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LA VITA MOLTIPLICATA. “Dieci racconti uno più bello dell’altro” – recensione di Gabriele Ottaviani su Convenzionali

LA VITA MOLTIPLICATA. “Dieci racconti uno più bello dell’altro” – recensione di Gabriele Ottaviani su Convenzionali

LA VITA MOLTIPLICATA

Chissà se era ancora un sogno, si chiese Ascanio…

La vita moltiplicata, Simone Ghelli, MiraggiOboe d’amore, Vera, Piano inclinato, La somma dei secondi e dei sogni, L’ultima vetrina, Compito di realtà, La grande divoratrice, La scatola nera, La sentinella di ferro, L’ineluttabile: dieci racconti uno più bello dell’altro, come del resto splendida è la copertina, per il tramite dei quali Simone Ghelli, con maestria, profondità, eleganza, raffinatezza, cura e delicata tenerezza per le fragilità delle anime che arrivano alla soglia della sua coscienza, presentandosi fra parole e righe, per raccontargli la propria vicenda, indaga, semplicemente, ma nessun sentiero è più impervio di quello che in apparenza appare senza ostacoli, l’esistenza, in tutte le sue forme. Eccellente.

 

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

“La vita moltiplicata”

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Ippolita Luzzo su Ippolita – La regina della Litweb

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Ippolita Luzzo su Ippolita – La regina della Litweb

LA VITA MOLTIPLICATA

La vita moltiplicata di Simone Ghelli è una raccolta di dieci racconti declinati fra realtà e sogno, racconti che si svolgono in un tempo che è fatto di tre tempi.
Trovo di grande interesse ciò che fa Simone Ghelli, una resistenza letteraria allo spirito del tempo attuale, una resistenza al raccontare i fatti col piattume del presente, una resistenza che ci regala la complessità del nostro vivere, così umiliato da tanti romanzi scialbi e da tanta pubblicità ignobile.
Con Simone riflettiamo: “ Due persone si conoscono, ma si conoscevano già e non si conoscevano ancora” così nel L’Ineluttabile, il racconto di un incontro che ho imparato a memoria.
Giorgio, il protagonista, si trova a Siena, deve partecipare ad una “Procedura di valutazione comparativa per la copertura di un posto di ruolo di ricercatore universitario L-Art/06” dopo aver preso la laurea, sempre a Siena anni prima, dieci anni prima.
Incontra al Civico 90 di via Pantaneto un uomo sui cinquanta anni o più e tramite il libro, un libro, quel libro, e su una sciarpa regalata, in un locale che non è più il Pozzo, si svolge il dialogo sul cinema e sulla vita.
La nostra vita.
Tutto ciò che va dove non deve andare, tutto ciò che avviene senza il nostro volere, tutto ciò che noi siamo senza saperlo.
L’immagine- movimento di Gilles Deleuze è il libro che Giorgio ha in mano, un libro sul cinema, su “l’eterno ritorno come resurrezione, nuovo dono del nuovo, del possibile” di Bunuel e poi andiamo indietro nel 1996 l’anno in cui Giorgio inizia a seguire storia e critica del cinema.
Si era poi laureato nel 1999.
Negli anni la città è cambiata, Siena è cambiata ed anche l’ex Ospedale Psichiatrico è stato trasformato in una sede universitaria.  Mi immergo nel racconto, vedo gli occhi verde smeraldo dell’altro uomo, lo sento dire con me, con Artaud, che si scrive per uscire dall’inferno.
Chi è l’interlocutore di Giorgio? Un professore universitario?
Così parrebbe visto che conosce bene il professore di filosofia politica di Giorgio.
Giorgio non lo saprà mai e terrà in regalo quella sciarpa.  Non lo incontrerà più malgrado lui ritorni, speranzoso, più volte in quel locale.
Nemmeno noi lo sappiamo ma io lo conosco, lui è diventato una mia presenza in casa, perché esiste “un tempo interno all’avvenimento, che è fatto della simultaneità di tre presenti“:    < Secondo la formula di Sant’Agostino, esiste un presente del futuro, un presente del presente, un presente del passato, tutti implicati nell’avvenimento, simultanei> ed è per questo che nulla è come sembra.
La realtà poi è implacabile.
Ci prova, in un’altro racconto, il professore Iuri Bettalli a far scrivere ai suoi alunni cosa sia la realtà e la realtà sarà terribile, contro di lui nemica.
Compito di realtà.
Leggiamo i racconti di Simone Ghelli, con l’emozione di aver a che fare con uno scrittore vero, con un autore che rispetta la straordinaria storia che è la vita, un autore che ci regala con Lucrezio, la forza vivida dell’animo.
Leggiamolo e conserveremo ancora con noi la bellezza della letteratura.

Ippolita Luzzo

 

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

http://trollipp.blogspot.com/2019/12/simone-ghelli-la-vita-moltiplicata.html

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Gianluca Massimini su Lankenauta

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Gianluca Massimini su Lankenauta

LA VITA MOLTIPLICATA

Se l’opera precedente di Simone Ghelli (Non risponde mai nessuno, Miraggi edizioni, 2017) ci aveva proposto delle piccole e grandi vicende del quotidiano narrate con un alto grado di realtà, in cui spesso i protagonisti, con le loro insicurezze e fragilità, stentavano a trovare una relazione empatica, motivo esemplificato dalle loro “chiamate mai risposte”, questa nuova raccolta di racconti dal titolo La vita moltiplicata (Miraggi edizioni, 2019, pp. 128) sembra costituirne allora il giusto complemento, il degno contraltare, poiché esibisce al suo interno, con la perizia ormai consueta all’autore, dieci titoli nei quali la potenza dell’onirico e dello psichico è declinata ed esaltata al massimo grado.

Se c’è infatti un tema ricorrente che accomuna la maggior parte dei personaggi del libro, a fronte di un vita che li nega o che non corrisponde alle loro attese, è proprio il moltiplicarsi delle immagini, dei quadri e delle scene della loro vita interiore, che si succedono, si sovrappongono, scorrono come davanti allo schermo di un cinematografo, restituendoci in modo chiaro il bisogno che questi sentono di rifugiarsi nel sogno ad occhi aperti o in mondi più pensati che vissuti, quasi sempre nel tentativo di salvarsi da coloro che li circondano e che non li comprendono, da una realtà misera e triste che non amano, con cui non sono in sintonia, e che pertanto li delude, li nausea (come ne L’ultima vetrina o in Compito di realtà), realtà che nel corso delle pagine può incarnarsi esemplarmente nella città de La grande divoratrice, in cui si dissolve ogni possibile segno di umanità, di gioia, col suo livellare gli uomini a pure macchine la cui vita è regolata dalla fretta e dall’alienazione (“Tutto intorno la città gorgogliava, era un intricato apparato digerente all’interno del quale si stava estinguendo un’altra infinitesima parte della loro vita.“) o che assurge addirittura a mostro orrifico in La sentinella di ferro, probabilmente il più bel racconto dalla raccolta (assieme a Oboe d’amore), in cui apprendiamo del povero Ermete che ha passato diciannove lunghi anni “fra gli ingranaggi della grande macchina, che inghiottiva carbon fossile e sputava ghisa, e lanciava fiamme e sbuffava fumo e si mangiava anche le persone, non solo i loro corpi, ma anche le loro vite.

Protagonista di Oboe d’amore, per esempio, è un giovane perso dietro le proprie fantasie (le sue tre muse, le chiama lui), che rincorre affannosamente, con slanci eroici più pensati che fattivi, a cui si oppone una madre poco comprensiva che vorrebbe riportarlo coi piedi per terra. Più che l’elemento diegetico, che lascerebbe credere inizialmente in un piccolo racconto di formazione (quanto pure al resoconto di una dolce alterità dal sapore schizoide), qui (come altrove, nella raccolta) l’aspetto che più colpisce è il ritmo, vero cardine che regge il tutto (il tema del racconto del resto è la musica), frutto di un lavoro egregio condotto sulla lingua e sulla sintassi, sulla musicalità della frase, sull’alto valore timbrico della parola che ne viene così esaltata mediante una modulazione non comune affinché riverberi come uno strumento.

Ma è in Vera che afferriamo ancor meglio la valenza dei versi di Lucrezio posti in epigrafe (tratti dal primo elogio di Epicuro, l’eroe “incivilitore” che per primo si oppose a un mondo chiuso dalle tenebre dell’ignoranza e della superstizione, di cui apprendiamo il viaggio oltre i confini del mondo per portare la verità agli uomini), quando l’evasione dai limiti tangibili e razionali del quotidiano è tradotta da una prosa plastica e ardita, che straborda dall’ordinario, che si presta a soluzioni inusuali, nella quale il confine tra lo psichico e l’onirico è molto labile, e che esibisce a tal motivo un’aura che sfiora il poetico.

Sempre il sogno pare essere l’ultima via d’uscita che può salvare il Marcello de L’ultima vetrina dall’incomprensione generale, da una delusione profonda che pare avere ereditato dal padre, con il quale condivide anche la necessità di sprofondare nelle vite inventate dei libri, che contengono più verità delle vite vere (“entrambi avevano passato la vita a pretendere troppo, ad aspettarsi che gli altri sentissero quella stessa necessità di sprofondare nelle vite inventate, che capissero quanta più verità contenessero quelle che non le vite vere da cui prendevano spunto“), situazione molto simile a quella proposta in La somma dei secondi e dei sogni, in cui il protagonista evapora totalmente dietro ai manoscritti che giungono alla casa editrice per la quale lavora, fermamente convinto che la realtà dell’arte sia più vera del reale, e a quella di Piano inclinato, in cui solo col sogno ad occhi aperti Ascanio Ascarelli riesce a sottrarsi ad una vita monotona e ripetitiva.

Anche Compito di realtà, in una sorta di continuità ideale, ci propone un contesto ostile nel quale il protagonista stenta a trovare il proprio posto, ancor più quando si tratta di scendere a patti con l’ipocrisia generale, cosa che in fondo potrebbe anche giovargli, situazione che spinge il lettore, alla fine, a chiedersi se non siano proprio gli adulti, gli insegnanti, a sbagliare quando vorrebbero sentirsi dire dagli alunni solo quello che essi stessi pensano, rinunciando ad indagare il vero.

In questa molteplicità di fughe o di ribellioni tentate, fa eccezione però il Giovanni de La scatola nera che, di fronte al futuro funesto che sembra attendere la nostra specie (“Per me è tutto un caos indistinguibile. Ho disimparato persino a vedere, figuriamoci ad ascoltare.“), va in giro a far campionamenti, registrando suoni e rumori per poi rimodularli a piacimento, con grande estro artistico, per farne sinfonie, un modus vivendi in cui si potrebbe leggere la volontà di riscattare la realtà stessa.

Si rimane pertanto, a lettura conclusa, con la sensazione di avere tra le mani un libro ben pensato, che si propone come un’idea compiuta, con un’identità di stile, in cui Ghelli esibisce senza dubbio una valida padronanza dei mezzi e un’alta consapevolezza di quello che sta facendo (a dispetto di tante scritture banali odierne, tutte uguali) e in cui, come nella cronofotografia di Muybridge evocata ne L’ineluttabile, attraverso la scrittura e l’ampio spazio dato alla vita interiore dei suoi personaggi, mette assieme più momenti, più immagini delle storie di ognuno per cogliere la vita umana nel suo movimento, nel suo farsi, cercando con questo di aiutarci a trovare un senso, una direzione, quanto meno ad arrivare ad una presa di coscienza.

QUI L’ARTICOLO ORGINALE:

La vita moltiplicata

NON SERVE NASCONDERSI. “La diversità è un valore e non un limite discriminante” – recensione di Marco Valenti su LibroGuerriero

NON SERVE NASCONDERSI. “La diversità è un valore e non un limite discriminante” – recensione di Marco Valenti su LibroGuerriero

GRANDANGOLO: “NON SERVE NASCONDERSI” DI MARCO PROIETTI MANCINI

Marco Proietti Mancini chiarisce tutto sin da subito. Non usa mezze misure nè sotterfugi per farci capire che cosa ci aspetterà non appena ci addentreremo tra le sue parole. Il titolo è il primo passo per mettere in chiaro il suo intendimento. “Non serve nascondersi” è fin troppo chiaro come incipit. E se non bastasse la sua dedica che apre la sua raccolta di racconti ribadisce il concetto. “Ai miei figli, che sono le mie nuvole più belle, anche quando portano le lacrime della pioggia.” Il libro è dedicato a loro, ai ragazzi di domani che oggi cresciamo in un mondo in cui non ci riconosciamo più. È per loro che le parole di Proietti Mancini assumono un’importanza fondamentale. Deve essere infatti il nostro insegnamento a dare loro un esempio per potergli permettere di affrontare il domani senza i nostri errori di oggi. Non ultimo appunto quelo di “nasconderci”, mascherando quelle che sono le nostre reali esistenze, emozioni e paure.

Non è più tempo di fingere, soprattutto con noi stessi. Accettiamoci per quello che siamo e il mondo saprà fare altrettanto. Non ha senso modellare le nostre vite su standard comportamentali o etici imposti dalla società. Il tempo prima o poi ci porterà il conto. Basta solo aspettare e il giorno del giudizio arriva. Per tutti.

È un libro che ci mette in chiaro un concetto che troppo spesso dimentichiamo, dandolo per scontato. La diversità è un valore e non un limite discriminante. È nella diversità che troviamo il modo per crescere. Concetto semplice e vecchio come il mondo, ma a quanto pare, visto ciò che succede ancora non del tutto chiaro. Rivolgendoci agli “uomini” di domani come fa Proietti Mancini in questo suo ultimo volume non possiamo che riporre in loro la speranza di cambiamento. Quel cambiamento, per tornare al titolo del libro, che deve partire dall’accettazione di noi stessi in primis per poi passare a quella degli altri.

Sono quattordici i racconti che la Miraggi Edizioni ha selezionato insieme all’autore. Quattordici episodi che scorrono velocemente raccontandoci momenti di vita quotidiana in cui non possiamo non ritrovarci. Quattordici istantanee che parlano di malattia, emarginazione, speranza, diversità più o meno manifeste. Ma anche di intolleranza, di dolore, solitudine e morte. Non ci sono vincitori o vinti. Non c’è competizione o ricerca di un finale che possa conciliare con la speranza. C’è solo la descrizione di un attimo e tutte le conseguenze che si ripercuotono nel nostro io più profondo alle prese con la presa di coscienza che stiamo inziando un percorso che ci porterà a poterci guardare senza dover abbassare lo sguardo.

Sono storie che sembrano incanalarsi perfettamente nelle cicatrici che solcano la nostra pelle sempre meno resistente agli acciacchi della vita. Storie che potremmo recitare a memoria ogni volta che passando davanti ad uno specchio ci fermiamo per un istante a controllare che sia tutto in ordine, tutto come deve essere, tutto come ci viene imposto da questa società che vorremmo cambiare ma che non abbiamo il coraggio di scalfire. È per questo che ci limitiamo a capire ed accettare i nostri errori in modo da preservare i nostri figli da quegli sbagli che continuiamo a ripetere.

QUI L’ARTICOLO ORGINALE:

GRANDANGOLO: “NON SERVE NASCONDERSI” di MARCO PROIETTI MANCINI (MIRAGGI EDIZIONI)

NON SERVE NASCONDERSI – recensione di Angela Antonini su Mangialibri

NON SERVE NASCONDERSI – recensione di Angela Antonini su Mangialibri

NON SERVE NASCONDERSI

Questi immigrati brutti e sporchi, che vengono a degradare le nostre città, a contaminarle… Leggere il verdetto su una panchina qualsiasi, con in mano una busta qualsiasi, la differenza tra la libertà e la galera… Figlio mio, che ne sanno gli altri, quando ti chiamo così, di cosa condividiamo io e te, mio peloso compagno… Perché non possiamo anche noi darci un bacio per la strada, camminare mano nella mano?… Da tanto tempo non succedeva, di svegliarmi così angosciato, di soprassalto. È bastato incrociarla per strada e tutte le antiche ferite si sono riaperte… Mi chiamate tutti Dondolo perché per me dondolare è stare in equilibrio in mezzo al vostro clamore, magari un modo per tenervi lontani… Iole si laurea, oggi, Iole la temeraria, Iole dalle mani veloci con cui comunica con tutto il mondo… La spiaggia al tramonto è il ritrovo ideale degli innamorati, ma chi ha detto che debbano essere per forza ragazzini al primo bacio?… Sto male papà, ho una malattia incurabile, e tu sei vecchio papà, chi si prenderà cura di te quando io non ci sarò più?… Solo adesso mi ricordo di cosa aveva biascicato tutto il giorno mio padre, furioso, tra i denti stretti, quando aveva dato un passaggio a quella ragazza, diceva “uomini di merda”… Sto uscendo di galera, sono libero ma questo odore non se ne andrà mai… Antonio mi citofona a mezzanotte della Viglia di Natale. È solo, vuole uscire. Anto, ma sei pazzo?… Alessandro e Anita in un attimo sono nudi nella camera d’albergo, a farsi una scopata di puro istinto e passione… Ulisse proprio non se l’aspettava, un ritorno così…

Quattordici racconti piccoli piccoli, storie di vita, momenti segnanti di intere esistenze. O forse è meglio dire esistenze segnate, perché i racconti fotografano vite diverse, al margine della società o della normalità o dell’equilibrio. Ma poi diverse per chi? I protagonisti si sentono diversi perché qualcuno, il mondo, la società, gli altri appiccicano loro questa etichetta. Così, è diverso l’immigrato, il disabile, l’omosessuale, l’ex galeotto, il malato terminale. E perfino chi ha un cane. Perfino chi è vecchio. Perfino chi ha subito una violenza. Come a dire, a ben pensarci, che siamo tutti diversi, perché vittime o carnefici siamo comunque diversi agli occhi di qualcun altro. Un tema attualissimo trattato senza retorica che, anzi, dalla formula breve del racconto trae una maggiore forza perché gli stati d’animo sono cristallizzati lì, in quel preciso momento, senza quindi dare l’occasione al lettore di seguire un percorso razionale ma quasi chiedendo la pura e semplice adesione empatica, umana. Una raccolta che ben si inserisce nella generosa produzione dell’autore, che già conosciamo grazie anche alla bella intervista proprio su “Mangialibri” e che non poteva che concludersi con un racconto tutto capitolino, un finale alternativo, amaramente comico, per l’amore tra Ulisse e Penelope, che qui sfugge alla retorica dell’eroismo del poema per prendere una dimensione, di nuovo, completamente umana.

 

QUI L’ARTICOLO ORGINALE:

http://www.mangialibri.com/libri/non-serve-nascondersi

LA PIANURA DEGLI SCHERZI di Osvaldo Lamborghini – recensione di Angelo Molica Franco sul Venerdì di Repubblica

LA PIANURA DEGLI SCHERZI di Osvaldo Lamborghini – recensione di Angelo Molica Franco sul Venerdì di Repubblica

LAMBORGHINI A TUTTO GAS VERSO IL PIACERE

Non c’è traccia di colpa o vergogna nei racconti dell’irregolare scrittore argentino Osvaldo Lamborghini (1940-1985). Lo riscopriamo oggi a poco più di trent’anni dalla morte grazie all’editore Miraggi che pubblica La pianura degli scherzi, una raccolta di quattro racconti che, per la loro impossibile aderenza a un canone già noto, sembrano provenire dal futuro.

Già César Aira lo eleva a «maestro», suo e degli scrittori argentini a venire, perché fu «qualcosa di eccezionalmente nuovo», scrive nella postfazione all’edizione completa in spagnolo delle sue opere. Pensatore arguto, in vita pubblicò molto poco, ma fu un personaggio stravagante. «Quel che fosse Osvaldo è difficile dirlo» prosegue Aira: «era un signore distinto, azzimato, dai modi aristocratici, un po’ altezzoso ma al tempo stesso molto affabile». Tuttavia, era anche capace di lasciarsi il pigiama sotto gli abiti da giorno. E poi, a letto mezzo svestito – com’è immortalato in molte fotografie – o seduto al tavolo da lavoro, scriveva circondato da pile di riviste pornografiche comprategli dalla moglie, da cui ritagliava le immagini per dedicarsi all’ancillare attività di pittore. Realizzava dipinti, fotomontaggi e collage che per la potenza evocativa richiamavano gli scatti più estremi di Robert Maplethorpe (nel 2015 tutta la sua produzione visuale è stata presentata al MACBA di Barcellona).

I protagonisti di questi quattro racconti vivono immersi, quasi annegati, nell’ambivalenza erotica tra delizia e dolore, tra l’essere vittime o autori del paciere. Eppure, soltanto all’apparenza è il sesso (e le sue perversioni) il centro d’attrazione della scrittura di Lamborghini, che invece lo utilizza e lo esaspera per estrarre alla fine il bello dal turpe: proprio come nei suoi quadri, anche in questi cuentos-collage (tradotti da Vincenzo Barca e Carlo Alberto Montaldo) i partecipanti a un’orgia di Il fiordo, il marchese gay e cocainomane di Sebregondi retrocede, le prostitute tratteggiate in Le figlie di Hegel e l’ambiguo ingegnere giapponese di La causa giusta vengono tutti colti mentre appagano i loro desideri. Nell’universo di Lamborghini è dunque il desiderio l’innesco di tutto. Ed è qui, mentre sottrae alla sua scrittura funambolica i concetti di salvezza e condanna, felicità o infelicità, e annulla ogni giudizio morale, che riesce a creare un mondo senza colpa o vergogna.

La rivoluzione generata da Lamborghini, la missione tutta politica della sua ispirazione per la quale è spesso accostato a Pasolini o Foucault, era liberare la letteratura argentina dal senso di colpa della tradizione culturale catto-europea (dunque dei conquistadores). E ci riesce benissimo.

 

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

 

AUTISMI di Giacomo Sartori citato su Il Dolomiti

AUTISMI di Giacomo Sartori citato su Il Dolomiti

Da ”Tritolo” a ”Sono Dio”, storia di un grande romanziere trentino per anni ignorato in provincia e finalmente riscoperto

Mentre lo strapaese catto-moderato nostrano non cessava di snobbarne la produzione, forse anche a causa del continuo passaggio da un editore medio-piccolo all’altro – la provincia ha sempre un debole per i riflettori altrui, il prestigio sancito, il successo di massa –, Sartori ha continuato a scandagliare le sue e nostre ferite aperte, fra storia collettiva ed esistenza individuale

Dal blog di Il Lanternino – 17 luglio 2019

 

Mi ha quasi stupito, il 26 giugno scorso, trovare una pagina del meno strapaesano fra i quotidiani cartacei locali dedicata a Giacomo Sartori. Quasi, poiché comunque, rispetto a cinque, dieci o quindici fa, quando in Trentino s’ignoravano volentieri i romanzi di Sartori che, duri e drammatici, del territorio svelavano i lati più oscuri e inconfessati, pare che finalmente anche la sua terra d’origine si sia decisa finalmente a riconoscerne la statura. Pochi giorni dopo quell’intervista a tutta pagina per la rubrica “trentini dal mondo” – Sartori vive da molti anni a Parigi e torna a Trento poche volte l’anno – Rai Radio Uno del Trentino ha inaugurato un ciclo di puntate in cui Mario Cagol legge alcuni Autismi, i racconti comici di Sartori apparsi in volume l’anno scorso per Miraggi edizioni di Torino. Molto bene.

 

 

Il fatto è che Sartori uno scrittore degno di nota lo è sempre stato, fin dall’esordio romanzesco di Tritolo nel 1999, e quando nel 2005 apparve per Sironi quel confronto senza sconti con il fascismo di un padre morente che è Anatomia della battaglia, il Seminario Internazionale sul Romanzo che con un paio di colleghi avevamo da poco fondato all’Università di Trento non esitò a invitarlo a parlare della propria poetica. Peccato fosse un pubblico di soli specialisti. Da allora, mentre lo strapaese catto-moderato nostrano non cessava di snobbarne la produzione, forse anche a causa del continuo passaggio da un editore medio-piccolo all’altro – la provincia ha sempre un debole per i riflettori altrui, il prestigio sancito, il successo di massa –, Sartori ha continuato a scandagliare le sue e nostre ferite aperte, fra storia collettiva ed esistenza individuale, saggiando temi e forme e, nel frattempo, maturando.

 

Ad oggi il punto d’arrivo e di equilibrio di questo percorso è il romanzo Sono Dio (apparso nel 2016 per NN, ne ho scritto ampiamente qui), uscito da qualche mese in traduzione inglese, recensito con approvazione dalla critica statunitense e di prossima pubblicazione anche in Germania: va da sé che, giunti a questo punto, continuare a ignorarlo sarebbe stata una miopia preoccupante. La penna di Sartori, tuttavia, non si è fermata lì e, mentre i lettori più fedeli stanno già aspettando la prossima opera narrativa, questa primavera è uscito per Arcipelago Itaca di Ancona, con postfazione dell’amica e sodale Helena Janeczek con cui Sartori condivide da anni l’esperienza on line di Nazione indiana, un piccolo gioiello in versi: s’intitola Mater amena e non è una raccolta di poesie, ma di “proesie”, come l’autore le ha battezzate.

 

Non è una boutade: Sartori sullo stile ha sempre lavorato di sottrazione e, confrontandosi con la forma lirica, deve aver capito fin da subito che la sua strada non era quella musicale e preziosista della tradizione, optando così per un dettato prosaico e quotidiano che pure riesce a trarre dalla versificazione, dalle sue pause e dai parallelismi, un’espressività compiuta. Ebbene, se in Anatomia della battaglia è con il fascismo del padre che Sartori faceva i conti, e con le sue ricadute sulla deriva ideologica del figlio progressista, questo è invece il ritratto dolente, in cui l’autore in parte e suo malgrado si rispecchia, di una madre non meno segnata da quei tratti temperamentali – anaffettività, autodisciplina, vitalismo – che già in precedenza si presentavano come i risvolti esistenziali, radicati nella personalità e nella condotta quotidiana, di un’educazione autoritaria. Bastano due distici: “aborrivi i contatti / tra i corpi” o, con le parole basiche della stessa madre: “sono così vecchia / come faccio”.

 

È brava Helena Janeczek a cogliere nella postfazione il colpo da maestro attuato da Sartori in questo libro: “L’intuizione formidabile e lancinante di Sartori sta nel far rimare ‘narcisismo’ e ‘fascismo’. […] Non la contestazione studentesca, ma la premessa nell’epoca [il ventennio, nda] che ha forgiato persino la madre nel disprezzo dell’empatia e della debolezza, ha consegnato il figlio a una mancanza originaria”. Sartori ci offre insomma, attraverso una vicenda personale, lo specchio di ciò che tutti ancora ci portiamo dentro, in latenza, tara e impulso ad un tempo: il rischio, a ogni gesto e parola, di abdicare al nostro meglio, a quella dotazione naturale dell’umano che fa bene a noi stessi e a chi amiamo.

 

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.ildolomiti.it/blog/il-lanternino/da-tritolo-a-sono-dio-storia-di-un-grande-romanziere-trentino-per-anni-ignorato-in-provincia-e-finalmente-riscoperto

NON SERVE NASCONDERSI. “Racconti che vogliono prendere posizione con forza in una realtà sempre più oscura e difficile da sopportare.” – intervista di Paolo Restuccia su Genius

NON SERVE NASCONDERSI. “Racconti che vogliono prendere posizione con forza in una realtà sempre più oscura e difficile da sopportare.” – intervista di Paolo Restuccia su Genius

MARCO PROIETTI MANCINI: “IO SCRIVO SEMPRE DI GETTO E DI ISTINTO”

Marco Proietti Mancini ha da poco pubblicato un nuovo libro di racconti, Non serve nascondersi (Miraggi edizioni), dopo diversi romanzi e altre raccolte. Romano, ama scrivere storie nelle quali oltre a lui si riconosce facilmente anche il suo pubblico, come la trilogia Da parte di PadreGli anni belliIl coraggio delle madri e i romanzi Oltre gli occhi e La terapia del dolore. Instancabile, fa anche il curatore di antologie e il giurato nei premi letterari. Ci è venuta voglia di ascoltarlo, leggendo i suoi racconti che vogliono prendere posizione con forza in una realtà sempre più oscura e difficile da sopportare.

La tua raccolta di racconti si apre con una dedica suggestiva: “Questo libro è dedicato a tutti quelli che si sentono diversi. Siete diversi, siamo diversi, siamo unici. Siamo ricchi”. A parte il contenuto dei racconti che in effetti la giustifica, perché hai scelto di rivolgerti a chi si sente “diverso”, e che intendevi con questa parola?

Sono partito da una riflessione tutta interiore e – temo – molto poco originale. L’umanità (e quindi gli individui che la compongono) ha bisogno di secoli per progredire e invece le bastano pochi anni, a volte mesi, per tornare indietro. Quello che sembrava fino a pochissimo tempo fa un modello avviato e consolidato di integrazione ed accettazione della “varietà”; termine che gradisco molto di più di “diversità”, è stato totalmente rimesso in discussione con una involuzione a tutti i livelli, sociale, politica, scientifica.
Ho voluto dimostrare che la varietà è una ricchezza, un’opportunità, una realtà umana inequivocabile e innegabile. Nasconderla, negarla, vietarla, è l’ipocrisia maggiore. I miei “diversi”, a vario titolo, sono la dimostrazione di un’esistenza forte, che non può e non deve essere cancellata in un’omologazione che – quella sì – mi spaventa.
Non sono i “diversi” che mi fanno paura, sono gli “uguali” forzati.

Nel primo racconto fai un paragone di grande effetto tra chi arriva sui barconi oggi e chi si muoveva più o meno nello stesso modo in altre epoche. È una storia che si ripete sempre, ma c’è chi dice che un tempo era un’altra cosa. Non hai paura di essere attaccato da una parte del pubblico?

Veramente più che una paura, la mia è una speranza. Quel racconto non è altro che una “cronaca”, tanto inventata quanto verosimile (e quel che in un libro è verosimile, diventa “il vero”). Che mi attacchino per aver scritto una storia che è LA storia. Sarà così che attaccheranno loro stessi.
Il complimento più bello ricevuto per quel racconto?: “Ma quello non l’hai scritto tu, è un documento originale, come mai non hai messo la fonte?”

In questi racconti utilizzi spesso una struttura a rivelazione finale, fai crescere la tensione lasciando sconosciuti alcuni particolari decisivi per il lettore e li riveli proprio all’ultimo, come nella busta che viene consegnata a uno dei protagonisti. Ti è venuto naturale costruirli così oppure l’hai deciso a tavolino?

Non riesco a “costruire a tavolino” neanche i romanzi, figurati se potrei farlo con i racconti, che sono l’istantanea di un’emozione, il fermo immagine di una storia immediata, che rappresentano poche ore di una vita, a volte pochi minuti.
Mi rendo conto che i puristi delle tecniche narrative inorridiranno, ma io scrivo sempre di getto e di istinto, lasciando alle fasi di revisione le verifiche di congruità e il controllo temporale degli avvenimenti. Certo è che la maggior parte di questi racconti sono stati scritti in un arco temporale breve, due, tre settimane, quindi è venuto naturale assecondare una struttura narrativa abbastanza simile.

Tra i “diversi” che popolano queste storie c’è spazio anche per gli animali, c’è un cane molto amato. Qual è il tuo rapporto con il mondo dei nostri “fratelli” pelosi?

È un rapporto fisico, animale. Un rapporto naturale di relazione corporea. Il cane che vive con noi è parte integrante della famiglia. Dorme con me, giochiamo insieme, ci guardiamo negli occhi e – secondo me – chi soffre nel “non capire” sono io. Perché lui mi capisce benissimo.
Sono convinto di quel che ho scritto nel racconto in cui parlo di lui, sono esseri “migliori” nel loro essere diversi (vedi, perché c’è un racconto sul mio “figlio diverso”?), sono capaci di amore incondizionato e quindi purissimo. I loro calcoli, se pure il loro fosse un amore interessato, sono calcoli basati su istinto e natura, mai su convenienza.

Molto del tuo immaginario in queste storie si regge sulle relazioni che toccano i sentimenti essenziali dell’uomo. Ti offenderesti se qualcuno ti definisse sentimentale?

Ne sarei orgoglioso. È una definizione positiva, che porta con se valori e ricchezza. Anche qui, credo che bisognerebbe essere capaci di rivalutare al positivo etichette come – appunto – “sentimentale” emancipandosi da snobismi e cinismi di facciata.

Io scrivo di sentimenti, le persone vivono di sentimenti. Ci può essere qualcosa di più bello di cui vivere e di cui scrivere?

Altri personaggi delle tue storie sono i bambini, bambini in difficoltà, a rischio in questa vita, oppure chiusi nel loro autismo, come in Dondolo. Sei colpito dalla loro fragilità?

Sono colpito e provo pulsione a proteggere qualsiasi fragilità, dei bambini, degli anziani, dei disabili, degli animali, delle donne violate. Nel caso dei bambini c’è un’ulteriore motivazione, più estesa e sociale di una pulsione emozionale e immediata; i bambini di oggi saranno gli adulti di domani, trascurarli oggi, diseducarli, violarli, produrrà una società peggiore. Mi viene da pensare alla risposta alla prima domanda, se la società è imbarbarita e peggiorata, forse è anche colpa di una diseducazione dei bambini degli anni ’70 e ’80. Forse.

Mi ha molto colpito in un racconto la definizione “uomo di merda” che il padre del protagonista riserva a un personaggio squallido della storia, questa definizione è dovuta alla rabbia del momento oppure secondo te esiste davvero qualcuno che merita in modo assoluto queste parole?

Esiste davvero, esistono davvero. La rabbia del momento è quella che ti fa pronunciare quelle parole e ti fa battere i pugni dalla frustrazione. La lucidità è quella che ti permette – consapevolmente e coscientemente – di riconoscere questi uomini di merda, di evitarli, di controllarli, se possibile di metterli in condizione di non esercitare la loro natura e di non trarne vantaggi. Durante una delle presentazioni mi è stato chiesto “quindi per te la diversità è un valore assoluto?”. La risposta è no; ovviamente, no. Ci sono diversità che sono negative, disvalore, pericolo. Un pedofilo è un diverso che va messo in condizione di non nuocere, come un uomo violento, come un sadico, eccetera.
Uomini di merda, appunto.

Quanto c’è di autobiografico nelle tue storie? O meglio, quanto c’è di inventato? Perché sembri essere forse il protagonista di tutti questi racconti.

Bellissimo complimento, sai? Significa che il mio personalissimo “Metodo Stanislavskij” secondo il quale applico un transfert (naturale e non studiato) tra scrittore e protagonista, funziona bene. Comunque, per essere concreto; ci sono storie che sono di ispirazione “autobiografica” nel loro spunto iniziale; “Il natale di Antonio”, “Uomini di merda” e “Figlio mio”, quest’ultimo in realtà molto più che nell’ispirazione.
Tutte le altre sono pura invenzione e immedesimazione.

C’è pure un racconto erotico (per quanto alla fine si scopre che i due…), c’è stato qualcuno che ti ha guardato in un modo diverso dal solito dopo averlo letto?

A parte mia moglie, dici? No, o almeno io non l’ho notato, anche se immagino che qualcuno debba essere rimasto spiazzato dalle parole che ho usato e dalle scene che ho descritto in quel racconto (per quanto alla fine si scopre che i due…)

E alla fine c’è un racconto con i dialoghi in romanesco anche se fuori contesto visto che gli eroi sono greci… Cos’è per te Roma?

Roma è tante cose ed è tutto. È vita ed è morte, è felicità e sorpresa ed è incazzatura feroce, è frustrazione ed è speranza. È disincanto, cinismo, ironia feroce ma anche romanticismo.
Di questi ultimi, tristissimi tempi, respiro anche un sentimento che nei miei primi cinquantotto anni di vita non avevo mai assorbito; la rassegnazione. A Roma c’era il fatalismo, che significava dire “tanto ha da passa’“; ma il fatalismo è lo scrollare di spalle e il dire “sopravviveremo anche a questi e torneremo grandi”. Adesso noto la resa che si fa trascuratezza, l’abbandono, la perdita della voglia di incazzarsi e combattere. Perfino quella di risolvere tutto con una battuta e una risata, perché alla fine “Sémo romani, ma ‘sticazzi!”
Riguardo al racconto, dopo tredici storie tutto sommato, almeno nelle intenzioni, impegnative, volevo appunto regalare un sorriso e una risata. E come farlo meglio se non, appunto, spruzzando di spirito romanesco un racconto, parodiando quei seriosi dei greci?

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

Marco Proietti Mancini: “Io scrivo sempre di getto e di istinto”

Perché tutto dovrebbe essere migliore: l’intervista con Alessandra Perna

Perché tutto dovrebbe essere migliore: l’intervista con Alessandra Perna

Tutto dovrebbe essere migliore” è il titolo con cui Alessandra Perna debutta con Miraggi Edizioni nella collana Golem. Trentatré racconti che farebbero pensare alla musica: Alessandra scriveva i testi, suonava il basso e cantava con i Luminal, “un gruppo art-punk, se fossimo stati negli Usa”, osserva lei. Trentatré come un 33 giri, per chi ormai ha una certa età. Ma è niente di tutto questo: “È assolutamente casuale, avrebbero dovuto essere 30 poi sono diventati 33. Ma è invece vero come io sia personalmente appassionata di numeri, mi piace ragionarci sopra. Mi è capitato l’altro giorno col numero 2, io sono nata il 2 febbraio. Metti insieme il caso, la fortuna, alla fine vedi che certe cose corrispondono, che si arriva a una vaga idea della realtà”.

Perché ha scelto i racconti?
“Perché è sempre stata la forma che ho utilizzato. Mi piacciono la sintesi, la brevità: scrivevo e scrivo canzoni. Il racconto mi fa esprimere bene quanto voglio dire. Pensavo a una storia, la immaginavo dall’inizio alla fine. E tutto si compie. Questa con Miraggi è la mia seconda raccolta, la prima è uscita con un altro editore e si chiamava “Non farti fregare di nuovo”. Ho impiegato anni per completarla perché volevo imparare a scrivere, e a scrivere bene. Per questo ho letto tutto il possibile. “Tutto dovrebbe essere migliore” è invece nato e scritto nel giro di un anno perché avevo deciso di chiudere con i racconti. Sto provando con il romanzo e penso di essere sulla buona strada”.

E perché questo titolo?
“C’è un filo conduttore, con un doppio motivo. Il primo: ho passato l’ultimo anno e mezzo alle prese con una brutta malattia psichiatrica. Io di solito sono molto forte, ho sempre fatto quello che volevo. Questa malattia mi ha spezzato le gambe, per la prima volta nella mia vita ho avuto paura. Passavo il tempo a domandarmi: “Che cosa sono diventata?” E sempre mi ripetevo: “Tutto dovrebbe essere migliore”, per tornare a rimettermi in carreggiata. Il secondo motivo è invece legato all’interazione con le persone, soprattutto con gli sconosciuti: quelli che incontri sui mezzi pubblici, che incroci in un locale o per strada. Ti capita di parlargli, ti dicono delle cose, anche senza un perché. Ecco per curarmi, oltre ai farmaci, mi sono fatta ispirare da queste persone”.

Nei racconti ritornano spesso la quotidianità e la fragilità.
“Sono l’una legata all’altra. In questo paese è difficile essere “diversi”. Anche dire semplicemente che suoni oppure scrivi. Manca una sensibilità nei confronti di quelli che vengono concepiti come comportamenti non comuni, manca a cominciare dai tuoi coetanei. Non rientri nelle caratteristiche che vengono codificate dalla società, negli stereotipi. Per quello che facevo ero considerata la pecora nera della famiglia: “Sì, scrivi, ma poi trovati in lavoro serio…”. Mi sentivo attaccata anche in maniera violenta. Era come trovarsi in film di Monicelli: dietro l’apparenza, dietro la patina piccolo borghese c’era altro. Mi sono difesa con l’arte”.

E il libro ne è stata una conseguenza.
“Rispondo con una frase che mi piace molto: “Ci sono persone che vincono, ci sono persone che perdono e ci sono persone che resistono, dei combattenti”. Io mi sento una combattente. Dopo quello che ho passato pensavo di non essere più capace a fare niente. Pubblicare un libro ti dà invece fiducia, capisci di saper ancora combinare qualcosa. Un anno fa ero chiusa in casa con pensieri catastrofici, oggi è tutto diverso. In positivo. Non che vada tutto va bene, ma ci stiamo lavorando…”.

Quale racconto sente più vicino?
“Quello ispirato a una persona che amo molto e che sintetizza il mio ultimo anno. Parla di una coppia che vive in un appartamento, lui esce tutte le notti e lei non sa perché, fino a quando l’uomo non le dice: “La prosa non è un urlo ma disciplina”. E spiega che tutte le notti si siede su una panchina, fissando una finestra a caso. Quando uno accende la luce, lui si sente pronto a scrivere: “Impari cosa sia la pazienza”, le dice. Ed esce. La donna accende la luce, va sul balcone e vede che lui è lì fuori, che la sta osservando”.

Ed è quello che le è capitato?
“Scrivere è un’azione solitaria ma quando qualcuno ti dà fiducia le cose migliorano. È il senso di una citazione di Stephen King. Mi sentivo sola, questa persona ha sempre creduto in me anche quando stavo male: è diventata la mia fonte di ispirazione personale”.