Una tragica pagina di storia italiana che parte dalla provincia friulana. Il 31 maggio 1972 a Peteano, un tranquillo paesino in provincia di Gorizia, esplode una bomba che ucciderà tre carabinieri. La «Storia» di quel periodo buio – il periodo del terrorismo e il conseguente stragismo – fa da cornice al nuovo romanzo di Luca Quarin, Di sangue e di ferro recentemente uscito per la casa editrice torinese Miraggi, collana Scafiblù. Quarin fa partire la sua indagine dalla bomba collocata nella Fiat 500 lungo le rive dell’Isonzo. Gli inquirenti all’inizio sospettano alcuni militanti di Lotta Continua. Due di loro, un ragazzo e una ragazza, che frequentano la facoltà di sociologia a Trento, finiscono con l’automobile nel lago di Levico, cercando di sfuggire all’arresto. Il loro figlio, di appena tre anni, rimane orfano. Alcuni mesi dopo vengono arrestati sei balordi goriziani che non c’entrano nulla con l’attentato. Poi vengono scarcerati. Per dieci anni le indagini brancolano nel buio, depistate dagli inquirenti che le conducono. Che ruolo hanno avuto i genitori del piccolo? E i nonni che si sono presi cura di lui? Sono stati vittime o sono i colpevoli? Il libro poggia sulle vicende storiche, sui retroscena dell’attentato e sulle trame della destra eversiva degli anni Settanta, raccontando la storia di Ferro, vittima di un ingranaggio politico che faticherà a conoscere e a capire.
«Peteano è un momento molto particolare del processo storico – spiega lo scrittore – è il momento in cui i membri più radicali della destra eversiva si rendono conto di essere manovrati dallo Stato e si ribellano contro di esso. Lo racconta in modo molto lucido Vincenzo Vinciguerra, uno degli esecutori della strage, nell’intervista che ho riportato integralmente nel romanzo. Peteano è la fine del sogno dice Vinciguerra, è la presa di coscienza che il fascismo e poi la Repubblica sociale sono finiti per sempre e che anche i valori che li hanno alimentati non trovano più spazio nella società industriale italiana». Ma questo di Quarin è soprattutto un romanzo e Ferro diventa espediente letterario, protagonista anche in questo caso – e sempre suo malgrado – di una seconda storia che al lettore racconta invece la genesi stessa del romanzo. Quarin lo scrittore entra nel romanzo, apparentemente come comprimario, e comincia a tessere una relazione, un dialogo sempre più fitto col protagonista del romanzo. Realtà, finzione, Storia si mescolano, portando il lettore a riflettere anche su altri temi: «Mi interessava capire – racconta l’autore – se c’è un modo per sapere davvero che cosa è successo nel passato o se la verità ci è preclusa per sempre». Ma seguendo unicamente questo fil rouge potremo mancare il nodo centrale della seconda grande prova letteraria dello scrittore udinese, collaboratore del Festival Letterario trevigiano «Carta Carbone» e che, col suo primo romanzo, Il battito oscuro del mondo edito da Autori Riuniti, ha vinto il Premio Letteratura dell’Istituto Italiano di Cultura e il Golden Book Awards 2018, come migliore romanzo del 2018. Lo scrittore crea i personaggi e li colloca nel romanzo, li mette al mondo, dà loro la vita in una determinata storia. Ma i personaggi vivranno o resteranno confinati in quella storia romanzesca? Questa domanda letteraria è per Quarin il detonatore che consente di rileggere la Storia. E forse di interrogarsi in profondità sull’incerto, talvolta ipocrita, procedere umano, che costruisce verità comode, utili, pronte all’uso. Quarin però si schiera senza incertezza e infatti Ferro non solo vive ma, vivendo, testimonia il trionfo della verità. O forse siamo ancora dentro a… una storia?
Quante volte abbiamo cercato di fuggire, scivolando tra le pagine per giungere laddove non saremmo mai riusciti ad arrivare da soli? E quante altre abbiamo invece mendicato conforto, provando a cogliere gli scorci di una quotidianità troppo spesso data per scontato?
Il titolo di questa raccolta di racconti, pubblicata da Miraggi Edizioni a ottobre 2019, potrebbe apparire emblematico, ma smetterà di esserlo dopo poche pagine. La vita moltiplicata è la storia di Livio, di Ascanio, di Marcello, e di tutti quelli che davanti a una vetrina hanno smesso di guardare solo il proprio riflesso. Molteplici i protagonisti, molteplici le vicende, in equilibrio tra realtà e mondo onirico.
L’autore, Simone Ghelli, non è uno scrittore al suo esordio ma già autore di altre opere, come Non risponde mai nessuno, e racconti pubblicati su varie riviste letterarie, tra le quali Cadillac Magazine. Se siete curiosi di saperne di più, troverete recensioni e altro alla pagina: https://genomis.wordpress.com/.
Con la sua scrittura, Simone Ghelli avvicina il lettore a piccoli passi per poi catturarlo completamente, attraverso un lessico fluido ed essenziale.
Nel suo racconto, chiaramente autobiografico, Grossi si dipinge come un grumo di rabbia e disperazione conficcato nella carne di una città ormai marcia. Non è l’unico, ne vede tanti intorno a sé, pronti a rivalersi sui vecchi, sui bambini, sui brutti, sui grassi, sui poveri di tasca e di spirito. Grossi si vede così perché sta diventando così; anzi, è già così. È il prodotto precotto di una società che li ha ingozzati di sogni, che li ha tirati su come polli da batteria per poi farli sedere a una tavola apparecchiata con gli avanzi. Grossi vede la sua vita come il resto di qualcos’altro e ogni giorno si sente come se avesse i postumi senza essersi preso una sbronza”.
Per la playlist ringraziamo l’autore, che ha accettato con grande disponibilità di crearla e condividerla con Read and play. I brani sono quasi tutti strumentali: “Anche se non corrispondono esattamente ai racconti rispecchiano le atmosfere dilatate e oniriche”.
Roberto Saporito è un vero scrittore, di quelli che conoscono a tal punto la letteratura da costruire congegni perfetti e piacevoli. Il suo nuovo lavoro s’intitola Respira, ed è uscito per Miraggi di Torino, Casa giovane e attenta alle novità, anche stridenti. La trama, dunque. 11 Settembre 2001. Crolla la torre sud delle Twin Towers, e il protagonista, che sarebbe dovuto essere già lì al lavoro, come ogni giorno, e invece è ancora a letto reduce da una sbronza, decide di sparire. Mercante d’arte stronzo e spietato. Meglio sparire, tagliarsi barba e lunghi capelli, salvare la vita a un energumeno e riordinarsi le idee: un nuovo passaporto falso fornito dal nuovo amico e intanto già compare nell’elenco ufficiale degli scomparsi. Tre anni dopo lo ritroviamo in un bistrot di Saint-Rémy-de-Provence dove si gode finalmente la vita, grazie anche ai soldi fatti quando era uno stronzo manager della Grande Mela, finché… finché la vita chiede il conto, anche se la vita, quella vita, non è più la sua. Rocco Balestrini, ex socio del capitale sottratto dal protagonista in quella mattina maledetta, ma per molti altri versi benedetta, l’osserva a due passi dal tavolino del suo rassicurante bistrot. E l’intreccio s’accende, d’improvviso, come nel miglior Saporito, lungo il solco leggero e raffinato della letteratura d’autore. La fuga, stavolta obbligata, porta l’autore a nascondersi prima in una casa nelle Langhe, quindi in un altrettanto suggestivo rifugio nel Chianti assieme a un’affascinante puttana che tutto sembra fuorché una puttana, e poi ancora a Roma e poi a Venezia. Mentre l’ex mercante d’arte scappa da un luogo all’altro viene spontaneo chiedersi se sia possibile sfuggire improvvisamente a un’esistenza prestigiosa ma frenetica che ti ha tolto quasi il gusto di vivere. La risposta va cercata nelle pieghe di questo libro esile ma ricco di profonde suggestioni, e così la stessa chiave del libro, sempre vivo e piacevole, sta proprio nel titolo, nel tentativo continuo del protagonista di imparare a respirare davvero, nel tentativo di sottrarsi a uno stanco riflesso di sopravvivenza che è oggi comune un po’ a tutti noi. Ci riuscirà? Questo, forse, non è giusto svelarlo, ma, forse l’autore ce ne dà una parziale idea in questa folgorante citazione: “Quando incontri solo persone nuove e mai persone che hanno fatto parte della tua vita mentre questa cresceva di giorno in giorno e di anno in anno, lo scorrere del tempo diventa un bugiardo difficile da sbugiardare, o più semplicemente un bugiardo che vuoi sbugiardare. Quando muori e rinasci lo scorrere del tempo acquista un altro significato o forse perde del tutto il suo vero significato, qualunque esso sia. Quando muori e rinasci sei già più fortunato degli altri, che quando muoiono, di solito, non rinascono…” Un libro da leggere e meditare, di un autore in costante crescita. Di una splendida Casa editrice che ha appena compiuto dieci anni di vita.
Google ci ha reso un popolo di tuttologi. Siamo esperti di qualunque cosa e in questi anni, a seconda degli eventi e delle emergenze, abbiamo dato sfoggio delle nostre conoscenze nel campo dell’ingegneria civile, delle manutenzioni di ponti, della sismologia, della geologia, della vulcanologia, di medicina. Ma non ci siamo fermati qui, perché abbiamo tenuto seminari seguitissimi su Facebook sulla gestione delle aziende e sulla politica estera. Abbiano spodestato dai fornelli chef stellati di fama internazionale e dimostrato una notevole conoscenza anche in ambito giuridico. Oggi siamo tutti importanti virologi. Ma prima che diventassimo onniscienti, siamo stati soprattutto grandi allenatori, esperti nella gestione delle nazionali di calcio e inventori di moduli di gioco innovativi. Per cui, per tornare all’epicentro del nostro sapere, è necessario leggere il simpatico e dissacrante libro di Angelo Orlando Meloni, Santi, poeti e commissari tecnici (Miraggi Edizioni), una raccolta di racconti sul calcio.
Santi, poeti e commissari tecnici
Il mondo pallonaro è stato sempre una grande metafora del Paese, una sorta di acceleratore sociale, capace di anticipare ed evidenziare i fenomeni, spingendoli fino al parossismo. Nei racconti di Meloni troviamo gran parte dei tarli su cui avvitiamo quotidianamente. Come nel primo racconto che dà il nome alla raccolta, Santi, poeti e commissari tecnici, in cui ad essere demolito è proprio il nostro sentirci tuttologi. La storia gira intorno a una rivalità calcistica cittadina. Un derby di Paese fra due squadre: Vezze sul mare, una società con l’invidiabile record di aver perso tutte le partite dal giorno della sua fondazione e Vezze Marina, che invece può vantare nella sua storia esperienze in serie superiori. Ma il calcio ci insegna che la palla è rotonda e questo perché il dio del pallone, quando si annoia, tira fuori un grandissimo senso dell’umorismo. Esempi: la Grecia che vince gli Europei nel 2004, il Verona di Bagnoli e il Napoli di Maradona che vincono lo scudetto, il Porto di José Mourinho che vince la Champions, la Reggina di Mazzarri e la Longobardia di Oronzo Canà che raggiungono un’insperata salvezza. Ma questi sono solo alcuni casi, la lista dei miracoli calcistici è lunghissima. E il lettore di Santi, poeti e commissari tecnici potrà sicuramente aggiungere all’elenco anche lo strano caso di Vezze sul Mare, che annulla il gap con la rivale cittadina attraverso i miracolosi suggerimenti tattici della Santa patrona del Paese.
Meloni la tocca, per così dire, piano con il racconto Ode al perfetto imbecille. Una delle tante storie di emarginazione e nepotismo. Il malcostume italico ha come vittima un ragazzino fortissimo, un vero talento, che però viene lasciato sempre ai margini perché è figlio di una persona per così dire stramba, ma soprattutto perché deve lasciare il posto al figlio di un notabile del Paese. Meloni parla a modo suo, utilizzando sempre il registro dell’umorismo e del sarcasmo, anche della corruzione e delle scommesse che avvelenano il gioco, di vendetta e di carriere stroncate, del sogno dei tifosi che si alimenta con il calciomercato e di calciatori tristi e alcolizzati sul viale del tramonto.
Siamo tutti Oronzo Canà
D’altronde, il calcio è l’esperanto del mondo, una lingua semplice e di facile apprendimento per tutti e Meloni la utilizza in Santi, poeti e commissari tecnici per indagare e denunciare in modo impietoso un mondo che sembra non potersi reggere senza le ingiustizie e i compromessi. Il calcio quindi come grande metafora, per raccontare una società con poca morale che può far tranquillamente a meno degli eroi, che sono sempre giovani e belli. Dei calciatori no, perché possono essere anche brutti e perdenti. Un po’ come i teneri sconfitti raccontati Meloni.
«Rosa, io sono un metodico. Ho dovuto fare colazione in un altro bar, sono già abbastanza sconvolto per oggi.»
La vita moltiplicata di Simone Ghelli è una raccolta di racconti in cui ciò che ci viene mostrato il più delle volte non corrisponde a ciò che si pensava di leggere: accade quella cosa che uno dei personaggi della raccolta definisce «contraffazione del reale». Ghelli è molto bravo a “rifilarci” la sensazione di essere trasportati in un mondo altro, come sospinti in altre dimensioni, mentre invece – una volta storditi – ci ritroviamo davanti a racconti di vita che fanno del quotidiano, della semplicità, della normalità la loro cifra straordinaria. Ogni racconto parte da un elemento minimo che spezza la routine di un personaggio qualsiasi: un professore che la mattina non può mangiare il suo danese con scaglie di cioccolato perché il bar dove va sempre ha un problema elettrico; un impiegato in una società di servizi che fornisce assistenza ai clienti per conto di terzi, una mattina si ritrova a fare tardi al lavoro per vari motivi – il traffico, la giornata uggiosa, le buche delle strade – ma tutto comincia quando un vecchietto compie una manovra azzardata ad un incrocio con il semaforo rosso; un postino che si alza già stanco una mattina a causa di un incubo notturno e non ne infila una giusta; e così via. Quando qualcosa cambia all’improvviso arriva la vita, e i personaggi di Ghelli restano lì non sorpresi, non sopraffatti, ma assistono a quello che avviene come se fossero dentro a un sogno, come se dormissero un sonno profondo, tanto profondo da sembrare reale, vero ma innocuo. Come se la vita si moltiplicasse, in qualche modo, e diventasse tante vite diverse. E invece un risveglio c’è sempre. Dai racconti di Ghelli si apprende che a sconvolgerci la vita è la vita stessa nella sua normalità. Non soltanto i grandi eventi, non solo i grossi traumi, ma sono gli avvenimenti del quotidiano che possono stravolgere così come possono appiattire un’esistenza. Tutto dipende da noi, da come li affrontiamo, e con che occhi li guardiamo (appena svegli).
Ogni personaggio, alla fine, torna indietro e dopo quello che ha appena vissuto – il sogno, «il miraggio di una vita piena», il tempo di un mondo altro che non è il tempo di questo mondo qua – ricompare la vita vera. O forse no. La scrittura di Ghelli è raffinata, ricercata, a volte si fa rumore di quello che accade – «La casa scricchiolava e brontolava, era un enorme stomaco che stava digerendo la sua vita» –; altre, immagine nitida – «Immobile dinanzi alla distruzione, come l’osservatore esterno nel Naufragio della speranza dipinto da Caspar David Friedrich –; altre ancora suono – […] si eseguono, di nascosto, centinaia di sinfonie di vite separate.»; ma rimane attaccata alle cose, alle storie e ai suoi personaggi – come il pennarello del fumettista Osvaldo Cavandoli alla sua linea –,nel tentativo di tamponare le falle delle loro esistenze tenendole insieme, attraverso un’estetica funzionale che non perde mai di vista ciò che vuole raccontare e anche ciò che vuole immaginare.
«Forse aveva avuto soltanto una passata di febbre e non se n’era neanche accorto.»
Santi poeti e commissari tecnici è un libro strano che parla di tutti noi, del calcio e della società, di passioni e di identità. Angelo Orlando Meloni crea un insieme di aneddoti e storie che ruotano attorno allo sport più amato in Italia e che, in parte, giocano a dissacrarlo.
La fede calcistica, quella vera e propria religione di Stato che ogni domenica ci tiene incollati alla tv, in questo libro viene presa con leggerezza, con ironia. A dimostrazione di come anche con il calcio e di calcio si possa scherzare, parlare con tranquillità, scoprendoci più umani e meno sfegatati.
La trama
Santi poeti e commissari tecnici (Miraggi edizioni) si compone di racconti che hanno al centro il calcio. Il primo di questi racconti, che poi dà il titolo al libro, ci parla del miracolo della statua votiva della Beata Serafina, la quale suggerisce di colpo al parroco del paese le strategie giuste per vincere il campionato.
Negli altri racconti ci sono un bomber alcolizzato ed una comunità che pensano di meritare “il calcio che conta”; un arbitro incorruttibile che dirige la sua ultima partita e deve fare i conti col suo passato; un giovane campione scopre il difficile rapporto coi genitori degli altri ragazzi; un ragazzo esordisce in Serie A e medita vendetta contro il destino.
Nell’ultimo racconto la massima serie rischia di fallire a causa dell’ex moglie di un dirigente che pretende gli alimenti dal marito, che lavoro nel mondo del calcio giovanile.
La recensione di Santi poeti e commissari tecnici di Angelo Orlando Meloni
In questo libro ci sono dentro piccole e grandi storie, che magistralmente uniscono il calcio all’amore. Non sono amori facili badate bene; qui parliamo di amori finiti, sfuggenti, mancati o mancanti. Lo stesso amore per il calcio acquista connotati surreali, malati, mai davvero puri.
Santi poeti e commissari tecnici ci parla poi del calcio di provincia, quello che dovrebbe essere limpido, leggero, spensierato, e che invece scopriamo corrotto quanto e come quello ad alti livelli. La caratterizzazione dei personaggi ci proietta prima sui campetti della domenica, e poi di colpo nei grandi stadi. Due facce della stessa moneta.
I sogni dei tifosi sono fragili, così come è fragile l’universo calcio, perché fatto da uomini. Ecco perché tutto il libro di Angelo Orlando Meloni è attraversato da una vena malinconica, da toni agrodolci che tirano in ballo i ricordi ed il cuore, ciò che troviamo nel nocciolo di una nazione.
Parlare di calcio è affascinante, e se lo si fa con una risata invece che con una lacrima, è ancora più bello. E questo libro può davvero aiutarvi a scoprirvi tifosi sotto un altro punto di vista.
Non seguo il calcio e non tifo alcuna squadra e, in termini di regole da rispettare sul campo, mi limito a sapere che ci sono undici giocatori per squadra, che esiste il fuorigioco e che non si può prendere la palla con le mani, a meno che tu non sia il portiere o Maradona. Nient’altro. Eppure mi ha divertito, stimolato ed emozionato la raccolta di racconti di Orlando Meloni, Santi, poeti e commissari tecnici, edita da Miraggi edizioni, dove il calcio è il comune denominatore di tutti e sei i racconti. Infatti, è il modo in cui Meloni ha deciso di descrivere e parlare del calcio a rendere tutti i racconti del libro piccole perle imperdibili. Lo sport in questione è usato, letterariamente parlando, come una grande lente d’ingrandimento attraverso cui osservare ed esasperare meccanismi sociali elementari come arrivismo, invidia, rivalsa sociale, disperazione, brama di denaro e di successo. Attorno quindi al nucleo calcistico, Orlando Meloni racconta storie d’amori mancati o di sogni infranti, ora esilaranti e grottesche, ora tristi e commoventi, in una raccolta che presenta al lettore una ricchissima varietà tematica, resa uniforme e solida dalla personalissima stilizzazione dell’autore, il cui stile è davvero irresistibile.
Il primo racconto, quello che dà il titolo alla raccolta, è bellissimo. Ci sono due comuni, Marina di Vezze e Vezze sul Mare, partite di calcio, animali parlanti, uno stabilimento petrolchimico che inquina aria e mare, preti e la statua della beata Serafina. Elementi difficili da accomunare, eppure l’autore ci riesce e scrive un racconto molto interessante, con striature da commedia nera che gli conferiscono un’atmosfera particolare e suggestiva. Leggendolo ho riso e mi domandavo dove Meloni volesse arrivare, quando ho letto le ultime due pagine sono rimasto a bocca aperta. Complimenti.
Effectio miraculi in nomine dei. Si prega il gentile credente di fare attenzione. Rivelazione clinamen improbalistico completata. Punto di snodo individuato nel minuto quarantadue del secondo tempo. Upload dettagli in corso, buffering 69%…” Il prete tirò fuori il blocchetto degli appunti e si gettò ai piedi della statua.
Precisi siamo è il secondo racconto e leggerlo è come ascoltare una canzone strana e complessa, ma magnetica, non capisci subito dove voglia arrivare ma la segui cullato dalla bellezza della melodia. Così, in questo racconto, leggi e senti il ritmo fluido della narrazione e assisti come gli spettatori in platea alle vicende di un calciatore alcolizzato che è diventato simbolo per la comunità del “calcio che conta” e le vicende del suo allenatore, ma non solo… Orlando Meloni stupisce anche qui. In mezzo abbiamo altri tre racconti originalissimi, e il terzo, Ode al perfetto imbecille è quello che più mi ha sorpreso dell’intera raccolta. È un racconto intenso, molto commovente.
[…] Non hai nemmeno sentito l’allenatore che si lamentava con il custode del campetto[…] O forse hai fatto finta di non sentirlo, come hai fatto finta di sorridere a tuo padre, all’uomo dei tic, mentre tornavate a casa, e tuo padre ha fatto finta che non fosse successo niente. Perché così va l’amore, a volte non facciamo domande per paura delle risposte.
È un feroce pugno nello stomaco, dove gli ultimi resteranno ultimi, senza possibilità di rivalsa o di rivincita, perché gli uomini, gli unici a poter cambiare e scardinare alcuni corrotti meccanismi sociali, non lo permetteranno mai.
Quando ritorni a casa vorresti stringere la mano di tuo padre e tuo padre vorrebbe tenere stretta la tua, ma sei un uomo ormai e la mano di tuo padre trema, ti ha fatto sempre impressione stringerla.
Il campionato più brutto del mondo è l’ultima storia della raccolta. Qui la serie A rischia la catastrofe a causa dell’ex moglie di un dirigente invischiato con il calcio minore, che pretende gli alimenti arretrati dal marito. Da qui, una catena corrotta di dirigenti che inizia a chiedere soldi a pesci sempre più grandi, fino al collasso totale.
Gelsomina Mariotti sbianca e sente su di sé il dolore dei tifosi e dei loro figli e nipoti. A occhio, perché quel dolore possa alleggerirsi, ci vorranno dieci generazioni di drogati, maniaci depressivi, di auto-stupratori e collezionisti di merda d’artista a ogni angolo di strada, di suicidi a iosa ed ebefrenici come se piovesse.
Gli effetti del game-over del campionato di calcio in questo racconto mi hanno ricordato le conseguenze della peste descritte da Boccaccio nel Decameron: i legami sociali si recidono, la violenza dilaga, i più ricchi cercano di fuggire in ville e tenute campestri:
In città hanno trovato un deserto. Le serrande sono abbassate. I bar sono chiusi. Non un’anima in giro. Non si è presentata nemmeno la polizia perché il campionato più bello del mondo è finito e questa è. Qualcuno ha deciso al posto loro e nessuno potrà farci più niente.
Ecco che si comprende bene, terminati i racconti, come il calcio per l’autore sia ora fonte di discriminazione sociale, ora rammarico di una vita, ora collante sociale, ora allegoria di una società bigotta e preconcetta, e quindi, vale la pena ribadirlo, il calcio permette un focus su questi concetti, avvicinandoli al lettore, mettendo alla berlina le bassezze di una società che ha pochi valori, e, purtroppo, spesso, nemmeno buoni. I racconti di Meloni sono agili e freschi, giocano con gli intrecci delle vicende, arditi e complessi, amano rappresentare e descrivere personaggi buffi e scapestrati, violenti e teneri e illustrare una galleria letteraria piena di colori vividi e originali; galleria nella quale c’è anche spazio per l’eco di riferimenti e intrecci fantascientifici, che colorano l’atmosfera della raccolta di una piacevolissima leggerezza. Mi viene da definire Meloni come uno scrittore appassionato, perché ama divertirsi con le storie e le parole, con le commistioni di generi, e, oltre che raccontare storie, trasmette messaggi, veicolati da una forma narrativa indiavolata. La stilizzazione originalissima dell’opera consente poi di instaurare una conversazione a tu per tu tra autore e lettore, conversazione divertentissima e anche impegnata, perché si sa che al momento non c’è niente che vada trattato seriamente come il calcio, nemmeno la letteratura.
“Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro” così scriveva Pier Paolo Pasolini, come sempre intercettando perfettamente una profonda verità all’interno della società in cui viveva. Non so se e in che maniera influenzato dalla riflessione di PPP, Angelo Orlando Meloni ha imbastito questa originale raccolta di racconti lunghi a tema calcistico. Ma qui non si parla solo di calcio. In questi racconti ci sono sogni, passioni, storie comuni e meno comuni, un bel po’ di Sicilia, e sono scritti con uno stile ironico e ricchi di personaggi memorabili. Il libro, pubblicato da Miraggi Edizioni, potrebbe riuscire a conquistare anche i non amanti del pallone. Sì, perché Meloni scrive bene, ha nelle sue corde diversi stili e registri, e riesce ad appassionare il lettore, in ognuno di questi sei racconti che compongono la raccolta.
Nel primo, lungo racconto che dà il titolo al volume, l’autore immagina una squadraccia di periferia che non vince una partita manco per sbaglio, ma che grazie all’intercessione della beata Serafina inizia a ingranare. Con i suggerimenti dati al parroco del paese la squadra riesce addirittura a vincere il campionato, sorprendentemente. È il calcio, con i suoi palloni di cuoio sgangherati e i campi di periferia polverosi, a farla da padrone. Il gioco del calcio è il sottile filo che unisce tutti questi ironici, scanzonati e divertenti racconti. Si passa dalla Serie A che rischia la catastrofe a causa dell’ex moglie di un dirigente invischiato con il calcio minore, al racconto di un centravanti alcolizzato che prova a trascinare la sua squadra nel calcio di un certo livello. Nel racconto “Il campionato più brutto del mondo” è appunto il capriccio di una donna a far tremare tutti, e solo una serie di incredibili eventi riuscirà a salvare la serie A. Il racconto “L’aeroplano” è rocambolesco e divertente, con Peppino Petrolito detto “Flashgordon” e Nino “Emozione”, la città di Siracusa e una partita di calcio, Inter Ternana, sullo sfondo. Mentre “Ode al perfetto imbecille” è probabilmente quello più realistico di tutti: la storia di un giovanissimo e bravissimo calciatore, che però non trova spazio in squadra perché non è “raccomandato”, quindi si vede passare davanti il figlio dell’avvocato di turno. Non si premia il talento ma la raccomandazione. Non è questa la fotografia perfetta della nostra società? La bravura di Meloni sta nel parlare di calcio per non parlare solo di calcio, ma dell’Italia tutta: delle sue storture, dei suoi mali, dei suoi personaggi miseri ma anche dei lati positivi che il nostro popolo, alle volte, riesce a tirare fuori. Il suo libro è ironico e scritto con grande capacità di coinvolgere e di tenere incollati alle sue pagine, grazie a storie e personaggi leggeri ma allo stesso tempo in grado di creare grande empatia nel lettore.Non ci sono note stonate e anzi tutti i sei racconti sono di pregevole fattura. Il tono tragicomico e scanzonato che pervade l’intera raccolta, è solo uno dei punti di forza di questo libro, che dopo averci fatto sorridere ci fa riflettere, magari con un sorriso a mezza bocca, gli occhi tristi e malinconici. Per chi come noi ha vissuto le curve, l’emozione di vedere 22 scalmanati in pantaloncini rincorrere un pallone, è chiaro che non si tratti affatto del nuovo oppio dei popoli. Ma è una questione molto importante, uno dei motivi per cui vale la pena vivere.
Quant’è difficile fuggire: qualche parola su La vita moltiplicata di Simone Ghelli
Tutti i pensieri rimasti, e i sentimenti, e le frasi ancora da dire; tutto questo e altro ancora si era riversato a terra: un minestrone in cui galleggiavano come zattere parole di tutte le dimensioni. Alcune erano in parte mangiate, e lasciavano scoperto il bianco delle ossa; altre erano molli e intrise di sangue come interiora.
Dal racconto “Vera”.
Un libro è un oggetto strano: esiste nel mondo materiale attraverso la soglia fisica della sua forma, ma al suo interno la realtà è diversa dalla nostra. Se decidiamo di entrare, il minimo che possiamo aspettarci è dunque il contatto con una narrazione che non ci appartiene. Ma se, come in questo caso, all’interno dell’oggetto fisico vi sono racconti, ciò che subiamo leggendo è una rifrazione totale, una scomposizione attraverso uno spettro che cambia a ogni titolo.
I racconti di La vita moltiplicata compiono proprio una rifrazione continua: si muovono, in modo più o meno dichiarato, sulla soglia che separa realtà e visione. Il problema critico di questa raccolta risiede però non su questo confine, ma su individui annebbiati che, all’improvviso lucidi, osservano la realtà andare in frantumi. Il punto di vista dei personaggi del libro di Simone Ghelli è spesso disilluso e freddo, emotivamente distante dagli eventi in cui sono coinvolti. Questo stesso punto di vista è adottato anche a livello narratologico: la narrazione infatti si compie a una distanza di controllo che non può ferire i lettori e, nei pochi casi in cui gli eventi vengono raccontati nel loro svolgersi, come in “Vera” o in “Compito di realtà”, l’impatto traumatico dei fatti viene subito ammorbidito da un uso inoppugnabile della lingua. La cornetta del telefono in “Vera”, ad esempio, diventa lo sfrigolio degli ultimi resti carbonizzati di un pezzo di carne.
La prospettiva tematica adottata dall’autore si concentra sulle realtà abbandonate, a volte ricordate, che hanno bisogno dello sforzo del soggetto per esistere. I suoi personaggi sono macchine narrative ben costruite il cui scopo è di rielaborare costantemente quello che gli è successo o quello che gli sta succedendo; sono, nella loro laconicità, osservatori attenti che non danno nulla per scontato in ciò che vedono. Ghelli, gli sforzi che i suoi personaggi fanno per mantenersi attaccati alla realtà sensibile, li descrive con maestria proprio dimostrandone la futilità. Comprendiamo, leggendo le pagine di questa raccolta, che l’unica realtà davvero esistente è quella raccontata; fuori, il nulla.
I personaggi di Ghelli godono, inoltre, di una forte dimensione purgatoriale. Si muovono, ma soltanto nelle loro teste, avanti e indietro nel tempo e nello spazio: hanno qualcosa in comune con i personaggi di Silenzio in Emilia di Daniele Benati.
“Immobile dinanzi alla distruzione, come l’osservatore esterno nel Naufragio della speranza dipinto da Caspar David Friedrich, Iuri ebbe una visione nitida del quadro che aveva davanti: la realtà era lì a due passi, tumultuosa incandescente, fatta di banchi che si scontravano – proprio come le lastre di ghiaccio nell’opera del pittore tedesco – e che promettevano l’avvento di un mondo nuovo, finalmente libero (forse) dal dominio delle apparenze.”
Abbiamo letto di recente, e con vero piacere, il nuovo libro di Simone Ghelli La vita moltiplicata, una raccolta di racconti edita da Miraggi Edizioni che ci ha colpito per la potenza data dall’autore all’onirico, allo psichico, alla vita interiore dei personaggi, che in questo moltiplicare la vita cercano una via di fuga dalla vita stessa, da una realtà che spesso li sconfessa, li disattende.
Abbiamo approfittato della sua disponibilità per porgli qualche domanda.
Innanzitutto, come è nata l’idea di questo libro, di questa raccolta?
Le mie raccolte sono nate sempre a posteriori, nel senso che dopo un po’ mi sono reso conto di aver scritto dei racconti che avevano per così dire un’aria comune, un’atmosfera che li teneva insieme. Non sono mai partito dall’idea di una raccolta, da un filo conduttore da seguire. È qualcosa che realizzo soltanto dopo. Ovviamente, una volta deciso di metterli insieme, ci torno sopra. Èsuccesso così anche con questa.
Hai affermato in più occasioni che le tue due ultime raccolte di racconti (Non risponde mai nessuno e La vita moltiplicata) andrebbero lette insieme, che ci sono dei fili sottili che le uniscono. Puoi chiarirci meglio questo aspetto?
Le considero un po’ come i due lati di un disco. La raccolta Non risponde mai nessuno è arrivata dopo un lungo periodo di crisi in cui niente di quello che scrivevo mi piaceva. Quando ho realizzato che ero finito in un vicolo cieco, in cui la spasmodica ricerca di una lingua mi aveva fatto perdere del tutto il gusto per la storia, ho sentito il bisogno di rimettere per così dire i piedi per terra. E così sono venuti fuori dei racconti che qualcuno ha definito realisti, degli spaccati di vita in cui emergono delle figure che potremmo definire, con tutto il rispetto per Verga, dei vinti. Dopo quel libro sono riuscito a ripartire da dove ero arrivato; non a caso il primo racconto de La vita moltiplicata, cioè Oboe d’amore, era già uscito in una raccolta di autori vari (Toscani maledetti, a cura di Raoul Bruni) nel 2013. Quello era stato il punto in cui mi ero arenato e dal quale ho ripreso, ovvero l’esplorazione, per mezzo della lingua e dello stile, della dimensione più onirica e inconscia della vita.
Si tratta perciò di due raccolte a specchio, dove il riflesso del realismo è il fantastico. A unirle c’è proprio questa polarità.
Quasi tutti i personaggi de La vita moltiplicata mettono in mostra un tentativo di fuga o di ribellione che prende forma attraverso l’onirico o lo psichico. Questo succede in Oboe d’amore, ne La somma dei secondi e dei sogni, in L’ultima vetrina… Ma la realtà è davvero cosi terribile come sembra?
La realtà sta diventando sempre più complessa, evolve a una velocità che supera le umane possibilità. Questo si traduce, dal mio punto di vista, in una sorta di vita fuori sincrono (a meno che non ci si accontenti di sopravvivere senza provare a capire), in cui gli strumenti a nostra disposizione sembrano sempre insufficienti a comprendere fino in fondo le cose, le connessioni tra i fatti e le persone. Inoltre questa velocità mi pare che tenda ad assottigliarci come esseri, costringendoci a vivere sempre più in superficie, senza avere il tempo di sentirci in profondità. La televisione e internet sembrano dirci che la nostra immaginazione sta già tutta là fuori e così il nostro inconscio (non è un’idea mia, lo diceva già Serge Daney a proposito della televisione), tutto a portata di clic o di telecomando, tracciabile e remunerabile. Messa così direi di sì, che la realtà un po’ terribile lo è.
Si potrebbe parlare, nel caso de La vita moltiplicata, di letteratura o di scrittura onirica? Saresti d’accordo con questa definizione?
In alcune parti direi di sì. Ci sono pagine in cui si potrebbe parlare addirittura di scrittura automatica, o qualcosa del genere. In altre è come se mi fossi messo davanti ai miei personaggi e li avessi psicanalizzati, in certi casi addirittura ipnotizzati.
Fa eccezione, mi è sembrato, il Giovanni de La scatola nera che, di fronte al futuro funesto che sembra attendere la nostra specie, va in giro a far campionamenti, registrando suoni e rumori per poi rimodularli a piacimento, con vero estro artistico. Si potrebbe leggere in questo suo modus vivendi la volontà di riscattare la realtà stessa? E potrebbe essere letta, questa sua predisposizione nei confronti della realtà, anche come una metafora dell’attività dello scrittore?
La figura di Giovanni è un po’ ambigua e in un certo senso leggendaria, perché nel racconto sono gli altri a parlare di lui. Esiste davvero? Chi può testimoniare della sua attività? Si potrebbe dire che Giovanni voglia salvare la realtà, che voglia risarcirla di una dimensione estetica. In questo senso sì, potrebbe essere letta come una metafora dello scrittore, o almeno di un certo tipo di scrittore. Credo che in effetti sia quello che cerco di fare io, anche se i tempi in cui viviamo sembrerebbero dirci che uno scrittore del genere, che creda nel compito di riscattare la realtà, sia destinato al fallimento. Eppure è proprio questo che mi spinge a insistere.
C’è un racconto di questa raccolta al quale sei particolarmente legato per motivi o vicende personali o perché ti ha dato particolari soddisfazioni?
Direi Vera, perché è quello in cui ho sperimentato di più, in cui mi sono veramente lasciato andare, in cui ho abbandonato il controllo per seguire il flusso, superando così il mio limite più grande come scrittore.
Se posso permettermi una domanda più personale, cosa c’è di Simone Ghelli nei personaggi del tuo libro, nelle vicende da loro vissute?
Come sempre c’è molto: ci sono ad esempio le esperienze lavorative (il postino, la fabbrica, la scuola, il call center). Io parto sempre dall’esperienza, anche quando si tratta di trasfigurarla. Credo che in fondo sia così un po’ per tutti, non s’inventa certo dal niente. Io sono la somma di quello che sento, di ciò che ho sperimentato con tutti i sensi, compreso tutto quello che non registro consapevolmente. Vedo ognuno di noi come un cinema ambulante: siamo pieni di immagini, di suoni e parole che dobbiamo soltanto trovare il modo di tirare fuori componendole in nuove forme.
Un aspetto che non è stato ancora messo in luce dei tuoi racconti è, a mio avviso, il legame che essi hanno con il cinema. In una mia lettura de La vita moltiplicata, già apparsa su Lankenauta, ho avanzato l’idea che si possa in fondo leggere la tua raccolta come una sorta di cronofotografia alla Muybridge, come quella evocata nel tuo L’ineluttabile, attraverso la quale, con l’ampio spazio che dai alla vita interiore dei personaggi, metti assieme più momenti, più immagini delle storie di ognuno di noi per cogliere la vita umana nel suo movimento, nel suo farsi. Cosa puoi dirci del legame tra la tua scrittura e il cinema?
Si tratta di un legame fortissimo e la lettura che tu dai della raccolta è assolutamente pertinente. D’altronde il cinema è l’arte su cui mi sono formato, almeno teoricamente. Quella dello scrittore la definisco la mia terza vita, ed arriva dopo quella di musicista prima e di critico cinematografico poi. Le due persone a cui è dedicato il racconto L’ineluttabile fanno infatti parte della mia vita universitaria, quando studiavo il cinema sui libri di Deleuze (e non solo, ma a Siena, alla fine degli anni Novanta, quella corrente di pensiero rappresentava un po’ lo spirito del tempo).
Nel mio caso l’influenza del cinema riguarda sia l’immaginario che un certo modo di vedere – l’importanza dunque del punto di vista, ma anche del montaggio. Quasi sempre inizio a scrivere partendo da un’immagine e procedendo per immagini. Per me è molto importante che il lettore riesca a vedere attraverso le mie parole.
A cosa è dovuta la tua predilezione per il racconto? Qual è la tua idea su questa forma letteraria?
Il racconto è stato definito in tanti modi. Non saprei dire in che cosa consista veramente, se non che necessita di una scrittura in cui ogni riga deve sembrare necessaria. La differenza dal romanzo è essenzialmente questa. In un racconto non ci dovrebbe essere una singola parola superflua, nemmeno una virgola. È esattamente questo il motivo per cui trovo estremamente faticoso lavorare a un romanzo. Per quanto io continui a provarci, ormai da tempo, c’è sempre un momento in cui mi viene naturale isolare l’idea da cui sono partito e trasformarla in un racconto. E poi non riesco ad andare avanti se non sono convinto fino in fondo di quello che ho scritto prima. Non credo che sia possibile scrivere un romanzo a queste condizioni, senza concedersi la libertà di qualche sbavatura.
È opinione diffusa che il racconto sia un qualcosa di semplice, addirittura di occasionale, o peggio ancora il fratello minore del romanzo. Qual è la tua opinione in merito?
Che il racconto sia più semplice del romanzo è una sciocchezza, così come l’idea che possa essere un esercizio per avvicinarsi a quest’ultimo. Per molti scrittori e addetti ai lavori il racconto è anche un modo per farsi conoscere e arrivare alla pubblicazione con un editore; alcuni arrivano addirittura a paragonarlo alla palestra (e con esso le riviste e i siti letterari dove i racconti si pubblicano), dunque a un mezzo per allenarsi e farsi i muscoli. Questa è esattamente la visione che porta poi a considerare il racconto come il fratello minore del romanzo. L’ho già detto che è una stupidaggine? Ecco, lo ripeto, perché il racconto, così come qualsiasi altra forma letteraria, presenta delle difficoltà proprie. Anzi, a dirla tutta penso che sia più difficile scrivere un buon racconto che un buon romanzo, perché nel racconto i trucchi si svelano più facilmente (ok, questa l’ho presa da Carver). E questo è il motivo che mi fa un po’ imbestialire quando vedo che certe riviste di racconti chiedono di scriverne ai romanzieri solo per avere il nome di richiamo in copertina, come se fosse automatico che un romanziere sappia scrivere un buon racconto. Che stupidaggine!
Tu che hai praticato entrambe le forme: il racconto e il romanzo, in base a cosa decidi se usare l’una o l’altra quando hai un tema da proporre? Come cambia l’atteggiamento dell’autore quando si accinge a scrivere l’una o l’altra? E come lavora?
Ho scritto due romanzi, anche se in parte non li considero tali. Il primo (L’albero in catene, pubblicato da NonSoloParole nel 2003) è una specie di viaggio che ho intrapreso senza avere la minima idea di dove stessi andando a parare e, complice anche il fatto che ogni capitolo abbia un titolo, non sono pochi quelli che lo hanno letto come se fosse una raccolta di racconti. Il secondo (Voi, onesti farabutti, pubblicato da CaratteriMobili nel 2012) è stato definito romanzo, ma io lo considero piuttosto un’invettiva, un pamphlet in forma romanzata. Non credo insomma di aver mai scritto un vero e proprio romanzo e questo mi rende difficile rispondere alle domande successive. Immagino che scrivere un romanzo significhi avere ad esempio a che fare con degli schemi, delle schede coi personaggi, tutto un lavoro sulla struttura che mi fa annoiare al solo pensiero. Come ho già detto, per me il racconto parte da un’immagine, dal tentativo di mettere in risalto ogni dettaglio di quell’immagine e trovare il punto (quello che Roland Barthes definisce il punctum) verso cui la storia inizia a precipitare.
Dopo La vita moltiplicata cosa devono aspettarsi i lettori che amano Simone Ghelli? Quali sono i tuoi progetti futuri? A cosa stai lavorando?
In questo momento non sto lavorando a niente di preciso. Leggo, studio e metto da parte le idee. Il lavoro di insegnante, che amo, mi porta via la maggior parte del tempo. Sono fortunato perché è la parte più bella della scrittura: quella in cui s’immagina.
Se davvero volessimo provare a guardare il calcio con occhi diversi, imparare a sorriderne e a non prendere troppo sul serio questo sport che assurge molto spesso, nel nostro Paese, a condizione di credo religioso o ad unica ragion di vita, probabilmente a causa di un’allucinazione collettiva, allora i racconti di Angelo Orlando Meloni potrebbero fare al caso nostro.
Santi, poeti e commissari tecnici (Angelo Orlando Meloni, Santi, poeti e commissari tecnici,Miraggi Editore, 2019, pp. 192), infatti, è un’agile, allegra raccolta che con uno sguardo ironico, leggero, ci parla di questo mondo variegato e di tutto l’universo che vi ruota attorno: dall’accesa rivalità tra tifosi che odiano per partito preso a chi vive solo di derby e di calciomercato, ai campioni veri o presunti, alle attese spasmodiche e alle notti insonni di coloro che ogni estate sognano la vittoria del campionato e s’illudono puntualmente di ottenerla, alla commistione di sacro e profano in cui il sacro è sempre a disposizione per proprio uso e consumo, fino ai tristi episodi in cui a far notizia e a finire sulle pagine dei giornali sono i genitori dei piccoli calciatori che si distinguono in “imprese” tutt’altro che esemplari e che, a quanto pare, poco o nulla hanno da insegnare ai propri figli circa i principi dello sport o il rispetto dell’avversario. Ne esce fuori un disegno perfetto, un affresco multiforme e vivo, in cui sono tante le pagine divertenti ma anche quelle che inducono ad una riflessione amara.
A volte Meloni ricorre a un tono parossistico, quasi iperbolico. Può succedere infatti che sia una santa a dispensare i dettagli tattici per vincere il campionato, tra commissari tecnici che non credono ai propri occhi e un prete disposto a tutto pur di fare proseliti (si scomoda addirittura anche il motto in hoc signo vinces per un titolo di giornale), e questo in un paese in cui solo un miracolo potrebbe disperdere i veleni del petrolchimico o spegnere le ciminiere, purificare le falde (Santi, poeti e commissari tecnici). Può accadere anche che sia il capriccio dell’ex moglie di un dirigente a mettere in pericolo il campionato più bello del mondo, dando vita a un esilarante effetto domino in cui presidenti e direttori sportivi si adoperano alacremente, con ricatti, combine e scambi di favore, pur di salvare capre e cavoli, salvo poi decidere di vendere tutto ai cinesi, gli unici che possono rimpinguare un’economia drogata (Il campionato più brutto del mondo). Riusciamo a sorridere persino delle rocambolesche vicissitudini di chi vive solo di espedienti, e che tra furti, calcio scommesse e situazioni fortunate, riesce a fare finalmente la vincita della svolta, quella che permette di volare via per sempre (L’aeroplano).
Meloni non esita a ironizzare anche sulle vicende di “el ratòn“, un non più giovane centravanti, eterna promessa pronta ad esplodere, sulla cui bravura e professionalità ci sarebbe tanto da discutere, ritrovatosi ad essere il nuovo colpo di mercato di una neopromossa in serie B alle prese con un campionato dai risultati altalenanti, un allenatore sempre in bilico e una tifoseria che non perdona (Precisi siamo). Un altro bel racconto (Perché no) è dedicato alla resa dei conti tra una vecchia stella del calcio e un suo marcatore, a cui il primo imputa la fine prematura della propria carriera, ad indicare come certi scontri sul campo non si dimenticano.
È comunque Ode al perfetto imbecille il racconto che ci lascia senza fiato perché combina in modo magistrale un tono intimo, quasi lirico, dedicato al ritratto di una vicenda personale e familiare, quella di un giovane calciatore troppe volte escluso dal campo perché non ha i genitori che contano, con il resoconto umoristico delle grandi e piccole meschinità di una umanità quasi sempre priva di coraggio, di decoro, che preferisce piegarsi ai favori, alle pressioni di un modesto mondo di provincia piuttosto che premiare e favorire i talenti. È, insomma, un racconto emblematico della società servile e ignobile in cui viviamo, che prospera troppe volte sull’ingiustizia e sul nepotismo.
Non si sbaglierebbe allora a voler scorgere nelle pagine di questo libro una grande metafora, forse la più adatta per descrivere un Paese sempre pronto ad accendersi per una partita o una coppa o per l’arrivo di un campione ma che riesce, incredibilmente, anche a fare un vanto della propria disaffezione alle regole comuni e a ritenere un qualcosa di “normale” l’assuefazione agli scandali e al malaffare. Santi, poeti e commissari tecnici, col suo umorismo vivo e pungente, può aiutarci sicuramente a tenere gli occhi aperti e a non prendere mai per vero ciò che spesso è solo fumo negli occhi.
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