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Domenico Mungo: «I miei racconti su Torino madre ingrata»

Domenico Mungo: «I miei racconti su Torino madre ingrata»

Come ha scritto sul Fatto Quotidiano Lorenzo Mazzoni, Il suono di Torino «è una bellissima e originale raccolta che narra il capoluogo piemontese attraverso un’operazione totale. Lo stile a puzzle di John Dos Passos e quello ermetico senza fiato di Nanni Balestrini si incontrano davanti a Mirafiori e si mischiano, con il gergo volgo-forbito di Vittorio Giacopini». Una scelta stilistica forte e per certi versi controcorrente, così come molti contenuti del libro scritto da Domenico Mungo, che in questa intervista ci svela i segreti del suo lavoro.

Il suono di Torino è indubbiamente un libro eterogeneo. Come lo definiresti?
«Oggi è quasi impossibile scrivere un romanzo classico, a mio parere, poi c’è che lo fa egregiamente, con intrecci e caratterizzazioni psicologiche congrue e coerenti. La contemporaneità è imprevedibile, così come la ricostruzione sistematica di un passato più o meno distante, come quella che sottende la narrazione di una storia altra di Torino. Ho così raccolto eventi importanti, simbolici, fondamentali, ma anche personali, ironici, tragici. Veri, verosimili o fantastici che hanno influenzato, sfiorato, intersecato la mia biografia e ho cercato di costruirne un romanzo contemporaneo, o meglio un anti-romanzo. Un esercizio stilistico ma anche di contenuti sperimentali. Con una trama sottesa che riaffiora carsicamente legando luoghi, vicende, personaggi. Confondendo i livelli della storia, certificata attraverso una rigorosa ricerca di fonti e testimonianze- essendo fondamentalmente io uno storico, un docente di letteratura e storia ed un ricercatore – e la fiction, cut-up sonori e visivi, brandelli di documentari e sceneggiature mutanti, epitaffi e visioni mistiche. Imbevute in un maleodorante tentativo di noir urbano postpunk. Questo in virtù del fatto che anche la mia esistenza è stata molto frammentaria, un romanzo a racconti ne è lo specchio più fedele. Io sono un artigiano della scrittura. Parto da una massa informe di informazioni, documenti, appunti, bozze, scritti che ho lasciato scivolare nel retrobottega della memoria o pubblicato altrove sotto forma di articoli, recensioni, appunti, epigrammi ed epitaffi e poi lavoro di cesello. Scavo. Sostituisco. Taglio migliaia di parole, paragrafi, capoversi, fino a raggiungere ad una forma più essenziale, agile e, mi auguro, organica per il lettore. Per me lo diventa, eccome! Torino rappresenta il paradigma della città globale, non intesa dal punto di vista delle dimensioni e dell’esorbitante numero di abitanti, bensì per l’eterogeneità talvolta schizofrenica del suo tessuto etno-sociale e culturale. Una città storicamente multilivello e contraddittoria. Città imperiale e plebea, monarchica e rivoluzionaria, operaia e capitalista, avanguardia delle emancipazioni e roccaforte del conservatorismo, allevata dalla cultura istituzionale, editoriale, einaudiana, rigenerata ed innervata dalle contro-sottoculture di fine millennio, nobilitata dalle lotte operaie e studentesche e genuflessa alle logiche del neobusiness globale dalla riqualificazione ambientale, culturale e politica posteriore alla crisi dell’industrialismo novecentesco. Laboratorio di rivolta e repressione. Capitale dei buoni sentimenti di De Amicis e Fogazzaro, dell’ipocrisia piemontarda del Bicerin e Fiorio, ma anche dell’esoterismo nero, del razzismo scientifico di Lombroso, del taylorismo esasperato, della follia visionaria edesotica di Salgari, del pessimismo suicida di Pavese, della rabbia dei quartieri e dei vernissage internazionali del libro, dell’auto, dell’arte e della repressione. Del monopolio delle risorse pubbliche per cultura ed entertainment appanaggio dei soliti noti, degli spazi sociali autogestiti strappati all’asfalto, al degrado e all’ottusità del demanio al prezzo di arresti, denunce, torture, assassini di Stato e fiere occupazioni ancora r-esistenti. Era pertanto difficile rendere omogenea una matassa geneticamente incoerente. Era difficile raccontare una sola Torino. Era necessario osare una formula ibrida, urticante, uggiosa, palesemente devota alla letteratura classica e oscenamente debitrice delle avanguardie letterarie internazionali. Bisognava osare, infarcire le parole di suoni ed i suoni di parole. Un mosaico presente e chiaro nella mia mente, ma arduo da dipanare organicamente all’uso del lettore prosaico e diffidente. Il suono può essere pertanto considerato un romanzo sperimentale, multilivello, fraudolento in quanto spaccia per raccolta di racconti quello che la mia inerzia indolente non ha voluto trasformare in un romanzo composito e coerente».

I racconti nella letteratura italiana hanno spesso faticato a trovare spazio tra i lettori: perché hai scelto questa forma?
«Ritengo che nell’epoca della sovraesposizione iper-cinetica della comunicazione, laddove i tempi di reazione all’istantaneità sono ridotti a pochi frammenti di tempo e la soglia di attenzione, soprattutto dei più giovani, è ridotta a brandelli infinitesimali, il racconto – che può essere letto per intero senza interruzioni, compreso e analizzato anche in un tempo limitato – rappresenta un’opportunità usufruibile facilmente e positivamente. Brevità ed intensità caratterizzano il racconto, congeniale pertanto ai nostri tempi convulsi e frammentati. Nel Novecento, peraltro, tutti i grandi autori della letteratura italiana e straniera si sono confrontati con la misura del racconto attraverso storie di fatti concreti e coinvolgenti soprattutto alla portata dei lettori più giovani. Leggere, i racconti in particolare, significa incontrare dei personaggi, farsi imbrigliare ed affascinare subito da una storia, da un intreccio e da un epilogo abbastanza rapido ma anche dal modo di raccontare di chi scrive e narra. Attraverso il racconto, talvolta, è più agevole comprendere i contenuti di una storia, ma anche i pregi estetici, le caratteristiche stilistiche, la delicata poesia e/o la sottile ironia che li pervadono». Tutti i maggiori autori del Novecento sono riusciti efficacemente attraverso il racconto, talvolta anche più che con il romanzo lungo, a lambire ed approfondire – sembra una contraddizione in termini data l’essenzialità del racconto –  efficacemente il nostro paese e ci danno il senso della ricchezza lessicale e delle vivacità creativa e spesso sperimentale della nostra lingua. Pertanto la mia risposta a questa domanda ribalta i termini: sono io che chiedo a voi “non è il racconto ad essere entrato in crisi, ma piuttosto non è forse vero che l’industria editoriale non è più disposta a riempire cataloghi, scaffali, distribuzione e visibilità con raccolta di racconti, antologie o racconti singoli?”. Bisogna vendere prodotti, che giustifichino costi di copertina adeguati, e non che abbiano l’esigenza primaria di raccontare e basta. Ecco, ritengo che non sia il racconto ad aver perso la sua forza narrativa, speculativa e divulgativa, bensì il correre forsennato dei tempi che assembla e omologa tutto al maggior consumo possibile per il maggior numero di pagine possibile».

Il libro è anche un duro atto di accusa nei confronti di Torino…
«Torino è una madre ingrata. Torino da secoli fagocita tutto ciò che raggiunge le sponde del Po. Partorisce, accoglie, nutre, alleva, fortifica, deprime, reprime, sbrana e sputa via. Un Conte Ugolino sopraffatto dalla storia, un Abramo che non viene fermato da Dio un attimo prima che il sacrificio abbia luogo. L’aspetto gotico, soffusamente noir e seriale, che sottende la sciarada di racconti vuole perorare la tesi che il vero responsabile di questa ecatombe è la stessa Torino transgender: un uomo-donna nero, con un cappellaccio ed un coltello a serramanico nascosto sotto il mantello. Si aggira tra Villarbasse dove compie un efferato eccidio rurale e Porta Susa a traino delle squadracce fasciste di Brandimarte inviate da Mussolini nel 1922 ad impartire una dura lezione a quella porca Torino avanguardia del Biennio Rosso, facendo capolino tra i Murazzi e Piazza Vittorio. E i suoi sotterranei. Si accanisce sulla Val Susa sotto forma di treno ad alta velocità e mortalità. Incendia il Cinema Statuto e fugge tra i mortaretti di un carnevale tragico e spolverato di neve fangosa. Deporta milioni di meridionali nella fabbrica sottratta ai nazisti dagli scioperi di guerra del ’44 con l’illusione del boom economico per incatenarli alla catena di montaggio di corso Agnelli e lasciarli senza lavoro, quindi condannarli alla morte sociale, dopo le occupazioni del 1980 ed il tradimento dei 40mila crumiri. Dal suo sottosuolo emergono artisti, musicisti, assassini, scrittori, ribelli, infami, venduti, eroi, tossici, tatuatori mistici, ultras, anarchici, pezzenti, santi e filosofi, puttane e spacciatori. E tutti muoiono a Torino oppure sopravvivono morituri, oppure incidono con il loro sangue la lapide del muro di suono digrignante che viene prodotta negli altoforni della sua civiltà industriale sepolta da un piano regolatore di riqualificazione urbana eppure disumana. Gli esempi sono decine disseminati in quasi tutti i 31 racconti, ma in realtà a me serviva un capro espiatorio, un assassino seriale, un’antropizzazione di un concetto allegorico, politico e storico per delineare organicamente il corpus tradizionale di un romanzo che, tradizionale, non lo è per niente. Pertanto la metafora che domina l’incedere del volume è caratterizzata dalla duplice icona della Torino omicida seriale che perpetra un’ecatombe lunga un secolo. Imprendibile e responsabile di lutti e sciagure come il Solito Sconosciuto che conclude, tragicamente, l’epopea rurale di Fontamara. È comunque questo un lavoro ancora nella sua fase iniziale ed incompiuta, poiché prevedo Il Suono come la prima parte di una trilogia torinese, il cui sequel è già in cantiere con il titolo del L’Altro Suono di Torino, una raccolta dei racconti in negativo di quelli comparsi nel primo volume, in grado di incastrarsi nelle zone d’ombra volutamente lasciate sospese e finalmente completare la cornice spazio-temporale e di causa effetto dei racconti».

Quanto c’è di autobiografico e quanta parte ha la fiction nella tua opera?
«La maggior parte dei racconti sono veri o verosimili. Lo spazio per la fiction è relegato al connettore delle diverse storie, costruito attraverso il grezzo canovaccio dell’eccidio di Villarbasse: una sorta di onirico gotico, allegorico neorealista. I criteri di scelta sono quasi sempre legati all’emozione, al sentimento, al caso e ad una buona dose di culo».

A rappresentare un filo conduttore tra le pagine è anche la musica punk…
«I racconti sono intersecati dalla liriche blasfeme ed insolentemente anarchiche dei Nerorgasmo, seminale punk rock band torinese che a cavallo dell’inizio degli anni 80 significò molto per la controcultura torinese e nazionale, ma anche di numerosi altri gruppi torinesi e non solo, ma anche di Lucio Dalla, Fred Buscaglione e gli eroi del rock e del punk internazionale. Il Suono di Torino è anche il ronzare impenitente delle sue chitarre digrignanti rabbia&disperazione, poesia e melodia in battere e levare, colate di velluto e bitume e cipressi distorti da un Marshall in eruzione incastonato in un giardinetto emostatico di Mirafiori e della Barriera di Milano.

In un’intervista hai dichiarato che “più le imprese sono disperate e più mi affascinano”: qual è oggi un’impresa disperata?
Credo che gli scrittori debbano osare, oggi più di ieri. Credo in un ruolo ancora destabilizzante, curioso, provocatorio, puro ed ingenuo dello scrittore rivolto alla società contemporanea, ed alla narrazione dei suoi mutamenti genetici e cronologici. Vedo attorno a me decine di scrittori bravi, ma sostanzialmente innocui. Ottemperati alla catena di produzione industriale della scrittura: al posto giusto nel momento giusto, senza incidere sulle coscienze, ma accompagnandone lo scorrere nell’alveo della normalità. Al cadenzar della periodicità stabilita dai contratti estorti e dal copyright e non dall’intuizione e dal talento. Osare, bisogna osare, come ha fatto la casa editrice Miraggi nel voler testardamente pubblicare Il suono di Torino, altrimenti la letteratura rimane ancella del consumismo e non si emanciperà mai come sua Cassandra. Io sono un disperato perché ti voglio amare…

“Essere Boris Vian”: la recensione di Giorgio Biferali per minimaetmoralia.it

“Essere Boris Vian”: la recensione di Giorgio Biferali per minimaetmoralia.it

Di Giorgio Biferali

Chissà com’era vivere come Boris Vian. Essere Boris Vian, scrivere romanzi, racconti, poesie, testi teatrali, tradurre autori come Chandler e Strindberg, e soprattutto suonare la tromba, nonostante il fiato e il cuore non andassero troppo d’accordo. Era tutta una musica, la sua vita, sicuramente jazz, quello che suonavano nei locali di Saint-Germain-des-Prés negli anni Cinquanta. Una musica che è durata poco, però, trentanove anni, il tempo di laurearsi in ingegneria, diventare amico di Queneau e nemico di Sartre (Jean Sol Partre ne La schiuma dei giorni), sposarsi due volte, frequentare Duke Ellington, Miles Davis, Orson Welles, pubblicare romanzi con uno pseudonimo, inventare cose come la ruota elastica e immaginarne altre come il piano cocktail, un pianoforte in grado di fare cocktail a seconda dei tasti suonati.

Dopo una vita passata a rincorrere il suo destino, a cercarsi sempre in nuove vite, post mortem, finalmente, è arrivata la fortuna che avrebbe sempre meritato, i suoi libri sono stati tradotti, le sue canzoni hanno cominciato a girare, a essere raccolte nei vinili e nei cd, alcuni cantanti, da Gainsbourg a Tenco, si sono ispirati a lui, e registi come Michel Gondry hanno pensato che le sue storie fossero perfette per diventare film. Recentemente, marcos y marcos, che ha avuto il merito di riportare Vian in Italia, ha ripubblicato il suo romanzo E tutti i mostri saranno uccisi (traduzione di Giulia Colace, pp. 224, 17 euro), uno di quei romanzi definiti “thriller hardboiled”, mentre per Miraggi Edizioni è uscita una bellissima biografia scritta da Giangilberto Monti, intitolata Boris Vian. Il principe di Saint-Germain-des-Prés (pp. 192, 16 euro).

Nel romanzo, pubblicato nel 1948 con lo pseudonimo di Vernon Sullivan (Vernon per Paul Vernon, Sullivan per il fumettista australiano PatSullivan e il compositore americano Joe Sullivan), il protagonista si chiama Rock, un nome che ci offre già un’idea di quello che ci aspetta, un romanzo musicale, come tutti i romanzi di Vian, che si potrebbe raccontare con una battuta di uno dei personaggi grotteschi che ci capitano sotto gli occhi: “Le parole sono completamente inutili in circostanze così strane”.

Rock è alto, bello, pieno di ragazze che vorrebbero fare l’amore con lui, ma ha promesso a se stesso che rimarrà vergine fino al giorno in cui compirà vent’anni. Viene drogato, rapito e portato nella clinica di un certo dottor Schutz per farlo accoppiare con una ragazza “di una bellezza sorprendente, un po’ troppo perfetta”, e intanto allo ZootySlammer, nel locale di Lem Hamilton che Rock frequenta spesso, viene trovato un cadavere.

Leggere contemporaneamente un romanzo e la biografia di chi l’ha scritto potrebbe confondere un po’ le idee, ma poi no, piano piano le schiarisce, e conferma il fatto che tutto quello che uno scrive, in fondo, è sempre autobiografico. Monti si fa contagiare da Vian e procede per lampi, immagini, pellegrinaggi, dialoghi surreali con ex mogli intenerite dai ricordi e dal tempo che passa. Ogni capitolo della sua biografia, che è una biografia musicale, si chiude con una canzone scritta da Boris Vian. Da Che snob (“che snob, son snob, è l’unico difetto che ho”) al Valzer del sole (“Che sole in strada che c’è, io amo quel sole ma la gente no”), da Berrò (“Berrò, sistematicamente, mi scorderò gli amanti di mia moglie”) alla famosissima Il disertore (“La legge violerò, lo dica ai suoi gendarmi, così potran spararmi, di armi non ne ho”).

Scopriamo che nel 1937, nonostante i suoi problemi cardiaci, Vian scelse di suonare la tromba; che nel salotto di casa sua ci fu una lite tra Camus e Merleau-Ponty e che la sua prima moglie Michelle una notte aveva preparato le patatine fritte per Duke Ellington; che era stato Queneau a convincere Gallimard a pubblicare il primo romanzo di Boris; che sempre Queneau l’aveva fatto entrare nel giro dei patafisici, dove Vian una volta aveva anche scritto un’opera musicale sul codice della strada; che ci metteva pochissimo a scrivere, ma prima doveva immaginare tutto dall’inizio alla fine; che Vian era appassionato di auto d’epoca e la prima macchina con cui scorrazzava per tutta la città era una Bmw sei cilindri; che Sartre aveva una storia con la sua prima moglie e lui lo vedeva come un padre che l’aveva tradito.

Nella lettura di entrambi, del romanzo e della biografia, si ritrovano la dolcezza di Vian, il suo sguardo folle, a tratti infantile, mille personaggi che somigliano ad altri già incontrati prima, mille strade, possibilità, e il lettore, come Rock, come Vian, in fondo non ha paura di percorrerle tutte. E alla fine ci sembra quasi di aver bevuto il cocktail di cui avevamo bisogno.

 

Enrico de Tavonatti: una serata speciale

Enrico de Tavonatti: una serata speciale

Una bellissima serata, a Sarnico, per la presentazione del nuovo libro di Enrico de Tavonatti, edito da Miraggi Edizioni. Racconti molesti e piccoli aneddoti emersi nella conversazione dell’autore con Giangilberto Monti. La splendida sala della Pinacoteca Gianni Bellini, incapace di contenere i tanti appassionati accorsi ad ascoltare de Tavonatti, tra sentimenti forti, passioni travolgenti, e smarrimenti personali. Tra ironia ed erotismo selvaggio. Riviviamo quei momenti attraverso il servizio che Bergamo Tv ha dedicato a Sarnico e alla serata.

https://www.bergamotv.it/bgtv/speciali/speciale-sarnico-2/SI_89610/

“Volevo uccidere J.-L. Godard”: la rubrica di Francesco Cevasco su La Lettura

“Volevo uccidere J.-L. Godard”: la rubrica di Francesco Cevasco su La Lettura

Chi voleva uccidere Godard nel maggio francese di 50 anni fa? Il generale de Gaulle? No, un suo collega altrettanto rivoluzionario: il maestro della nouvelle vague cecoslovacca Jan Nemec. Avrebbe vinto il Festival di Cannes con La festa e gli invitati se Godard non lo avesse fatto “saltare” per solidarietà con gli insorti del ’68. La confessione nel romanzo Volevo uccidere J.-L. Godard (traduzione di Alessandro De Vito, Miraggi Edizioni, pp. 228, 20 euro)

“Tutto dovrebbe essere migliore”: il racconto-intervista di Alessandra Perna su italiansbookitbetter.wordpress.com

“Tutto dovrebbe essere migliore”: il racconto-intervista di Alessandra Perna su italiansbookitbetter.wordpress.com

Il percorso per la felicità è costellato di paure, angosce e un bel po’ di buio.

Che poi cosa sarebbe sta felicità?

Credo abbia a che fare con l’essere liberamente se stessi. Non è cedere a chi ti vuole nascosto, non è inseguire un ideale imposto che non senti tuo, non è cancellare timori e debolezze, non è aver paura del dolore. È imparare a stare soli, è far cadere le nostre barriere solo quando siamo pronti, è essere diversi senza sentirsi sbagliati, è correre per sentire il proprio corpo vivo, è leggere le storie negli occhi degli altri, è cercare qualcuno in un posto sconosciuto per fargli sentire che ci sei. È essere vivi magari incasinati ma liberi di scegliere la propria strada verso la libertà. È l’incontro più difficile da realizzare: quello con sé stessi.

I trentatré racconti di “Tutto dovrebbe essere migliore” di Alessandra Perna (Miraggi edizioni) sono tutto questo e molto di più. Sono le tracce di una colonna sonora che accompagna chi sta per spiccare il volo.

Mi sono fatta raccontare da Alessandra quali sono i libri e la musica che hanno ispirato il suo libro.

La cosa che più mi ha colpito della musica di Salmo, oltre ai beat grassi e ad un flow stupendo, è l’assenza del concetto di perdono: le cose peggiori e migliori si pensano e si fanno senza nessuna retorica. Forse è per questo che ti apre la testa come se ci fosse appena esplosa una bomba dentro.

“Ogni maledetto giorno” di Mostro è un disco dalle emozioni forti, vissute senza mezza termini. Ero viva solo mentre scrivevo, ma fra un racconto e un altro non rimaneva nulla, e questo mi spaventava a morte. Mi ricordo che lo ascoltavo mentre camminavo, e avevo la sensazione che qualcuno cercasse di spingermi in avanti.

Ho ricordi vaghi della stesura di questo libro, mi ricordo che per lunghi giorni era difficile anche alzarmi dal letto. Mi ricordo che ascoltavo hip hop mentre stava esplodendo, e mi ricordo che ad un certo punto mi apparse davanti agli occhi Happy Days di Ghali. Non so perché ma l’ascolto di quel disco è legato a quelle poche cose belle che avevo in quei giorni: l’odore della coperta del letto dove mi nascondevo, l’odore del caffè che mi preparavano, la luce che entrava dalla porta d’ingresso, una sigaretta fumata sotto il sole del giardino.

La Trilogia di K. è un libro glaciale. I due personaggi principali t’insegnano ad uccidere tutto ciò che è superfluo nella vita: piangere, soffrire, spaventarsi, stancarsi. La storia ti spezza il cuore: tu non puoi far altro che accettare che sia così e basta. La prosa è perfetta, non c’è mai una parola in più o in meno. Mi sono rivista in quei due gemelli che cercano in tutti i modi di non soffrire, stringendo i denti e ignorando il sapore del sangue fra le gengive.

Il mago di Earthsea di Ursula Le Guin è un personaggio dolcissimo, furioso e pieno di ambizione, ma anche gentile e intelligente. Nella saga di Terra Mare impara a capire cosa sia il male, e impara che ci vuole grande pazienza per saper gestire la propria forza. È un personaggio che mi ha letteralmente abbracciato in un momento in cui volevo solo che qualcuno mi stringesse a sé.

La danza della realtà di Jodorowsky è uno di quei libri che hanno la capacità di cambiare i meccanismi del cuore. Ci sono troppe cose che interpretiamo in maniera sbagliata, affidandoci all’intelletto senza tener conto dell’istinto e dell’intuito. Ci insegnano a vivere in un certo modo, ma non è detto che quel modo sia adatto a noi: ecco perché dobbiamo imparare a spezzare quei meccanismi imparando a vivere secondo le nostre regole. Anche il suo film, “Poesia senza fine” racconta questo: non siamo colpevoli di vivere come vogliamo.

 

“La folle storia del kamikaze che non voleva morire”: la recensione di Ippolita Luzzo su trollipp.blogspot.com

“La folle storia del kamikaze che non voleva morire”: la recensione di Ippolita Luzzo su trollipp.blogspot.com

“La vera pornografia è la sofferenza degli sconosciuti.”
I racconti di Claudio Marinaccio iniziano con la metafora del sarto di Brecht. Un sarto sosteneva di poter volare con un apparecchio che si era costruito da solo e un giorno si presentò dal vescovo della sua città, dicendogli: “Ora posso volare”.
Il prelato non si emozionò. Con semplicità disse all’artigiano: “Allora provaci”. Il sarto si lanciò dall’alto e finì spiaccicato sul selciato. Un sarto creativo, curioso. Il suo fu un peccato di curiosità. Trovarlo qui come incipit della storia del folle kamikaze che non voleva morire mi sembra una vera goduria. Sorrido anche io al referto dei medici che scrivono di aver appurato che il sarto sia morto di paura prima dell’impatto col terreno. Ricordo quando morì Lucio Magri si parlò molto di quel suo libro del 2009  Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci, terribilmente profetico, ed io scribacchiavo pezzi sulla vicenda triste della fine di Magri e di un sarto che voleva volare.
Brecht scrisse “dopo alcuni secoli gli uomini riuscirono effettivamente a volare”.
Io però non credo che il volo e la morte del sarto siano stati necessari nella storia del volo
La folle storia del kamikaze che non voleva morire sono racconti di un umorismo nero. Deliranti, alcuni. Ho iniziato a leggere il primo racconto, sono saltata, giuliva, e per problemi di vista, ai ringraziamenti e ho trovato Claudio ad aspettarmi e a dirmi che sapeva quello che avrei fatto. Ridendo sono andata indietro, giorno per giorno fino a che ho capito che Claudio sa ogni cosa, ci conosce tutti, come conosce l’arte del narrare. Nei racconti lo preferisco, così come mi piacciono i suoi bozzetti sul giornale, sulla Stampa, i suoi post su facebook, mi piace il suo sguardo surreale e di amicizia, attento agli affetti, ma senza quella pornografia dei sentimenti tanto in voga, senza quella terribile autofiction spiattellata da scrittori venduti al servizio di un melenso mulino bianco. In Claudio c’è il cinismo con affetto, l’amore per gli altri autori e il distacco giusto per non cadere nella pornografia dello zucchero “Se siete arrivati fin qui significa che avete letto tutto il libro oppure che avete saltato tutti i racconti e ora vi ritrovate a leggere dei ringraziamenti. Se fate parte di questa seconda categoria e leggendoli vi viene voglia di leggere tutto il libro, be’ tanto meglio Alessandro De Vito, Fabio Mendolicchio e Davide Reina sono Miraggi e li creano, ma sono anche e soprattutto persone vere (vere per davvero). Grazie a loro perché mi danno la libertà di scrivere quello che mi piace e, in più, mi pubblicano pure. Luca Garonzi disegna. E lo fa così bene che è un onore avere i suoi disegni all’interno del mio libro. Ognuna di queste tavole è una storia nella storia.”
Delirio di negazione
FooG
Una giornata da dimenticare
Una barba lunga un mese
Il tragico inizio di una storia non banale
Pelle
Amore farmacologico
Un viaggio mentale in una terra desolata
La folle storia del kamikaze che non voleva morire
Così diversamente uguali
La ballata del ladro di anime: “Il deserto è un luogo strano. Un posto dove l’uomo soffre di solitudine visiva. Il paesaggio è sempre lo stesso, immobile. C’era un’enorme distesa di pietre e sabbia, interrotta da cespugli secchi che sembravano sfoghi della terra, come nei pelosi sui volti dei vecchi, così fastidiosi da calamitare lo sguardo. A volte l’orrido attrae. Il gusto del macabro è insito dentro di noi.” Leggerete Claudio con il piacere di vedere storie che hanno un senso vero così anche noi facciamo con la vita come questo vecchio che ha perso la moglie “Al principio fui colto da tristezza poi rabbia poi delusione e poi da una strana forma di accettazione. Fino a quando non capisci che la morte non è altro che una fase della vita. Come lo è per esempio l’adolescenza, non puoi accettarla e perciò capirla.” Capendo aleggerà il sorriso sul tutto.
Ippolita Luzzo

Enrico de Tavonatti: una serata speciale

L’eros che sconvolge un’esistenza: De Tavonatti e i suoi “Racconti molesti”

Enrico De Tavonatti di professione fa l’imprenditore, e lo fa bene. Ha creato una municipalizzata che si occupa di smaltimento dei rifiuti nella provincia di Bergamo e che rappresenta un’anomalia in Italia: produce sempre utili. De Tavonatti stesso è un’anomalia, perché scrive. Racconti molesti è il libro con cui esordisce per Miraggi, nella collana Golem.

Perché questo titolo?
“Perché parlo di situazioni che si insinuano nella vita in maniera inaspettata. Sono come il gesto che fai per scacciare una mosca noiosa, entrano nella monotonia di mezza età in cui tutto sembrerebbe ormai appianato e già stabilito. In questi racconti accade invece qualcosa di erotico, erotico inteso come forza generatrice, che sconvolge le esistenze e che obbliga a prendere una decisione, magari in una direzione non auspicabile. Le risposte dei miei personaggi non sempre producono buoni esiti”.

Parliamo di Nebbia, che apre una serie di sette storie.
“Era un racconto lungo, che ho riadattato. Parla di un uomo sui 35 anni, atteso dalla moglie a Parigi per festeggiare l’anniversario di matrimonio. Lui rimanda sempre fino a quando decide di partire, ma a Linate c’è – per l’appunto – la nebbia e i voli sono annullati. Una nuova scusa per non andare da lei, però una persona gli suggerisce di prendere il treno, viaggiare di notte e arrivare la mattina dopo. L’uomo si lascia convincere, senonché proprio sul treno incontra una donna che gli confonderà le certezze e che gli farà capire che un’esistenza è tutt’altro che finita a 35 anni. La vita dura finché c’è la vita stessa”.

Qual è il racconto cui è più affezionato?
“Fermo posta. Parla di una donna di mezza età, separata dal marito. Di ritorno da una cena trova una rivista erotica sotto i portici di piazza Duomo a Milano: la raccoglie, la sfoglia e si lascia attrarre dagli annunci per incontri. Scrive a un’altra donna e… È il primo racconto che ho scritto e che avevo lasciato in un cassetto, salvo tirarlo fuori un giorno per sfida. Con gli amici discutevamo di un libro di Busi, che ha prodotto ottime cose alternandole ad altre di basso profilo. “Per scrivere così non è necessario scomodare i grandi” e ho recuperato Fermo posta per dimostrargli che era vero”.

Prima dei racconti c’era stato un romanzo.
“Maria Assunte Frassine, per fortuna o per forza. È la storia di una prostituta bresciana, che lavorava al Carmine, un quartiere oggi alla moda ma che 40 anni fa era il centro del sesso mercenario. La vicenda parte da una chiesa dove lei è entrata per pregare perché ha vinto alla lotteria. Una fortuna che la emancipa ma che lei si era già costruita nel tempo, perché aveva accantonato dei soldi: una rendita andata di pari passo con il crescente disinteresse per se stessa e per la professione, visto che arriva a pesare 110 chili. Chiude con quella vita, fa un viaggio a Montecatini dove incontra un nobile napoletano, impotente, e comincia un’altra esistenza”.

L’eros fa sempre da filo conduttore.
“L’eros azzera e resetta la condizione degli esseri umani. Le persone cambiano di fronte a una grande disgrazia oppure davanti a un amore travolgente. Ho voluto parlare di questo secondo aspetto”.

 

“Frigorifero Mon Amour”: la recensione di Natalia Ceravolo su exlibris20.it

“Frigorifero Mon Amour”: la recensione di Natalia Ceravolo su exlibris20.it

Mia moglie va a fare la spesa: compra quello che ci serve e poi sceglie con cura le cose da lasciare nel frigo ad ammuffire.

Felice è un uomo, un padre ed un marito che lotta con l’insonnia, con le perpetue richieste delle figlie al grido di “papoooo”, con un dente pulsante e con la fuga del frigorifero, esasperato dallo spreco costante di cibo.

Racconta le vessazioni che subisce e le sue più intime paure, giorno per giorno, in quello che diventa un vero diario.

Ad un certo punto, dopo l’ennesimo pacco di carote ammuffite, il frigorifero sparisce nel nulla. Zero. Scomparso.

Caro Andrea Serra e cari amici di Miraggi edizioni, ecco devo dirvi che, a ‘sto punto, mi son sentita come si sente un complice in un delitto, suppongo.

Se il mio frigorifero, d’un tratto, prendesse vita, temerei le reazioni più che la fuga.

Me lo immagino colpirmi alle spalle con una delle 32 soppressate sottovuoto che ivi ripongo dopo i miei soggiorni calabri. Per non parlare degli sbadigli dettati dalla mancante fantasia settimanale, dove più che l’ingegno può la fretta.

Dunque il frigo sparisce, il dentista è un matto ossessionato dagli alieni, le colleghe (uh le colleghe, per carità) tutte taglia 40, fissate con la dieta e con le tisane al pepe nero ed acido snellente-ventre piatto.

Al povero Felice non resta che dare un senso a tutto, iniziando con il Chi l’ha visto dell’elettrodomestico, che lo porterà fino agli inferi.

E in questo posto un po’ apocalittico, un po’ ibernante ed un po’ Agenzia delle Entrate, eccolo lì, l’elettrodomestico errante:

Era il mio frigorifero che austero e divino mi disse: – Ora che anche tu sei nei ghiacci, posso rivelarti perché me ne andai. Far ammuffire carote, zucchine e uova è lo peggio peccato de lo mondo…
Che ad ammuffir prima di ogni cosa è la tua vita e la tua mente. Per questo tuo odor di muffa presi la via
”.

Ora potrei star qui anche a dirvi se il viaggio è un sogno o se i sogni aiutano a viaggiare meglio, ma io non sono Marzullo e c’ho un frigo da sbrinare.

Leggete Andrea.

Che essere leggeri non è essere superficiali.

La leggerezza anzi la può usare solo chi sa andare anche fino in fondo.

Fino agli inferi, quasi.

Natalia Ceravolo

 

“La notte dei botti”: la recensione di Ombretta Costanzo su ilgruppodipolifemo.com

“La notte dei botti”: la recensione di Ombretta Costanzo su ilgruppodipolifemo.com

Dobbiamo fermare l’orologio e abbracciare le lancette per vivere la dimensione allegorica di un segmento temporale scritto più di trent’anni fa: cosa è La notte dei botti di Biagio Cepollaro Miraggi edizioni?

Più volte è stato definito un romanzo profetico che interpreta l’Italia “alle soglie di un ventennio politico che per alcuni di noi si profilava oscuramente come una notte lunga, la vera notte della Repubblica, un tunnel interminabile”, i cui protagonisti sono i resistenti seminati in una zolla confusionaria e circoscritta di un autogrill, in cui non si ha percezione nitida di cosa succeda e la curiosità tende la corda capoverso dopo capoverso.

La Notte dei Botti che già alcuni sul posto avevano con sicurezza battezzato “della Libera Espressione” è un binario convulso su cui corrono vagoni carichi di personaggi e vicende che sembrano sparate al piattello senza schemi, per un lettore immobile affidato ad una convulsa frammentarietà di informazioni.
Il capitolo d’ouverture è contraddistinto da una successione anaforica e reattiva di descrizioni puntuali e infastidite che rendono l’idea dell’insofferente sfogo liberatorio sociale.

E dove non c’era il giallo in terra e non c’era il fetore acuto che veniva dalle toilettes, c’erano invece …. E dove non c’erano mucchi né televisori, c’erano dei grandi spazi vuoti, delle fosse comuni, fosse della promiscuità. Perso nella promiscuità della memoria dei vecchi, l’aborto si preparava all’eccitante novità dei mucchi. E in quella promiscuità trasmutava e si confondeva.

Il frenetico dispiegarsi della vicenda è incentivato dalla pedalata continua del ciclista notturno di nome Scriba, la cui ombra è proiettata su una scenografia talvolta ferma, inchiodata e contrapposta alla propria spigolosa vitalità, espressione di una meditata condizione di inferiorità rispetto al potere.

Pedalo e sudo. Sudando sviluppo pensiero

La messa a fuoco delle diapositive che scorrono durante la il percorso, lascia scorgere intermezzi di dimensioni oniriche sconvolte dalla realtà distorta e costipata.

Dopo le prime esplosioni in molti dissero che si trattava di tuoni perché d’estate i tuoni sono così. Poi dissero che si trattava di una caldaia, di una vecchia caldaia senza manutenzione. Poi dissero che doveva essere un terremoto, ma la terra non tremava. Tremavano i vetri, però.

Il romanzo è stato scritto a metà degli anni ’90, proprio nel momento in cui finisce la prima Repubblica. L’autore ha scelto di sforbiciare un’ambientazione surreale mediante voce singola interiore e rumore collettivo, due lame incidenti atte a conferire l’idea di una sorta di “colpo di stato”, estratto non da reali ragioni storico-politiche ma da meccanismi sociali, che separano la quotidianità di ieri dal sapore del nuovo millennio. Si catapultano via via in scena numerose comparse dai connotati sociali e morali differenti, accomunati da una sovrapposizione rispettiva di pensieri e di sogni, deliri e allucinazioni che sgomentano e pongono in uno stato di tensione l’osservatore che aspetta lo “spettacolo”.

Chissà la Notte dei Botti qui. Ogni luogo avrà avuto la sua.
I Resistenti. Quanto cammino; quanta strada per le circonvoluzioni dei cervelli, per i pantani dei neuroni, le sinapsi spezzate, i riflessi condizionati, le inerzie, e la paura che cresce dentro, la paura che domani non più…

E’ un panorama di merci e consumatori vincolati nell’autogrill, di Scriba in sella a una bicicletta,tendenzialmente obliquo rispetto al corso degli eventi che fanno tremare i vetri sulla gente accatastata negli angoli dell’edificio, di resistenti, di condomini che si personificano e diventano anime sognanti, contenitori di corpi confusi e guardinghi. La distratta inquietudine si manifesta nelle “lotte sociali” che lasciano trasparire la dinamica dei rapporti condominiali, dietro cui si cela soprattutto il deterioramento di innesti collettivi.

Non può dormire perché i condomini sognano rumorosamente.
Non può dormire perché i condomini sognano, sognano continuamente e, senza pudore, mostrano il marcio della loro anima.

L’emblema dello spaesamento in cui versa la popolazione è Tornabuoni, sagoma entusiasta della notte dei botti, ma soprattutto interessante spunto di analisi complessiva.
Non è un caso se i primi nomi compaiono dal secondo capitolo dopo un incipit spettrale, buio e puzzolente; dapprima l’autore scruta da un drone abitanti e luoghi del suo racconto, dopo di che preferisce rendere rarefatta l’atmosfera tra nebbia e trambusto, che insistono nell’attesa di una risposta; si effonde fluidamente il sapore di un’ incompiuta routine in procinto di espedienti evolutivi tra lotte, pareri, indifferenze e soluzioni.

La Notte dei Botti si era insinuata sotto i discorsi, era cresciuta all’ombra delle apparenze, come un mugugno routinario e quasi inoffensivo…

Il linguaggio di Cepollaro è incalzante, ascendente e traboccante di stimoli sensoriali che diventano corpo e linfa vitale per condurre un viaggio ai confini della notte.
Da un’analisi prettamente linguistica, il romanzo sembra essere costruito attorno al compito affidato allo scrittore/poeta e quindi a Scriba, che così si chiama certamente per evidenti motivi etimologici, contraddistinto da “la fissa di scrivere tutto”, impegnato in un’eccentrica cronaca che riporti metaforicamente ogni tipo di dinamica sociale.

Ombretta Costanzo

 

“Autismi”: la recensione su frederikarandall.wordpress.com

“Autismi”: la recensione su frederikarandall.wordpress.com

Autismi, just published in an elegant new edition by Miraggi, is one of Giacomo Sartori’s most original and successful novelistic experiments. In sixteen distinct but interwoven episodes (or recitativi d’autore-chants d’auteur as the publisher defines them), the unnamed narrator paints a tragicomic portrait of an awkward, marginal man, a creature frequently at odds with his late capitalist world, perpetually puzzled by the rules of the game that govern family, work and society. The narrative voice is painfully candid and naively poetic. Apparently unstudied, it can bring to mind Samuel Beckett’s savage absurdity or the monstrous hilarity of a Kafka.

The volume opens with perhaps the most perfect of these episodes, the brief, haunting Il mio lavoro, (My job) about a strange profession that in fact is pretty much the author’s own: Sartori trained as an agronomist and soil specialist (a surprisingly lively scientific topic these days). “My job consists of digging holes in the ground. Large deep holes a person can easily get into. And in fact I do get in. Inter myself, you might say. But unlike a genuine interment, there is no one to shovel soil between myself and the pit. Unlike a real burial, I can move my arms, breathe at will, come out when I’m done. I can see a rectangle of sky, I can speak, I can howl out my joy, always supposing I have a surplus of joy. Mine is a temporary, reversible interment. When I’m done, I come out and go home.” And the book closes with a rant on end-of-life instructions, Il mio testamento biologico (My health proxy): “If, despite the above dispassionate suggestions of mine, you are unable to wake me, then terminate me. Joyously, as you would lift a carrot from the earth, already thinking about the taste in your mouth. Do it knowing you have my full support. Tell yourself I would  do exactly the same in your place.”

Death is a guest here, invited or not, whether in the sarcastic Il mio primo infarto (My first heart attack) or in the masterful Mio suocero (My father-in-law), a stark portrait of the man, only briefly met and now already laid out in his bedroom for the wake, observed in part through the friends and acquaintances who have come to pay respects, in part through the disenchanted eyes of one of his non-conformist sisters. Épater le bourgeois is the order of things: the naughty vicissitudes of Il mio organo di riproduzione (My reproductive organ; a fiercely independent member, always getting into trouble) come right before the angry, chastening tale of Mia sorella (My sister), a woman whose conformist tendencies are enforced by her upper crust husband, dispenser of an appalling conservatism. But, says the narrator, he’s often told there’s a family resemblance. “At times even my wife accuses me of being the double of my sister, only a more easy-going version, more democratic if you will.”

In l pesci pescati (The fish fished), a boy finds a community of strangers, who like him, enjoy fishing. “I liked waiting for a fish to bite, just as even today I like waiting for something to happen. Certainly this pleasure is by no means real enjoyment, and even less celebration; rather it has to do with privation, and perhaps even with suffering.”

Among the most savage sketches are two devoted to the publishing industry, Il mio attuale editore and Il mio primo editore: mocking portraits of two figures, one from a major publishing firm, one from a small house, who are tremendously bourgeois and much wealthier than their writers will ever be, successful men who like the sound of their own voices and are evidently annoyed and embarrassed by this hapless author. Fascinated by the trophy-like “chair upholstered in famous writer skin” that decorates his publisher’s office, our hero is appalled, impatient and at the same time eager to please. Here and elsewhere, Sartori achieves a quiet, subversive pathos that always comes as a surprise.

Some of this material overlaps with that of another, earlier novel, Anatomy of the Battle, of 2005, composed of brief bursts of non-chronological narrative each one paragraph long. The account, of a boy growing up in a Trentino family led by an unrepentant fascist father, moves back and forth in time and mood with ease, culminating in a reflection on the cult of heroism and political violence in both Fascism and the extraparliamentary left of the 1970s. Although he doesn’t write conventional political novels, Sartori measures the worlds he describes politically, sometimes in historical terms (when he confesses the sins of the Fascist males in his line, or describes the extremist pied noir father-in-law of Mio suocero, mentioned above). And sometimes in class terms (Anatomy’s painful depiction of a snobby, bourgeois, would-be aristocrat mother, once much loved, of whom traces are found in Autismi too). In other novels (Tritolo (TNT), Rogo (At the stake), Cielo Nero (Blackshirt heavens) readers are led inside the uneasy consciences of a Sud Tyrol bomber, three female infanticides, and a Nazi woman spy in love with Fascist Count Galeazzo Ciano.

None of ten books of fiction and poetry that Sartori has published to date is as well-known as it ought to be. His prose is eccentric and his writing has few of those qualities traditionally considered literary; they are stories without the self-conscious intellectual thread running through them that characterizes a sizeable part of what passes as “Italian literature” today. In Autismi, instead, we find no thoughtful premises, no meta-observations and no hint of a thinking author or any figure voicing superior authorial insights. The deep autobiographical vein to Autismi and the first-person voice-intimate, colloquial but never flat, at times baroque-are at quite at odds with mainstream, realist Italian fiction today.

Sartori, a native of Trentino, has made his home in Paris for many years, and permanence in France has shaped his style in more ways than one. Autofiction had its origins there, and the novel has evolved into shapes still mostly unfamiliar in Italy. In France, it’s easier to recognize what Sartori’s up to. There’s a comic vein running through everything he writes, although he is not a comic writer, nor does he deal in autobiography per se, although he draws deeply on the political and social elements of his family and his class-mixed, both bourgeois and renegade, abrasive fascist. An epigraph from Marguerite Duras points to the method: “One writes what one doesn’t know of oneself, of one’s mind and one’s body. This is not a reflective act but a sort of faculty that exists to one side, parallel to one’s person. Another individual that appears and comes forward, invisibly.”

Alas, neither humor or autobiography is very highly considered in Italian literary criticism. One could go further and say that humor is usually suspect, considered cheap and often found disturbing.

But as the exhilarating Il mio lavoro suggests, Sartori is one of those odd birds who comes to writing novels from a foreign country:  a background in science. Scientific and technical matters worm their way into his fiction, and his prose is marked by a scientific habit of preferring the concrete and the measurable. His standards of invention and knowledge are not quite those of the artist. In an interview with an American literary journal he said this:

“Even the humblest researcher knows the thrill of grappling with problems still in process, of entering untrodden territory. And such work tends to be undertaken with humility, from an awareness of one’s own limitations, and of the limits of one’s own knowledge. You always need others, since even Einstein wouldn’t have become Einstein without the help of other highly skilled mathematicians. And you never forget that your own discoveries will quickly be surpassed.”

 

“Volevo uccidere J.-L. Godard”: la recensione di Steve Della Casa su Tuttolibri

“Volevo uccidere J.-L. Godard”: la recensione di Steve Della Casa su Tuttolibri

Maggio 1968. La Francia è in fiamme e il festival di Cannes non piò certo far finta di niente. Un gruppo di cineasti (guidato dal più carismatico di tutti, Jean-Luc Godard) decide di bloccare il festival. Non ci possono essere tappeti rossi, sfilate e party esclusivi mentre per le vie di Parigi si combatte ormai da molti giorni con scontri durissimi tra studenti e polizia. Il festival deve fermarsi, il festival si ferma, i premi non verranno assegnati, l’edizione è annullata. A tutt’oggi resta il momento più intenso di relazione tra cinema e lotta politica: del resto, come è noto, Godard non ama le mezze misure.

Ma in quel maggio c’è anche qualcuno che vorrebbe uccidere Jean-Luc Godard. E non si tratta dei suoi nemici politici, in primis il generale De Gaulle che sta per domare la rivolta e riprendere il controllo del paese. E neanche di qualcuno dei registi suoi coetanei che lo apprezzano ufficialmente ma lo detestano nell’intimo, gelosi di quella sua capacità straordinaria di arrivare sulle cose prima di chiunque altro. Chi vuole uccidere Godard è Jan Němec, uno dei più importanti registi del nuovo cinema che in quegli anni era sbocciato anche nell’Europa dell’Est controllata dall’Unione Sovietica. E i motivi di questo desiderio omicida sono al tempo stesso teorici e pratici.

A inizio 1968, in Cecoslovacchia si respira un’aria di libertà mai assaggiata fino a quel momento. Il governo di Dubček ha abolito nel gennaio l’opprimente censura di stato, il nuovo cinema anticonformista e decisamente innovativo vive un momento di grazia. In concorso a Cannes ci sono ben tre film cecoslovacchi: La festa e gli invitati di Němec, Al fuoco, pompieri! di Miloš Forman e Un’estate capricciosa di Jiří Menzel. Nel frattempo, nubi minacciose si addensano su Praga perché l’Unione Sovietica non è certo felice per quello che sta succedendo. I tre registi sono certi che almeno uno di loro vincerà un premio e che questo sarà molto utile per la causa cecoslovacca: quei loro tre film, nella totale diversità di stili, sarebbero stati impossibili da realizzare se ci fosse stata la censura. Ma poi arriva Godard che, in nome di un comunismo utopico, impedisce di proiettare i film a chi combatte un socialismo autoritario e oppressivo. Per di più, inizia a piovere e gli inservienti dei grandi alberghi cessano di servire gli ospiti che si affrettano a lasciare le camere visto che il festival ha chiuso i battenti e il conto a questo punto devono pagarselo gli ospiti stessi.

«Cannes 1968: la verità su quello che accadde» è uno dei 31 episodi che compongono Volevo uccidere J.-L. Godard, prezioso libretto di ricordi che Němec (scomparso nel marzo 2016, mentre era sul set del suo ultimo film) ha raccolto negli anni e che esce per Miraggi nella pregevole traduzione di Alessandro De Vito. Racconti carichi di ironia e di toni surreali, proprio come i film che lo hanno reso noto presso i cinefili di tutto il mondo. Racconti nei quali si racconta come Němec, tre mesi dopo i fatti di quel maggio francese, sia riuscito a riprendere i carri armati sovietici che mettevano fino alla primavera di Praga (le sue immagini sono le uniche non ufficiali su quanto avvenne nell’agosto di quell’anno). Oppure ci propongono un accostamento che nessun critico musicale avrebbe mai immaginato, quello tra i californiani Beach Boys e il semisconosciuto rocker Proby. O anche l’incontro che condivise con l’amico regista Jakubisko con un Alexander Dubček che ancora di illudeva di poter contare qualcosa dopo che i sovietici avevano ricostruito l’ordine a Praga. O, infine, come si sia trovato in America nello stesso albergo frequentato poco prima da Miloš Forman che si era trasferito a Hollywood per girare film di grande successo, scoprendo però che non aveva mai pagato il conto.

Ironia, divertimento, storie surreali e uno sguardo tagliente sulla realtà e sui vari fatti storici da lui vissuti in prima persona. I racconti di Němec ci fanno capire quanto sia stato importante il cinema per chi ha partecipato a vario titolo ai movimenti che caratterizzarono il 1968, e come quella rivolta generazionale abbia contagiato tutto il mondo, da una parte e dall’altra della cortina di ferro. Negli anni Sessanta il cinema è, per l’ultima volta nella storia, lo specchio fedele di quello che stava succedendo nel mondo, e questa consapevolezza fa capolino in ogni riga dei ricordi di Němec.

Steve Della Casa

“Il lago”: la recensione di Francesca Maccani su giudittalegge.it

“Il lago”: la recensione di Francesca Maccani su giudittalegge.it

A Palermo la scorsa settimana c’è stata una fiera del libro molto particolare: Una Marina di libri, nella splendida cornice dell’orto botanico. Passeggiando fra gli stand ho conosciuto Fabio di Miraggi edizioni che mi ha parlato benissimo di ” Il lago” (traduzione di Laura Angeloni) dalla copertina bianca e rossa.
Bianca Bellová è considerata una delle più talentuose autrici della Repubblica Ceca.
Quando mi capita fra le mani un gran bel lavoro, in genere lo capisco fin dalle prime pagine.
Così è stato per questo libro.

“Il Lago” è un romanzo incredibile. È la storia di Nami, un ragazzino che viene cresciuto dai nonni e che si trova ad affrontare mille peripezie. Patisce fame e freddo e gliene capitano di tutti i colori.
Ma lui resiste.
E alla fine la sua tenacia viene premiata.
Nella sua ricerca mai paga dei genitori, passa attraverso un doloroso percorso di affrancamento e, suo malgrado, si scontra con un epilogo brutale. Quello del regime che in cerca di capri espiatori, insabbia le scomode verità e sacrifica i più deboli.
Sullo sfondo profumi e colori della campagna che sa di povertà, essenziale ma rassicurante.
Nami dopo la scomparsa dei nonni resta solo, viene picchiato e maltrattato da un sinistro personaggio che occupa con la sua famiglia la sua casa e che dovrebbe tutelarlo.
Il ragazzo si innamora della compagna Zaza, la quale una sera subisce violenza da due soldati russi.
Nami assiste allo stupro, salvo poi fuggire.
Il suo peregrinare è un continuo allontanarsi dai ricordi e dal dolore, unito alla spasmodica ricerca delle sue radici.
Nami lascia il villaggio natio e si avventura oltre l’amato/odiato specchio d’acqua.
Il lago, presenza che la popolazione locale personifica, diviene una sorta di totem o meglio di altare sacrificale al cui spirito le genti del posto fanno offerte e pagano tributi.
In questo lago il protagonista, a 3 anni rischia di affogare, a fine romanzo invece ci si immerge consapevolmente in una sorta di rito battesimale, chiudendo un cerchio che era rimasto aperto.

Un libro intenso, che ti afferra per il bavero e ti costringe ad aprire gli occhi sulle atrocità della politica e le nefandezze del regime sovietico.
Una penna pulita e impeccabile quella della Bellova.
Una prosa asciutta, spietata e marziale.
Da leggere assolutamente.
Per chi ama la qualità.

Lo consiglio a occhi chiusi perché merita davvero molto!

Francesca Maccani