotidianamente fuori e dentro i social network) e di uno stile con interessanti potenzialità ma che risulta ancora acerbo. Esattamente come la generazione che rappresenta. Istantanee di una quotidianità che chiede di andare oltre e di sperimentare sentimenti ed emozioni che non hanno tempo. La raccolta si conclude con un monito che diventa quasi uno slogan, un consiglio, una speranza: “Innamorati di tutto”. Più che una dichiarazione d’amore, una dichiarazione all’amore.

La confusione non è mai stata così bella

“Amor” il nuovo romanzo caleidoscopico di Eva Clesis – di Mariangela Taccogna su mangialibri.com

“Amor” il nuovo romanzo caleidoscopico di Eva Clesis – di Mariangela Taccogna su mangialibri.com

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Lucia si definisce “una delle persone più sole sulla faccia della Terra”. Lavora come traduttrice per diverse case editrici ma un brutto incidente d’auto le ha lasciato una antipatica zoppia e quella strana sensazione di bastare a sé e di non volersi far coinvolgere dal mondo. Ancor più da quando suo marito è andato via, sostituendola con un’altra donna. Carlo è stato ‒ per una parentesi di tre anni ‒ l’uomo della sua vita, la sua famiglia, il suo grande amore. Ora davvero non le rimane più nulla. La monotonia delle sue giornate è interrotta da numerose telefonate di sconosciuti che a causa del suo numero di telefono chiamano lei erroneamente. L’ultima telefonata è di un tale Francesco, ex carabiniere appassionato di caccia, ossessivo e geloso tanto da confessare di aver ammazzato la sua compagna. Fingendosi Marta, ex dello sconosciuto, Lucia rimprovera a lui tutto quello che avrebbe voluto rimproverare al suo Carlo. Ma la curiosità, si sa, è femmina e il desiderio di saperne di più porta Lucia ad avviare una ricerca ai limiti del pericolo su questo misterioso interlocutore. Sarà davvero un assassino? Riuscirà a trovarlo o sarà lui a trovare inaspettatamente lei? E intanto, ha tra le mani i documenti da firmare per il divorzio. Chiudere un capitolo della propria vita non è affatto semplice ma può voler dire ripartire e ricominciare, a dispetto di tutto e di tutti…

Lucia non sopporta le cose fuori posto, la mancanza di pulizia e di ordine, le cose lasciate a metà. Eppure Amor è un sussurro interrotto, è la cesura a ciò che sarebbe stato e non potrà più essere, è l’ultima speranza tranciata di netto: Lucia interrompe Carlo proprio quando sta per chiamarla “amore”, per chiudere definitivamente con il passato. Ma passato e presente, in questo caleidoscopico romanzo di Eva Clesis, pseudonimo di una quarantenne scrittrice barese, sembrano mescolarsi, rincorrersi, in un gioco di specchi che tiene alta la tensione, soprattutto emotiva. Il flusso di pensieri della protagonista è interrotto da eventi che Lucia sembra subire, fino a che si risveglierà dal suo torpore esistenziale per riprendere le redini della sua vita. Con uno stile frizzante e fluido, il lungo monologo della protagonista tiene legati alle pagine, fino all’ultima parola. Eppure al lettore resta un dubbio: il mondo della protagonista, ciò che racconta, è reale o è solo frutto della sua mente? Un mondo interiore raccontato come se fosse vero, tanto da far pensare a tratti autobiografici perché, come la stessa Lucia ammette “Chi scrive deve sempre partire da qualcosa che sa per arrivare a descrivere quel che non sa”. E che non sa dove porterà.

Qui l’articolo originale: http://www.mangialibri.com/libri/amor

Altre ossessioni – La Realtà Pura di Riccardo De Gennaro- di Luisa Grion per La Repubblica

Altre ossessioni – La Realtà Pura di Riccardo De Gennaro- di Luisa Grion per La Repubblica

Carlo Gozzini, l’io narrante, è un professore di economia innamorato di Blandine, attrice di vent’anni più giovane che non lo ama e non perde occasione per umiliarlo. La sua ossessione diventa paranoia quando Blandine viene ricoverata in un manicomio e quando Carlo scopre di essere spiato da una organizzazione criminale e da un uomo misterioso. Sono loro, non la donna, a condizionare la sua vita. Ed è questo, non l’amore, il tema centrale del romanzo. Quali sono le forze che trattengono i nostri desideri facendo sì che non si realizzino e trasformandoci in persone diverse da quello che siamo? “Sentivo che due sono le cose fondamentali: non giudicare la vita e non compiere atti che siano irreversibili”.

di Luisa Grion


Vita e opere di Jan Nemec l’anticomunista viveur che odiò la Cannes del ’68 – di Elisa Grando su Il Piccolo

Vita e opere di Jan Nemec l’anticomunista viveur che odiò la Cannes del ’68 – di Elisa Grando su Il Piccolo

Il regista Jan Nemec, scomparso nel 2016, è stato sempre considerato l’“enfant terrible” del cinema cecoslovacco, l’irriverente, lo sfrontato, quello senza mezzi termini e mezze misure. Rispetto ai compatrioti Jirí Menzel e Milos Forman, entrambi Premi Oscar, ebbe meno successo, ma fu uno dei nomi di spicco della Nova Vlna, la nouvelle vague cecoslovacca, e l’unico regista a filmare l’invasione di Praga da parte dei carri armati sovietici, il 21 agosto 1968, gesto che lo rese inviso al regime. Si accorda dunque al suo animo fiammeggiante il titolo italiano del suo libro “Volevo uccidere J. L. Godard”, una raccolta di 31 racconti autobiografici tra il memoir, l’aneddoto e l’apologo grottesco pubblicata in Italia da Alessandro De Vito, traduttore ed editore con Miraggi edizioni(pagg. 288, euro 17,00). Domani mattina De Vito presenterà il volume alle 12 al Caffè San Marco nell’ambito del Trieste Film Festival, del quale Nemec era stato ospite nel 2004.

«Sono di origine cecoslovacca da parte di madre, quindi ho un interesse personale per il paese», spiega De Vito. «In più mi sono laureato con una tesi sulla Nova Vlna, forse anche più importante della nouvelle vague francese: a Praga gli intellettuali, i teatranti, i cineasti e gli scrittori, come anche Hrabal, facevano funzione effettiva di opposizione politica».

I 31 racconti, scritti dal 1970 al 1990, «sono la storia di un uomo libero che ha fatto le sue scelte di vita anche rischiando, come quando, nel 1974, ha lasciato la Cecoslovacchia dove gli era impedito di lavorare, e ha vissuto negli Stati Uniti facendo film di matrimoni. Però non si è mai piegato». Nemec è stato anche un goliarda, un autentico viveur, un irrequieto che amava le feste e le donne, sposato con una delle più grandi cantanti ceche dell’epoca, Marta Kubišová.

La sua prosa schietta trabocca delle speranze della Primavera di Praga, delle disillusioni del post-invasione, e poi di tanta vita, sesso, amori, riflessioni taglienti. Il titolo del libro deriva dalla sua personale cronaca di quel cruciale Festival di Cannes del 1968: «Voci di corridoio dicevano che un premio sarebbe andato a Nemec, in concorso con “La festa e gli invitati”, Forman o Menzel», racconta De Vito. «Invece durante il festival scoppiò il maggio francese e registi “engagées” come Godard e Truffaut proposero di interrompere la manifestazione. La premiazione non si tenne. Nemec rimase arrabbiatissimo: vedere degli occidentali “comunisti” che volevano fare la rivoluzione era per lui un contrasto di campo totale, e in più un premio a Cannes avrebbe dato una svolta alla sua carriera».

Tra i racconti c’è anche quello, surreale e iperbolico, dell’infarto che lo avrebbe colto durante un rapporto sessuale e dal quale si sarebbe salvato letteralmente “stringendo le chiappe” per contrastare il rilascio degli sfinteri. «Nemec si appassiona quando parla del destino del suo popolo e dell’arte, valori assoluti, ma un minuto dopo magari sta pensando al seno di una donna». Ed è rocambolesco il racconto di come Nemec fece filtrare in Occidente le immagini dell’invasione sovietica che poi usò nel suo documentario “Oratorio per Praga”: «Aveva una macchina da dandy, una cabriolet Fiat 850, e conosceva la moglie di un funzionario dell’ambasciata italiana a Praga», dice De Vito. «Insieme alla ragazza e al diplomatico – racconta il traduttore del libro – si è finto italiano per varcare la frontiera con l’Austria e portare a Vienna il negativo. La mattina dopo, la televisione austriaca ha mostrato quelle immagini a tutto il mondo». –

Leggi l’articolo anche qui https://ilpiccolo.gelocal.it/tempo-libero/2019/01/18/news/vita-e-opere-di-jan-nemec-l-anticomunista-viveur-che-odio-la-cannes-del-68

Immediatamente di Dominique De Roux – recensione a cura di Nicola Vacca

Immediatamente di Dominique De Roux – recensione a cura di Nicola Vacca

immediatamenteMi piace definire Dominique De Roux il Karl Kraus francese. Scrittore e intellettuale fuori dal comune, cavaliere delle lettere in territorio nemico, fa parte degli irregolari e degli impresentabili del  Novecento.
Fu il creatore dei «Cahiers de l’Herne», una collana che riportò al centro della vita culturale scrittori maledetti, liberi e anticonformisti (che molto gli somigliavano) come Céline, Pound, Artaud, Lovercraft.
De Roux riuscì a presentare criticamente al grande pubblico autori del calibro di Borges, Gombrowicz, Solženicyn, Koestler e movimenti come la beat generation.
Siamo davanti a un grande scrittore controverso che decise di essere sempre un uomo libero, di non appartenere a nessuna banda letteraria. La sua penna e la sua intelligenza si schierarono apertamente contro il mondo culturale del suo tempo.
De Roux, come Kraus, nelle sue invettive non risparmiò proprio nessuno.
In Italia non è molto conosciuto e soprattutto è pubblicato poco. Grazie a Francesco Forlani da Miraggi edizioni esce Immediatamente, libro di frammenti e aforismi in cui l’irriverente scrittore francese intinge la sua penna corrosiva di provocatore e di agitatore culturale.
Immediatamente esce in Francia nel 1971 e De Roux è vittima di una violenta reazione del mondo intellettuale francese. Il primo a scagliarsi contro di lui fu Roland Barthes.
Dolo l’uscita del libro «l’impresentabile» De Roux fu costretto a lasciare la Francia.
Dominique De Roux è uno straordinario inattuale che vale la pena conoscere e approfondire. Uno scrittore irregolare che rientra a pieno titolo nella tradizione dei pensatori controcorrente.
Un uomo e un intellettuale che veste da uomo sempre libero i panni del polemista e scrive del proprio tempo sedendosi orgogliosamente dalla parte del torto, in compagnia degli spiriti scomodi e degli infrequentabili.
Immediatamente è un libro di illuminazioni che folgorano. Dominique De Roux è uno scrittore che scrive per disturbare e con i suoi aforismi taglienti ha squarciato, come sanno fare soltanto gli irregolari e gli uomini di pensiero che decidono di rispondere soltanto alla propria coscienza, tutto il marcio di un’epoca che sa solo esprimersi attraverso la rappresentazione ipocrita di se stessa.

«Viviamo il tempo degli istrioni di massa. Coloro che fanno gesti differenti non sono più originari di nessuna parte»; «Al gaullismo succederà la Germania, o peggio ancora i francesi».

Per De Roux scrivere è rinunciare al mondo. Una grande e coraggiosa lezione inattuale.
Quando le epoche si fanno torbide dobbiamo assolutamente leggere gli inattuali. Perché solo loro sanno dirci le cose come stanno.
Leggiamo assolutamente Dominique De Roux che, come Cioran, Kraus, Céline e tutti gli altri infrequentabili, ha diffamato e squartato il suo tempo.

Dominique De Roux (1935-1977) fu un letterato fine e controverso. Il primo romanzo, Mademoiselle Anicet, è del 1960; nel 1963 fonda la rivista «Cahiers de l’Herne», raccolta di numeri monografici dedicati alle figure maledette o misconosciute della letteratura europea (Céline, Gombrowicz e Pound, tra gli altri). Nel 1966 dà alle stampe il saggio La morte di Céline (Lantana), che inaugura il catalogo della casa editrice Christian Bourgois, co-fondata dallo stesso De Roux.
Immediatamente esce nel 1971 e la violenta reazione del mondo intellettuale, con Roland Barthes in prima linea, costringe De Roux ad abbandonare la Francia per diventare corrispondente giornalistico e autore televisivo. Inviato soprattutto in Portogallo, documenta le guerre nelle colonie africane e nel 1974 è l’unico inviato speciale francese a Lisbona durante la rivoluzione dei garofani, che portò alla caduta di Salazar e della dittatura portoghese.
Pubblica l’ultimo romanzo, Le Cinquième Empire, cinque giorni prima di morire improvvisamente per infarto, nel 1977; La Jeune Fille au ballon rouge e Le Livre nègre usciranno postumi.

:: Immediatamente di Dominique De Roux (Miraggi Edizioni 2018) a cura di Nicola Vacca

“Ho scoperto di essere morto”: l’intervista a Cuenca di Giovanni Tosco su Tuttosport

“Ho scoperto di essere morto”: l’intervista a Cuenca di Giovanni Tosco su Tuttosport

GIOVANNI TOSCO

Joao Paulo Cuenca è uno dei più importanti scrittori della letteratura brasiliana contemporanea. Il suo ultimo romanzo, “Ho scoperto di essere morto”, pubblicato in Italia da Miraggi, è stato tradotto in otto lingue e ha vinto il prestigioso Premio Machado de Assis. Cuenca, che è anche opinionista su diverse testate e regista cinematografico, è un grande appassionato di calcio e per questo ha accettato di affrontare diverse questioni: da quelle più strettamente legate alla passione per il Flamengo e per l’Argentina a tematiche politiche, sociali ed economiche.

Quando è nata la tua passione per il Flamengo?
«Credo che il calcio sia un tipo di malattia che ereditiamo dai nostri padri. Il mio, un argentino, è tifoso del Flamengo perché è una sorta di Boca Juniors brasiliano, è una squadra del popolo, e di conseguenza lo sono diventato anch’io. Poi sono cresciuto vedendo Zico vincere tutto. Insomma, non era difficile tifare Flamengo».

Ecco, tuo padre è argentino e tu sei nato a Rio de Jaineiro. Ti senti un’anima divisa in due o non hai dubbi su quale nazionale scegliere tra Argentina e Brasile?
«In campionato tifo Flamengo, ma quando ci sono il Mondiale o la Copa America non ho esitazioni su chi tifare: Argentina».

Qual è il tuo primo ricordo legato al calcio?
«Questo può spiegare la mia precedente risposta. Nel primo ricordo forte legato al calcio c’è mio padre che urla e piange di fronte a un vecchio televisore con il tubo catodico dopo che Maradona ha segnato il secondo gol nella partita contro Inghilterra durante il Mondiale del 1986. Quale altro tipo di spettacolo potrebbe avere un tale effetto su un uomo adulto?».

L’eterna questione: Maradona o Pelé?
«Non ho esitazioni: Maradona!».

Detta da un brasiliano, per quanto di padre argentino, è un’affermazione clamorosa.
«Ne sono convinto. E resto convinto, anche se, proprio in Italia, mi hanno soprannominato il Pelé della letteratura». (Ride).

Quando Socrates arrivò in Italia, gli fu chiesto se preferiva Rivera o Mazzola. Rispose: Gramsci. Credi che oggi ci possa essere un calciatore con questa cultura e questa capacità di guardare oltre gli aspetti quotidiani del suo lavoro?
«Purtroppo no. Una figura come Socrates sembra molto improbabile al giorno d’oggi. La maggior parte dei calciatori brasiliani sono molto lontani dalla politica o addirittura hanno sostenuto Jair Bolsonaro, candidato di estrema destra e vincitore delle elezioni di due settimane fa. Temo che molti di loro non abbiano mai letto un libro nella loro vita».

Il calcio sta diventando sempre più un business e molti tifosi rimpiangono i valori del passato. È un punto dal quale non riusciremo a tornare indietro?
«Temo di sì. Non può essere un caso che sempre più persone si divertano con i videogames o i giochi di simulazione in cui si trasformano in manager che si occupano di soldi, investimenti e profitti. E spesso la stampa dà a certe questioni lo stesso spazio riservato a ciò che avviene in campo. Ma quello che mi preoccupa di più è la corruzione che il denaro porta. In Brasile, la Federazione è coinvolta in diversi scandali».

Nel tuo libro si sottolinea in maniera molto netta la condizione di una Rio de Janeiro colpita dalle speculazioni legate ai Giochi Olimpici e al Mondiale.
«Il Mondiale organizzato nel 2014 si è trasformato in una opportunità per compiere diverse frodi e per aumentare a dismisura i prezzi dei biglietti. E questo è molto peggio del 7-1 subito dalla Germania o del vedere Neymar piangere come un bambino».

 

“Amor” il nuovo romanzo caleidoscopico di Eva Clesis – di Mariangela Taccogna su mangialibri.com

Eva Clesis: “Un equivoco ti cambia la vita”

Eva Clesis, da dove nasce l’idea di “Amor”?
Ho iniziato a scrivere di una telefonata, poi il romanzo è continuato senza seguire un filone ben preciso: a differenza degli altri libri, quando avevo una trama fissa e organizzata nella mia mente, non sapevo bene dove sarei arrivata. Però mi piaceva l’idea di questo equivoco, di questo scambio di persone tra un uomo che è convinto di parlare con la sua amata e di una donna che, dialogo dopo dialogo, fa finta di essere chi non è. Perché anche nella vita di tutti giorni, consapevolmente o inconsciamente, ognuno di noi tende a manipolare il prossimo.

Chi è Lucia, la protagonista del romanzo?
E’ una donna che sta convivendo con il dramma di un brutto incidente, di un marito che l’ha abbandonata, di una persona che sta vivendo una fase di stallo della propria vita. E che, scoprendo tanti segreti dell’uomo con cui parla al telefono, trova il coraggio di affrontare situazioni che aveva sempre rimandato per paura: capendo che chi sta dall’altra parte della cornetta è un tipo violento e con la paura che la possa trovare, va in giro per Roma per risolvere tante questioni in sospeso. Il suo obiettivo è uscire dalla campana di vetro che si era costruita attorno a sé perché si rende conto di non poter vivere per sempre facendo la vittima.

C’è qualche elemento autobiografico?
Io stessa ho subito un gravissimo incidente, proprio come la protagonista, ma non ho mai voluto parlarne sui social, me lo sono tenuta per me. Perciò si può dire che è autobiografico dal punto di vista emotivo del personaggio principale. Non è stato facile scrivere questo romanzo, è stato mio marito a convincermi a portarlo a termine. Mi sono interrotta tante volte, ci ho impiegato quasi tre anni e nel frattempo ho scritto anche altri libri, un qualcosa per me impensabile dal momento che sono una persona particolarmente organizzata. Ma alla fine ce l’ho fatta.

Cosa significa il titolo?
Innanzitutto è un’espressione di un passaggio del libro, quando la protagonista interrompe il suo interlocutore che vorrebbe chiamarla “amore”. Ma il vero significato è Roma scritto al contrario, è una parola palindroma: ed è “amor” verso il corpo che dopo l’incidente mostra tutte le sue trasformazioni, oltre al sentimento verso la città. Perché per Roma provi amore e odio, una città bellissima ma allo stesso tempo difficile da vivere.

Il 1968 vissuto a Torino: Bruno Boveri racconta “Il gioco della verità”

Il 1968 vissuto a Torino: Bruno Boveri racconta “Il gioco della verità”

Cinquanta anni dal 1968, quando Torino si ritrova al centro del mondo della contestazione nata in università. Tutto prende il via nell’autunno 1967 a Palazzo Campana, all’epoca sede delle facoltà umanistiche. Qui si affaccia la matricola Bruno Boveri e qui incontra Ermanno Gallo, gli autori di Il gioco della verità. Un libro scritto allora e rimasto inedito per mezzo secolo, oggi proposto da Miraggi. Gallo non c’è più, Boveri – dopo quei giorni e la laurea con Gianni Vattimo – ha insegnato, ha fatto il deejay, ha fondato radio libere, ha aperto (e chiuso nel 2007) la libreria Agorà a Torino, è stato dirigente di Slow Food dalla nascita fino a poco tempo fa (“E senza prendere un euro”).

Come nasce Il gioco della verità?
“Sono arrivato in università a novembre 1967, a Palazzo Campana, iscritto a Filosofia. Tre lezioni e, a fine mese, scatta l’occupazione contro lo spostamento della sede della facoltà: si parlava di un trasferimento alla tenuta della Mandria. In quei giorni ho conosciuto una ragazza, che mi ha presentato a Ermanno. Fino a quel momento avevo scritto solo poesie, con un passaggio di gloria personale quando mia mamma le spedì alla trasmissione Rai del professor Cutolo. Si faceva un primo tentativo di divulgazione culturale, venne letta una mio componimento. Ermanno aveva già scritto un romanzo. In quei giorni vivevamo insieme ogni momento e lui mi disse: “Perché non scriviamo qualcosa?”. Il giorno dopo è arrivato con due pagine e abbiamo continuato, sempre insieme ma mai assieme”.

Che cosa significa?
“Che non abbiamo mai scritto a quattro mani. Siamo andati avanti così, un pezzo a testa e raccontando il periodo che va da aprile 1968 all’inizio del 1969. Ancora adesso non so chi abbia composto certe parti”.

Che libro è?
“Un guazzabuglio: parti vere e parti inventate, autobiografia e romanzo. Non c’è una trama. C’è piuttosto un clima, il racconto di quello che capitava. Avevo 19 anni quando è scoppiato il movimento, ho subito aderito. Da lì è nulla è stato come prima, cominciando dal sesso. Si scopava come non mai… Si parla di un cambiamento, a iniziare da quello della persona, per poi raccontare quello della società. Si capiva che non sarebbe più stato possibile innestare la marcia indietro, con tutte le conseguenze del caso”.

Che tipo di conseguenze?
“Soprattutto che si sarebbe finiti nella lotta armata: Ermanno si fece un po’ di galera, io venni inquisito per costituzione di banda armata e poi prosciolto, anche se questo secondo aspetto difficilmente viene riportato oggi su internet. Ero vagamente di sinistra quando arrivai a Torino dalla provincia di Alessandria, mi ritrovai comunista duro e puro: l’attacco ai parrucconi accademici, il Vietnam, l’Internazionale. È stato un punto di rottura, soprattutto la presa di coscienza da parte di quei giovani che non si erano mai schierati fino ad allora. Volevamo tutto e subito, come cantavano i Doors. È andata poi male, ma era giusto farlo anche se lo sbocco del ’68, a livello teorico, era appunto la lotta armata: si partiva per fare la rivoluzione. Qualcuno è finito così; altri, e io tra questi, hanno fatto un passo indietro”.

Si parla del ’68 come di un unico movimento studentesco, in realtà non era così.
“C’era una grande frammentazione. Io facevo parte di Avanguardia proletaria maoista, eravamo 120 in tutta Italia, a Torino in 9. Al primo congresso, a Milano, siamo riusciti a spaccarci in due. Si arrivava fino ad assurdità come quelle di altri maoisti, tipo l’Unione marxisti leninisti. In una riunione sull’etica proletaria se ne uscirono con un documento vincolante che teorizzava il sesso simultaneo, ovvero che si dovesse raggiungere l’orgasmo tutti insieme, con vari corollari. Una posizione che sembrava inarrivabile ma che venne superata quando fu bollata come “trotzkista e tardoborghese” da quelli del Partito comunista d’Italia marxista leninista, altri maoisti…”.

A livello personale che cosa ha significato il ’68?
“Per me è stata la svolta della vita, da quel momento non sono stato più lo stesso. Avevo fatto il liceo classico tra Tortona e Voghera, pensavo solo a studiare, a costruirmi una carriera, a mettere su famiglia. È cambiato tutto: al primo posto c’era solo la politica”.

A chi è indirizzato il libro?
“Vorrei che lo prendessero in mano i ragazzi, anche se non è semplice da leggere. Però, se cominci, è un vortice, per capire che cosa era e che cosa siamo. Per capire che bisogna muoversi in prima persona, parlare e fare. E vorrei che gli ex del ’68 potessero ricordare quei giorni”.

Come mai sono passati 50 anni prima di vederlo pubblicato?
“A inizio 1970 io e Ermanno diamo il romanzo a Giorgio Barberi Squarotti, che insegnava Letteratura italiana. Ci dice: “È bello, lo mando a Einaudi”. Lì c’è Guido Davico Bonino, che lo boccia: “Troppo pornografico per Einaudi”. Ne parliamo a Barberi, la sua espressione dice tutto, lui manda il libro a Rizzoli. Due mesi di silenzio, Barberi dice che è positivo, che ci stanno lavorando su. Ci convocano a Milano, incontriamo uno che ci dice: “Ci è piaciuto, ci interessa ma così non è pubblicabile. Bisogna fare un lavoro di editing”. Ci siamo alzati dandogli del fascista, del cretino. Due coglioni”.

“La notte dei botti” libro del giorno a Fahrenheit

“La notte dei botti” libro del giorno a Fahrenheit

Il 22 agosto “La notte dei botti” di Biagio Cepollaro è stato scelto da Fahrenheit come libro del giorno. La storica trasmissione di Rai Radio 3 lo ha presentato così: “Un romanzo profetico sulla notte della repubblica, scritto più di trent’anni fa, che resta profetico anche mentre vediamo quelle previsioni avversarsi. La scrittura visionaria di un grande autore che mescola l’alto e il basso, gioco col tempo e con lo spazio, moltiplica i punti di vista e cantilena le sue ripetizioni creando un’atmosfera chiusa e ossessiva”. Per chi non avesse potuto ascoltare la trasmissione, vi mettiamo a disposizione il podcast

https://www.raiplayradio.it/audio/2018/08/FAHRENHEIT—Il-libro-del-giorno—Biagio-Cepollaro-La-notte-dei-botti-Miraggi-e333693e-6643-4bd7-9645-66cb34a29948.html

“Non disturbare”: la recensione su tremandorle.wordpress.com

“Non disturbare”: la recensione su tremandorle.wordpress.com

Le lunghe giornate di luce e di svago consentono di abbracciare tutte quelle attività che ci fanno stare bene e se adesso siete qui con me è perché una di queste attività per voi benefiche è la lettura.

La seconda mandorla estiva che vi suggerisco è Non disturbare di Claudio Marinaccio, un libro ideale da leggere sia quando siamo rilassati (e quindi bendisposti verso il prossimo) sia quando siamo coinvolti in una delle situazioni descritte (e pertanto in balìa di moti emozionali poco concilianti).

Queste righe divertenti, canzonatorie, talora affilate come coltelli, talaltra delicate come petali di rosa, aprono uno squarcio su una realtà che ci riguarda tutti: il desiderio di stare tranquilli quando ci gustiamo un “caffè”, quando leggiamo un giornale o un “libro”, quando vogliamo recuperare le energie a letto la domenica mattina.

I brani accontentano tutti i palati: dal vegetariano – che non può non riconoscersi nella fanciulla che varca la soglia di un bar – al finto esperto pasoliniano, un essere terrestre che segue l’onda modaiola cullato da una non conoscenza imbarazzante.

Questo libro è suddiviso in porzioni che nella loro brevità ci forniscono un grimaldello interpretativo delle ragioni per cui si legge poco e dei fattori che concorrono a formare il prezzo del “pane”. E se tutto può essere rateizzato e una comunicazione con chi non “sente benissimo” può apparire bonariamente difficoltosa, l’elemento disturbante a volte diviene l’alleato in grado di fornirci l’alibi per non portare a termine un compito che incombe su di noi.

Varcando il confine fra il detto “arrivederci” e lo sperato “addio”, notiamo come nulla (dalla religione alla politica, dalla vita quotidiana agli affetti) venga risparmiato dalla battuta, battuta che strappa un sorriso e che riesce anche a stimolare ragionamenti intimistici che segnano un cambio di prospettiva inaspettato.

Con un ritmo fresco e incalzante e pronunciando quelle parole che noi ci limitiamo solo a ripetere nella nostra testa, l’autore trova espedienti sempre nuovi per uscire con ironica intelligenza da situazioni che ci cadono addosso, se non quotidianamente, con una frequenza di cui faremmo volentieri a meno. Allora proviamo, magari una volta, ad affrontare la realtà in maniera diversa e a inchiodare spalle al muro il ‘disturbatore’ di turno con la potenza della parola, nel limite della rispettosa educazione ça va sans dire.

 

Leggi la recensione di tremandorle anche qui
https://tremandorle.wordpress.com/2018/07/13/tre-mandorle-al-sole-un-po-di-pace-per-favore-three-almonds-at-the-sun-a-bit-of-peace-please/#more-2366

 

“Autismi” protagonista con Giacomo Sartori a Fahrenheit

Gli “Autismi” di Sartori tra ironia e autobiografia: la recensione di Silvia Vernaccini su il Corriere del Trentino

Non è un libro “facile” quest’ultima opera letteraria di Giacomo Sartori, Autismi (Miraggi, pp. 224, euro 16), ma di certo sa affascinare e coinvolgere gli affezionati lettori dello scrittore trentino/parigino. Sedici episodi, distinti, ma comunque interconnessi, che trovano riferimenti con l’autore in una sorta di autobiografia. “La mia città è il posto dove è impossibile essere felici … Per non parlare delle idee, che appena nate sbattono contro le pareti di roccia”. Lo stile è ironico, definisce sua madre “fanatica delle apparenze altoborghesi e criminalmente anticonformista”, attraversato da una sottile vena comica, contraltare a una scrittura con riflessi scientifici, quasi volesse ancorarla alla terra alludendo alla sua professione di agronomo: “Il mio lavoro consiste nel fare buche nella terra … Mi ci seppellisco, si potrebbe dire. Però a differenza di un altro seppellimento, nessuno poi aggiunge altra terra tra me e lo scavo … Posso guardare un rettangolo di cielo”.
Silvia Vernaccini