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“La notte dei botti”: la recensione di Luciano Del Sette su il manifesto-Alias

“La notte dei botti”: la recensione di Luciano Del Sette su il manifesto-Alias

Su “La Repubblica” del settembre 1989, Alfredo Giuliani, in “Nasce il Gruppo 93?”, scriveva, “Ecco che cosa sta rinascendo…: il bisogno di una vera discussione letteraria, di poetiche operanti e di retorica da parte di trentenni-quarantenni che s’interrogano su quanto vanno facendo: poesie, scritture dove i generi si intersecano e si corrompono inseguendo una percettività precipitosa e dispersa”. Tra i fondatori del gruppo, il napoletano Biagio Cepollaro, che nel 1993 inizia la scrittura di “La notte dei botti”, completata quattro anni dopo. Il romanzo esce finalmente per Miraggi, riscuotendo un credito trentennale a torto negatogli. Quella notte, la notte dei Grandi Accertamenti, l’Organizzazione avvia il piano per impadronirsi dell’esistenza dei cittadini. Scatena l’odio nei quartieri, nei condomini, nei luoghi di aggregazione, alimentando l’ipotetico diritto alla singola, personale, utopia. Rastrella la gente per radunarla in un autogrill, come nello stadio del golpe di Pinochet. Solo Scriba, alter ego di Cepollaro?, riesce a fuggire, vagando in sella alla sua bicicletta. L’uso del presente conferisce al testo la forma di una cronaca assurda, ironica, feroce, che mai dà tregua al lettore.

Luciano Del Sette

“La folle storia del kamikaze che non voleva morire”: la recensione di Gianluigi Bodi su senzaudio.it

“La folle storia del kamikaze che non voleva morire”: la recensione di Gianluigi Bodi su senzaudio.it

Claudio qui dento c’ha passato un bel po’ di tempo. Ha accompagnato la crescita di Senzaudio in un momento delicato. Poi, giustamente, ha preso altre strade. Adesso lo potete vedere ovunque, scrive ovunque. Sulla carta stampata e online. Opinioni e articoli per lo più. Perché per quel che riguarda la narrativa invece gli ultimi suoi sforzi sono finiti su carta.
Viene da chiedersi come faccia a scrivere così tanto e l’unica risposta che mi sono dato è: non dormire. Secondo me Claudio non dorme. Sennò non si spiega.

Leggo le opere di Marinaccio già da qualche anno. Ho iniziato con Scomparire nel 2014 per arrivare al più recente Come un pugno del 2016 fino all’ultimo “La folle storia del kamikaze che non voleva morire” pubblicato da Miraggi nell’ultimo mese. Mentre le altre due prove erano romanzi quest’ultima è una raccolta di racconti.
Una delle cose che ricordo di aver detto parlando di “Come un pugno” era che sembrava che il romanzo straripasse di linee narrative. Sembrava che compresso in uno spazio esiguo ci fosse molto materiale da sviluppare. Storie che avrebbero tranquillamente potuto generare altre storie. Leggendo i racconti mi sono reso conto che la super densità del libro precedente qui trova una sistemazione diciamo più ordinata. Lo strumento del racconto permette a Claudio di affrontare e sistematizzare tutte le sue onde di ispirazione. Eppure, nonostante questo succede che i racconti abbiano due o tre momenti in cui il lettore si trova ad un bivio e non sa dove lo porterà il narratore. La carica è rimasta la stessa. Ed infatti, a leggere la raccolta ci rendiamo conto che Claudio ha osato avventurarsi in più di un panorama. Parlando del passato e parlando del futuro, parlando di Kamikaze e piedi che rotolano, parlando di modi ridicoli di morire, ma anche di modi ridicoli di vivere.

A farla da padrone è quello che io reputo un umorismo nero ben calibrato. Un umorismo nero spolverato di una certa dose di cinismo che per la maggior parte del tempo ci fa stare con un ghigno stampato in bocca. Perché a volte, essere un po’ cattivi è catartico.

Veniamo alla conclusione. Seguendo Claudio dal 2014 posso notare i suoi miglioramenti ed essere felice per lui. Il racconto che da il titolo al libro è davvero piacevole e quello che fa da apripista parte in un modo e poi ti spiazza tirando fuori vecchie maledizioni. Non so dirvi se il suo terreno di caccia debba essere quello dei racconti o quello dei romanzi, non perché uno debba per forza di cose escludere l’altro, semplicemente non so decidere se renda meglio nell’uno e nell’altro campo. Viene voglia di seguire la lunga narrazione portata avanti in un romanzo, con i repentini cambi di rotta e quegli improvvisi WTF, ma viene anche voglia della lettura fulminante.
Alla fine credo che spetta a lui decidere, ma se tanto mi da tanto, avremo ancora sia dell’uno che dell’altro.

Un ultima parola sulle illustrazioni di Luca Garonzi. Sono davvero molto belle e sono, già loro, una narrazione nella narrazione.

P.S un paio di racconti li avevo già letti per motivi diversi e mi ha fatto davvero piacere vederli rivivere.

Gianluigi Bodi

“Frigorifero Mon Amour”: il dialogo Serra-Fais su pangea.news

“Frigorifero Mon Amour”: il dialogo Serra-Fais su pangea.news

Philip Roth, nell’ultima parte della sua vita, sarà stato sicuramente mortificato per non aver ricevuto il Nobel. Certo, però, non era in buona compagnia: quasi ogni cretino, anche con una sola plaquette di poesia pubblicata, è convinto di essere un vincitore ingiustamente mancato. Sono veramente pochi a non avere l’ego tanto grande da ambire a un qualche riconoscimento sovradimensionato rispetto alle loro reali qualità artistiche. Per fortuna, ogni tanto, capita di trovare uno scrittore che, con estrema modestia, non si sente in competizione con i grandi e non ambisce a scalzarli dal loro trono. Come Andrea Serra che, con il suo Frigorifero Mon Amour, Miraggi 2018, non è sceso in campo con l’intento di rivoluzionare la storia della letteratura. Molto più serenamente, lo scrittore torinese di origini sarde si limita a regalarci qualche momento di leggerezza e riso. E lo fa raccontandoci la  toria tragicomica di una famiglia comune, la cui vita si trascina tra un’avventura grottesca e l’altra. Travolti dalla sua inguaribile tendenza a tramutare ogni situazione in un’occasione di divertimento, siamo andati a intervistarlo con l’animo sollevato, sicuri che non ci avrebbe ammorbati con la solita tiritera, della serie “sono il migliore, ma ancora nessuno l’ha capito”.

Insomma, ragazzo mio, hai letto i classici: Dostoevskij, Kafka, Camus, Sartre. Hai studiato a Torino, con pensatori del calibro di Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris. Ti sei laureato in Filosofia a pieni voti… Com’è che poi hai deciso di non prenderti per niente sul serio e diventare l’autore di Frigorifero Mon Amour?

Questo libro che parla dell’amore per un frigorifero è qualcosa di serissimo. Ed è la diretta conseguenza dei miei studi filosofici e della mia imbarazzante dipendenza dai classici. Solo dopo aver conseguito la Laurea Magistrale in Filosofia Morale ho capito che, se volevo scrivere qualcosa di serio, dovevo evitare in tutti i modi la serietà.  l mio intimo amico Franz Kafka, quando leggeva agli amici le pagine di Il Processo, rideva fino alle lacrime.

Hai scritto un libro che diverte ed è segnato da una profondissima leggerezza di fondo. A tuo avviso, nel mondo letterario, c’è bisogno di qualcuno che faccia ridere, di autori che non perseguano il tragico come partito preso?

Sì, penso che la leggerezza sia necessaria, soprattutto in questa nostra società liquida e liquefatta che viaggia a ritmi vertiginosi. La leggerezza, d’altronde, non è superficialità, come già affermava Calvino, ma qualcosa di essenziale e profondo. Basta solo non dimenticarla nello scomparto dell’umido. Insomma, non bisogna lasciarla ammuffire nel frigorifero, ma cibarsene quotidianamente. I medici consigliano di consumarne almeno cinque porzioni al giorno.

Quando ti ho presentato a Cagliari, hai confidato al pubblico di aver scritto qualcosa già prima, un libro che, se non ricordo male, avevi anche inviato al Premio Calvino. Quando ti è stata recapitata la scheda finale di valutazione, il tuo testo è stato bocciato senza possibilità d’appello e tu sei stato invitato a levarti dalle palle. Ci potresti raccontare dell’accaduto? Sono sicuro che saprai presentare un momento così difficile per uno scrittore come qualcosa di divertente e, magari, tirare un po’ su di morale i tanti scrittori che sono abituati a ricevere solo rifiuti. Ah, già che ci sei, potresti pure dirci cosa ne pensi dei premi letterari in generale.

Certo! Pensa che io avevo lavorato a quel manoscritto per diversi anni. Si trattava di una serie di racconti esoterici collegati tra loro. Il risultato era tra il terrificante e l’imbarazzante. Per fortuna, la giuria me lo fece notare. Io ci rimasi malissimo ovviamente, perché chi scrive pensa sempre di essere vicino al Nobel per la Letteratura. Ma le critiche e le stroncature, alla fine, sono il momento più prezioso, se si vuole davvero migliorare nell’arte della scrittura. Se non avessi ascoltato i consigli e i pareri negativi che mi sono stati rivolti, adesso non sarei qui a rispondere alle tue domande. Perciò, mi sento di suggerire a chi inizia a scrivere di fare tesoro di tutte le critiche e i suggerimenti, perché proprio lì si possono cogliere i segnali da seguire per trovare la direzione giusta. I premi letterari, inoltre, sono una bella occasione per mettersi alla prova e per confrontarsi con altre persone che hanno la tua stessa passione.

La cifra distintiva della tua narrazione sembra essere quella dell’esasperazione del quotidiano in chiave dolcemente grottesca. Com’è che hai deciso di adottare una simile soluzione nella tua scrittura?

Questa esasperazione grottesca non è studiata o programmata, fa parte di me da sempre. È una tragica tendenza della mia troppo fervida immaginazione. Mia moglie è giustamente disperata perché, conoscendomi bene, sa che, quando le racconto un fatto, questo non corrisponde mai al vero. Sono sostanzialmente un individuo disturbato che trascrive su carta i suoi deliri quotidiani.

Andrea, è la vita a essere divertente e la tua scrittura, di conseguenza, la imita; oppure la vita è così dolorosa che la letteratura deve riscattarla buttando in vacca ciò che è solo pena e afflizione? Perdonami la domanda che fa palesemente il verso a Marzullo.

Grazie per questa domanda marzulliana, che tuttavia non ho compreso completamente. Ma per non sfigurare voglio rispondere citando la Critica della Ragion Pura di Immanuel Kant, che, tra l’altro, fa molto figo. Direi che sono le nostre categorie mentali a dare forma al mondo. La realtà è divertente, tragica o noiosa sulla base degli “occhiali” che portiamo. L’ironia è un abito mentale, un abito che andrebbe insegnato a scuola a mio parere, perché permette di guardare le cose da prospettive diverse e consente di trovare soluzioni inaspettate. Con questa risposta credo di esserne uscito alla grandissima e, nello stesso tempo, di aver spremuto completamente il mio unico neurone. Ti chiederei pertanto di abbassare notevolmente il livello delle prossime domande.

Tu hai, diciamo pure, un buon successo presso il pubblico dei social, un successo che molti scrittori che perseguono la serietà a ogni costo si sognano. Da cosa pensi che dipenda una simile attenzione che tu riesci evidentemente ad attirare e altri no?

Ho iniziato a postare alcuni dei miei racconti da un paio d’anni, quindi relativamente tardi. Il mio approccio ai social è poco virtuale: io tratto tutte le persone che interagiscono con me come persone reali, per cui, se mi scrivono e commentano i miei post, rispondo sempre e, magari, nasce una conversazione, uno scambio, un’amicizia che va al di là della rete. E non importa se devo replicare a trecento messaggi in una sera. Sono tutte persone che hanno impiegato il loro tempo per dirmi qualcosa e il minimo che io possa fare è dare risposta a ognuno. Credo che il segreto stia qui. D’altronde, quello di cui abbiamo bisogno tutti è di essere riconosciuti, mentre i social, al contrario, spingono verso la massificazione e l’anonimato.

Non ho mai capito perché, ma mi pare che molti autori italiani si sentano provinciali a raccontare di ciò che li circonda. Tu, invece, sembri molto legato al quotidiano, alla vita di tutti i giorni. Infatti, come si evince da Frigorifero Mon Amour, prendi ispirazione dalla tua famiglia, dai colleghi di lavoro, ovvero dalle persone che ti ruotano intorno ogni giorno, per quanto ti conceda di trasfigurarli in chiave ironica. Non pensi che ci sia qualcosa di profondamente triste in tutti questi scrittori che hanno timore di raccontare con semplicità e onestà ciò che sono, la loro quotidianità, e tentano pietosamente di ambientare i loro romanzi in America o in altri posti che forse hanno visto di sfuggita per una settimana, durante le vacanze?

Sì, sono assolutamente d’accordo con te. Il meraviglioso e lo straordinario sono nel quotidiano che abbiamo davanti agli occhi. Non avrei altro da aggiungere. Scusa la brevità della risposta. Sono ancora un po’ stanchino, dopo la domanda precedente.

Tu hai scritto anche poesia, almeno in passato, giusto? Perché non ce ne reciti una, raccontandoci anche il retroscena?

Se proprio insisti… posso recitarti questa che si intitola A Pasqua. È la prima che ho scritto, avevo sette anni: “A Pasqua fuma la vasca,/ fuma da Pavia,/ in provincia di Lombardia”. Questa poesia, come vedi, anticipa l’ermetismo, il simbolismo e il provincialismo. Nasce dal fatto che, quando ero piccolo, mio padre, per farmi il bagno, mi immergeva in una vasca di acqua bollente che riempiva la stanza di vapore. Il riferimento a Pavia, invece, non è del tutto chiaro. Alcuni critici hanno pensato a un viaggio segreto compiuto all’età di un anno e mezzo, mentre altri pensano si tratti di un’influenza massonica lombarda.

Prova a immaginare di finire nei manuali di letteratura tra cinquant’anni. Secondo te, cosa scriverebbero i curatori in merito alla tua poetica?

Sicuramente parlerebbero di “poetica dell’elettrodomestico”, perché per primo ho dato voce al frigorifero, alla lavatrice e al forno. Quello che mancava nella storia della letteratura era proprio una corrente alternata e ammuffita.

C’è qualcosa di cui vorresti scrivere, ma per cui non pensi di avere le capacità?

In generale di tutto. Io sono estremamente critico verso ciò che faccio e, soprattutto, che scrivo. Dopo aver rivisto centinaia di volte quello che mi esce dalla tastiera del pc, mi sorge sempre l’istinto di darlo alle fiamme. In tutta sincerità, non credo di essere particolarmente dotato con la penna. Ci sono tantissimi scrittori veri, molto più bravi di me. Io mi limito a mettere nero su bianco una storia quando proprio ne sento la necessità e, con tutti i mezzi che ho a disposizione, cerco di limitare i danni.

Stai scrivendo un secondo romanzo, se non ho capito male. Di cosa parlerà? Dobbiamo aspettarci un nuovo Andrea Serra, o quello che oramai ci è caro?

Quello che ho iniziato a scrivere è la continuazione di Frigorifero Mon Amour. Però ci saranno tante novità, sia in termini di trama che di personaggi e, soprattutto, di numerazione delle pagine. Per la prima volta nella storia della letteratura, queste non saranno indicate con i numeri, ma con i puffi disegnati da Luna (mia figlia). Ad esempio, al posto del numero uno, a pagina uno ci sarà Puffo Ercole; a pagina due, Puffo delle Mezze Stagioni; a pagina tre, Puffo Caccola Verde… E via dicendo.

Matteo Fais

 

NováVlna, una nuova collana per riscoprire i capolavori della letteratura ceca: le recensione di Lorenzo Mazzoni su ilfattoquotidiano.it

NováVlna, una nuova collana per riscoprire i capolavori della letteratura ceca: le recensione di Lorenzo Mazzoni su ilfattoquotidiano.it

NováVlna è il nome dato alla Nouvelle vague cinematografica ceca ai tempi della Primavera di Praga. Un nome appropriato per questa nuova bella collana di Miraggi edizioni, curata da Alessandro De Vito e Laura Angeloni, che vuole far conoscere in Italia le opere di autori cechi inediti nel nostro Paese e altri ingiustamente dimenticati dall’onda quasi mai anomala dello sconfortante mainstream editoriale.
La collana ha iniziato con il piede giusto, sono stati pubblicati due testi straordinari: Il lago di Bianca Bellova (traduzione di Laura Angeloni) e Volevo uccidere J.-L. Godard diJan Nĕmec (traduzione di Alessandro De Vito).

Il lago è, dal mio punto di vista, un autentico capolavoro. Ritmo perfetto, nodi narrativi dosati nei punti giusti, un climax che stravolge completamente la percezione che si fa chiunque sfogli il romanzo, una collocazione geografica inedita e struggente, liquida e grigia come il lago che fa da cornice e coprotagonista alle vicende di Nami, il bambino che diventa uomo e deve continuamente inventarsi la vita e trovare una propria strada.
Come i Balcani immaginari di Zagreb di Arturo Robertazzi o Sniper di Pavel Hak, come l’Ungheria stregata di Ágota Kristóf, Bianca Bellova scrive una storia che affonda gli artigli nella dura realtà di un Paese dell’ex sfera sovietica. Il lago d’Aral, che non viene mai menzionato, tanto che il lettore si chiede continuamente se la vicenda si stia svolgendo in Uzbekistan o in Kazakistan – ma forse il lago non è nemmeno quello e di esso si riprende la tragedia del prosciugamento per colpa di politiche dissennate – è il luogo dove cresce Nami, nella casa dei nonni.
Si tratta di un piccolo villaggio che sopravvive grazie alla pesca. Ma poi i pesci muoiono e i pescatori soccombono allo Spirito del Lago. Rimasto solo, il ragazzino, parte per la capitale dove farà i lavori più disparati, mentre l’acqua del bacino – che ai tempi della sua infanzia ondeggiava tra il turchese e lo smeraldo – è ormai fango putrefatto e opalescente. Rami trasporta zolfo, stende catrame, diventa maggiordomo di un nuovo arricchito modaiolo post-comunista, si fa coccolare da una vecchia nobile decadente. Sempre alla ricerca di una madre perduta, sempre più in profondità nelle bestialità umane e negli orrori che il progresso è in grado di infliggere. L’eco dello Spirito del Lago rimane il richiamo costante, la colonna sonora di questo stupefacente romanzo con un finale altrettanto stupefacente.

Volevo uccidere J.-L. Godard ha tutt’altro ritmo e struttura narrativa. Jan Nĕmec, uno dei più importanti registi cinematografici cechi del Novecento, definito l’enfant terrible della NováVlna, tesse un romanzo a episodi. Racconti scritti tra i primi anni Settanta e gli anni Novanta. Il filo si dipana cronologicamente a partire dalla Praga staliniana dell’elettroshock per i deviati sociali, passa per il jazz d’Oltrecortina, analizza in modo originale e dissacrante gli avvenimenti che hanno preceduto, accompagnato e suonato il requiem alla Primavera di Praga, fino a giungere alla fuga nei “liberi” Stati Uniti dove il narratore si troverà a vivere di stenti.
Autoironico, feroce, sarcastico, rabbioso e geniale, Jan Nĕmec riesce a parlare di un’intera epoca – e dei personaggi incredibili che l’hanno popolata – prendendo spunto dalle sue vicende personali. Critico e violentemente derisorio nei confronti del ’68 occidentale (esemplare il racconto Cannes 1968. La verità su quello che accadde, quando il regista e i colleghi cechi Milos Forman e Jiří Menzel erano in lizza per la Palma d’Oro e il festival venne interrotto da Godard e dagli altri intellettuali barricaderi) e dei suoi miti, prepotentemente coinvolto in diatribe sessuali e alcoliche, tenero e sprezzante nei confronti degli amici, l’autore scrive un libro fatto di tanti potenziali soggetti cinematografici. Un vero piacere leggerli.

Due testi riusciti, due coraggiosi manifesti di buona letteratura. Auguro un grande successo a NováVlna e ai suoi curatori. E non vedo l’ora che vengano pubblicati altri titoli.

Lorenzo Mazzoni

Social sì, ma senza prendersi troppo sul serio: Laura Bettanin ci racconta “Facebook blues”

Social sì, ma senza prendersi troppo sul serio: Laura Bettanin ci racconta “Facebook blues”

Nel Terzo Millennio il vero mondo sembra essere quello social. Ce ne accorgiamo tutti i giorni, tra like, notifiche e condivisioni: un flusso ininterrotto di informazioni (vere o false), di giudizi, di immagini in cui il singolo cerca disperatamente di emergere, di mettersi in mostra nella maniera più brillante per gridare la propria esistenza. Un mondo le cui contraddizioni sono raccontante da Laura Bettanin, che per Miraggi ha scritto Facebook blues: “Un’idea nata dalla frequentazione di Facebook, diventato un elemento così ingombrante nella vita della persone. E poi dal desiderio di raccontare una storia d’amore riallacciata dopo molti anni”.

La protagonista è Marta, moglie infelice di un uomo molto più anziano di lei.
“È una donna che avrebbe meritato di più dalla vita, questo è accaduto perché non ha avuto coraggio. Da ragazza incontra e sposa un uomo che mantiene lei e la sua famiglia d’origine, una famiglia sfasciata. In questa vita entra anche il vero amore, quello grande, con un soldato americano. Ma non se la sente di lasciare il marito. Si immola per queste persone, cui cerca di dare una dignità”.

Una donna che vive un’amicizia profondo con Renata.
“Marta è una donna molto curiosa. Fa la barista, incontra Renata, una libraia. Tutto nasce da un libro che ruba: il padre di Renata la scopre, ma la donna la difende. Diventano amiche e complici, dell’amore nascosto di Marta”.

Un amore che ritorna grazie all’incontro su Facebook.
“E si intuisce come Marta avrebbe l’occasione di riprendere in mano la propria e come, , al tempo stesso – e non si sappia bene il perché – non se la senta di andare fino in fondo, perché continua ad avere sentimenti di riconoscenza verso il marito”.

Che cosa è per lei Facebook?
“Ho voluto darne un’immagine positiva come negativa. Positiva perché ci possono essere opportunità di contatto vere, anche se solo per un 1%. Ho amiche conosciute su Facebook e poi c’è il rapporto con altri autori, da cui nascono idee e antologie. Tutta gente che poi, per fortuna, puoi conoscere direttamente, ai saloni o ai festival. Penso a Filippo Tuena, per il quale ho scritto un racconto nella raccolta Dylan Skyline (Nutrimenti), e a Laura Liberale, per la quale ho scritto un racconto sul Père-Lachaise. E poi a Luigi Grazioli di Nuova Prosa”.

Questo il positivo. E il negativo?
“Su Facebook ci sono le bufale, le litigate, gli insulti. Ho imparato a fare una certa tara. I ragazzi di oggi, i cosiddetti millennials, hanno capito che usare Facebook così è ridicolo. Invece i più anziani si prendono tremendamente sul serio quando scrivono qualcosa. C’è la gara ad arrivare primi per postare, linkare, bannare: patetico. Poi si denunciano l’uno contro l’altro con un infantilismo impressionante. Finisce per essere un mondo banale”.

Come affrontarlo?
“Frequentandolo poco oppure senza prenderlo troppo sul serio, come le chiacchiere come tra amici al bar. Meglio sempre avere delle persone fisiche con cui rapportarsi. Serve un dosaggio giusto e questo libro può essere un aiuto per quelli della mia generazione”.

“La folle storia del kamikaze che non voleva morire”: la recensione di Gabriele Ottaviani su convenzionali.wordpress.com

“La folle storia del kamikaze che non voleva morire”: la recensione di Gabriele Ottaviani su convenzionali.wordpress.com

Gabriele Ottaviani

In poche parole è già deciso che tu morirai, devi solo decidere la modalità. A quel punto, immobile davanti al nulla della mia esistenza, decisi di accettare la falsa offerta, cercai di auto convincermi di essere una sorta di eletto. Un prescelto mandato dal cielo per risolvere i mali che affliggono il pianeta Terra. Il mio sacrificio avrebbe condotto il genere umano alla salvezza. In fondo è così che Gesù è diventato famoso, sacrificandosi per gli altri. Il dottor Reich mi iniettò qualcosa con una grossa siringa dall’ago lucente. Mi avvolse il buio, quello vero. Percorrevo il cammino nel bosco a ritroso. C’era un sole pallido che non scaldava nulla, però era in grado di farmi sudare. Sotto la camicia avevo circa tre chili di esplosivo cuciti sulla pelle ed in tasca tenevo il telecomando per porre fine alla mia vita terrena e per condannare quella ultraterrena. Speravo di non cadere per evitare botti inutili. Mi facevano male sia le cuciture che legavano l’esplosivo alla pelle sia le ossa per le botte ricevute. La mia lingua giocava con il labbro rotto e mi resi conto che un dente dondolava pronto a cadere. Anche se dubito che nessun topolino mi avrebbe lasciato una moneta, al massimo mi avrebbe divorato una volta morto. Con l’aiuto di una mappa disegnata a matita su un foglio, cercavo di trovare la strada che mi avrebbe portato alla città dove sarei morto massacrando dei pazzi innocenti. Come una medicina che uccide il cancro. Come un veleno che uccide i piccioni. D’un tratto vidi la mia ombra più definita, barcollava e ritornava come prima, pensavo fosse ubriaca. Una luce intensa arrivava da dietro le mie spalle. Mi voltai e vidi un grosso incendio provenire dall’accampamento che avevo da poco abbandonato, non potevo tornare indietro. La mia non era pienamente codardia ma indossavo materiale esplosivo che non andava molto d’accordo con il fuoco. Incominciai a scappare come se fossi inseguito da un animale feroce. Ancora una volta correvo per cercare di sopravvivere.

La folle storia del kamikaze che non voleva morire, Claudio Marinaccio, Miraggi. Claudio Marinaccio ha una gran bella prosa, che si manifesta in tutta la sua spiccata policromia quale che sia il testo cui decide di dedicare tempo, passione e attenzione, che si tratti di un articolo, di un saggio, di un racconto, un romanzo o un post su Facebook: intelligente, vivace, colorata, brillante, sapida, arguta, lieve ma mai superficiale, seria ma niente affatto seriosa, convincente, originale, ironica, sarcastica, irriverente senza la benché minima traccia di spocchia egoriferita che è invece di norma caratteristica peculiare di chi si sente Moravia ma ha problemi anche col plurale di valigia. In questa sua nuova opera, che convince, commuove, emoziona e fa riflettere sin dalla dedica, Marinaccio, in Delirio di negazione, FooG, Una giornata da dimenticare, Una barba lunga un mese, Il tragico inizio di una storia non banale, Pelle, Amore farmacologico, Un viaggio mentale in una terra desolata, La folle storia del kamikaze che non voleva morire, Così diversamente uguali e La ballata del ladro di anime, un capolavoro di bravura che fa pensare che un giorno Haruf, Fante e Chandler si siano stretti la mano e abbiano deciso di collaborare, un vero romanzo a sé, ritrae con crescente – il filo rosso che unisce le parole disegna nel cielo del testo un vero e proprio climax ascendente – autorevolezza, sardonica gioia e al tempo stesso una solennità potente e aulica benché mai pedante e/o pesante, ed esaltata dalle splendide illustrazioni di Luca Garonzi, che, altamente narrative a loro volta, punteggiano e intervallano la narrazione, tutte le declinazioni dell’alterità rispetto all’anonima quotidianità della prepotenza del vivere. Imperdibile.

“Volevo uccidere J.-L. Godard”: la recensione di Gianfranco Franchi su mangialibri.com

“Volevo uccidere J.-L. Godard”: la recensione di Gianfranco Franchi su mangialibri.com

Unico libro del regista ceco Jan Němec (1936-2016), originariamente pubblicato in patria nel 2011, Volevo uccidere J.-L. Godard è stato tradotto per la prima volta all’estero proprio qui da noi: merito di Alessandro De Vito, sanguemisto italo-ceco, studioso di cinema, e della sua Miraggi. Il libro è il battistrada di una nuova collana consacrata alla letteratura ceca: si chiama NováVlna, come la Nouvelle Vague cecoslovacca degli anni Sessanta, e si propone di rappresentare il carattere di “nouvelle vague permanente” della letteratura ceca, spesso venata di grottesco e surreale, comunque profondamente esistenziale. Němec ci restituisce, in questi trentuno sketch e racconti, scritti tra 1970 e 1990, un mosaico della sua vita: a dar retta al traduttore, questo libro è la vita di un uomo “individualista, donnaiolo, combattivo, orgoglioso, visionario, in piedi nella buona e nella cattiva sorte” e al contempo è la fotografia di un’epoca: “Est e Ovest, sovietici e americani, retroscena del cinema, attori, registi, donne, scrittori e spie”. È la restituzione dei rovesci della sorte di un giovane artista, protagonista della cinematografia cecoslovacca, enfant prodige di fama internazionale, finito a vivere esule in estremo Occidente, costretto a tirare a campare tra improbabili lezioni a Yale, una buona serie di filmini ai matrimoni, parecchia nostalgia e una necessaria dose di creatività. Secondo De Vito, la lingua di Němec è “poco letteraria e colloquiale, nervosa e farcita di modi di dire e battute. Non ci si stanca di ascoltarlo, che sia il divertimento delle situazioni paradossali da ‘bon vivant’ individualista, autore di folli e pericolose goliardate per prendere per il naso i comunisti grigi e ottusi, oppure la rabbia e la pena dell’esule che si deve arrangiare mentre trova solo muri di gomma anche nei produttori americani”. Non credo si possa consigliare questo libro soltanto ai cinefili o ai cinematografari, in genere, pur dovendo ammettere che è loro che si rivolge, in primis, questa pubblicazione, per via del fascino di questo vecchio irregolare della “settima arte”. Němec, da scrittore, ha una personalità tracimante, un fertile nervosismo e una piacevole debolezza nei riguardi delle donne e della libertà, in genere; politicamente è quanto di più vicino a un anarchico si possa immaginare, perché davvero l’artista ceco appare riottoso a qualunque autorità e a qualunque potere, davvero sembra istantaneamente irriverente, in certi contesti, e caustico e facile allo sberleffo (o al teppismo, o alla bravata). Come parecchi artisti puri, non sapeva stare al mondo. O forse proprio non voleva.

Gianfranco Franchi

Andrea Serra, lo scrittore che accetta la sfida di farci vivere: la recensione di Marcello Fais su vvox.it

Andrea Serra, lo scrittore che accetta la sfida di farci vivere: la recensione di Marcello Fais su vvox.it

Far finta di essere ciò che non si è: ecco il grande male di molti scrittori. Insomma, l’eccesso di serietà. In troppi si arrogano il ruolo di maître à penser. Ma se non si è seri per indole innata, meglio evitare almeno di risultare ridicoli. L’umiltà rende liberi dalla schiavitù di inscenare una parte che non compete. Del resto, non tutti devono per forza scrivere testi che condensino la profondità di un La Nausea, L’età della ragione e Le mani sporche, in un unico volume – anche perché, sai che due palle!

Essere abissali non rientra tra le prescrizioni mediche. Lanciare messaggi eterni che riecheggino lungo i secoli non è il solo motivo che possa animare nello scrivere. A volte, il narratore vuole semplicemente divertire senza secondi fini o alti intenti di critica sociale. E anche riuscire in questo proposito non è in fondo meno difficile, né meno nobile. Tutto sommato, quanto disse Rino Gaetano a chi gli chiedeva di rispondere all’accusa di essere un cantautore capace solo di far ridere, non è per niente sciocco: «Faccio ridere? Meglio che fa’ piagne».

Uno dei pochi a non prendersi troppo sul serio è, per esempio, Andrea Serra, giovane scrittore sardo naturalizzato torinese. La sua ultima fatica – anche se, presumibilmente, più che di uno sforzo si dev’essere trattato di uno spasso –, Frigorifero Mon Amour, Miraggi Editore, 2018, costituisce un paradigma del disimpegno intelligente. Se i vari Volo, Moccia, e D’Avenia fanno di tutto, pur non potendoselo permettere, per risultare seri come Philip Roth e commerciali come la carta igienica, Serra evita tali pose come la peste. A lui si attaglierebbe magnificamente il bel verso di uno dei massimi poeti italiani del ’900, Giovanni Raboni: “Solo questo domando, esserti leggero”. E leggero è leggero, giocoso, divertente – per usare un francesismo – fino a pisciarsi dalle risate. Non aspettatevi la verità rivelata, piuttosto un paio d’ore di risate.

Il romanzo è la storia dolcemente grottesca di una famigliola comune (marito, moglie e due figlie), con una vita normalissima. Le situazioni e i luoghi della quotidianità, però, si caricano di tutta una serie di aspetti surreali. Il dentista diventa, quindi, una specie di serial killer mancato che si accanisce sui denti del protagonista con trapani, cemento e bombe a mano.
Il meccanico di fiducia è un napoletano imbroglione che danneggia volutamente il mezzo e poi estorce cifre esorbitanti per le riparazioni. Le colleghe di lavoro sono psicopatiche, ossessionate dalla dieta, che evitano di mangiare per riuscire a dimagrire e, dopo alcuni giorni di digiuno, sono capaci di ingurgitare anche i computer dell’ufficio.

La moglie, smaniosa di fare bella figura per le feste ancora ben lontane dal venire, si sveglia nel cuore della notte e, con una sega elettrica, taglia una quercia secolare per piantarla nel mezzo del salotto di casa a mo’ di albero di Natale. Le due bimbe, inconsapevolmente pestifere e diaboliche, chiamano il padre ogni notte, urlando, tra le due e le quattro, ponendogli gli interrogativi più assurdi. L’uomo di casa, sempre più vicino alla crisi di nervi, si arrabatta tra le mille pretese di moglie e figlie.

Tra una peripezia e l’altra, come se non bastasse, è costretto a sottoscrivere la ventesima finanziaria per comprare l’ennesima lavatrice che, “come da contratto”, si autodistruggerà proprio il giorno dopo il termine della garanzia. In tutto ciò, il personaggio, figlio come altri Fantozzi, della grande attitudine italica all’esasperazione in chiave comica della nostra insana normalità, intrattiene un quotidiano scambio amicale con il suo frigorifero.

Ma quella di Frigorifero Mon Amour è una storia che non si può sintetizzare. Perderebbe inevitabilmente. La sua forza sta tutta nella penna di chi la racconta. Nella capacità di seminare due o tre climax di ilarità all’interno di ogni paragrafo. Perché della comicità non si possono mai tirare le somme, come per una tematica qualunque. Il riso è il risultato indotto da un processo che segue un suo percorso impossibile, o quanto meno inutile, da ricostruire. È un dono che si possiede o meno. Serra lo possiede e ha il buon gusto di non farlo mai pesare.

Marcello Fais

“Quando eravamo portieri di notte”: la recensione di Gabriele Ottaviani per convenzionali.wordpress.com

“Quando eravamo portieri di notte”: la recensione di Gabriele Ottaviani per convenzionali.wordpress.com

di Gabriele Ottaviani

Ora dovrebbe essere proprio Lei a spiegarmelo, ecco, mi metto comodo, incrocio le braccia e le permetto di parlare. Vorrei sapere da Lei cosa ci devo fare con questa tappezzeria che ho ereditato, con questo tipo di arredamento che se ne sta qui, tronfio, e non va da nessuna parte. Ho lasciato che disseminasse i suoi ninnoli per tutta la casa e ora, per una puntuale legge del contrappasso, me li ritrovo fra i piedi, infilzati per bene dove dà più fastidio. Diamine, non era così che si doveva mettere la faccenda. Io volevo rimanere fino a vedere quel suo culo ingrossare, farsi cadente e impresentabile; volevo tenerle la testa ogni volta che ce ne sarebbe stato bisogno, quando l’avrei convinta a bere un poco con me, quando non avrebbe retto niente e vomitato tutto; volevo tenerle la testa per le influenze stagionali, quando si sarebbe riempita la pancia di brodini caldi con il dado vegetale, di tisane digestive, drenanti, depurative; volevo rimanere lì comunque andava e fare, per Lei, ogni genere di commissioni; col tempo sarei pure diventato un esperto di tinture per capelli, creme contro la cellulite, cremine contro le rughe e pastiglie per la circolazione; volevo mettermi in fila al supermercato e rimanerci ore e ore a discutere con le cassiere riguardo all’ultima offerta per i soci e per i non soci; avrei fatto la raccolta bollini, ogni raccolta bollini esistente, e sempre le avrei fatto scegliere il regalo. Volevo esserci per qualunque dei suoi denti devitalizzati e incapsulati; volevo esserci per gli ascessi e anche per tutte quelle visite di controllo, quelle tanto generiche e tanto poco necessarie; sarei stato lì a ogni rinnovo della carta d’identità fino al punto di poter ironizzare sulla voce “peso” fortunatamente non menzionata. Oh, non so cosa avrei dato per esserci al momento clou delle emorroidi, per tutte quelle malattie che almeno da fuori fanno ridere, ma anche per quelle che non fanno ridere per niente.

Quando eravamo portieri di notte, Tomas Bassini, Miraggi. Che l’amore è tutto è tutto quel che ne sappiamo. Sappiamo anche che quando nasce un amore ci sembra che finalmente il mondo abbia luce e senso. E viceversa quando finisce nulla ha più valore. Se non il ricordo. La rielaborazione. Riviverlo ancora perché non muoia del tutto, ripercorrerne il sentiero passo dopo passo per capire cosa c’è stato di giusto e soprattutto cosa di sbagliato. E tutto questo è reso ancor più facile se le notti sono lunghe. Tutte uguali. Insonni. Perché non c’è pace quando si lavora, quando si vive dall’altra parte della luna, lì dove si annida un sottobosco di umanità celata ai più. E così lei l’ha lasciato, e lui, complice il vino, si tuffa nel passato. Intenso e coinvolgente.

Boris Vian, chi era costui? La recensione di Stefano Fornaro per sulromanzo.it

Boris Vian, chi era costui? La recensione di Stefano Fornaro per sulromanzo.it

In una miscela narrativa giornalistica e radiofonica il cantautore, comico e scrittore rivitalizza uno dei geni più antitradizionalisti e anarcoidi della Francia del secondo dopo guerra.

Boris Vian. Il principe delle notti di Saint-Germain-des-Prés (Miraggi edizioni, 2018) è l’ultimo romanzo di Giangilberto Monti, cantautore italiano e poliedrico artista milanese: dalle recitazioni con Dario Fo e Franca Rame alle collaborazioni con i comici di Zelig, passando per le incisioni discografiche (Opinioni da clown – 2015 Egea/Warner) e concludendo una vasta attività con molti romanzi concentrati sulla storia della musica. D’altronde una passione centrale lui ce l’ha: la canzone francese del secondo dopo guerra, ovvero gli chansonnier parigini. Così come conserva perfettamente intatta da quel 1995 (Boris Vian-Le Canzoni – Marcos y Marcos edizioni) la sua ossessione: Boris Vian. Per l’appunto. Ma chi era Boris Vian?

Come ammette nelle ultime righe del libro lo stesso Giangilberto, Boris Vian è uno dei più grandi talenti artistici incompresi o stroncati dalla critica letteraria e musicale transalpina.

Questo libro si carica sulle spalle l’enfasi di una passione energica per far riscoprire e per riattualizzare la figura di questo scrittore e cantautore parigino (Saint-Germain-des Prés è un quartiere della capitale) che stravolse le radici culturali della Francia novecentesca.

Copertina, quarta di copertina, impaginazione e testo scritto. Formalmente siamo davanti a un libro, ma in realtà siamo di fronte a un genere ibrido, originale e multidimensionale. Ispirato un po’ alle prestigiose firme della biografia latina (il pathos di Tito Livio e la profondità psicologica di Tacito), un po’ alla tecnica cinematografica di Orson Welles (alcuni aneddoti narrati dai conoscenti di Boris Vian ricordano le interviste sul miliardario Charles Forster Kane di Quarto Potere) e in parte all’intervista giornalistica odierna (più quella da rotocalco che di stampo politico), Boris Vian. Il principe delle notti di Saint-Germain-dés-Pres è in tutto e per tutto un radiodramma (Non saprei… forse un radiodramma, così lo etichetta lo stesso giornalista reporter che indaga sul passato del poeta francese). Non sembra di leggere un libro, ma la partitura scritta di un programma radiofonico e in particolare un approfondimento culturale notturno. Fra interviste spezzate, dettagliati atti cronachistici (del narratore onnisciente in terza persona) e la presenza di testi originali e tradotti della canzone francese si crea una miscela narrativa ibrida e travolgente.

Giangilberto Monti presenta in toto il suo artista: i romanzi flop e quelli più conosciuti (su tutti L’Écume des Jours,1947); i testi teatrali sarcastici meno noti e il capolavoro Les bâtisseurs d’empire; le traduzioni dei romanzi inglesi; le sue poesie musicali e quelle più liriche; i racconti e i saggi sulla musica moderna; infine più di metà libro dedicato alla canzone antimilitarista e anticonformista sviluppata dal jazz francese in fusione con lo swing e il primo rock ’n’ roll.

Non bastano queste poche righe per disegnare l’immagine di un artista eclettico, anarcoide, pazzoide e dinamico, che rappresentava la briosità creativa dei jazzisti degli anni Cinquanta (quelli il cui background culturale era di essere stati degli zazou durante la seconda guerra mondiale) con i loro ritmi swing, jazz, animati e strampalati. Il fascino narrativo di questo libro è soprattutto nella prima parte, quando Boris Vian diventa a Parigi l’icona di un musicista, letterato e poeta (apprezzato e lodato da Jacques Prevert) capace di vivere fra il suo matrimonio, le belle donne, la musica nei locali e le nottate a base di alcol fino all’alba. Il perfetto ritratto di un moderno simbolista o surrealista e se il paragone non è dileggiante un archetipo di quello che diventeranno Jim Morrison, Janis Joplin e Jimmy Hendrix due decenni dopo.

Sono i ricordi agrodolci delle battute piccanti dell’ex moglie Michelle Leglise o le risposte seccanti delle collaboratrici passate della casa musicale del produttore Jacques Canetti a creare un quadro stratificato e pulsante: le notti passate alla macchina da scrivere; i litigi con gli editori; le polemiche dissennate fra artisti e imprenditori musicali; le feste e le esibizioni canore. Non solo del protagonista, ma di tutti gli amici e i colleghi che hanno creato il mito degli chansonnier e della loro vita artisticamente spumeggiante.

Nel corso del romanzo o meglio docu-romanzo, talvolta, può capitare che il dilungarsi su esordi amatoriali o gestazioni narrative/teatrali di secondo piano avviluppi il lettore in una noiosa “storiografia”, perfino pedante, ma il tono serioso, documentaristico e imparziale del giornalista che vaga per le rue parigine spesso cela l’animo da appassionato di Giangilberto Monti. La tecnica narrativa (l’uso in particolare della terza persona) non nasconde l’attrazione artistica smisurata dello scrittore. Lo si percepisce nel recupero dei giudizi positivi riportati su Boris Vian e nella conclusione appena velata che riconosce ben più di un merito alla sua figura musicale e letteraria.

Il libro è ben suddiviso in sequenze tematiche definite, ovvero per ogni genere ci sono uno o più capitoli, accompagnati da parti di interviste, ricordi vissuti e documentazioni biografiche. È questa una struttura narrativa che fa da contraltare a un difficile controllo della materia. Infatti spesso le alternanze fra interviste, narrazione e attualità (l’iter di ricerca del giornalista protagonista) non sono ben chiare e distinte, così come può un po’ confondere il bombardamento di informazioni sulle numerosissime figure attive del periodo in cui visse Boris Vian.

Alla fine da questa combinazione di generi emerge una scrittura lucida, ma non razionale, dettagliata, quasi chirurgica a tratti, che dà parola alle emozioni attraverso gli intervistati.

Pur senza le tecniche di sovraimpressione cinematografica, Giangilberto Monti con la sua scrittura riattualizza un mito internazionale (dice bene quando in fase conclusiva si afferma che Boris Vian non è a oggi molto conosciuto in Italia), a darne un’immagine simpatica e sfaccettata e infine a evidenziare la grandezza culturale, musicale, artistica e umana di un genio assoluto della scrittura provocatoria, esorbitante, parodica, umoristica e dissacrante.

Come il jazz anche questo romanzo è in grado di restare in uno stato melodico piano, lento e cadenzato e a un tratto di modificare il ritmo con un tempo di scrittura frenetico e saltellante.

Non si può non confrontare la personalità di Boris Vian con quella del cantautore italiano e nel dinamismo culturale di cui è protagonista quest’ultimo nei nostri decenni forse si lascia intravedere il desiderio di assomigliare alla personalità creativa dello chansonnier parigino.

Boris Vian. Il principe delle notti di Saint-Germain-des-Prés è l’apice di una costante e lodevole indagine e documentazione da parte del cantautore italiano. Personalità come quelle di Vian stregano, affascinano e non possono passare sotto traccia nella storia della cultura novecentesca. Se le scuole con i loro programmi troppo standardizzati non sono in grado di farlo, è una gran fortuna che ci siano scrittori odierni che si dispensino in questa attività di recupero del passato meno recente.

P.S.: è consigliabile accompagnare la lettura di questo libro con un ascolto coinvolto dei testi musicali proposti e adattati da Giangilberto Monti, perché solo in questo modo si coglie la parola geniale, intellettualmente ironica e musicalmente jazz di Boris Vian.

 

“Nozioni di base”: il saggio critico su lombradelleparole.com

“Nozioni di base”: il saggio critico su lombradelleparole.com

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
Quello che colpisce in questi mini racconti di Petr Král è il modo con il quale l’autore tratta gli «oggetti». Innanzitutto, non c’è nessuna «epifania» degli «oggetti», gli «oggetti» di Král sono quelli che tutti usiamo tutti i giorni, quindi non sono «cose» quanto oggetti che restano oggetti sia prima che durante e dopo che ne abbiamo usato. È il nostro modo di percorrere le contingenze degli oggetti, le disfanie degli oggetti; quelle «disfanie» sono le nostre esperienze, le micro esperienze, quelle impercettibili e invisibili esperienze-contingenze che ripetiamo in ogni attimità di ogni giorno senza pensarci su. L’idea di Král è che in quelle «disfanie» o «contingenze» si riveli un segreto che non sapevamo, o meglio, che forse sapevamo in modo inconsapevole ma che dimenticavamo subito dopo aver esperito la contingenza. In secondo luogo, le «disfanie» degli «oggetti» accadono all’improvviso quando si verifica una condizione esistenziale di allentamento dell’ordine razionale.
È chiaro che in queste «disfanie» králiane non si dà alcuna «verità» (nel senso tradizionalmente inteso dalla tradizione filosofica come emersione del nascondimento alla piena luce della visione), si danno soltanto dei contenuti veritativi, cioè quei contenuti che afferiscono alla «verità» in quanto esponenti della «non-verità». Tutti i nostri atti della vita quotidiana sono intessuti di queste attimità e di questi contenuti ideativi, solo che non ci facciamo caso e passiamo oltre, passiamo ad occuparci di altre cose, le cose che l’io auto organizzatorio ritiene serie.
Per esempio, nella poesia di un Mario Gabriele si verifica qualcosa che è l’esatto contrario di ciò che si ritrova nella poesia degli autori che presuppongono un contenuto di verità epifanico ritenuto fisso e stabile nelle dimore degli «oggetti». È chiaro che qui siamo nella antica ontologia del novecento italiano. In Král come in Mario Gabriele o nella scrittura poetica di Steven Grieco Rathgeb, ci troviamo in un altro universo esperienziale e ideativo: qui non si dà alcun contenuto di verità purchessia, in questa «nuova fenomenologia psichica», che non è una cosa solo italiana, non si dà alcun contenuto imperituro di verità ma soltanto un contenuto energetico e ideativo; la traccia psichica che lasciano gli enunciati della poesia di Mario Gabriele è una mera abreazione, libera dei quanti di energia linguistica e psichica, elementi linguistici de-simbolizzati.
Nella poesia di Petr Král, di Mario Gabriele, di Steven Grieco Rathgeb ma anche in quella di Giuseppe Talia, che a una prima lettura potrebbe apparire «normale», non si rinviene nessun «focus» delle  composizioni, non si dà mai alcun centro simbolico, la loro poesia è sempre scentrata, eccentrica, ultronea, abnormale, abnormata, ci troviamo dinanzi ad una nuova fenomenologia estetica.

Ermeneutica di Donatella Costantina Giancaspero
Nei testi poetici di Petr Král, come nelle sue prose di Nozioni di base, sarebbe errato cercare un «centro» unico della composizione, perché il «centro» appare ovunque: è dislocato e si dis-loca continuamente. Gli «oggetti», anch’essi, si dis-locano, seguendo le linearità sghembe del «presente»; un «presente» che si configura, non come vasta pianura, estesa dal «prima» al «dopo», ma come reticolato fitto di attimi e di attimità, che si dis-locano casualisticamente, allo stesso modo di una materia instabile, o di un pulviscolo.
Noi, poeti della Nuova Ontologia Estetica, ci sentiamo molto vicini alla poetica di Petr Král. Per fare un esempio, potrei citare il nostro Steven Grieco Rathgeb, le cui poesie sfuggono proprio al concetto di «centro» unico. In esse, i più svariati «centri» si dis-locano seguendo il solco delle micro fratture del reale, là dove si situano le cosiddette «disfanie».
In definitiva, le «esperienze» di questa «nuova ontologia estetica» o «nuova fenomenologia estetica», peculiari nella poetica di Král, si danno negli interstizi delle e tra le «epifanie». Il «presente» di queste «disfanie» non coincide più con ciò che risulta nelle «esperienze» delle tradizionali «epifanie». Le «esperienze» che si fanno in questa nuova ontologia o nuova fenomenologia sono assai diverse dalle antiche «esperienze», quelle dettate dalla ontologia novecentesca, la quale, considerando unicamente l’esperienza dell’«epifania», non è in grado di distinguere elementi valoriali «altri», e, di conseguenza, non potrebbe mai offrirci gli strumenti necessari per comprendere le poesie e le prose di Petr Král.
Nel saggio L’origine dell’opera d’arte (Der Ursprung des Kunstwerkes, 1935) Martin Heidegger riprende la concezione dell’opera come strumento-per, come mezzo, ma con una differenza rispetto a Essere e tempo: che l’esser-mezzo del mezzo viene sviluppato, non a far luogo dall’attività progettante dell’uomo, bensì attraverso l’analisi di un’opera d’arte, e prende per esempio un quadro di Van Gogh, che raffigura un paio di scarpe da contadino. In questa famosa opera, l’esser-mezzo del mezzo, la sua essenza, abita in qualcosa di più profondo della semplice «utilizzabilità» di cui il filosofo aveva parlato in Essere e tempo: essa abita nella sua «fidatezza» (Verlassigkeit); «In virtù sua la contadina confida, attraverso il mezzo, nel tacito richiamo della terra; in virtù della fidatezza del mezzo essa è certa del suo mondo. Mondo e terra ci sono per lei, e per tutti coloro che sono con lei nel medesimo mondo (…) la fidatezza del mezzo dà al mondo immediato la sua stabilità e garantisce alla terra, la libertà del suo afflusso costante. L’esser-mezzo del mezzo, la fidatezza, tiene unite tutte le cose secondo il loro modo e la loro ampiezza. L’usabilità del mezzo non è che la conseguenza essenziale della fidatezza». 1
Ora, nei racconti di Petr Král, i personaggi si accorgono dell’esistenza degli «oggetti» quando si interrompe la «fidatezza» di cui ci parla Heidegger: è allora che i personaggi fanno esperienza dello stupore e gli «oggetti», improvvisamente, diventano «cose», diventano altro, fanno esperienza del divario che si apre tra gli «oggetti» e le «cose», del mutismo degli oggetti-strumento e del linguaggio misterioso delle «cose». Le epifanie degli «oggetti» accadono in quei momenti in cui siamo distratti, quando pensiamo ad altro; è allora che ci accorgiamo con stupore che gli «oggetti» sono in realtà delle «cose»: quelle «cose» che noi non vedevamo e non sapevamo riconoscere.

1 M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, Christian Marinotti Editore, 2000 p. 97

Ecco cosa scrive Milan Kundera di queste prose di Petr Král:

È la nostra cecità, cecità esistenziale, che rende il mondo che ci circonda così misterioso. Petr Král, con discrezione, ce lo svela. Pur sapendo che cosa vuol dire la parola “fumare”, non eravamo in grado di vedere quel che “fumare” significa in concreto, in che modo gesti banali e automatici ci legano al mondo o ci permettono di allontanarcene, come testimonia la storia del non fumatore Lenin che chiede una sigaretta a Trockij allo scopo di dimenticare per un minuto la rivoluzione. Pur sapendo che cosa vuol dire “solitudine”, la cecità esistenziale ci impediva di renderci conto che soltanto una porta sottile separa la nostra “stanza della solitudine” dal salone dove rumorosamente la festa continua.
Quante volte, alla fine di una serata, abbiamo visto una donna andarsene, ma tutto ciò che riempiva l’ultimo sguardo che gettavamo su di lei lo dimenticavamo un secondo dopo. È sorprendente come tutte queste situazioni quotidiane, tanto insignificanti quanto elementari, si lascino così poco influenzare dall’originalità di una psicologia. Esse ci attendono, ci sottomettono. È una lezione di modestia che la bella e strana enciclopedia esistenziale della vita quotidiana di Král impartisce al nostro individualismo.

Appunto di Massimo Rizzante 
«Ancora una volta, al mattino, assistere stupiti allo spettacolo del portacenere, dei bicchieri e della caraffa, che immobili disegnano la pianura del tavolo». Questa “nozione di base” di Petr Král è tra le più brevi composte dal poeta. Per questo rivela l’essenza di tutte le altre, anche di quelle più lunghe.
Che si parli di una camicia che «ha fatto il suo tempo» e che ci ispira un «addio così commosso» quale quello che daremmo a «un’amante», o di una porta che durante una visita ad alcuni amici ci introduce in una stanza «attrezzata ma vacante» che «estende il nostro soggiorno» su questa terra di uno «spazio supplementare», o ancora di una vasca da bagno che improvvisamente da letto d’amore si trasforma «nella nostra tomba», tutto ciò che Petr Král tocca diventa spettacolo, spectaculum, ovvero, apparenza. È grazie al suo stupore davanti agli oggetti e alle situazioni della vita quotidiana, concepiti come apparenze, che il poeta scopre una dimensione nascosta della prosa del mondo. La regola d’oro di Král è che basta guardare a lungo una camicia per distorcerla di un nonnulla e gettarla nella pianura sconosciuta dove ci abbraccia come un’amante dimenticata. Ma da dove viene lo stupore del poeta che libera le cose dalla loro funzione e che gli permette di camminare senza quel pesante fardello per le strade della prosa? Da dove viene questa grazia? Non si è mai tanto vicini alla grazia come durante quei mattini quando si assiste «stupiti allo spettacolo» di ciò che si conosce a memoria. È durante quei risvegli che tutti gli oggetti e tutte le situazioni della vita quotidiana mostrano quel che potrebbero essere, che il presente ama contemplarsi davanti allo specchio delle sue possibilità. Così Petr Král, indossando ogni giorno una camicia bianca fresca di bucato, saluta il volto mattutino di quell’amante che ogni notte dimentichiamo: l’esistenza.

Appunto di Yves Hersant
Tutto quel che dice, è di sfuggita. Senza indugio, senza mai lanciare sulle cose uno sguardo totalizzante. Ma scrutandone i dettagli, o lasciando che vengano a lui le fugaci apparizioni; lasciando che l’acutezza dell’occhiata subentri a ogni teoria; lasciando risuonare nella memoria – la sua e la nostra, che vengono quasi a confondersi – il discreto rumore dei passi, o il tintinnio del bicchiere sopra al bancone. La sua motricità pedonale, per riprendere la bizzarra espressione di Michel de Certeau, può condurlo nei più reconditi luoghi del nostro mondo mondializzato; però è tra gli arabeschi delle nostre città, dove le sue erranze evocano a volte il grand Flâneur del xix secolo, che realizza di preferenza i suoi fecondi micro viaggi. Né geografico, né geometrico, né panottico, il suo spazio è da subito quello della poesia e del mito. Eppure si rivela perfino romanzesco, perché popolato da virtualità concrete. Sgombra d’ogni lirismo e soprattutto alleata di una prosa che etichettare come “poetica” sarebbe quanto di più prosaico si possa dire, la poesia di Petr Král non è affatto incompatibile con la saggezza del romanzo. Di questo romanzo che scrive in pieno cammino, come una storia multipla e frammentaria, senza smettere di scrivere nemmeno in curva. Non è stato forse proprio lui a dirlo chiaro e forte: «La missione del poeta non è affatto quella del fine dicitore, quanto più semplicemente d’un topografo (agrimensore, per dirla con Franz Kafka) dell’esistenza?». In un’opera precedente (Testimone dei crepuscoli, 1989) Petr Král offriva in parallelo una serie di poesie e il racconto degli aneddoti che li avevano generati. Al contrario, nelle pagine che state per leggere, le due correnti sono confuse: La camicia come Il vecchio saggio, La vasca come La folla, sono minuscoli ma intensi racconti-poemi incoativi, in cui si manifesta l’antica potenza delle forme brevi. Dinamitardo delicato, Petr Král apre brecce nel quotidiano che decisamente non ha nulla di banale; analista minuzioso delle condotte più surrettizie, ci riconcilia con il mondo lacerando ogni nostra certezza. Questo amante del burlesque diventa così un grande educatore dello sguardo: d’un colpo solo, ci insegna che la nostra realtà ne nasconde ben altre. Dietro ad ogni porta può aprirsi una vita nuova.

 

“Nozioni di base”: la recensione di Ombretta Costanzo su ilgruppodipolifemo.com

“Nozioni di base”: la recensione di Ombretta Costanzo su ilgruppodipolifemo.com

Recensisco un altro “Tamizdat” di cui a questo punto vale la pena spiegare il significato o perlomeno cosa si intende: “Tamizdat” era il termine che indicava le opere occidentali (provenienti da “tam”, cioè da “là”) in circolazione clandestina tra Trieste, Gorizia e Berlino, nei deprimenti anni della Guerra Fredda.

“Viaggiare senza smettere, tra le curve, di scrivere il proprio romanzo” potrebbe essere un epitaffio oppure una sinossi ben strizzata della destrutturata enciclopedia proposta da Petr Kral, intelligenza ceca esule per questioni politiche, surrealista antisovietico che offre il titolo “Nozioni di base” Miraggi edizioni, al flusso di coscienza su cui struttura il suo lavoro.

Mi sembra utile pensare alle curve che armonizzano un percorso che spazia tra natura e artificio, fulmini e giochi pirotecnici come espedienti che rendano l’idea di qualcosa che brilla nella penombra cosmica e individuale, nella quale si fluttua o si fluttuava (se vogliamo contestualizzare) quotidianamente al cospetto dell’incessante buio che tuttavia può sempre essere esorcizzato.

Che legame si instauri tra i vari paragrafi è il vero studio da cui partire a mio parere, l’autore abbandona come Svevo la cronologia poco fertile e ci sbatte davanti ad un “cancello” da aprire; se riuscissimo a scardinarlo troveremmo però un ostacolante “muro” da abbattere o guardare, a discrezione personale.

Cosa si prova realmente nel tuffarsi nella porta girevole di un hotel per scomparire vorticosamente in un qualunque senso di precarietà che rifugge nell’illusione dell’attesa di un nuovo giro? Attendo pure io. Ho aspettato fino all’ultima goccia di carta scritta per trovare una bottiglia semipiena di un epilogo che non si leggerà mai.

Petr incita ad attraversare la strada o a salire su un tram per valicare quel confine ostico e avvilente che separa il mondo dalla vita e la vita da sé stessi. C’è uno studio quasi paranoico degli spazi e della dislocazione degli oggetti con una immediata smania metodica di trincerazione degli stessi, come a volerli appendere in una parete verticale, ben visibile dall’osservatore.

Elenca nomi comuni di cosa destinati ad essere dipinti o a diventare icone metaforiche di una realtà immobile in cui le pedine animate si muovono stando attente a non inciampare. Il tema del viaggio è la colata di cemento più volte versata, bacino in cui si muovono i paragrafi imperniati sulla resistenza delle “cose”.

Sostiene Milan Kundera che questa raccolta di scritti brevi del poeta Petr Král sia una “bella e strana ‘enciclopedia esistenziale della vita quotidiana’”, la incornicia come “lezione di modestia impartita al nostro individualismo”. Secondo Yves Hersant, siamo di fronte a una raccolta che restituisce “l’antica potenza delle forme brevi”: “dinamitardo delicato, Petr Král apre brecce nel quotidiano […] da grande educatore dello sguardo”.
Persino Topinambur è un titolo scelto.

Nozioni di base è un quaderno di 123 capitoli brevi, che comincia da un caffè che ci unisce ai vivi “un po’ di sbieco”, “osservando incuranti la strada e il suo sfuocato viavai”, per restituire con chiarezza la propria presenza.

Král parla di starnuto, riso, luce, buio, cipolla, macchie, vento, sud, madri e figli, colori, nudità, e più delicatamente di cosa significhino verbi come “spaventare”, “unire e separare”, “attaccare”, “sfiorare”; analizza le parole “solitudine”, “assenza” e si concentra sulla “settimana” per azzardare un parallelismo tra domenica ed esistenza.

“la bianca trappola in cui la domenica ci attirava, dopo il promettente grigio del sabato, si apriva a perdita d’occhio verso l’interno, verso l’immagine del deserto staliniano in cui siamo cresciuti, e di quella guerra fredda che per noi era l’esistenza stessa”
È un piccolo breviario di meditazione in cui non risparmia riflessioni insoddisfacenti che corazzano la pelle da emozioni malriuscite.

“Anche quando siamo davvero presi dal momento e la sensazione perdura, quando ci lasciamo andare al sonno, o all’amore, o da un luogo freddo entriamo in una stanza riscaldata e il calore ci invade dentro e fuori, proviamo un senso di benessere totale, ma non completo”.
Si serve del sorriso per scontrare l’insoddisfazione, un sorriso comunque amaro per ingannare l’esistenza che sguscia per poi rintanarsi e nascondere le chiavi di lettura di una vita che non vuole essere letta ma interpretata.

E’ proposto un obiettivo durante la gara con se stessi, riuscire a prendere il treno..
“Dover correre per prendere un treno è sempre umiliante, perderlo è fatale: su quel treno non saliremo mai più. Quando invece il treno riusciamo a raggiungerlo non è mai solo un colpo di fortuna; entriamo nel vagone e riponiamo la valigia sulla cappelliera come se niente fosse, cercando di nascondere l’affanno, ma sappiamo che la corsa ha dato al nostro viaggio una possibilità in più. Anche rispetto a coloro che, puntuali, hanno occupato i loro posti”.
Mentre ricopio mi accorgo di come possa divenire un “credo” collettivo subito dopo esser divenuto il mio.

Ombretta Costanzo