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Mona – recensione di Erminio Fischetti su Mangialibri

Mona – recensione di Erminio Fischetti su Mangialibri

A volte non abbiamo bisogno che di parlare con qualcuno, soprattutto per essere ascoltati. Mona ha bisogno di parlare: è stanca, spossata, stremata, il lavoro e la guerra la abbattono, ogni giorno di più, ma lei resiste. E così parla con Mun. Mun è il nome del bue che porta al pascolo. O perlomeno Mun è il nome che Mona dà al bue quando, portandolo al pascolo, gli parla. Mun le vuole bene, si vede, o perlomeno è Mona a cui sembra di vedere ciò, che si sforza di capire i discorsi che lei gli fa, anche quando sono troppo impegnativi per lui, che è solo un povero bue, e le è così affezionato che quando lo vendono non vuole che nessun’altra persona al mondo lo conduca fuori dalla stalla se non Mona stessa. Mun è un bel ricordo per Mona, che ogni tanto si estrania da tutto ciò che la circonda e torna a parlare con Mun, a confidarsi con lui, anche se gli argomenti spesso sono inquieti come la sua anima. Mona, infatti, non ha tempo per riposarsi un attimo, intorno a lei brulica la frenesia di un ospedale in tempo di guerra, dove si urla per salvare vite o per il dolore: adesso, per esempio, Mona è da sola in mezzo agli strilli. Il medico di turno ha avuto una giornata impegnativa al fronte, non vuole svegliarlo (sì, è distrutto tanto da riuscire nonostante tutto a dormire), può cavarsela benissimo con le sue forze. La sua esperienza è tale che saprà certamente dare una mano a quel povero ragazzo amputato e disperato: legge il nome sulla targhetta del letto, Adam…

Lei ha scritto moltissimo, e con ogni probabilità, quantomeno è quello che tutti i suoi lettori certamente si augurano, continuerà a farlo, ma soprattutto hanno scritto moltissimo su di lei, in quanto è non solo fra le autrici più interessanti, originali, anche se dalla prosa ricca di riferimenti artistici e filmici, oltre che letterari, liriche, intense e particolari, ma anche fra le più premiate della Repubblica Ceca, nazione dalla tradizione letteraria di tutto rispetto, centrale per quel che concerne la cultura mitteleuropea ponte fra l’esperienza occidentale e i paesi che vivono ancora i retaggi della lunga appartenenza al grappolo di stati satelliti sovietici: Il lago è la sua opera certamente più nota, tradotta in molte lingue, ma Mona segna un punto di svolta nella produzione di Bianca Bellová. Si tratta infatti non solo di una riuscita allegoria del potere salvifico della parola, capace di valicare ogni ostacolo, ma è anche una riflessione sentita, composta, profonda e potente sull’abiezione della guerra, la violenza della dittatura, la fragilità dei rapporti umani, le conseguenze che ogni azione determina nella vita di ogni singolo individuo che la compie o la subisce e della collettività alla quale egli appartiene, la cognizione del dolore, il senso di straniamento che dà la sofferenza, la speranza generata dall’amore, in questo caso quello fra l’infermiera di un ospedale devastato da un conflitto e il soldato, adolescente o poco più, che arriva, col suo carico di paura e d’impudenza dovuta all’età acerba, gravemente ferito dal fronte.

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L’anno del gallo – recensione di Martina Mecco su Andergraund

L’anno del gallo – recensione di Martina Mecco su Andergraund

Fare i conti con la disillusione. “L’anno del gallo” di Tereza Boučková

L’anno del gallo (Rok kohouta) è l’ultimo libro edito da Miraggi Edizioni all’interno della collana NováVlna, interamente dedicata alla letteratura ceca. L’autrice, Tereza Boučková, era già stata presentata al pubblico italiano nel 2018 con La corsa indiana (Indiánský běh), sempre pubblicato dalla medesima casa editrice nella traduzione di Laura Angeloni.

Tereza Boučková (1957-) è una delle protagoniste della scena letteraria ceca contemporanea. Figlia del dissidente e chartista Pavel Kohout, firma Charta 77 non appena conclusi gli studi liceali. Questa sua scelta le creerà non pochi problemi, soprattutto in ambito lavorativo, dove si troverà costretta a fare i lavori più disparati, dalla postina alla donna delle pulizie. Nonostante le difficoltà causate dagli anni della Normalizzazione, Boučková è riuscita a ritagliarsi il suo spazio non solo nell’ambito letterario, ma anche in quello della pubblicistica e del cinema.

L’anno del gallo può essere considerato come l’ideale continuazione de La corsa indiana (su Andergraund Rivista è stato pubblicato un articolo dedicato al romanzo nel terzo numero di maggio), romanzo in cui l’autrice affronta temi quali la questione famigliare, la difficoltà della vita negli anni della Normalizzazione e la questione della maternità, protagonista è infatti un io narrante che cerca disperatamente di avere figli. L’opera, inoltre, è profondamente critica nei confronti di personaggi dell’epoca, quale il padre Pavel Kohout e il futuro presidente della Cecoslovacchia Václav Havel, che compaiono con gli pseudonimi di “Indiano” e “Monologo”. Anche L’anno del gallo cela, sin dal titolo, una critica nei confronti del padre, giocando sull’ambivalenza del termine “kohout”, che in ceco significa appunto “gallo”.

“Mi è capitato in mano un grazioso libricino. Oroscopi cinesi. Sulla copertina è scritto in lettere maiuscole:

KOHOUT

Il gallo, sotto il cui segno sono nata io, è… E ora tenetemi forte, tenetemi perché salto in aria! Gli anni nel segno del gallo si ripetono periodicamente, ma ci sono varie sottospecie di galli, che si alternano ogni sessant’anni.” (p. 139)

All’interno del testo non mancano di certo riferimenti alle condizioni di vita ai tempi della Normalizzazione, ricordando ad esempio un incontro con le “donne della Charta” (il documentario, girato nel 2007, si può recuperare in lingua ceca qui: https://www.ceskatelevize.cz/porady/10114412382-zeny-charty-77/), ovvero la maggior parte di coloro che avevano dato sostegno ai loro uomini durante gli anni del dissenso. Il ruolo delle donne, nonostante questo non venga enfatizzato abbastanza da coloro che si occupano di questo specifico periodo, fu determinante su molti fronti, basti pensare all’importanza della moglie di Havel, Olga Havlová, durante gli anni della prigionia del marito. Proprio in questo frangente viene ricordato come il romanzo forse più famoso di Kohout, Katyně (“La carnefice”, pubblicato da Editori Riuniti nel 1980), fosse stato battuto a macchina da Drahomíra Šinoglová. Gli anni in cui è ambientato L’anno del gallo si situano in un arco di tempo distante rispetto a quello de La corsa indiana, ovvero a partire dal 2005. Tutto il romanzo è narrato, come il precedente, in prima persona e si incontrano numerosi elementi che si possono ricondurre alla vita dell’autrice. Boučková riesce in modo magistrale a indagare la complessa dimensione dell’interiorità, sviscerandone gli strati per comprendere l’origine della sofferenza e del dolore. Il piano su cui questa ricerca viene portata avanti è duplice, da un lato si ha la dimensione intima della famiglia, dall’altro, invece, quella pubblica dell’ambito lavorativo a cui si lega il ruolo di intellettuale della protagonista impiegata nella stesura di sceneggiature cinematografiche. Le sensazioni dell’io narrante vengono esternate senza alcun filtro che le mitighi, in tutta la loro profondità:

“Ieri finalmente ho fatto una fuga, sono andata a fare una passeggiata a Praga, ho parlato con la gente, ho riso, ma non è servito ad allontanare il mio senso di solitudine. Ce l’ho dentro, non mi lascia via di scampo. L’antidepressivo non ha ancora fatto effetto. Sono una donna inutile. Mi do fastidio da sola. […] A volte verrei mi venisse un cancro. Lo so che è una bestemmia. Ma magari accenderebbe il motore che un tempo mi aiutava a superare le crisi. Avrei un motivo vero per lamentarmi e forse ritroverei la forza di combattere.” (p. 73)

La situazione famigliare in cui vive la protagonista è tutt’altro che semplice. Nonostante sia riuscita a soddisfare il suo bisogno più grande, quello di avere dei figli (elemento centrale in La corsa indiana), questi mostrano dei problemi comportamentali spesso complessi da gestire. Il più grande, Patrik, se ne è andato di casa finendo in condizioni di vita precarie nella capitale. Lukáš, invece, è affetto da difficoltà nel controllare la rabbia e da disturbi da cleptomane, ragione per cui i genitori devono sempre mettere sottochiave i loro averi. Il più giovane, Matěj, è l’unico dei tre a non essere stato adottato e nel corso nel romanzo arriva anch’egli a scontrarsi con la madre. A complicare la situazione è anche il marito Marek, appassionato di ciclismo e spesso fuori casa per lavoro, non sembra rendersi conto davvero della situazione che alleggia in famiglia, reagendo molto spesso dando sfogo alla sua rabbia. Lo stesso rapporto col marito sembra vacillare a più riprese nel corso del romanzo, la stessa protagonista arriva addirittura a farsi domande sull’effettivo valore della loro unione matrimoniale. L’atmosfera che si respira in famiglia può essere riassunta con le parole stesse dell’autrice: Grido alla casa intera, al nostro nido ormai trasformato in trappola” (p.213). Tutto questo sovrapporsi di problematiche, che viene mostrato da vicino attraverso gli occhi e le sensazioni della voce narrante, genera una condizione di sofferenza e, soprattutto, solitudine. Difatti, ad essere lamentata a più riprese è l’impossibilità di essere compresi o ascoltati. Il dolore si genera e si consuma nella protagonista senza che questa riesca a trovare alcun tipo di conforto duraturo. Boučková costruisce, così, un grande collage di disillusioni che rappresenta la vita stessa.

Nejradši jsem tam, kde zrovna nejsem - kulturní magazín Uni

Accanto a questa linea narrativa si sviluppa quella che riguarda la questione legata alla stesura della sceneggiatura. La protagonista è una scrittrice di sceneggiature e libri, questo lo si capisce in modo esplicito quando un uomo sul tram si complimenta con lei per le sue opere. Ad avvalorare il fatto che nella protagonista ci sia molto dell’autrice non bisogna dimenticare che Boučková ha realizzato anche sceneggiature per il cinema, quella di Smradi (“Canaglie”, film del 2002 diretto da Zdeněk Tyc) e Zemský ráj to na pohled (“Paradiso terrestre a prima vista”, film del 2008 diretto da Irena Pavlásková). Entrambi compaiono all’interno de L’anno del gallo, sebbene non siano gli unici film a essere nominati. Difatti, tutto il romanzo è caratterizzato da una forte componente intertestuale: sono moltissimi i riferimenti che compaiono, sia di carattere letterario (come il caso dello scrittore slovacco Rudolf Sloboda) che cinematografico. Non vi sono solo rimandi al cinema ceco come nel caso di Evald Schorm, una delle stelle della Nová Vlna, ma compaiono anche riferimenti a registi di fama internazionale, ad esempio Federico Fellini:

“Uscendo dall’ufficio della caporedattrice sono andata alla proiezione mattutina del film di Fellini ‘La dolce vita’. […] Fosse per me l’avrei accorciato. Già, sono talmente sfrontata che avrei accorciato Fellini. […] Per il resto magnifico. Soprattutto la storia nella storia, che parla di un intellettuale amico del protagonista. Al contrario di quest’ultimo, dissennato e superficiale, il suo amico è a prima vista un uomo equilibrato, arguto, profondo, onesto. […] E forse proprio la sua vita piena di sicurezza, armonia, ordine, tranquillità e pace, tutto secondo i piani e senza imprevisti, lo spinge infine a fare del male a se stesso e ai suoi figli.” (p.149)

Il personaggio ricordato, nonché successivamente aspramente criticato, da Boučková è quello di Steiner. Fellini viene citato anche in riferimento al suo libro Fare un film. Difatti, una delle difficoltà della protagonista è proprio quella che ha a che fare con la dimensione creativa. Spesso lamenta l’impossibilità di scrivere, la difficoltà nel trovare un qualche tipo di ispirazione per il soggetto della sua sceneggiatura. A questo concorrono anche altri problemi legati al trovare un regista adatto che non ne limiti le scelte.

In conclusione, L’anno del gallo di Tereza Boučková è un romanzo che, sebbene si presenti come il racconto di vicende personali, mostra una profondità di indagine e una ricchezza di riferimenti storico-culturali. Ciò che, inoltre, colpisce della prosa dell’autrice è la capacità di narrare in prima persona episodi personali in modo diretto e tangibile. Questa resa reale del quotidiano attraverso la scrittura si realizza anche grazie all’uso di numerosi realia (ad esempio slivovice o la tradizione pasquale della Pomlázka), che sono stati commentati in modo meticoloso dalla traduttrice grazie all’uso di note. Leggere Boučková significa compiere un viaggio negli strati più profondi dell’anima, scavare nei propri dolori e nelle proprie insicurezze, fare i conti con una vita che non è sempre rosea, ma in cui è sempre possibile trovare un modo per continuare. Questa possibilità la si scopre proprio grazie alla forza della prosa di Boučková che, con questo romanzo, si riconferma essere la grande autrice che già si era palesata nel suo primo romanzo, La corsa indiana.

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La perlina sul fondo – recensione di Stefania Medda su Mangialibri

La perlina sul fondo – recensione di Stefania Medda su Mangialibri

L’istruttore smonta dalla Java 250 a doppio manubrio, si accende una sigaretta e guarda il suo allievo in maniera truce. Non ci siamo proprio, pensa, mentre il ragazzo tenta in modo frenetico di mettere in folle la moto: è stato un vero disastro, soprattutto in prossimità degli incroci. Quand’è che si deciderà seriamente a studiare il codice della strada? L’esame è alle porte, e sono ormai nove mesi che frequenta le lezioni. Il pomeriggio, al rientro dal lavoro, sarebbe un buon momento per dedicarsi allo studio, azzarda l’istruttore. Ma tra il pisolino, la lettura di un libro mozzafiato da cui non riesce a staccarsi – Il bruto dottor Quartz e la leggiadra Zanoni, è fortissimo, se vuole glielo porto! – e le uscite con la sua ragazza super accessoriata (che tutti gli invidiano), il giovanotto non avanza neanche un briciolo di tempo. Rimane la notte, ma a quel punto è così carico di adrenalina, che il miglior modo per rilassarsi è accendere la radio: Bing Crosby, Eartha Kitt, Luis Armstrong… musica che graffia il cuore! Ad ogni modo, il ragazzo promette che l’esame verrà superato con successo. Ora tocca ad Hrabal: lui è un uomo attempato, già pratico di moto, suo padre le ha guidate per una vita intera. Viscosità, compressione, pistoni, camera a scoppio. Hrabal sa tutto, ma l’istruttore, sebbene compiaciuto, lo mette in guardia: “Si accorgerà presto che gli zucconi, completamente a digiuno di teoria, guidano da dio, mentre lei prima o poi farà una bella caduta”… Quasi mezzanotte. All’acciaieria, dopo aver predisposto tutto per il sistema di colata, Kudla, Jenda e il caposquadra si concedono una pausa. Jenda si appresta a mangiare le sue fette di pane imburrato, e Kudla, tolti dalla sua borsa forbici e macchinetta, è pronto a tagliare i capelli al caposquadra. Accomodatosi su una cassa di cromo vuota, l’uomo si raccomanda: niente taglio drastico, che poi rischia di sentire freddo in testa. Kudla opta per un taglio all’americana, più corto ai lati, mentre Jenda asserisce a gran voce che mai nessuno toccherà i suoi capelli tranne Theodor Olivieri, il francese che lavora al “Parrucchiere dei giovani”. Quello sì che è un grande: un vero maestro, un uomo elegante, e che fa esattamente ciò che gli viene richiesto. Nel raccontare Jenda si toglie il berretto e china la testa, così da mostrare le morbide onde fattegli da Olivieri. Non l’avesse mai fatto: Kudla ne approfitta per soffiare via dal rasoio i capelli del caposquadra, che finiscono dritti a farcire il pane di Jenda. Panino che tra l’altro, si è riempito di polvere poco prima, quando Kudla, togliendo da sotto il sedere la cassetta a Jenda, lo ha fatto ruzzolare a terra. Per Jenda va così, ormai è abituato ad essere lo zimbello: ridono sul suo modo di approcciare le donne, sul suo piedino piccolissimo, sui suoi capelli da fraticello. E quando qualcuno in acciaieria urla, Jenda è sempre convinto che ce l’abbiano con lui… Il ragazzo entra in birreria e ordina trenta sigarette e una birra. Nessuno sa chi è: è un bel giovane, indossa un maglione di lana pesante, di quelli fatti ai ferri; al collo ha annodato un fazzoletto rosso e la sua chioma corvina splende. Da quando è entrato è chino su un libro, niente lo distoglie dalle pagine, nemmeno il chiasso degli avventori esaltati, che sostano al locale prima di dirigersi allo stadio a vedere la partita. Lo guardano tutti con disprezzo, convinti che stia leggendo un libro pornografico o qualche storia sanguinaria. Che gioventù, eh? Intanto il volto del giovane assorto passa invariabilmente dalle lacrime alle risa. Qualcuno gli dà pure della femminuccia, ma il giovane non se ne cura, non interrompe la lettura nemmeno quando va in bagno…

Ironica, grottesca, vivace, anticonformista: la narrativa di Bohumil Harabal (Brno 1914 – Praga 1997) è spiazzante, e difficilmente confinabile in un preciso canone letterario. Sproloqui da taverna che dicono tutto e il contrario di tutto, monologhi sfiancanti che apparentemente non portano da nessuna parte, ma che danno vita a storielle esilaranti; è interessante vedere come racconti banali sul calcio, il sesso o i motori riescano a raggiungere una dimensione quasi epica attraverso le bocche di personaggi stralunati. Sono i pábitel: i cosiddetti sbruffoni, gli straparloni tanto cari ad Hrabal, protagonisti indiscussi di tutte le sue opere. “Quando non scrivo, è allora che scrivo di più. Quando passeggio, quando cammino, quando faccio un monologo interiore, quando assorbo non solo quello che sento e che è interessante ma anche ciò che matura dentro di me… E allora di nuovo esco e vado in giro per le birrerie, è solo nella taverna che i discorsi si muovono”. Assiduo frequentatore delle taverne praghesi, uomo dai mille mestieri – “Ho escogitato per me stesso la teoria del destino artificiale, mi sono andato a cacciare lì dove non avrei mai voluto essere. Io, timido, offrivo assicurazioni sulla vita, vendevo cosmetici, lavoravo nelle miniere, e continuavo a scrivere e scrivere” – Hrabal si è nutrito della vita vera e della creatività della gente comune, riportando sulla carta il linguaggio della strada, fatto di slang ed espressioni dialettali. “Ho reso umani i pettegolezzi da ballatoio e il vituperio e l’ingiuria, ho lanciato in situazioni estreme lo splendore dei chiacchieroni e il loro sollazzarsi, che talvolta finisce alla polizia o all’ospedale”. Una scrittura colorita, palpitante, priva di orpelli letterari a lungo riposta nel cassetto, imbrigliata nel grigio conformismo del regime socialista a partire dal 1948 (anno in cui viene bloccata, a spese dell’autore, la pubblicazione delle sue prime poesie) poi liberata con forza prorompente, proprio con La perlina sul fondo, nel 1963, anno in cui la cultura riprende a respirare e le opere di Hrabal cominciano finalmente a circolare alla luce del sole: l’autore ha quasi cinquant’anni, e per quindici di essi ha vissuto, narrativamente parlando, come un clandestino. Fortissime, le reazioni di alcuni lettori di fronte all’originalità delle sue opere: gli hanno dato del maniaco, del pervertito, del maiale, invocando addirittura la forca. Una narrativa osteggiata da più parti, a ben vedere, un successo arrivato in tarda età, ma che non ha impedito a Bohumil Harabal di diventare a pieno titolo uno dei più acclamati scrittori cechi del Novecento. Diverse sue opere sono state trasposte a teatro e al cinema, e gli è stato intitolato persino un asteroide (Hrabal, n°4112). Un consiglio ai lettori: un approccio troppo leggero ai racconti può essere destabilizzante, necessitano di totale concentrazione per essere davvero apprezzati. Infine, da leggere anche le preziose note al testo della traduttrice, Laura Angeloni, e l’accurata postfazione di Alessandro Catalano, curatore della raccolta: l’esperienza sarà completa.

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Bianca Bellová intervistata da Martina Mecco su EST/RANEI

Bianca Bellová intervistata da Martina Mecco su EST/RANEI

La costruzione dell’identità come continua ricerca. Intervista a Bianca Bellová, autrice de “Il lago”

Nami suda. Si aggrappa alla mano grassoccia della nonna. Le onde del lago sbattono a ritmo regolare contro il molo di cemento. Dalla spiaggia del paese arriva un grido, uno strutto piuttosto. Dev’essere domenica, se sta lì sulla coperta col nonno e la nonna.

Così inizia il romanzo Il lago. Bianca Bellová (1970 -) è una delle autrici ceche contemporanee più conosciute all’interno del panorama internazionale. La sua attività di scrittrice inizia nel 2009 con la pubblicazione di Sentimentální román (“Romanzo sentimentale”), a cui segue nel 2011 Mrtvý muž (“L’uomo morto”) e nel 2013 Celý den se nic nestane (“Non succede nulla tutto il giorno”). Il 2016 è l’anno di Jezero (“Il lago”), mentre nel 2019 è stato pubblicato Mona. Quest’anno è stata pubblicata la raccolta di racconti Tyhle fragmenty (“Questi frammenti”).

In italiano sono state pubblicate dalla casa editrice Miraggi Edizioni le opere Il lago e Mona. Il romanzo Il lago ha ricevuto il premo Magnesia Litera come Kniha roku (“Libro dell’anno”) nel 2017 ed è stato tradotto in numerose lingue straniere. Sempre nello stesso anno, il romanzo ha vinto anche il Premio Unione Europea per la Letteratura. Nel 2018, in occasione di un’intervista realizzata da iLitera.cz, le è stato chiesto perché il romanzo abbia un carattere così universale e se la fortuna internazionale che ha avuto fosse dovuta al fatto che avesse appunto vinto il Magnesia Litera. L’autrice ha risposto:

Questo lo deve chiedere ai lettori e agli editori. Secondo me “Il lago” ha una narrazione classica, l’eroe deve intraprendere un viaggio per scoprire qualcosa su se stesso e infine tornare da dove è venuto, in realtà, è completamente banale, senza alcun esperimento o introspezione profonda. Mi ha anche aiutato il Premio dell’Unione europea per la letteratura, che supporta le traduzioni in altre lingue europee. Ma forse il lavoro più importante è svolto dai boemisti all’estero: sta a loro raccomandare agli editori locali quello che gli piace. E ho incontrato molti traduttori davvero sensazionali.

La forza di un romanzo come Il lago risiede nella sua universalità. Questo carattere si evidenza nel modo in cui sono fornite le coordinate spazio-temporali in cui si svolge l’azione, che in realtà non esistono. Nonostante vengano indicate località differenti, queste si rivelano essere meri riferimenti fittizi. Boros, la cittadina in cui Nami trascorre l’infanzia, non compare su nessuna cartina geografica. Inoltre, non viene mai contestualizzato il periodo in cui la narrazione si dispiega. Nonostante si rimarchi più volte il fatto i territori siano occupati dai russi, nulla vieta al lettore di contestualizzare la vicenda nella contemporaneità. Le poche indicazioni date dal narratore, voce esterna e onnisciente, sfumano per lasciare spazio alla fantasia di chi si approccia alla lettura del romanzo. L’elemento centrale risiede nei moniti di cui l’autrice lancia al lettore. Primo tra tutti, la forte componente di ecocritica. Il lago, infatti, rappresenta un simbolo dello scontro dell’uomo con la natura, argomento quanto mai attuale. Le immagini in cui viene descritto sono spesso molto crude e suggestive: “Il cielo sopra il lago è ora pesante come il piombo, nuvole possenti coprono l’interno orizzonte come un vecchio uomo grasso la fresca sposa, la prima notte di nozze.”  Le tragiche conseguenze dell’azione dell’uomo sulla natura vengono interpretate dalla gente del villaggio come una vendetta del lago, che viene personificato. Secondo un principio di carattere ancestrale, è lo Spirito del Lago a regolare le vite degli abitanti di Boros. Lo Spirito mette il broncio, si arrabbia, maledice. Ogni vivente origina dal lago e vi ritorna nel momento della morte. Quella ritratta da Bellová è una natura matrigna, che l’uomo può controllare solo apparentemente. A questo si lega anche il tema della malattia. Ad essere raffigurata è infatti una natura malata che riflette la sua condizione in chi vive a contatto con essa, da fonte di approvvigionamento dato dalla pesca degli storioni il lago diventa fonte di malattia. La natura reagisce con la stessa ferocia con cui viene attaccata da un’umanità che ormai perso l’originaria comunione con essa.

Il romanzo si sviluppa attorno al suo personaggio principale, accompagnandolo nella sua evoluzione dall’età infantile a quella adulta, costruendo così una sorta di Bildungsroman, che però non ha niente a che fare con il classico concetto di Bildung. La storia di Nami è piuttosto un collage di continue disgrazie, di ostacoli che è continuamente costretto ad affrontare per riuscire a sopravvivere. A rispecchiare la progressiva evoluzione del protagonista concorre anche la struttura stessa del romanzo, divisa in quattro capitoli: UovoLarvaCrisalide e Imago. Paradossalmente, però, questo movimento di progressione, di tende a qualcos’altro, è in realtà un ritorno a un’origine che, per quanto famigliare, è sconosciuta. Nami, abituato a vivere in un’atmosfera equilibrata tra il fare burbero del nonno e la figura per lui dolce della nonna, ignora totalmente chi siano i suoi genitori e inizialmente nega addirittura di avere una madre:

“Il fatto è che tua madre se li è scopati tutti.”
“Non ce l’ho una madre, deficiente.”

Il linguaggio di Bellová è spesso diretto, limpido, non mitiga la brutalità con cui un evento si manifesta. Inseguito al trauma della morte dei nonni si disgrega l’idillio dell’infanzia di Nami, la casa dove è cresciuto smette di essere un luogo sicuro e diventa estraneo. Proprio in questo momento si fa impellente il bisogno di attraversare il lago, di giungere nell’altra sponda dove si trova la capitale e dove, forse, trovare delle risposte. Il sociologo Zygmunt Bauman sostiene che il concetto stesso di identità nasce dalla crisi dell’appartenenza. Proprio nel mettere in discussione riferimenti da sempre considerati certi si innesta nel protagonista de Il lago il processo della ri-scoperta del se. La vicenda narrata da Bellová è il tentativo di rispondere alla domanda “Kdo jsem?”. La complessa questione dell’identità si concretizza inizialmente in Nami nella ricerca della madre, una figura fantasma, che alleggia sfumata all’interno del ricordo. Immerso nella capitale, si fa così strada all’interno di un nuovo molto che lo mette continuamente alla prova. Questa ricerca, che pare a tratti insensata allo stesso Nami, nasconde invece un significato molto più profondo ed elude dal fatto che l’esistenza della donna che sta cercano è reale quanto quella dello Spirito del Lago. A spronare Nami è la speranza, mista a una sicurezza che alleggia nel profondo. Nonostante il ricongiungimento con la figura materna avvenga, non si rivelerà essere l’atto risolutivo. La riscoperta del sé è possibile solo attraverso un ritorno, è necessario volgere lo sguardo indietro e attraversare ancora una volta il lago: il romanzo è un cerchio che si chiude, tutto ritorna nel lago, cuore pulsante della narrazione.

Intervista a Bianca Bellová

Di seguito riportiamo l’intervista all’autrice, con la quale si è discusso di alcuni aspetti de Il lago e dei legami che questo presenta con l’altro suo romanzo pubblicato in Italia, Mona.

D: Una volta ha detto che Jezero presenta una “narrazione classica”, ma dal punto di vista strutturale è al contempo davvero interessante. Il lettore non ha riferimenti temporali e Boros è solo un luogo fittizio. Il focus della narrazione è incentrato sull’evoluzione dell’eroe Nami e il lettore deve immaginarsi tutto il resto. Quanto è importante il ruolo del lettore nei suoi libri e perché si ha questa assenza di coordinate?

Bellová: Ottima osservazione. Io scrivo per un lettore che durante la lettura sia disposto a collaborare e investire in essa alcune delle sue sensazioni e la propria fantasia. Dipende da lui, come proietterà la sua storia, come le darà scenari concreti e colori. Il lettore a cui piacciono le cose dette alla lettera e le spiegazioni, rimarrà deluso dai miei testi. Mi interessa l’universalità delle storie, i dettagli non sono essenziali.

D: Nel romanzo Il lago la domanda fondamentale dell’eroe è “Chi sono?”. Nami cerca continuamente la propria identità e, secondo me, questo tema ha un carattere fortemente universale. Lei ha la sensazione che la perdita dell’identità sia un problema della società contemporanea?

B: Sì, viviamo in un’epoca di perdita dell’identità. Siamo lacerati dal conflitto tra l’ancoraggio dell’individuo nella società, che per secolo gli è stato dato dalle istituzioni tradizionali come la famiglia, la nazione o la religione, e qualcosa di nuovo, di diverso, più bello, più veloce, che deve sostituire quei valori. Questi sono dilemmi davvero difficili, dobbiamo scegliere il meglio da entrambi i mondi, ma a questo nessuno ci darà la soluzione giusta.

D: Nel libro Jezero è fondamentale l’immagine dell’acqua, che è un simbolo molto importante. L’ha ispirata qualcosa? Da qualche parte ho letto che avete trovato un reportage sul lago di Aral sulla rivista National Geographic. Nel romanzo esiste anche un legame tra la natura e l’uomo. Quanto profondo è questo legame secondo lei e possiamo parlare, nel romanzo, di ecocritica?

B: Sì, la storia del lago d’Aral era il punto di partenza, l’ho usata come ispirazione, perché era una buona rappresentazione del rapporto tra l’uomo e la natura che lo nutre. La natura può fare a meno dell’uomo, ma l’uomo senza la natura? Certo, è un cliché, ma proprio perché è un cliché, non smette di essere vero.

D: Penso non sia facile stabilire quale sia il genere di un romanzo come Jezero. Come lo definirebbe?

B: Io non credo che questo lo debba in qualche modo definire l’autore. Riguardo a Jezero, ho sentito che è un romanzo distopico, politico, di formazione, ecologico e, infine, femminista. Dipende da cosa ci vede il lettore, anche se alcune interpretazioni mi sembrano davvero un po’ strane. Ma chi sono io per interpretare i miei testi? Questo è un lavoro da critici letterari.

D: In Italia non abbiamo solo la traduzione di Jezero ma anche di Mona. Entrambi i libri sono stati editi dalla casa editrice Miraggi. Si può dire che ci esistono numerosi punti in comune tra Mona Il lago. In entrambi i casi abbiamo un eroe o un’eroina che si trovano a centro della narrazione e anche dei luoghi fittizi. Può parlare un po’ di questo? Vorrei chiederle, se secondo lei esistono questi aspetti comuni e quali sono le differenze principali.

B: E ora è in preparazione una traduzione italiana del mio primo romanzo, Sentimentální román (“Romanzo sentimentale”)! Sia in Miraggi che nella traduzione della fenomenale Laura Angeloni apprezzo molto il fatto di poter lavorare con persone così meravigliose. In effetti, probabilmente tra i traduttori non c’è nessuno, con cui potrei essere così in sintonia come con Laura – è sensibile, attenta, ragiona come me, abbiamo molto in comune – abbiamo la stessa età, abbiamo perfino entrambe tre figli. Ma per rispondere alla tua domanda: sì, Jezero e Mona sono un genere di variazione dello stesso tema, in uno seguiamo la storia di un ragazzo, nell’altro di una ragazza. Entrambi hanno destini di vita difficili, causati da circostanze fuori dal loro controllo, ed entrambi li affrontano come meglio possono. Questo è ciò che entrambi i testi hanno in comune con il mio ultimo romanzo (che non è ancora stato pubblicato) Ostrov (“L’isola”), che si svolge in un luogo fittizio e in un tempo indeterminato. In realtà, si è creata involontariamente una specie di trilogia di “romanzi strani”. Forse ormai dovrei smettere di scrivere.

Noi, chiaramente, ci auguriamo che Bianca Bellová continui a scrivere romanzi e, soprattutto, la ringraziamo per il suo tempo e per aver accettato di rispondere a queste domande!

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I tedeschi – recensione di Angelo Di Liberto su La Repubblica di Palermo

I tedeschi – recensione di Angelo Di Liberto su La Repubblica di Palermo

Viaggio al termine dell’amore in cerca di una verità dolorosa

Gentili lettori, quante volte abbiamo temuto che il corso delle nostre vite quotidiane si interrompesse di colpo per un evento imprevisto? E non mi riferisco alla contingenza sanitaria, ma a una frattura nella propria storia personale. Se perdere qualcuno è una delle esperienze più dolorose, cosa ne è della sottrazione di un’identità? Jakuba Katalpa è una scrittrice ceca di arguto intuito letterario, che ha fatto della geografia della perdita il fulcro di una storia. “Nèmci”, potente metafora di un’assenza, che assurge a emblema di tutto ciò che ci manca. In Italia Miraggi Edizioni ha pubblicato il libro con il titolo “I Tedeschi”, nella traduzione di Alessandro De Vito (che è anche uno dei tre editori Miraggi), e l’ha inserito nella collana NováVlna, che ormai vanta un elenco di scrittori cechi di grande respiro stilistico e ideativo. È proprio la lingua di De Vito che valorizza la parola calibrata e capace di creare chiare immagini conoscitive di Katalpa, premiando il lettore con un ritmo intenso, un effetto domino che costringe a non sottrarsi alla bellezza della storia e del linguaggio.

La vicenda si apre con un funerale a Praga, ma si sviluppa su un dubbio: «È tutta qui la questione, se invitare al funerale anche i parenti tedeschi». La figlia di Konrad, il defunto, è stata abituata dal padre a una strana storia. Durante quasi tutta la vita dell’uomo, a casa della famiglia arrivavano puntualmente dei pacchi pieni di dolciumi e altre cibarie da parte di una signora tedesca di nome Klara Rissmann, madre biologica di Konrad, che aveva affidato il figlio in tenera età a una donna di nome Hedvika, che viveva nella Repubblica Ceca, senza mai più rivederlo. Perché aveva fatto questo? “Scrive di nuovo la troia” diceva di solito con scherno. Parlava di sua madre.

Cercando di svelare il mistero, la figlia di Konrad decide di partire per la Germania, alla volta di Lahnstein, dove abitano ancora due sorelle del padre. Inizia da qui la geografia della perdita, intrecciandosi con gli anni bui della Germania, con la Seconda guerra mondiale e con la condizione delle donne nell’Europa della prima metà del Novecento.

La scrittura di Katalpa è un magnete a cui non ci si può sottrarre, per un bizzarro gioco di scatole cinesi, entro le quali si annidano le ragioni del male e dell’incomprensione. La specularità delle storie dei personaggi con la grande Storia crea un meccanismo ipnotico in grado di svelare la verità che risiede dietro l’identità di ciascuno di noi. “Konrad non hai mai fatto parte della nostra famiglia” mi spiega Gertrude. “Nostra madre gli mandava i pacchetti, questo sì, e non ha mai nascosto la sua esistenza. Ma non ci ha raccontato niente di lui”. Chi è Konrad? Qual è la verità della sua esistenza? Qual è il peso della memoria? Forse ci sono destini votati alla perdita, come fosse una condizione connaturata a quell’essere. E, forse, certi segreti dovrebbero rimanere tali, perché se la verità è un dovere, ciò che ne deriva è una dannazione.

L’Antiquario vi saluta.

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I tedeschi – recensione di Antonello Saiz su Satisfiction

I tedeschi – recensione di Antonello Saiz su Satisfiction

«A volte sognavamo che un giorno la nonna avrebbe ripreso piena coscienza, guarita e con una memoria perfetta, e ci avrebbe raccontato tutto quello che volevamo sapere. Non ci passava neanche per la testa che i suoi segreti li avrebbe voluti preservare, che avrebbe potuto rannicchiarsi intorno a essi, circondarli con le braccia e non lasciarci passare; che non avrebbe voluto condividere. Con un retrogusto amaro, sentivamo che la sua appartenenza dalla nostra famiglia ci desse il diritto di insinuarci nel suo passato.

Jakuba Katalpa, I tedeschi. Una geografia della perdita, traduzione di Alessandro De Vito, Miraggi Edizioni 2021

ultimo nato nella collana di narrativa ceca NováVlna di Miraggi edizioni, curata da Alessandro De Vito, è giunta al dodicesimo titolo con I tedeschi di Jakuba Katalpa, romanzo intriso di tematiche di grande valore sociale e individuale.

Ricordiamolo, NováVlna è la collana di letteratura ceca che prende il nome dalla Nouvelle Vague cinematografica attiva negli anni della Primavera di Praga. Una letteratura portatrice di freschezza e innovazione, spesso dal carattere ironico, grottesco e surreale, sia quando si tratta di opere di autori contemporanei – come in questo caso, visto che l’autrice è nata nel 1979, sia quando recupera testi preziosi ingiustamente dimenticati o mai tradotti.

Il libro di Jakuba Katalpa, che ha esordito nel 2006, è stato pubblicato nel 2012 collezionando diversi importanti premi, come il Premio Josef Škvorecký 2013 e il Premio Libro Ceco dell’Anno 2013, più una nomination al Magnesia Litera 2013 categoria Prosa. Inoltre è stato tradotto in cinque lingue e ora, finalmente, giunge ai lettori forti italiani nella precisa e fluida traduzione di Alessandro De Vito.

L’autrice crea con I tedeschi una indagine privata e familiare che affonda le radici nella storia del nostro Novecento, riuscendo anche nella non facile impresa di essere originale in una materia su cui molto è stato scritto. Interessante il focus sul punto di vista dei “tedeschi ”, fino a quel momento dominatori del mondo e qui ritratti in un momento storico preciso, ovvero quando si ritrovano allo sbando, come individui e come popolo.

Fin dalle prime pagine siamo testimoni della costruzione di una “geografia della perdita”, come recita il sottotitolo. Del resto è il romanzo stesso che si apre con una perdita importante.

Siamo nel 2002 e a Praga muore Konrad, padre di tre ragazzi e di una ragazza che vive in Inghilterra. È lei che diventa la voce narrante di questa epica familiare. Suo fratello Martin vive in California, Pavel in Australia, solo il più piccolo Daniel esercita la professione di medico nella Repubblica Ceca e si è laureato in coincidenza con la morte della madre.

Tutti perdono qualcosa in questo libro e sembrano destinati a perdere altro nella complessa giostra della vita. Ma il dilemma iniziale della giovane protagonista è se avvertire o meno della morte del padre i parenti tedeschi indicati nel titolo. I fratelli vi si oppongono fermamente, al fine di onorare le volontà del padre.

Per loro quei parenti rappresentano l’altro, il diverso, qualcuno con cui non c’è niente da condividere, che non va accolto anzi, verso cui si erige una ulteriore barriera.

Da qui parte un viaggio alla scoperta di una complessa verità. Veniamo a sapere col procedere delle pagine che per anni – a partire dal 1947 e fino alla caduta del muro, nel 1989 – questa famiglia praghese ha ricevuto pacchetti di piccoli doni dall’Ovest. Contenevano dolciumi, cioccolata, confetture in barattoli di lusso e orsetti gommosi. Il loro arrivo era cessato con la caduta della cortina di ferro. A spedirli fino ad allora era stata Klara Kolmann Rissmann. Li mandava al figlio da cui si era separata poco dopo la nascita, alla fine della guerra, quando aveva fatto ritorno in Germania. Prima aveva insegnato alcuni anni nel villaggio di Rzy, vicino a Ticky Brod nel Protettorato dei Sudeti.

Konrad è infatti cresciuto con un’altra donna, Hedvika, che da suo marito Jaroslaw non poteva averne, di figli. Solo con l’approssimarsi di un tumore, nell’età adulta del figlio, gli confessa che quei pacchi erano della vera madre.

La figlia di Konrad, dopo la morte del padre, mentre si occupa dello svuotamento della casa paterna trova delle bretelle per la cura della displasia dell’anca. Da quel preciso momento decide di intraprendere un percorso di ricerca. Dopo il ritrovamento la ragazza va sulle tracce degli sconosciuti parenti tedeschi per scoprire almeno un barlume di verità su quel particolare dramma famigliare. Così facendo arriva, con sua figlia Dorotka, nella casa a due piani di Gertrude, una delle due figlie che Klara ha avute da un architetto sposato nel 1949 a Lahnstein.

Con lei ripercorreremo la vita di Klara, immersa nel flusso spesso tragico della storia tedesca ed europea del Novecento. Scopriremo inoltre che questa signora nata nel 1912 è ancora viva, ma avendo l’Alzheimer è ricoverata in un istituto.

A questo punto, tutto il libro comincia a ruotare intorno alla figura della vera protagonista, Klara, donna ribelle ed emancipata che sceglie di andare a insegnare nei Sudeti, dove è percepita come estranea e nemica

Sempre avvolta nella nuvola di fumo delle sue sigarette, prova a cercare indipendenza in una società maschile e maschilista, dibattendosi tra l’attrazione verso un brutale tassidermista, il disagio e il male di vivere del padre di Konrad, il poetico insegnante Erich Fuch.

È un libro potente e dal ritmo incalzante I tedeschi, composto da nove macrosezioni, ognuna portatrice di un titolo evocativo e suddivisa in tanti piccoli capitoli sui rapporti familiari incrinati e sulle assenze ingiustificate, che diventano perdita e ferita sanguinante. Una perdita legata soprattutto alla maternità. Infatti, siamo in presenza di un romanzo di donne e di madri: Klara, Hedvika, Anna, Franziska, Gertrude, Joanna. Donne buone o cattive, madri mancate o defraudate, a seconda dei punti di vista.

Dunque un romanzo anche sulla memoria, quella che tende a svanire senza rimedio, tra le cose non dette e la cattiva coscienza, ma soprattutto un romanzo storico sugli effetti del nazismo e del declino dei suoi valori in anni di terribili deportazioni. Un libro di grande Storia, che incontra le storie minime dei familiari. Come quella di nonna Anna Mary o dei genitori di Klara, Franziska e Karl o dei nuovi coloni Barbora e Martin Levicka. Una storia di traumi e disagi che investono i personaggi maschili: Melman, Fuch, Malke.

Attraverso lo spessore e l’analisi di ogni singolo personaggio si comprende chi è il vero nemico della specie umana.

Sullo sfondo della Grande Storia, che inevitabilmente va a influenzare le storie minime dei singoli e le loro scelte, è il lettore a essere scosso e interrogato sul senso della vita e sul potere della cattiveria umana. La cronaca è ritmata dalla scelta stilistica di un linguaggio pulito, lineare, essenziale, capace di far risaltare potentemente la narrazione storica.

Sulla ragione ignota di un abbandono che fa da innesco alla storia ci si interroga continuamente, tra fenditure temporali e declino, tra disgregazioni familiari e crepe profonde della Storia. Un romanzo complesso intorno a un trauma originario e alla ricerca di possibili spiegazioni e verità, dove spesso nulla è come sembra.

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I tedeschi – recensione di Martina Mecco su Andergraundrivista

I tedeschi – recensione di Martina Mecco su Andergraundrivista

La scrittura come ricerca della verità. “I tedeschi” di Jakuba Katalpa

I tedeschi. Una geografia della perdita (Němci, 2012) è il primo romanzo della scrittrice ceca Jakuba Katalpa ad essere pubblicato in Italia. L’opera è tradotta da Alessandro De Vito ed edita lo scorso febbraio da Miraggi Edizioni come dodicesimo volume della collana NováVlna. Nel 2013 il romanzo è stato insignito del prestigioso Cena Josefa Škvoreckého (Premio Josef Škvorecký) e del Cena Česká kniha (Premio Libro Ceco dell’anno). Jakuba Katalpa è lo pseudonimo utilizzato da Tereza Jandová nelle vesti di autrice, dove “Katalpa” (in italiano Catalpa) è il nome di un albero dalle foglie caduche.

Katalpa è già autrice di altre opere, tra cui la raccolta di racconti Povídka beze jména (“Racconti senza nome”, 2003) o i romanzi Hořké moře (“Mare amaro”, 2006) e Doupě (“La tana”, 2017). L’ultima pubblicazione della scrittrice è invece il romanzo Zuzanin dech (“Il respiro di Zuzana”, 2020). Si segnala, inoltre, l’incontro con l’autrice organizzato dal Centro Ceco di Milano, che si può recuperare al seguente link.

All’interno di uno dei suoi saggi, la studiosa tedesca Aleida Assmann sostiene che il ricordare e il dimenticare risultano strettamente legati perché insieme organizzano i ritmi mutevoli dell’esistenza. Ciò che affiora grazie al ricordo non è altro che la superficie della coscienza, una materia in continuo movimento, tra la riscoperta e il riconoscimento. L’atto del ricordare si materializza quando si dissolve quella distanza temporale che si situa tra il soggetto e l’evento, oppure quando viene superata una condizione priva di consapevolezza. All’interno del romanzo di Jakuba Katalpa il recupero del passato è alimentato da entrambi questi aspetti. Innanzitutto, occorre chiedersi quale sia il passato che viene rievocato, sebbene sia meglio parlare di diverse manifestazioni di quest’ultimo. Infatti, la prosa di Katalpa è rappresentata da un continuo intersecarsi di due dimensioni: quella intima, legata al contesto famigliare, e quella di un passato che si identifica con la Storia stessa.

La narrazione ha inizio con la morte di Konrad, che riporta sua figlia e due dei suoi tre figli a rincontrarsi a Praga. Tutti a parte uno hanno già da tempo lasciato il paese e per la figlia il ritorno nella città d’origine rappresenta un’occasione inaspettata di indagare sulla vera origine della propria famiglia. Il ricordo dei dolciumi che ogni anno giungevano per posta dalla Germania e il ritrovamento delle bretelle sono i due aspetti che mettono in moto questa sua necessità e fanno scattare in lei il dubbio sulle verità che le sono sempre state date per assodate – secondo lo stesso meccanismo che alimenta la verità delle masse. La questione messa in gioco da Katalpa è quella che ruota intorno al problema dell’identità e che si costituisce tanto del presente quanto di un passato di cui, paradossalmente, non si è stati protagonisti diretti e di cui sono rimaste poche tracce effimere. Konrad ha sempre rifiutato ogni contatto con “i tedeschi”, quei parenti che vivono oltreconfine e che per quarant’anni a partire dal ‘47 hanno spedito in dono dei dolciumi.

Con gli anni i pacchetti di nonna Klara sono entrati a far parte delle leggende d’infanzia, e a prova della loro esistenza sono rimasti solo i francobolli tedeschi che i miei fratelli avevano incollato negli album.

La figlia di Konrad, nonostante sia stata educata a non porsi domande su questi “parenti fantasma”, decide di tentare di fare chiarezza su una vicenda che ha un sapore del tutto generazionale. Per riuscire in quella che si rivela essere una vera e propria impresa è necessario per la protagonista, che nel romanzo è curiosamente l’unica ad essere priva di nome nonostante il suo ruolo chiave nella storia, crearsi un percorso fisico all’interno di quello spazio che nel sottotitolo viene definito in termini di “una geografia della perdita”. La chiave di volta di questa riscoperta non solo del passato, ma di una verità raggiungibile solo grazie alla presa in considerazione di più prospettive, è rappresentata proprio dalla nonna Klara, la nonna tedesca che non ha mai conosciuto. Nonostante la figlia di Konrad riesca a ritrovarla, la faccenda viene ulteriormente complicata dal fatto che la donna soffre di Alzheimer, altro emblema che enfatizza il tema della perdita.

La storia procede allora nel tentativo di ripercorrere le tappe della vita di Klara, dall’infanzia passata in una famiglia alto-borghese, al momento del trasferimento a Rzy, il paese che di trova “nel distretto dei Sudeti, quattrocento chilometri a Est di Praga.” Katalpa non sceglie un luogo qualunque per l’ambientazione della vicenda, ma la colloca in un paesino inserito in una zona fondamentale per le questioni che riguardano i rapporti tra cechi e tedeschi nel corso del secolo scorso. Arrivata a Rzy, Klara viene etichettata come “straniera”, oltre a sentirsi lei stessa estraniata osservando quanto accade fuori dalla sua finestra.

Erano tedeschi diversi da quelli che conosceva nel Reich, rapaci e scontenti. La studiavano, valutavano fino a che punto per loro potesse rappresentare un problema, e lei non aveva idea di come convincerti di non essere un pericolo.

Per Klara inizia un vero e proprio processo di integrazione tutt’altro che semplice, in quanto identificata immediatamente come “tedesca del Reich” e automaticamente associata alla figura di Goebbels. Rzy non è solo l’ambientazione del romanzo, ma anche un microcosmo creato dall’autrice stessa, all’interno del quale indagare la questione sociale tout court. Katalpa, infatti, intreccia la storia di Klara con quella degli abitanti del villaggio, analizzandone le inclinazioni psicologiche e, si potrebbe dire, quasi patologiche. La messa a fuoco dei personaggi corrisponde al volerne sottolineare la fragilità, spesso invece celata nella dimensione quotidiana. Attraverso questa messa a nudo vengono proposti temi che si accavallano a complicare una vicenda che, al contrario, è raccontata da Katalpa con una prosa piuttosto tradizionale. Tra questi, il tema della malattia che compare a più riprese nel romanzo e che in Melman si lega alla paura della morte. L’ombra di una fine spinge Melman a liberarsi della sua figura istituzionale e alla necessità di prendere coscienza di sé, mettere in atto un’analisi della propria condizione esistenziale, nonostante tutti i danni che questa potrebbe arrecare. Un altro tema fondamentale è quello della maternità, legato alla dimensione della donna – non a caso, infatti, le figure femminili hanno un ruolo di particolare importanza nel romanzo.

Oltre al riferimento spaziale, non bisogna però dimenticare il ruolo che viene giocato dalla dimensione temporale della narrazione, nella quale si staglia questa costellazione di eventi. A questa ricerca delle radici più intime si connette il tentativo di Katalpa di mettere in discussione degli aspetti che hanno a che fare una memoria di stampo collettivo, riallacciandosi ad eventi del secolo scorso che, per certi versi, rappresentano dei nervi ancora scoperti nella grande narrazione della Storia. L’autrice spinge il lettore a porsi delle domande simili a quelle di Klara, che hanno un respiro nettamente più ampio di quello del singolo personaggio. Katalpa stessa, in occasione dell’intervento che si citava inizialmente, sostiene che esista una necessità impellente di  interrogarsi riguardo ad aspetti che rappresentano ancora una sorta di ferita nella memoria collettiva europea. Le domande che la Storia pone all’individuo hanno molto spesso un carattere profondamente morale, illudendo chi ne fa parte attivamente che quest’ultima sia in qualche modo afferrabile, nonostante non lo sia affatto. La questione della verità e quella della colpa vengono evocati col fine di mettere l’accento sulla loro natura profondamente cangiante, un terreno instabile in cui bisogna cercare di fare chiarezza ponendosi delle domande. L’opera si presenta solo nelle vesti come la storia del recupero del passato di una singola famiglia, per aspirare invece a una dimensione universale. La forza della prosa di un’autrice come Katalpa si rivela chiara già in un romanzo come I tedeschi, dove gli eventi frastagliati in uno spazio che sfugge a qualificazioni si rincorrono e concorrono a creare una nuova immagine della verità, che sembra essere afferrata solo dalla pratica della scrittura.

Mi ha colpita un dolore risalente a quasi sessant’anni fa, e stavolta non è solo il dolore di mio padre, tante volte declamato e sofferto con un certa solennità, è qualcosa di ancora diverso a rodermi dentro, un’incertezza e una pena, scoprire che tra verità e menzogna c’è un confine così labile che lo si può rimuovere con un semplice gesto della mano, con un battito di ciglia.

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https://www.andergraundrivista.com/2021/04/13/in

I tedeschi – recensione su La Casa delle storie

I tedeschi – recensione su La Casa delle storie

Per anni una famiglia praghese riceve dei pacchetti di piccoli doni, dolciumi, orsetti gommosi. Li manda Klara Rissmann, dalla Germania, a suo figlio e alla sua famiglia. Un figlio da cui si è separata poco dopo la nascita, alla fine della guerra, lasciandolo crescere con un’altra donna, che credeva sua madre. La ragione, ignota, di quell’abbandono (volontario o obbligato?), spinge una nipote di Klara, dopo la morte di suo padre, a ricercare le tracce della possibile verità, e delle proprie origini. Alla ricerca della spiegazione di quel trauma originario e di chi sono “i tedeschi”, ripercorriamo tutta la vita di Klara, immersa nel flusso spesso tragico della storia tedesca ed europea del ‘900. Assistiamo così all’incompleta ricostruzione di una “geografia della perdita”, come recita il sottotitolo. Perdita strettamente legata con la maternità – è un romanzo di donne e di madri: buone, cattive, mancate e defraudate – e con la memoria, che svanisce, spesso senza rimedio, tra le cose non dette, e la cattiva coscienza.

Introduzione

Che cosa significa amare?   Ci siamo mai chiesti perché fin dai Greci il binomio del sentimento del cuore si crea con il morire che non solo è il contrasto ma anche il suo prosciugamento? Έρως e θάνατος sono veramente in lotta tra loro o sono uno il proseguimento dell’altro?   Sono elementi interscambiabili in questa giostra che qualcuno ha chiamato vita.  Si sono susseguite varie teorie teologiche e filosofiche sull’amore sulla morte e sulla sua casa che è l’anima e dove la persona si spoglia di ogni orpello per mostrarsi nella sua nuda essenza. Non è forse vero che per amare realmente dobbiamo tutti un po’ morire?  Riusciamo tutti ad amare col sole ma quella è soltanto una subdola finzione perché già appena appare una nube, gli altri mutano il comportamento nei tuoi confronti, sono pronti a sostituirti come un giocattolo vecchio. Eppure c’è sempre qualcuno che resta anche quando la nube si trasforma in temporale, perché ha scelto di combattere con te le intemperie del destino.  Solo nel momento della caduta nel baratro profondo e oscuro quando sembrerà di aver toccato  veramente  il   fondo è in quell’attimo che comprendiamo la vera forza dell’amore sottoforma di luce della rinascita. Si muore anche perché quello che sta battendo non è più il nostro cuore ma quello di una persona nuova che ha abbandonato ogni personale egocentrismo per seguire sentieri inesplorati.  Amare è una scoperta, un affidarsi, un donarsi, un’ammissione di liberta ma è anche un peso e una rinuncia. L’atto del lasciare andare è la forma più alta d’amore. Non dovrebbe mai accadere, eppure ci sono sempre accadimenti e impedimenti che ci spingono verso tale direzione.  Il più triste degli arrivederci che ha il sapore  amaro di un addio. Quando qualcuno cui teniamo muore, abbiamo sempre il rimorso del non detto, quelle parole che ci muoiono in gola tra le lacrime della disperazione.
Per chi resta, non è solo una lotta contro la mancanza ma soprattutto una missione, perché la famiglia è un albero che ha ramificazioni molteplici e complesse. Di tutto questo tratta il romanzo I tedeschi di Jakuba  Katalpa che narra la storia di una giovane donna che non solo deve affrontare i propri dolori ma soprattutto essere per la sua famiglia la custode  della  memoria.

Aneddoti personali

Quando esce un nuovo titolo di Novavlna la mia collana preferita tra quelle di Miraggi, mi emoziono sempre particolarmente. Quando ho visto l’uscita di questo libro, l’ho messo subito in lista. Di lì a qualche giorno i miei amici Stefano e Cinzia, avrebbero presentato alcuni libri di questa sorprendente casa  editrice. Il caro Fabio uno degli editori, ci sorprende mostrandoci in anteprima la copertina. Mi sono detto non è possibile che in pochi giorni questo libro incroci il mio cammino già due volte. Lo porto sul blog perché avevo già captato che potesse avere quel quid in più che vado cercando nelle storie. In seguito sempre Stefano e Cinzia sul canale della libreria di quest’ultima hanno in  qualche  modo raccontato le loro impressioni e ora posso comprendere pienamente perché l’hanno amato così tanto La lettura del romanzo, mi ha piacevolmente devastato facendomi provare emozioni contrastanti. Quando l’ho cominciato, ho pianto, poi ho avuto un attimo di sbandamento durante le annotazioni storiche e qualche digressione che personalmente ho trovato lunga a tratti dispersiva.  Quando l’autrice ha finalmente ripreso la trama principale , è come se avessi ritrovato la via di casa .Devo dire senza remore che questa storia mi è piaciuta tantissimo e ti sorprende con pennellate di autentica poesia anche quando deve narrare la crudeltà umana. Chi legge questo libro ha inevitabilmente un rapporto viscerale con la storia perché I tedeschi non è un romanzo meteora, ti tocca l’anima, si posiziona in un cantuccio del cuore e lo fa per restarci per sempre.

Recensione

Il titolo originale di questo romanzo è Nemci. Questo è il termine ceco per indicare I tedeschi.  La geolocalizzazione è immediata ma non è un caso se la parola ha assonanza con l’italiano nemici. Se al focus narrativo,  diamo  una  connotazione  emotiva.   ci  si  accorge  di  come  il  paragone  sia  perfettamente  calzante . Il libro si apre con un funerale e il dilemma di una giovane donna se informare oppure no i parenti tedeschi della morte del padre. I fratelli della giovane si oppongono fermamente.  Per loro quei parenti rappresentano l’altro, il diverso, qualcuno con cui non c’è niente da condividere, che non va accolto ma anzi verso cui si erige un’ulteriore barriera. L’autrice attraverso ogni personaggio ci fa comprendere che il vero nemico dell’essere umano è se stesso. L’altro è la proiezione contraddittoria della nostra anima, che funge da specchio e per questo ne abbiamo  paura.  La protagonista in quanto custode  della  memoria familiare, compie però il salto nell’ignoto tracciando un impervio e tortuoso sentiero nella geografia della perdita tra le pieghe annichilite del tempo. Chi è realmente Klara  Kollmann- Rissmann? Su  quest’  interrogativo  si   dipana   tutto  il  libro  e  ogni  lettore  ne  fa  un  suo  personale    ritratto in  sospensione  tra  l’assoluzione  e  la  condanna .  Sullo sfondo la Storia che inevitabilmente influenza la microstorie e determina le scelte dei singoli. Il romanzo è suddiviso in nove parti. Il ritmo è incalzante, la scrittura è vivida e nello  stesso  tempo poetica, tutti questi elementi sono perfettamente mantenuti nell’ottima traduzione di Alessandro  De Vito.
La società descritta è ovviamente patriarcale divisa tra dominazione e sottomissione. Nell’analisi socio antropologica svolta dalla Katalpa la bontà è sporadica e la brutalità è pregnante, per rilevare volutamente fin dove si può spingere la cattiveria umana. I tedeschi è un romanzo sull’imperfezione, i personaggi a loro modo sono caratterizzati da corpi deturpati e anime mutilate. La caratterizzazione dei personaggi maschili si sofferma maggiormente sulla carriera politica – amministrativa e la loro virilità ad  eccezione  di Erich  Fuchi, un insegnante che tra pregi e difetti è la nuda rappresentazione del male  di  vivere. Lui non è conforme alla tipologia d’uomo descritta e come i personaggi virgiliani di Didone e Camilla deve pagare il prezzo della diversità arrivando a un comune destino.   Quelli femminili invece nella loro variegata differenziazione hanno una loro uniformità, sono accomunate dalla ribellione e dalla ricerca perenne d’indipendenza e accettazione della propria esistenza da parte  della società che le voleva, relegate al ruolo di moglie e madre.  Questo è un romanzo sulle donne, la vita di Klara s’intreccia con quella di Anna – Marie, Franziska, Anna, Hedvika e Gertrude. Donne che cadono ma si rialzano, rinascendo come fenici pur portando al loro interno cicatrici insanabili. Con loro non solo ripercorriamo pagine di Storia novecentesca ma altresì ci s’interroga sulla maternità e sulle varie forme d’amore. Un’analisi introspettiva che parte dalla carnalità dell’atto procreativo per poi dispiegarsi sulla presenza – assenza dell’amore materno. Tra guerre, dolori, amori, abbandoni, ossessioni e follie un romanzo indimenticabile alla  ricerca  del segreto nascosto nelle caramelle a  forma  di orsetto che racchiudono al loro interno il vento sussurrato del perdono .

Conclusioni

Consiglio questo romanzo a tutti coloro che amano le saghe familiari e sono alla  ricerca  di una storia che in questo periodo faccia  riflettere riscaldando il cuore.

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La teoria della stranezza – recensione su Alias

La teoria della stranezza – recensione su Alias

I suoi sogni si trasformano in brevetti

Praga, giorni nostri, Istituto di Antropologia Interdisciplinare. Ada, ricercatrice, lavora destreggiandosi tra colleghi che si arrovellano intorno ad annose teorie e direttori afflitti da disturbi psicosomatici. Unica, vera amica lì dentro è Valeria, tormentata dalla misteriosa scomparsa del figlio alcuni anni prima. Nella vita privata e nel suo piccolo appartamento, Ada legge, ascolta musica, accetta disimpegnate avventure amorose, ospita il fratello un po’ scapestrato, si prende cura di sé in bagno, dove ha appeso il poster con la fondamentale Scala di Bristol. Saltuariamente va a dormire dall’ex fidanzato, ma a puro scopo di lucro. I sogni di Ada, infatti, sono forieri di idee che possono trasformarsi in marchingegni da brevettare. La decisione di far luce sul mistero del figlio di Valeria coincide con la comparsa di alcuni eventi, tra loro collegati da quella che sembra una legge universale. Ada inizia allora a elaborare la sua «Teoria della Stranezza». Horáková fa della sua protagonista una giovane donna capace di ironia e autoironia, di riflettere in profondità su sé stessa e la città che la circonda, di accettare la resa finale come esempio dei suoi e dei nostri umani limiti. Quattrocento pagine che meritano di essere lette, 24 euro.

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Karel Čapek – focus sull’autore ceco del professore Alessandro Catalano su Modus legendi

Karel Čapek – focus sull’autore ceco del professore Alessandro Catalano su Modus legendi

Karel Čapek e la pandemia letteraria del 1937 come sintomo della catastrofe incombente

“In Cina, caro mio, quasi ogni anno spunta fuori qualche nuova malattia interessante” è la battuta, dal tono vagamente premonitore, pronunciata da un cinico personaggio del testo teatrale Bílá nemoc (La malattia bianca), portato sulle scene a Praga nel 1937 da Karel Čapek (1890-1938). Come in tutte le opere dello scrittore ceco che, tra le altre cose, ha creato il personaggio letterario del robot, il fantastico irrompe nella quotidianità con tutta la sua carica di devastazione, come purtroppo avviene in occasione di ogni pandemia imprevista e sconvolgente. Dopo un sofferto dialogo con pesanti toni da tragedia medievale tra tre appestati, il vanitoso consigliere di corte Sigelius, nel corso di una autoreferenziale intervista propagandistica, spiega a un giornalista la natura della pandemia in corso: la malattia infettiva morbus tschengi (dal nome del medico cinese che l’ha descritta per primo), trasmessa “da un agens ancora ignoto”, contagia le persone con più di 45 anni, si manifesta con l’insorgere di macchie bianche sul corpo e ha già portato alla morte “almeno cinque milioni di persone”. Legata alla cupa atmosfera della fine degli anni Trenta, La malattia bianca rappresenta molto più che la dissoluzione di una società, affrontando il complesso problema del legame tra pandemia e svolta autoritaria. Čapek cerca affannosamente un artificio letterario per combattere la vertiginosa ascesa della dittatura militare in un bellicoso paese limitrofo, ricorrendo a un sofisticato rovesciamento del tema della degenerazione della razza, visto che a venire colpiti dal nuovo morbo sono proprio gli uomini dalla pelle bianca.

Il caso dello scrittore ceco non è certo nuovo e, com’è noto, le epidemie hanno offerto ripetutamente, nella storia recente e più remota, lo spunto per raccontare il crollo delle società e la disperazione individuale di fronte all’improvvisa diffusione di un nemico subdolo e invisibile. Spesso portata dall’esterno da inconsapevoli untori, poi liquidati come capri espiatori, la pandemia si è dimostrata uno strumento letterario potente per disegnare mondi distopici attigui al nostro, senza dover inventare complesse società sviluppatesi dallo sfruttamento di mirabolanti scoperte scientifiche o in conseguenza di incredibili viaggi intergalattici. Spesso metafore di derive ideologiche e sociali, le epidemie sono state sfruttate da scrittori molto diversi tra loro, da Daniel Defoe ad Albert Camus, passando per Edgar Allan Poe, Alessandro Manzoni, Jack London e molti altri. Ma, nelle società occidentali, in tempi recenti le pandemie sono tristemente tornate di attualità anche come fenomeni reali, rendendo nuovamente attuali testi e pellicole di molti anni fa.

Non c’è troppo da meravigliarsi che uno scrittore come Karel Čapek, da sempre legato al tema del difficile rapporto tra scienza e potere, abbia sentito, nel 1937, l’esigenza di scrivere un’opera teatrale in cui l’epidemia si fa metafora delle preoccupanti pulsioni totalitarie della vicina Germania. Sintomatiche delle preoccupazioni di molti intellettuali cechi, dopo l’ascesa di Franco in Spagna e la generale militarizzazione europea, sono anche le illustrazioni, opera del fratello dell’autore, il pittore Josef Čapek, tratte dal ciclo Gli stivali del dittatore, anch’esso del 1937. Nella Malattia bianca il tema della contrapposizione tra dittatura e democrazia si fonde in modo originale con quello della diffusione incontrollata della pandemia e della lotta per il dominio del pianeta per sollevare un profondo e sostanziale interrogativo: è lecito sottoporre i potenti del mondo a un “ricatto pacifista”, negando loro la cura di una malattia spaventosa, a meno che non rinuncino alle guerre?

Gli stivali del dittatore

Va ricordato che Karel Čapek aveva scritto un primo “ciclo” di opere a carattere distopico tra il 1920 e il 1924, in cui scoperte di carattere scientifico-alchemico alteravano l’ordine naturale delle cose, provocando la rovina del mondo. Nella fortunatissima opera teatrale R.U.R. Rossum’s Universal Robots (1920), di recente pubblicata in una nuova traduzione da Marsilio, aveva presagito l’introduzione nel mercato dei robot (in realtà sotto forma di androidi) che avrebbero dovuto affrancare l’uomo dal lavoro, creando un neologismo, in verità coniato dal fratello Josef a partire dalla parola ceca robota (lavoro servile, fatica) destinato a un incredibile successo.Poco dopo i palcoscenici mondiali hanno accolto con favore anche Věc Makropolus(L’affare Makropulos, 1922), messo in scena con grande successo anche in Italia da Luca Ronconi, in cui la scoperta dell’elisir della lunga vita rappresenta in realtà un pretesto per indagare i problemi connessi al desiderio di liberare l’uomo dalla morte. Nello sperimentale romanzo-feulleiton Továrna na absolutno(La fabbrica dell’assoluto, 1922), di cui Voland ha appena proposto una nuova traduzione, protagonisti sono invece degli stupefacenti “carburatori” nucleari che producono come materiale di scarto nientemeno che l’assoluto, la divinità, con il conseguente stravolgimento di ogni valore umano. Questa serie è stata chiusa da Krakatit (Krakatite, 1924), che finalmente Miraggi ha presentato per la prima volta anche ai nostri lettori sanando uno dei maggiori debiti dell’editoria italiana. Quest’ultimo romanzo vede il febbrile protagonista Prokop, scopritore di un devastante esplosivo basato sulla fissione nucleare, alle prese con la concreta opportunità di poter dominare il mondo. Se in tutte queste opere l’unica possibile soluzione al conflitto era la distruzione della scoperta che aveva provocato lo stravolgimento dell’ordine e il conseguente ritorno alla vita “naturale”, molto più cupo sarà il finale del secondo ciclo di opere utopiste della seconda metà degli anni Trenta. Del romanzo 1936 Válka s mloky (La guerra delle salamandre), uno dei testi in assoluto più noti di Čapek, esistono varie edizioni della stessa traduzione italiana, particolarmente preziosa è quella del 1961, arricchita dalle curiose illustrazioni di Tono Zancaro. Il romanzo riprende in una nuova forma sperimentale la formula dei robot, dando vita però all’evoluzione di un nuovo alter ego dell’uomo dalle caratteristiche ridotte e alterate, ideale per essere sfruttato a fini lavorativi e bellici. Il fossile di una grande salamandra estinta, all’inizio erroneamente attribuito da Johann Jacob Scheuchzer, nel 1725, a “un uomo che fu testimone del Diluvio universale” offre a Čapek la straordinaria opportunità di analizzare il totale fallimento dell’uomo nel rapporto con questo essere dalla “natura golemica e diabolica” (G. Giudici), che lo priverà progressivamente di ogni spazio vitale.

La malattia bianca, pubblicata dalla rivista Sipario nel lontano 1966 in un numero speciale dedicato al teatro cecoslovacco e mai più riproposta in italiano, porta invece sul palcoscenico un insolito scontro tra le pulsioni totalitarie della società e il curioso tentativo di imporre l’utopia della pace. Il medico Galén, ennesimo nome “parlante” dell’opera di Čapek, è infatti l’unico in grado di curare la pandemia ma, in cambio del siero, pretende dai potenti del mondo l’impegno a rinunciare alla guerra (“E io non la darò finché… finché non mi prometteranno che non si ucciderà più”). L’irremovibilità del medico, in evidente contrasto con il suo giuramento, incontra comunque il netto rifiuto del dittatore: “Non possiamo mica permettere che un qualsiasi utopista c’imponga le sue condizioni!”.

In un’atmosfera di febbrile militarizzazione e fabbriche a pieno servizio dell’industria bellica, di produzione di gas tossici e proposte di rinchiudere i malati in campi di concentramento, un inquietante Maresciallo vuole realizzare la sua “missione superiore” nell’interesse del suo popolo, e sta per proclamare la guerra contro “quel piccolo, miserabile staterello che aveva creduto di potere impunemente provocare e offendere il nostro grande popolo”. Il contesto non può naturalmente non richiamare la contrapposizione tra la piccola Cecoslovacchia democratica e la Germania nazista, che da lì a poco avrebbe portato alla fallimentare Conferenza di Monaco, che Čapek ha commentato infatti con queste amare parole: “non ci hanno venduti, ci hanno dati in regalo”. Non stupisce dunque che La malattia bianca, in modo alquanto inconsueto rispetto alla produzione dell’autore ceco, si chiuda senza alcuna speranza: quando il Maresciallo malato sembra deciso a proclamare la pace, Galén resta schiacciato nella ressa mentre sta andando a portargli la medicina. Il passo indietro del dittatore è quindi impedito da una folla ottusa che grida “Un traditore di meno. Gloria al Maresciallo!”.

Se Krakatite è un romanzo-mondo, che attira il lettore in un vortice di temi e stili diversi, anche La malattia bianca, diviso in tre atti intitolati “Il Consigliere di Corte”, “Il barone Krüg” e “Il maresciallo”, è un’opera che osserva le vicende da punti di vista divergenti e con cambiamenti di scena repentini. I tre atti possono essere infatti letti come i frustranti incontri/scontri di questo “bambinone”, com’era scherzosamente chiamato Galén da giovane, con la scienza, la grande industria e lo stato militare, in un momento di evidente deformazione del funzionamento delle società moderne. E qui il Maresciallo, il grande imprenditore Krüg (dal tedesco Krieg, la guerra), lo scienziato Sigelius (dal tedesco Siege, la vittoria) e la folla ideologizzata testimoniano il fallimento di un’intera società, chiaramente modellata su quella tedesca, anche se in Čapek non mancano mai i riferimenti al modello originale delle dittature degli anni Trenta, il fascismo italiano. Con grande gusto l’autore ceco si sofferma in particolare sulla malleabilità della scienza di fronte alle pulsioni totalitarie, offrendo una mordace satira del servilismo e sciovinismo di quelle classi intellettuali che, in un articolo, ha definito “prostitute dei regimi contingenti e delle loro ideologie”, vendutesi per “un piatto di lenticchie”. Ciò che sta a cuore all’autore è infatti il confuso legame tra populismo, potere e malattia, che tristemente vediamo all’opera anche nel tempo presente.

A questo piano della “grande storia” si alterna la storia privata di una famiglia normale, grazie alla quale l’autore, attraverso il carrierismo del padre, può rappresentare la pandemia anche come bieca occasione di guadagno economico e sociale. Non a caso alla fine proprio il figlio sarà uno dei capi della folla che provoca la morte di Galén, questa sorta di Don Chisciotte dell’epoca totalitaria. Figura dai tratti di un messia, obiettore di coscienza a qualsiasi costo, quest’ultimo è un cittadino greco naturalizzato, ex assistente universitario, ora medico della mutua per via della sua origine sospetta, non è un grande arringatore di folle, anzi spesso si limita a ripetere frasi semplici («ma davvero non è possibile»), e si comporta come uno straniero che osserva, suo malgrado, una società malata. La sua scoperta del siero permette a Čapek di sviluppare il tema del singolo che tiene in scacco l’intera umanità: nella prefazione ha ricordato che era stato un amico dottore a suggerirgli l’idea di un medico che scopre nuovi raggi potentissimi in grado di distruggere i tumori, cosa che dà presto allo scienziato un potere assoluto. Quello della responsabilità della scienza è del resto un tema che Čapek ha affrontato ripetutamente, in quest’opera rovesciando l’assunto di Krakatite: se lì era stato tratteggiato l’angosciante dilemma interiore di chi potrebbe diventare dittatore assoluto del mondo, qui è invece un medico che cerca di utilizzare il suo potere per il bene dell’umanità intera.

Se nella versione manoscritta dell’opera il medico si chiamava Herzfeld ed era ebreo, a testimonianza della critica espressa nella prefazione (“non più l’uomo, ma la classe sociale, lo stato, la nazione o la razza è ora portatrice di tutti i diritti”), nella versione definitiva il rimando è stato spostato dall’autore verso la cultura greca. Com’era già avvenuto in R.U.R. e Krakatite, la perdita dell’eredità classica segna infatti, nella nostra storia e nella nostra cultura, una cesura di tali proporzioni da spalancare la strada alla barbarie. L’ingenuo tentativo di Galén di sfruttare l’influenza sociale delle élite per ottenere la pace a ogni costo, contrapponendosi al vero dittatore ed ergendosi a medico-dittatore e fanatico della pace, termina però con un completo fallimento. Come purtroppo vediamo anche ai giorni nostri, conoscere i sintomi di una malattia, come a volte la letteratura è in grado di fare con grande anticipo rispetto alla scienza, non significa certo aver trovato una cura. Da questo punto di vista Galén è stato quindi giustamente considerato la «prima vittima della Seconda guerra mondiale».

Come spesso avviene nel caso delle opere letterarie dense e polisemiche, anche La malattia bianca assume oggi una serie di nuovi significati e si colloca in modo originale nella linea di opere letterarie centrate sulle pandemie che abbiamo tratteggiato. L’intera opera di Karel Čapek è infatti a lungo rimasta nell’ombra di una precisa linea evolutiva della distopia che, per semplificare, viene di solito descritta lungo la direttrice Wells-Zamjatin-Huxley-Orwell. Lo sperimentalismo con i generi letterari, il rifiuto del finale distopico e la mancata descrizione della società del futuro, collocano di per sé l’opera di Čapek in una posizione diversa. Anche se naturalmente non sono pochi i punti di contatto con molte importanti distopie della cultura occidentale, merita qui di essere citato almeno il film Vita futura (1936), con sceneggiatura di H.G. Wells, in cui un mondo distopico sconvolto dalla seconda guerra mondiale è attraversato in un lontano futuro da un’epidemia devastante («la piaga errante»).

Va inoltre ricordato che La malattia bianca rappresenta per Karel Čapek un ritorno al teatro dopo una pausa di vari anni, legato evidentemente alla necessità di far tuonare nuovamente la sua voce sul palcoscenico, nella sua concezione dello spazio teatrale come un pulpito da cui ammonire l’umanità. Le prime notizie su una nuova opera teatrale risalgono al dicembre del 1936, e il testo è stato pubblicato e messo in scena per la prima volta, a Praga e a Brno, nel gennaio del 1937. La rappresentazione ha suscitato, anche per l’attualità internazionale del tema, un’eco notevole, seguita poi dal conferimento del premio di stato per la letteratura. Uno dei grandi promotori della letteratura ceca all’estero nel periodo tra le due guerre, Max Brod, ne ha subito predetto il sicuro successo internazionale e Thomas Mann ha poi parlato di “successo trionfale” e di una fusione di elementi fantastici e simboli realizzata “con la maggiore vitalità e plasticità possibili”. Meno entusiasta è stato Karel Čapek rispetto alla messa in scena londinese del 1938 (con il titolo Power and Glory), in cui il regista ha deciso di far recitare i ruoli del dottor Galén e del Maresciallo allo stesso attore. Nella rassegnata riflessione affidata a una lettera inviata al Manchster Guardian, Čapek, pure avvezzo al continuo fraintendimento delle sue intenzioni, si è rammaricato della stravaganza di alcuni registi, paragonando l’intervento sulla propria opera a una rappresentazione in cui Otello e Desdemona venissero impersonati dallo stesso attore.

Senz’altro con maggiore interesse deve avere invece accolto la riuscita trasposizione cinematografica, realizzata in tempi brevissimi con gli stessi attori della messa in scena teatrale, anche se con un’importante modifica del finale: il Maresciallo infatti firma la pace e Galén, prima di morire, lascia a un collega la formula della medicina (il film si può vedere sul canale dei classici cechi: https://www.youtube.com/watch?v=HJMUIBEzYnI). La prima proiezione ha avuto luogo il 21 dicembre del 1937 ed è stata seguita, due giorni dopo, dalla vibrante protesta dell’ambasciata tedesca. Non c’è quindi da meravigliarsi se, dopo la conferenza di Monaco, nel novembre del 1938, il film sia stato immediatamente bandito dalle sale cinematografiche, anche se per fortuna, grazie a una copia portata all’estero, siano state poi prodotte le versioni francese e inglese.

Il tentativo di Karel Čapek di richiamare l’attenzione sui cambiamenti antropologici in atto nelle società occidentali e impedire la caduta della Cecoslovacchia era ovviamente destinato al fallimento, come hanno da lì a poco sancito le lugubri parole di Chamberlain nel suo discorso Peace for our Time, in cui, lasciando mano libera a Hitler, rifiutava la guerra “per una lite in un paese lontano, di cui non si sapeva niente”. La morte di Čapek, che ha assunto nel contesto ceco una chiara valenza simbolica, è apparsa qualche settimana dopo, davvero come la fine di un’epoca, anche se forse ha evitato all’autore una fine ancora peggiore. Qualche mese dopo infatti il fratello Josef, uno dei pittori cechi più significativi della prima metà del XX secolo, sarebbe stato arrestato e trascinato nei campi di Dachau, Buchenwald e Sachsenhausen, per morire poi a Bergen-Belsen poche settimane prima della fine della guerra.

Come dimostra la sensazione di assoluto pessimismo con cui termina La malattia bianca, in Karel Čapek si era indebolita la fiducia nella gente comune e nella reale possibilità di fermare l’avanzare del totalitarismo. Anche se la situazione storica è oggi completamente diversa, si tratta di temi tornati di grande attualità ed è sempre più necessario tornare a interrogarsi su quali siano i rapporti tra potere, populismo, fanatismo e pandemia. Il grande potere della letteratura è in fondo proprio quello di anticipare molti problemi prima della loro esplosione e Čapek, negli anni Venti e Trenta, ha sollevato delle questioni nodali che hanno poi angosciato l’immaginario delle nostre culture per tutto il XX secolo. Nel 1937, agli occhi di un autore ceco sulla soglia di una catastrofe che sta per inghiottire tutto il mondo, la risposta è tristemente univoca: nemmeno una pandemia è in grado di bloccare la deriva militarista della società europea e, una volta linciato Galén, il corteo prosegue urlando i suoi triti slogan, “Viva la guerra! Viva il Maresciallo!”.

Karel Čapek (Malé Svatoňovice 1890 – Praga 1938), giornalista, drammaturgo e narratore, è stato uno dei maggiori scrittori cechi del Novecento ed è stato ripetutamente tradotto in italiano fin dagli anni Venti. Grande sperimentatore di nuove forme e generi letterari, ha affrontato nella sua opera temi di grande attualità: l’intelligenza artificiale, l’energia atomica, la diffusione di epidemie etc. Deve la sua consacrazione internazionale all’opera teatrale R.U.R. Rossum’s Universal Robots (1920), che ha introdotto nella cultura mondiale il termine “robot”. Molto noti sono anche l’opera teatrale L’affare Makropulos (1922), i Racconti da una e dall’altra tasca (1929) e i romanzi La fabbrica dell’assoluto (1922), Krakatite (1924) e La guerra delle salamandre (1936).

QUI l’articolo originale:

https://www.moduslegendi.it/apparati/viscerale/karel-capek-e-la-pandemia-letteraria-del-1937-come-sintomo-della-catastrofe-incombente/

Krakatite – recensione di Angelo Di Liberto su La Repubblica (I consigli di Billy)

Krakatite – recensione di Angelo Di Liberto su La Repubblica (I consigli di Billy)

L’incubo dello scienziato sulla forza della sua scoperta

Gentili lettori, è davvero portentoso come l’anno scorso un piccolo ma valoroso editore abbia avuto l’arguzia di pubblicare un libro, “dimenticato” per novantaquattro anni, in corrispondenza di un discorso mediatico focalizzato sull’influenza della scienza nella vita politica e sociale del paese, quando proprio quel libro, “Krakatite” di Karel Čapek, ha fatto della responsabilità morale dello scienziato il fulcro della narrazione. In assonanza con “I fisici” di Friedrich Dürrenmatt, che lo scrittore svizzero compose nel 1959 consacrando nell’immaginario collettivo la figura di Möbius, un fisico che aveva scoperto una formula scientifica universale capace di configurare tutte le scoperte, Čapek crea Prokop e assieme a lui un universo morale, fantasmagorico, un sogno come porta conoscitiva e creativa. Prokop è un chimico geniale che ha sintetizzato la krakatite, una polverina bianca con un enorme potenziale esplosivo reso instabile dalle onde elettromagnetiche. A partire da queste premesse, lo scrittore ceco teorizza il rapporto di responsabilità tra lo scienziato, la creazione e il suo eventuale impiego a scopi distruttivi. Krakatite, nella traduzione cristallina di Alessandro Catalano, esprime un conflitto principalmente all’interno del protagonista, costringendolo in una serie di mirabolanti avventure in cui l’elemento comico-grottesco allevia quel senso d’impotenza dell’uomo alle prese con le convenzioni e le imposizioni del potere.

Čapek soleva dire che l’arte non dovesse mai essere al servizio della forza e forse questa è la spinta più illuminante della narrazione. La completa libertà del suo protagonista, il suo affrancamento dall’ideale di gloria, di ricchezza, la sua distanza dalle logiche del potere politico. Il forte senso di giustizia sociale che permea l’umanità di Prokop gli impedisce di cedere anche quando si tratta dell’amore. Saranno tre donne, principalmente, a costituire il tessuto sentimentale della storia; tre differenti modi in cui il chimico sperimenterà la sua lacerazione, sempre pervasa da incubi freudiani che non faranno altro che offrirsi come metafora della forza inconscia insita nell’uomo e nella società. Prokop è l’essenza dell’instabile, l’esplosione rimandata, l’energia potenziale pronta a manifestarsi. Čapek ne rimanda la visionarietà nell’uso di una lingua che irrompe nel fantastico così come la realtà prende la via del racconto fiabesco pur mantenendo le sue coordinate di tangibilità. Gli stili e i generi che seppe mescolare corroborano il suo sperimentalismo. Gli elementi del romanzo d’avventura, del giallo, del melodramma creano suggestioni capaci di generare a loro volta ulteriori significazioni. «Chi pensa all’essenza suprema distoglie lo sguardo dalle persone. Tu invece le aiuterai», ed è il dialogo col Creatore, con quella forza arcaica contro cui è impossibile salvarsi.

Prokop era destinato a fare cose grandi ma le rifiutò, perché era il custode delle cose piccole, chiuse nello scrigno carnale di ogni vita.

L’Antiquario vi saluta.

QUI l’articolo originale:

Krakatite – recensione di Gabriele Ottaviani su Convenzionali

Krakatite – recensione di Gabriele Ottaviani su Convenzionali

I lampi illuminavano l’orizzonte con ampie fiammate gialle, ma la tempesta salvifica non si era ancora scatenata…

Krakatite, Karel Čapek, Miraggi, traduzione di Angela Alessandri, postfazione di Alessandro Catalano. Distopico, fantascientifico, profetico, soprattutto per quel che concerne i rischi e i pericoli della disumanizzazione del progresso scientifico quando troppo stretto si fa il connubio con una visione utilitaristica e intrecciata al mero profitto, il romanzo, ispiratore di due film, il primo dei quali fu definito nell’immediato secondo dopoguerra, per la precisione nel millenovecentocinquantuno, appena uscito negli USA, tre anni dopo il debutto in patria, dal New York Times anche come un’orazione stridente per la pace, che ha novantasei anni ed è più attuale che mai, dello scrittore, giornalista e drammaturgo ceco, narra la storia di un dottore che possiede la formula per il più deflagrante di tutti gli esplosivi, ma non quella per la pace o la felicità, e… Imperdibile.

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