A meno di un mese dalle elezioni che avevano assegnato la guida del paese a un nuovo esecutivo presieduto da Giulio Andreotti e a due settimane dall’omicidio Calabresi, il 31 maggio 1972, a Peteano vicino a Gorizia, una bomba esplode in una Fiat500 sulle rive dell’Isonzo uccidendo tre dei cinque carabinieri intervenuti in seguito a una telefonata anonima. Si brancola nel buio: da principio si sospetta una coppia militante di Lotta Continua che muore in un incidente automobilistico lasciando un figlio di tre anni. Segue un decennio di indagini fumose depistate dagli stessi inquirenti, ed è solo nel 1986 che si fa luce quando il reo confesso Vincenzo Vinciguerra svela i retroscena della strage e rivela le trame oscure della destra eversiva degli anni Settanta. Ripercorre le tappe di questa triste pagina di cronaca italiana, il romanzo “Di sangue e di ferro” che Luca Quarin ha appena pubblicato nella collana Scafiblù per la casa editrice Miraggi, ma racconta anche di Ferro, vittima di un intrigo politico di cui non conosce gli ingranaggi, protagonista di una storia nella Storia che racconta al lettore la genesi stessa del romanzo, facendo luce sulle mille menzogne che raccontiamo a noi stessi per costruire la nostra identità, e quelle che ci raccontano cui vogliamo credere per proteggerci dalla forza travolgente della realtà.
“Di sangue e di ferro” di Luca Quarin affronta le vicende della destra eversiva degli anni Settanta. «Andrea è costretto a misurarsi con le proprie origini».
Dieci anni per Miraggi edizioni. La casa editrice torinese che ha curato nel dettaglio diverse collane e si è imposta all’attenzione mondiale per aver tradotto per la prima volta in Italia personaggi del calibro di Habral, vanta nella sua squadra diversi siciliani, non ultimi, Daniele Zito o Angelo Orlando Meloni. Il genetliaco cade il 15 maggio e i tre fondatori, Fabio Mendolicchio, Alessandro De Vito e Davide Reina, hanno puntato su un countdown per giungere il 15 nel gruppo facebook del del blog siculo “Letto, riletto, recensito”, proponendo una diretta alle h. 18:00. In uscita il 30 marzo era “Di sangue e di ferro”, romanzo che narra di Andrea che un amico editore gli sottopone uno “strano romanzo”, che con il passare dei giorni si intrufola sempre di più nella sua vita. Da lì la discesa di Andrea in un tempo che si è sempre sforzato di dimenticare attraverso alcune vicende essenziali, dove lo stesso autore diventa personaggio.
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Quali sono le vicende?
«Andrea è costretto a misurarsi con le sue origini, prima che queste scompaiano definitivamente. Le vicende sono quelle della destra eversiva degli anni settanta».
E lo strano romanzo?
«Lo “strano romanzo” e la conversazione con il suo autore lo incalzano sempre di più: tenta ad esempio di fare luce sulla morte dei propri genitori e sulle responsabilità storiche dei suoi nonni».
Da cosa nasce l’idea e perché questo intreccio di temi che convergono all’identità?
«L’idea nasce a Treviso, a un corso di scrittura tenuto dall’amica, Bruna Graziani, che ha sollecitato i partecipanti a scrivere un testo su una loro esperienza. Una ragazza ha raccontato un momento davvero doloroso della sua vita, è stato lì che ho cominciato a riflettere sul rapporto che esiste tra gli eventi della nostra vita e il modo con cui li raccontiamo agli altri. Sull’identità, può capitare che il desiderio di “raccontare una buona storia”, che ciascuno di noi ha provato di fronte alla domanda di qualcun altro, prevalga su una “verità” di cui ci sfuggono i contorni oppure che vogliamo nascondere al nostro interlocutore, per debolezza, per colpa, per il dolore che porta dentro di sé, modificando addirittura i nostri ricordi, visto che, come diceva Freud, rimaniamo estranei anche a noi stessi».
Quali sono in genere i temi da cui attingi per scrivere?
Luca Quarin
«Mi interessa soprattutto quello che accade attorno a me. La politica, l’economia, la scienza, la filosofia. Ovviamente moltissimo la letteratura. Mi interessa pochissimo, invece, quello che accade a me stesso e quello che ha a che fare con la mia esperienza personale. Anzi, di solito cerco di evitarlo come la peste. Se mi viene in mente qualcosa che ho vissuto o qualche persona che ho conosciuto, scarto l’idea senza indugiare un attimo. Credo molto nell’invenzione, piuttosto, o se preferisci nella reinvenzione, anche se la polemica mi sembra assolutamente inutile. Inventare tutto o non inventare niente mi pare che non renda giustizia ai meccanismi con cui il linguaggio rigenera tutto quello che ingoia».
E il tema di “Di sangue e di ferro”?
«Da un po’ di tempo ho l’impressione che nel nostro paese stia riemergendo un’idea di destra irrazionale, mistica, metafisica, che ha trovato terreno fertile nell’azione disgregatrice che tecnologie e globalizzazione hanno compiuto sui soggetti e sulle strutture della società e che ricorda molto il fascismo di Gentile e di Croce. La progressiva messa in ombra delle corporazioni (i partiti, i sindacati, et alii), tanto per fare un esempio, ha lasciato spazio a un bisogno indefinito di comunità che adesso, si soddisfa in un pensiero nazionalista e sovranista che travalica i limiti dell’individuo e lo protegge dagli assalti della modernità. Qualcosa di simile alla promessa fatta dallo stato islamico, per intenderci.
Nel suo complesso, però, mi sembra un’operazione abbastanza disperata che cerca di aggrapparsi ad alcuni valori che sono già stati asfaltati dalla storia».
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Dunque qual è la differenza tra realtà e finzione letteraria?
«Dai tempi di Plutarco è noto che “chi inganna è più onesto di chi non inganna e chi si lascia ingannare è più saggio di chi non si lascia ingannare”. Questo discorso, se da un lato riporta al patto tra scrittore e lettore, e quindi a quella “sospensione volontaria dell’incredulità” di cui parlava Coleridge, dall’altro lato rinvia alla consapevolezza del proprio ruolo, che ci sia o meno».
Miraggi, covid e i 10 anni di storia…
«… più l’intervista per il più noto quotidiano delle tue parti: felicissimo!».
La strage di Peteano e le nebbie della storia. Quando la letteratura fa luce sulle bugie
Ha il sapore della ghost story questo nuovo romanzo dell’udinese Luca Quarin, giunto alla seconda prova narrativa con Di sangue e di ferro(Miraggi edizioni) dopo l’ottimo esordio con “Il battito oscuro del mondo”. Gli ingredienti ci sono tutti, i ricordi sepolti tra le pieghe della storia, una casa antica nel centro di Udine, una vecchia signora in punto di morte, i segreti di una famiglia ben nascosti nei vicoli scuri delle trame giudiziarie, tra i misteri delle pagine più nebulose della cronaca italiana del secolo scorso.
Andrea Ferro, il protagonista, si trova costretto a violare la banalità di un’esistenza piuttosto insignificante, per raggiungere la nonna morente nella città che un tempo era sua, con tutto il pesante bagaglio di ricordi generati dall’enigmatica scomparsa dei genitori quando era ancora un bambino.Chi era sua nonna, ma, soprattutto, chi era suo nonno? Fu davvero un incidente stradale a causare la morte di suo padre e sua madre? Che ruolo ha avuto la sua famiglia nella strage di Peteano, l’attentato dalla dirompente forza simbolica, divenuto, per causa dei numerosi depistaggi a sfondo eversivo, la raffigurazione più dolorosa delle inestricabili ombre politiche del dopoguerra?
Tra richiami del passato, spunti di cronaca giudiziaria e approfondimenti giornalistici, Ferro si trova a fare i conti con l’immagine sbiadita del tempo e persino con lo stesso autore, Luca Quarin, che attraverso un brillante espediente narrativo riesce ad entrare nella storia, confrontandosi con il protagonista sul significato più profondo della creazione letteraria e sulla forza distruttiva della realtà, che nessun romanzo riuscirà mai ad eguagliare. Anche se alla fine sarà lo stesso Quarin a scrivere ad Andrea Ferro che “le storie sono l’unico luogo dove ci è permesso vivere, l’unica esperienza che riesce ad interrompere il sonno da cui cerchiamo continuamente di svegliarci”.
Il romanzo si allontana dalle suggestioni che avevano ispirato il suo primo romanzo: si percepisce la tensione della ricerca e il desiderio di affrontare l’evento storico .
«Ho sentito il bisogno di sfidarmi su alcuni temi che non avevo avuto la forza di affrontare in precedenza, e cioè i luoghi in cui sono vissuto, la Storia che ho attraversato e le mie esperienze personali. L’ho fatto portando avanti due discorsi, un ragionamento sull’identità e un ragionamento sulla Storia, con un protagonista alter ego che mi ha permesso di collegare questi temi».
Quando è nata l’urgenza di immergersi in quegli anni?
«Faccio parte di una generazione che è nata con la politica nel sangue, con una grande sensibilità per le vicende collettive e grande interesse per tutto quello che accadeva nel nostro paese in quegli anni. Una generazione che è vissuta all’interno delle grandi narrazioni del Novecento, aderendo a una o all’altra, e che a un certo punto ha sentito il bisogno di capire che cosa era successo in quel periodo, rendendosi conto dell’inadeguatezza del racconto storico e dell’impossibilità di ricostruire i fatti».
Nel romanzo compare anche il suo autore, che si confronta con il protagonista su argomenti che accarezzano il fine ultimo della letteratura: come è nata l’idea di questo originale espediente narrativo?
«Un’idea nata qualche anno fa parlando di scrittura autobiografica al Festival Cartacarbone, dedicato all’autobiografia, manifestando le mie perplessità riguardo la “rigidità” dello scrivere di sé e il pericolo che questa rappresentazione possa diventare una gabbia della personalità. Mi è parso naturale affrontare il tema dell’identità narrativa, che è il tema centrale del romanzo, mettendomi in gioco come personaggio e come autore, per provare a smascherare le ambiguità che tutti vivono, io per primo, riguardo l’idea di sé stessi».
Ha incontrato da qualche parte il suo Andrea Ferro?
«Diciamo che è un incontro che temo di fare e che per questo l’ho simulato nelle pagine del romanzo, facendolo incontrare con un Luca Quarin che mi sono divertito a maltrattare e che mi somiglia in parte».
La narrativa è in grado di dipanare la nebbia della storia?
«Ho l’impressione che la nebbia della Storia sia proprio legata alla dimensione narrativa con cui si interpretano i fatti che la determinano, l’unico modo che abbiamo per sottrarre gli eventi della vita umana alla mancanza di senso in cui si svolgono. La Storia mi sembra un palcoscenico buio, dove gli attori commentano lo spettacolo appena concluso, che nessuno di noi è riuscito a vedere e che anche loro hanno visto solo per la propria parte, chiedendosi che cosa ne avrà pensato il pubblico».
Una tragica pagina di storia italiana che parte dalla provincia friulana. Il 31 maggio 1972 a Peteano, un tranquillo paesino in provincia di Gorizia, esplode una bomba che ucciderà tre carabinieri. La «Storia» di quel periodo buio – il periodo del terrorismo e il conseguente stragismo – fa da cornice al nuovo romanzo di Luca Quarin, Di sangue e di ferro recentemente uscito per la casa editrice torinese Miraggi, collana Scafiblù. Quarin fa partire la sua indagine dalla bomba collocata nella Fiat 500 lungo le rive dell’Isonzo. Gli inquirenti all’inizio sospettano alcuni militanti di Lotta Continua. Due di loro, un ragazzo e una ragazza, che frequentano la facoltà di sociologia a Trento, finiscono con l’automobile nel lago di Levico, cercando di sfuggire all’arresto. Il loro figlio, di appena tre anni, rimane orfano. Alcuni mesi dopo vengono arrestati sei balordi goriziani che non c’entrano nulla con l’attentato. Poi vengono scarcerati. Per dieci anni le indagini brancolano nel buio, depistate dagli inquirenti che le conducono. Che ruolo hanno avuto i genitori del piccolo? E i nonni che si sono presi cura di lui? Sono stati vittime o sono i colpevoli? Il libro poggia sulle vicende storiche, sui retroscena dell’attentato e sulle trame della destra eversiva degli anni Settanta, raccontando la storia di Ferro, vittima di un ingranaggio politico che faticherà a conoscere e a capire.
«Peteano è un momento molto particolare del processo storico – spiega lo scrittore – è il momento in cui i membri più radicali della destra eversiva si rendono conto di essere manovrati dallo Stato e si ribellano contro di esso. Lo racconta in modo molto lucido Vincenzo Vinciguerra, uno degli esecutori della strage, nell’intervista che ho riportato integralmente nel romanzo. Peteano è la fine del sogno dice Vinciguerra, è la presa di coscienza che il fascismo e poi la Repubblica sociale sono finiti per sempre e che anche i valori che li hanno alimentati non trovano più spazio nella società industriale italiana». Ma questo di Quarin è soprattutto un romanzo e Ferro diventa espediente letterario, protagonista anche in questo caso – e sempre suo malgrado – di una seconda storia che al lettore racconta invece la genesi stessa del romanzo. Quarin lo scrittore entra nel romanzo, apparentemente come comprimario, e comincia a tessere una relazione, un dialogo sempre più fitto col protagonista del romanzo. Realtà, finzione, Storia si mescolano, portando il lettore a riflettere anche su altri temi: «Mi interessava capire – racconta l’autore – se c’è un modo per sapere davvero che cosa è successo nel passato o se la verità ci è preclusa per sempre». Ma seguendo unicamente questo fil rouge potremo mancare il nodo centrale della seconda grande prova letteraria dello scrittore udinese, collaboratore del Festival Letterario trevigiano «Carta Carbone» e che, col suo primo romanzo, Il battito oscuro del mondo edito da Autori Riuniti, ha vinto il Premio Letteratura dell’Istituto Italiano di Cultura e il Golden Book Awards 2018, come migliore romanzo del 2018. Lo scrittore crea i personaggi e li colloca nel romanzo, li mette al mondo, dà loro la vita in una determinata storia. Ma i personaggi vivranno o resteranno confinati in quella storia romanzesca? Questa domanda letteraria è per Quarin il detonatore che consente di rileggere la Storia. E forse di interrogarsi in profondità sull’incerto, talvolta ipocrita, procedere umano, che costruisce verità comode, utili, pronte all’uso. Quarin però si schiera senza incertezza e infatti Ferro non solo vive ma, vivendo, testimonia il trionfo della verità. O forse siamo ancora dentro a… una storia?
Quante volte abbiamo cercato di fuggire, scivolando tra le pagine per giungere laddove non saremmo mai riusciti ad arrivare da soli? E quante altre abbiamo invece mendicato conforto, provando a cogliere gli scorci di una quotidianità troppo spesso data per scontato?
Il titolo di questa raccolta di racconti, pubblicata da Miraggi Edizioni a ottobre 2019, potrebbe apparire emblematico, ma smetterà di esserlo dopo poche pagine. La vita moltiplicata è la storia di Livio, di Ascanio, di Marcello, e di tutti quelli che davanti a una vetrina hanno smesso di guardare solo il proprio riflesso. Molteplici i protagonisti, molteplici le vicende, in equilibrio tra realtà e mondo onirico.
L’autore, Simone Ghelli, non è uno scrittore al suo esordio ma già autore di altre opere, come Non risponde mai nessuno, e racconti pubblicati su varie riviste letterarie, tra le quali Cadillac Magazine. Se siete curiosi di saperne di più, troverete recensioni e altro alla pagina: https://genomis.wordpress.com/.
Con la sua scrittura, Simone Ghelli avvicina il lettore a piccoli passi per poi catturarlo completamente, attraverso un lessico fluido ed essenziale.
Nel suo racconto, chiaramente autobiografico, Grossi si dipinge come un grumo di rabbia e disperazione conficcato nella carne di una città ormai marcia. Non è l’unico, ne vede tanti intorno a sé, pronti a rivalersi sui vecchi, sui bambini, sui brutti, sui grassi, sui poveri di tasca e di spirito. Grossi si vede così perché sta diventando così; anzi, è già così. È il prodotto precotto di una società che li ha ingozzati di sogni, che li ha tirati su come polli da batteria per poi farli sedere a una tavola apparecchiata con gli avanzi. Grossi vede la sua vita come il resto di qualcos’altro e ogni giorno si sente come se avesse i postumi senza essersi preso una sbronza”.
Per la playlist ringraziamo l’autore, che ha accettato con grande disponibilità di crearla e condividerla con Read and play. I brani sono quasi tutti strumentali: “Anche se non corrispondono esattamente ai racconti rispecchiano le atmosfere dilatate e oniriche”.
Roberto Saporito è un vero scrittore, di quelli che conoscono a tal punto la letteratura da costruire congegni perfetti e piacevoli. Il suo nuovo lavoro s’intitola Respira, ed è uscito per Miraggi di Torino, Casa giovane e attenta alle novità, anche stridenti. La trama, dunque. 11 Settembre 2001. Crolla la torre sud delle Twin Towers, e il protagonista, che sarebbe dovuto essere già lì al lavoro, come ogni giorno, e invece è ancora a letto reduce da una sbronza, decide di sparire. Mercante d’arte stronzo e spietato. Meglio sparire, tagliarsi barba e lunghi capelli, salvare la vita a un energumeno e riordinarsi le idee: un nuovo passaporto falso fornito dal nuovo amico e intanto già compare nell’elenco ufficiale degli scomparsi. Tre anni dopo lo ritroviamo in un bistrot di Saint-Rémy-de-Provence dove si gode finalmente la vita, grazie anche ai soldi fatti quando era uno stronzo manager della Grande Mela, finché… finché la vita chiede il conto, anche se la vita, quella vita, non è più la sua. Rocco Balestrini, ex socio del capitale sottratto dal protagonista in quella mattina maledetta, ma per molti altri versi benedetta, l’osserva a due passi dal tavolino del suo rassicurante bistrot. E l’intreccio s’accende, d’improvviso, come nel miglior Saporito, lungo il solco leggero e raffinato della letteratura d’autore. La fuga, stavolta obbligata, porta l’autore a nascondersi prima in una casa nelle Langhe, quindi in un altrettanto suggestivo rifugio nel Chianti assieme a un’affascinante puttana che tutto sembra fuorché una puttana, e poi ancora a Roma e poi a Venezia. Mentre l’ex mercante d’arte scappa da un luogo all’altro viene spontaneo chiedersi se sia possibile sfuggire improvvisamente a un’esistenza prestigiosa ma frenetica che ti ha tolto quasi il gusto di vivere. La risposta va cercata nelle pieghe di questo libro esile ma ricco di profonde suggestioni, e così la stessa chiave del libro, sempre vivo e piacevole, sta proprio nel titolo, nel tentativo continuo del protagonista di imparare a respirare davvero, nel tentativo di sottrarsi a uno stanco riflesso di sopravvivenza che è oggi comune un po’ a tutti noi. Ci riuscirà? Questo, forse, non è giusto svelarlo, ma, forse l’autore ce ne dà una parziale idea in questa folgorante citazione: “Quando incontri solo persone nuove e mai persone che hanno fatto parte della tua vita mentre questa cresceva di giorno in giorno e di anno in anno, lo scorrere del tempo diventa un bugiardo difficile da sbugiardare, o più semplicemente un bugiardo che vuoi sbugiardare. Quando muori e rinasci lo scorrere del tempo acquista un altro significato o forse perde del tutto il suo vero significato, qualunque esso sia. Quando muori e rinasci sei già più fortunato degli altri, che quando muoiono, di solito, non rinascono…” Un libro da leggere e meditare, di un autore in costante crescita. Di una splendida Casa editrice che ha appena compiuto dieci anni di vita.
Google ci ha reso un popolo di tuttologi. Siamo esperti di qualunque cosa e in questi anni, a seconda degli eventi e delle emergenze, abbiamo dato sfoggio delle nostre conoscenze nel campo dell’ingegneria civile, delle manutenzioni di ponti, della sismologia, della geologia, della vulcanologia, di medicina. Ma non ci siamo fermati qui, perché abbiamo tenuto seminari seguitissimi su Facebook sulla gestione delle aziende e sulla politica estera. Abbiano spodestato dai fornelli chef stellati di fama internazionale e dimostrato una notevole conoscenza anche in ambito giuridico. Oggi siamo tutti importanti virologi. Ma prima che diventassimo onniscienti, siamo stati soprattutto grandi allenatori, esperti nella gestione delle nazionali di calcio e inventori di moduli di gioco innovativi. Per cui, per tornare all’epicentro del nostro sapere, è necessario leggere il simpatico e dissacrante libro di Angelo Orlando Meloni, Santi, poeti e commissari tecnici (Miraggi Edizioni), una raccolta di racconti sul calcio.
Santi, poeti e commissari tecnici
Il mondo pallonaro è stato sempre una grande metafora del Paese, una sorta di acceleratore sociale, capace di anticipare ed evidenziare i fenomeni, spingendoli fino al parossismo. Nei racconti di Meloni troviamo gran parte dei tarli su cui avvitiamo quotidianamente. Come nel primo racconto che dà il nome alla raccolta, Santi, poeti e commissari tecnici, in cui ad essere demolito è proprio il nostro sentirci tuttologi. La storia gira intorno a una rivalità calcistica cittadina. Un derby di Paese fra due squadre: Vezze sul mare, una società con l’invidiabile record di aver perso tutte le partite dal giorno della sua fondazione e Vezze Marina, che invece può vantare nella sua storia esperienze in serie superiori. Ma il calcio ci insegna che la palla è rotonda e questo perché il dio del pallone, quando si annoia, tira fuori un grandissimo senso dell’umorismo. Esempi: la Grecia che vince gli Europei nel 2004, il Verona di Bagnoli e il Napoli di Maradona che vincono lo scudetto, il Porto di José Mourinho che vince la Champions, la Reggina di Mazzarri e la Longobardia di Oronzo Canà che raggiungono un’insperata salvezza. Ma questi sono solo alcuni casi, la lista dei miracoli calcistici è lunghissima. E il lettore di Santi, poeti e commissari tecnici potrà sicuramente aggiungere all’elenco anche lo strano caso di Vezze sul Mare, che annulla il gap con la rivale cittadina attraverso i miracolosi suggerimenti tattici della Santa patrona del Paese.
Meloni la tocca, per così dire, piano con il racconto Ode al perfetto imbecille. Una delle tante storie di emarginazione e nepotismo. Il malcostume italico ha come vittima un ragazzino fortissimo, un vero talento, che però viene lasciato sempre ai margini perché è figlio di una persona per così dire stramba, ma soprattutto perché deve lasciare il posto al figlio di un notabile del Paese. Meloni parla a modo suo, utilizzando sempre il registro dell’umorismo e del sarcasmo, anche della corruzione e delle scommesse che avvelenano il gioco, di vendetta e di carriere stroncate, del sogno dei tifosi che si alimenta con il calciomercato e di calciatori tristi e alcolizzati sul viale del tramonto.
Siamo tutti Oronzo Canà
D’altronde, il calcio è l’esperanto del mondo, una lingua semplice e di facile apprendimento per tutti e Meloni la utilizza in Santi, poeti e commissari tecnici per indagare e denunciare in modo impietoso un mondo che sembra non potersi reggere senza le ingiustizie e i compromessi. Il calcio quindi come grande metafora, per raccontare una società con poca morale che può far tranquillamente a meno degli eroi, che sono sempre giovani e belli. Dei calciatori no, perché possono essere anche brutti e perdenti. Un po’ come i teneri sconfitti raccontati Meloni.
«Rosa, io sono un metodico. Ho dovuto fare colazione in un altro bar, sono già abbastanza sconvolto per oggi.»
La vita moltiplicata di Simone Ghelli è una raccolta di racconti in cui ciò che ci viene mostrato il più delle volte non corrisponde a ciò che si pensava di leggere: accade quella cosa che uno dei personaggi della raccolta definisce «contraffazione del reale». Ghelli è molto bravo a “rifilarci” la sensazione di essere trasportati in un mondo altro, come sospinti in altre dimensioni, mentre invece – una volta storditi – ci ritroviamo davanti a racconti di vita che fanno del quotidiano, della semplicità, della normalità la loro cifra straordinaria. Ogni racconto parte da un elemento minimo che spezza la routine di un personaggio qualsiasi: un professore che la mattina non può mangiare il suo danese con scaglie di cioccolato perché il bar dove va sempre ha un problema elettrico; un impiegato in una società di servizi che fornisce assistenza ai clienti per conto di terzi, una mattina si ritrova a fare tardi al lavoro per vari motivi – il traffico, la giornata uggiosa, le buche delle strade – ma tutto comincia quando un vecchietto compie una manovra azzardata ad un incrocio con il semaforo rosso; un postino che si alza già stanco una mattina a causa di un incubo notturno e non ne infila una giusta; e così via. Quando qualcosa cambia all’improvviso arriva la vita, e i personaggi di Ghelli restano lì non sorpresi, non sopraffatti, ma assistono a quello che avviene come se fossero dentro a un sogno, come se dormissero un sonno profondo, tanto profondo da sembrare reale, vero ma innocuo. Come se la vita si moltiplicasse, in qualche modo, e diventasse tante vite diverse. E invece un risveglio c’è sempre. Dai racconti di Ghelli si apprende che a sconvolgerci la vita è la vita stessa nella sua normalità. Non soltanto i grandi eventi, non solo i grossi traumi, ma sono gli avvenimenti del quotidiano che possono stravolgere così come possono appiattire un’esistenza. Tutto dipende da noi, da come li affrontiamo, e con che occhi li guardiamo (appena svegli).
Ogni personaggio, alla fine, torna indietro e dopo quello che ha appena vissuto – il sogno, «il miraggio di una vita piena», il tempo di un mondo altro che non è il tempo di questo mondo qua – ricompare la vita vera. O forse no. La scrittura di Ghelli è raffinata, ricercata, a volte si fa rumore di quello che accade – «La casa scricchiolava e brontolava, era un enorme stomaco che stava digerendo la sua vita» –; altre, immagine nitida – «Immobile dinanzi alla distruzione, come l’osservatore esterno nel Naufragio della speranza dipinto da Caspar David Friedrich –; altre ancora suono – […] si eseguono, di nascosto, centinaia di sinfonie di vite separate.»; ma rimane attaccata alle cose, alle storie e ai suoi personaggi – come il pennarello del fumettista Osvaldo Cavandoli alla sua linea –,nel tentativo di tamponare le falle delle loro esistenze tenendole insieme, attraverso un’estetica funzionale che non perde mai di vista ciò che vuole raccontare e anche ciò che vuole immaginare.
«Forse aveva avuto soltanto una passata di febbre e non se n’era neanche accorto.»
Santi poeti e commissari tecnici è un libro strano che parla di tutti noi, del calcio e della società, di passioni e di identità. Angelo Orlando Meloni crea un insieme di aneddoti e storie che ruotano attorno allo sport più amato in Italia e che, in parte, giocano a dissacrarlo.
La fede calcistica, quella vera e propria religione di Stato che ogni domenica ci tiene incollati alla tv, in questo libro viene presa con leggerezza, con ironia. A dimostrazione di come anche con il calcio e di calcio si possa scherzare, parlare con tranquillità, scoprendoci più umani e meno sfegatati.
La trama
Santi poeti e commissari tecnici (Miraggi edizioni) si compone di racconti che hanno al centro il calcio. Il primo di questi racconti, che poi dà il titolo al libro, ci parla del miracolo della statua votiva della Beata Serafina, la quale suggerisce di colpo al parroco del paese le strategie giuste per vincere il campionato.
Negli altri racconti ci sono un bomber alcolizzato ed una comunità che pensano di meritare “il calcio che conta”; un arbitro incorruttibile che dirige la sua ultima partita e deve fare i conti col suo passato; un giovane campione scopre il difficile rapporto coi genitori degli altri ragazzi; un ragazzo esordisce in Serie A e medita vendetta contro il destino.
Nell’ultimo racconto la massima serie rischia di fallire a causa dell’ex moglie di un dirigente che pretende gli alimenti dal marito, che lavoro nel mondo del calcio giovanile.
La recensione di Santi poeti e commissari tecnici di Angelo Orlando Meloni
In questo libro ci sono dentro piccole e grandi storie, che magistralmente uniscono il calcio all’amore. Non sono amori facili badate bene; qui parliamo di amori finiti, sfuggenti, mancati o mancanti. Lo stesso amore per il calcio acquista connotati surreali, malati, mai davvero puri.
Santi poeti e commissari tecnici ci parla poi del calcio di provincia, quello che dovrebbe essere limpido, leggero, spensierato, e che invece scopriamo corrotto quanto e come quello ad alti livelli. La caratterizzazione dei personaggi ci proietta prima sui campetti della domenica, e poi di colpo nei grandi stadi. Due facce della stessa moneta.
I sogni dei tifosi sono fragili, così come è fragile l’universo calcio, perché fatto da uomini. Ecco perché tutto il libro di Angelo Orlando Meloni è attraversato da una vena malinconica, da toni agrodolci che tirano in ballo i ricordi ed il cuore, ciò che troviamo nel nocciolo di una nazione.
Parlare di calcio è affascinante, e se lo si fa con una risata invece che con una lacrima, è ancora più bello. E questo libro può davvero aiutarvi a scoprirvi tifosi sotto un altro punto di vista.
Non seguo il calcio e non tifo alcuna squadra e, in termini di regole da rispettare sul campo, mi limito a sapere che ci sono undici giocatori per squadra, che esiste il fuorigioco e che non si può prendere la palla con le mani, a meno che tu non sia il portiere o Maradona. Nient’altro. Eppure mi ha divertito, stimolato ed emozionato la raccolta di racconti di Orlando Meloni, Santi, poeti e commissari tecnici, edita da Miraggi edizioni, dove il calcio è il comune denominatore di tutti e sei i racconti. Infatti, è il modo in cui Meloni ha deciso di descrivere e parlare del calcio a rendere tutti i racconti del libro piccole perle imperdibili. Lo sport in questione è usato, letterariamente parlando, come una grande lente d’ingrandimento attraverso cui osservare ed esasperare meccanismi sociali elementari come arrivismo, invidia, rivalsa sociale, disperazione, brama di denaro e di successo. Attorno quindi al nucleo calcistico, Orlando Meloni racconta storie d’amori mancati o di sogni infranti, ora esilaranti e grottesche, ora tristi e commoventi, in una raccolta che presenta al lettore una ricchissima varietà tematica, resa uniforme e solida dalla personalissima stilizzazione dell’autore, il cui stile è davvero irresistibile.
Il primo racconto, quello che dà il titolo alla raccolta, è bellissimo. Ci sono due comuni, Marina di Vezze e Vezze sul Mare, partite di calcio, animali parlanti, uno stabilimento petrolchimico che inquina aria e mare, preti e la statua della beata Serafina. Elementi difficili da accomunare, eppure l’autore ci riesce e scrive un racconto molto interessante, con striature da commedia nera che gli conferiscono un’atmosfera particolare e suggestiva. Leggendolo ho riso e mi domandavo dove Meloni volesse arrivare, quando ho letto le ultime due pagine sono rimasto a bocca aperta. Complimenti.
Effectio miraculi in nomine dei. Si prega il gentile credente di fare attenzione. Rivelazione clinamen improbalistico completata. Punto di snodo individuato nel minuto quarantadue del secondo tempo. Upload dettagli in corso, buffering 69%…” Il prete tirò fuori il blocchetto degli appunti e si gettò ai piedi della statua.
Precisi siamo è il secondo racconto e leggerlo è come ascoltare una canzone strana e complessa, ma magnetica, non capisci subito dove voglia arrivare ma la segui cullato dalla bellezza della melodia. Così, in questo racconto, leggi e senti il ritmo fluido della narrazione e assisti come gli spettatori in platea alle vicende di un calciatore alcolizzato che è diventato simbolo per la comunità del “calcio che conta” e le vicende del suo allenatore, ma non solo… Orlando Meloni stupisce anche qui. In mezzo abbiamo altri tre racconti originalissimi, e il terzo, Ode al perfetto imbecille è quello che più mi ha sorpreso dell’intera raccolta. È un racconto intenso, molto commovente.
[…] Non hai nemmeno sentito l’allenatore che si lamentava con il custode del campetto[…] O forse hai fatto finta di non sentirlo, come hai fatto finta di sorridere a tuo padre, all’uomo dei tic, mentre tornavate a casa, e tuo padre ha fatto finta che non fosse successo niente. Perché così va l’amore, a volte non facciamo domande per paura delle risposte.
È un feroce pugno nello stomaco, dove gli ultimi resteranno ultimi, senza possibilità di rivalsa o di rivincita, perché gli uomini, gli unici a poter cambiare e scardinare alcuni corrotti meccanismi sociali, non lo permetteranno mai.
Quando ritorni a casa vorresti stringere la mano di tuo padre e tuo padre vorrebbe tenere stretta la tua, ma sei un uomo ormai e la mano di tuo padre trema, ti ha fatto sempre impressione stringerla.
Il campionato più brutto del mondo è l’ultima storia della raccolta. Qui la serie A rischia la catastrofe a causa dell’ex moglie di un dirigente invischiato con il calcio minore, che pretende gli alimenti arretrati dal marito. Da qui, una catena corrotta di dirigenti che inizia a chiedere soldi a pesci sempre più grandi, fino al collasso totale.
Gelsomina Mariotti sbianca e sente su di sé il dolore dei tifosi e dei loro figli e nipoti. A occhio, perché quel dolore possa alleggerirsi, ci vorranno dieci generazioni di drogati, maniaci depressivi, di auto-stupratori e collezionisti di merda d’artista a ogni angolo di strada, di suicidi a iosa ed ebefrenici come se piovesse.
Gli effetti del game-over del campionato di calcio in questo racconto mi hanno ricordato le conseguenze della peste descritte da Boccaccio nel Decameron: i legami sociali si recidono, la violenza dilaga, i più ricchi cercano di fuggire in ville e tenute campestri:
In città hanno trovato un deserto. Le serrande sono abbassate. I bar sono chiusi. Non un’anima in giro. Non si è presentata nemmeno la polizia perché il campionato più bello del mondo è finito e questa è. Qualcuno ha deciso al posto loro e nessuno potrà farci più niente.
Ecco che si comprende bene, terminati i racconti, come il calcio per l’autore sia ora fonte di discriminazione sociale, ora rammarico di una vita, ora collante sociale, ora allegoria di una società bigotta e preconcetta, e quindi, vale la pena ribadirlo, il calcio permette un focus su questi concetti, avvicinandoli al lettore, mettendo alla berlina le bassezze di una società che ha pochi valori, e, purtroppo, spesso, nemmeno buoni. I racconti di Meloni sono agili e freschi, giocano con gli intrecci delle vicende, arditi e complessi, amano rappresentare e descrivere personaggi buffi e scapestrati, violenti e teneri e illustrare una galleria letteraria piena di colori vividi e originali; galleria nella quale c’è anche spazio per l’eco di riferimenti e intrecci fantascientifici, che colorano l’atmosfera della raccolta di una piacevolissima leggerezza. Mi viene da definire Meloni come uno scrittore appassionato, perché ama divertirsi con le storie e le parole, con le commistioni di generi, e, oltre che raccontare storie, trasmette messaggi, veicolati da una forma narrativa indiavolata. La stilizzazione originalissima dell’opera consente poi di instaurare una conversazione a tu per tu tra autore e lettore, conversazione divertentissima e anche impegnata, perché si sa che al momento non c’è niente che vada trattato seriamente come il calcio, nemmeno la letteratura.
“Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro” così scriveva Pier Paolo Pasolini, come sempre intercettando perfettamente una profonda verità all’interno della società in cui viveva. Non so se e in che maniera influenzato dalla riflessione di PPP, Angelo Orlando Meloni ha imbastito questa originale raccolta di racconti lunghi a tema calcistico. Ma qui non si parla solo di calcio. In questi racconti ci sono sogni, passioni, storie comuni e meno comuni, un bel po’ di Sicilia, e sono scritti con uno stile ironico e ricchi di personaggi memorabili. Il libro, pubblicato da Miraggi Edizioni, potrebbe riuscire a conquistare anche i non amanti del pallone. Sì, perché Meloni scrive bene, ha nelle sue corde diversi stili e registri, e riesce ad appassionare il lettore, in ognuno di questi sei racconti che compongono la raccolta.
Nel primo, lungo racconto che dà il titolo al volume, l’autore immagina una squadraccia di periferia che non vince una partita manco per sbaglio, ma che grazie all’intercessione della beata Serafina inizia a ingranare. Con i suggerimenti dati al parroco del paese la squadra riesce addirittura a vincere il campionato, sorprendentemente. È il calcio, con i suoi palloni di cuoio sgangherati e i campi di periferia polverosi, a farla da padrone. Il gioco del calcio è il sottile filo che unisce tutti questi ironici, scanzonati e divertenti racconti. Si passa dalla Serie A che rischia la catastrofe a causa dell’ex moglie di un dirigente invischiato con il calcio minore, al racconto di un centravanti alcolizzato che prova a trascinare la sua squadra nel calcio di un certo livello. Nel racconto “Il campionato più brutto del mondo” è appunto il capriccio di una donna a far tremare tutti, e solo una serie di incredibili eventi riuscirà a salvare la serie A. Il racconto “L’aeroplano” è rocambolesco e divertente, con Peppino Petrolito detto “Flashgordon” e Nino “Emozione”, la città di Siracusa e una partita di calcio, Inter Ternana, sullo sfondo. Mentre “Ode al perfetto imbecille” è probabilmente quello più realistico di tutti: la storia di un giovanissimo e bravissimo calciatore, che però non trova spazio in squadra perché non è “raccomandato”, quindi si vede passare davanti il figlio dell’avvocato di turno. Non si premia il talento ma la raccomandazione. Non è questa la fotografia perfetta della nostra società? La bravura di Meloni sta nel parlare di calcio per non parlare solo di calcio, ma dell’Italia tutta: delle sue storture, dei suoi mali, dei suoi personaggi miseri ma anche dei lati positivi che il nostro popolo, alle volte, riesce a tirare fuori. Il suo libro è ironico e scritto con grande capacità di coinvolgere e di tenere incollati alle sue pagine, grazie a storie e personaggi leggeri ma allo stesso tempo in grado di creare grande empatia nel lettore.Non ci sono note stonate e anzi tutti i sei racconti sono di pregevole fattura. Il tono tragicomico e scanzonato che pervade l’intera raccolta, è solo uno dei punti di forza di questo libro, che dopo averci fatto sorridere ci fa riflettere, magari con un sorriso a mezza bocca, gli occhi tristi e malinconici. Per chi come noi ha vissuto le curve, l’emozione di vedere 22 scalmanati in pantaloncini rincorrere un pallone, è chiaro che non si tratti affatto del nuovo oppio dei popoli. Ma è una questione molto importante, uno dei motivi per cui vale la pena vivere.
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