
A SaLet la ceca Faulerová sul podio di Premio d’Europa
di Monica Trotta
Io sono l’abisso
Conquista la giuria un libro sul dolore: Marie affronta il passato, rivolta verso il futuro.

di Monica Trotta
Io sono l’abisso
Conquista la giuria un libro sul dolore: Marie affronta il passato, rivolta verso il futuro.
«La storia di Marie è una storia drammatica, angosciante, di sofferenza, di buio, di abisso appunto, un tunnel dal quale è attratta ma dal quale al tempo stesso vorrebbe disperatamente riemergere. Se da bambina questa attrazione la spingeva con curiosità a scoprire l’universo (“mi sporgo nel vuoto e guardo le stelle”) da adulta si trasforma in una ricerca autolesionista del dolore (“a furia di affilare il coltello, è il coltello che affila te”). Il viaggio che compie è l’occasione per guardare in questo abisso e finalmente, forse, trarne forza»
Lucie Faulerovà, con “Io sono l’abisso”, edito da Miraggi edizioni nella collana di letteratura ceca NováVlna, è la supervincitrice del Premio Salerno Libro d’Europa 2025.
Il romanzo ripercorre la vita di Marie, la ventitreenne protagonista, attraverso rapidi flashback che passano davanti ai suoi occhi. Marie sta viaggiando in treno, dal finestrino vede lo scorrere del paesaggio: il fiume poi il bosco si alternano rapidamente fino a scomparire, lasciandole l’immagine riflessa di sì stessa, quella che lei fatica a vedere. Inizia così il suo viaggio interiore. Si rivede bambina quando desiderava diventare un mago per poter scomparire e scoprire dove si va quando si sparisce, poi inventrice del perpetuum mobile, poi dendrologa. Vorrebbe essere tutto e niente. E poi si rivede con la sua amata sorella Madla a scherzare sedute sul davanzale della finestra o ai corsi di meditazione organizzati dal Comune mentre ironizzano sui santoni che di volta in volta raccontano sempre la stessa storia “purificarsi, armonizzarsi, concentrarsi”. Rivede la madre, che sembrava una zia divertente che una notte se ne è andata, il padre, l’albero frondoso, il fratello Adam, con cui si sta bene in silenzio e si piange anche bene, Mr Rochester, che – finalmente – la illumina come una torcia.
La storia di Marie è una storia drammatica, angosciante, di sofferenza, di buio, di abisso appunto, un tunnel dal quale è attratta ma dal quale al tempo stesso vorrebbe disperatamente riemergere. Se da bambina questa attrazione la spingeva con curiosità a scoprire l’universo (“mi sporgo nel vuoto e guardo le stelle”) da adulta si trasforma in una ricerca autolesionista del dolore (“a furia di affilare il coltello, è il coltello che affila te”). Il viaggio che compie è l’occasione per guardare in questo abisso e finalmente, forse, trarne forza. Marie è consapevole che la sua vita ruoti intorno agli altri, sia nelle assenze, quella materna prima, quella della sorella poi, sia nelle presenze, quelle del padre, del fratello, di Mr Rochester che sembrano ricompensarla di tutto il dolore. C’è un desiderio di contatto che è desiderio materiale di essere visti ma lei, probabilmente, deve innanzitutto imparare a vedersi.
Accanto ad un racconto forte, è la scrittura che colpisce, a tratti poetica, ricca di similitudini e onomatopee, a tratti divertente. Il ritmo del libro è cadenzato dall’incedere incessante del treno (il fantastico Tu-tutum nella traduzione della bravissima Laura Angeloni). È un ritmo sinusale, poi improvvisamente tachicardico. Le uniche pause d’aria, in cui come balene o delfini che decidono che vogliono respirare (“Allora è fantastico, non ti pare?”), sono date dalle digressioni in cui Marie, appassionata di manuali, indica le statistiche dei vari tipi di morte da suicidio nel mondo. Non è però una mera catalogazione, Marie è interessata, interessata soprattutto a quelli per cui l’atto non ha avuto “effetto fatale”.
È la stessa attrazione che prova verso l’ignota ragazza suicida sui binari del treno che, come un’ombra, accompagna Marie dall’inizio alla fine del suo viaggio. “Mi chiedo se ha gli occhi aperti. Mi chiedo se ha paura. Mi chiedo se prova sollievo.”
Ho incontrato Lucie Faulerovà emozionatissima. poco prima di sapere di essere la supervincitrice del Premio, a Palazzo Fruscione, quartier generale di Salerno Letteratura Festival, e a lei ho rivolto qualche domanda su questo libro pieno di emozione.
Partiamo dal titolo: in ceco il tuo romanzo si intitola “Smrtholka”, termine intraducibile in italiano, tant’è vero che si è dovuto scegliere un diverso titolo, “Io sono l’abisso”. Cosa significa esattamente questa parola?
Smrtholka è un altro nome per dire Morana, che è la dea della morte e dell’inverno nella cultura ceca. Significa molte cose: è innanzitutto la combinazione di due nomi, morte e ragazza, e la trovavo una parola perfetta per il titolo di questo romanzo sia perché nel libro parlo della tradizione ceca relativa a Morana, sia perché questa parola descrive al tempo stesso Marie, la protagonista, ma anche il suo doppio, la ragazza suicida alla stazione. Tuttavia, mi piace molto anche il titolo italiano, scelto dalla traduttrice Laura Angeloni, anche per chi non si conosce la tradizione ceca, sarebbe complicato a comprendere il significato del titolo.
Marie, la protagonista, ci conduce, nel suo viaggio in treno, attraverso una storia per immagini che porta il lettore in un abisso sempre più profondo. Marie ha una attrazione per l’ignoto: vuole fare la maga per poter scomparire e scoprire dove si va quando si scompare, poi vuole scoprire il perpetuum mobile, poi si sporge nel vuoto a guardare le stelle ed è affascinata dalla vastità sconosciuta dell’universo. La sua è più una curiosità verso la vita, visto che da queste esperienze estreme lei vuole tornare, o è una angoscia di morte?
L’atteggiamento di Marie – penso – è dovuto al fatto che lei ha avuto una infanzia non standard, segnata dalla scomparsa della madre prima e dalla malattia della sorella poi che finisce con la scomparsa anche della sorella. Questi sono certamente eventi che influenzano la personalità e la crescita di una persona. Malgrado non si tratti di un testo autobiografico, c’è dentro qualcosa che mi riguarda. Anche io sono stata una bambina strana: anche io volevo essere una maga e inventare il perpetuum mobile. Accanto a questo, il mio processo creativo ad un certo punto va da sé e dunque neanche io so spiegare ogni dettaglio che c’è nella storia.
A proposito di processo creativo: hai pensato prima alla storia da raccontare o prima ai temi dei quali volevi parlare?
Io penso prima alla storia perché è mentre scrivo che mi si chiarisce di cosa sto parlando e di cosa voglio parlare. Certo, inizialmente avevo la visione di questa ragazza che vuole autodanneggiarsi ma non sapevo esattamente perché no volessi parlare, così ho iniziato a raccontare la sua vita. Contemporaneamente ho sentito la storia della ragazza alla stazione metro e ho pensato di inserirla nel testo.
L’attrazione di Marie per l’ignoto mi ha ricordato un passo de L’insostenibile leggerezza dell’essere in cui Kundera afferma: “La vertigine è qualcosa di diverso dalla paura di cadere. La vertigine è la voce del vuoto sotto di noi che ci attira, che ci alletta, è il desiderio di cadere, dal quale ci difendiamo con paura”. C’è questa suggestione?
No, a dire il vero, non avevo pensato a questa influenza, in realtà, mi ha ispirato Nietsche secondo cui: “se guardi a lungo nell’abisso, anche l’abisso guarderà dentro di te”
Oltre il tema dell’ignoto, ci sono altri temi nel tuo romanzo: la ricerca dell’identità, il doppio, il bisogno dell’altro per conoscersi.
Madla e la ragazza del binario sono entrambe dei doppi di Marie. Questo del doppio, dell’altro è un tema fondamentale: io penso che in generale le persone sono specchi per noi stessi. Se io sono affascinata da qualcuno, se ci sono in sintonia, cerco di creare dei legami e mi riconosco attraverso quella persona.
Tra gli atti di autolesionismo più impressionanti che Maria compie verso se stessa, c’è il momento in cui si acceca con la punta della matita provando un dolore atroce. Mi è parsa una scena metaforicamente molto potente anche pensando a tutti i grandi classici a partire da Omero o Tiresia in cui la mancanza fisica della vista era simbolo di altro. Qual è il senso di questo gesto di Marie?
Ci sono molti significati in questo gesto. Principalmente io pensavo alla mia generazione, io vengo da un Paese democratico, in pace, in cui ci sono infinite possibilità di scelta, molta libertà. A volte però paradossalmente questa libertà estrema paralizza perché ci sono troppe opzioni. Marie subisce questa paralisi così decide volontariamente di togliersi delle possibilità, autolesionandosi, così che possa dire: “io non potrò essere mai una attrice, una cantante, una ballerina, perché non mi è possibile”. Si costruisce così un alibi per essere libera in un modo diverso, limitato.
Nel libro sembra che i personaggi maschili siano generalmente positivi rispetto a quelli femminili. È un caso?
Assolutamente sì è un caso e i personaggi non sono distinti bianco-nero, positivo-negativo. Anche il personaggio di Madla non è completamente negativo, d’altra parte i personaggi maschili sono residuali rispetto alla protagonista, Marie, che io volevo rendere assolutamente preminente. La vita di Marie era talmente tragica che ho pensato fosse utile alla storia inserire dei personaggi positivi, portatori di luce. Il messaggio ultimo del libro che volevo dare è mostrare che noi possiamo vivere una vita bella anche avendo perso i nostri affetti, avendo sofferto tanto, sforzandoci di aprire gli occhi e vedere le persone intorno che ci amano e che si prendono cura di noi.
QUI l’articolo originale: https://www.ulisseonline.it/cultura/intervista-a-lucie-faulerova-autrice-di-io-sono-labisso-vincitore-del-premio-salerno-libro-deuropa-2025/
Lucie Faulerovà è la vincitrice dell’edizione 2025 del Premio Salerno Libro d’Europa, che si è tenuto ieri nell’atrio del Duomo nell’ambito della tredicesima edizione di Salerno Letteratura. “Io sono l’abisso” (Miraggi edizioni) ha conquistato la platea dei lettori che l’hanno scelta ed applaudita per il suo lavoro. Nella terna, selezionata dai comitati direttivi di Salerno Letteratura, Duna di Sale e #fuorifestival, c’erano anche Tom Hofland con “Il cannibale” (CarbonioEditore) e Munir Hachemi con “Cose vive” (La nuova frontiera). Il premio è sostenuto da Bper banca.
“Io sono l’abisso”, per la traduzione di Laura Angeloni, è stato tradotto in spagnolo, macedone, bulgaro, serbo, ungherese, polacco, croato, lettone, egiziano e sloveno. Passato e presente, realtà e fantasia, compongono un mosaico di continui chiaroscuri, e lo stile è un’architettura perfetta: tenero, poetico, ironico, di straordinaria purezza.
di Livio Partiti
QUI potrete ascoltare la trasmissione: https://ilpostodelleparole.it/libri/chiara-correndo-sul-filo-della-lama-david-wojnarowicz/
di Valerio Rosa
Al minuto 2 circa del bel podcast di Valerio Rosa «Libri a Transistor»; si parla dei 49 racconti di Szonja Herczeg riuniti in Casa immaginaria.
Buon Ascolto!
Sul filo della lama” è una raccolta di testi autobiografici, un memoir irriverente, crudo, cinico ma verissimo in cui l’artista David Wojnarowicz si consegna al destinatario senza mezzi termini, palesando quello che Jonathan Bazzi definisce il suo “cuore scorticato”
“Al tramonto le auto sembravano tanti acquari su ruote: sguardi anfibi di sconosciuti compressi dietro ai finestrini. Imponenti edifici di granito con finestrelle screziate da luci fluorescenti, forme grigie indistinte nei vicoli fradici, merda e spazzatura rotolano nel vento vicino ai tombini intasati, spruzzi di luce al neon rossa e verde scivolano sull’asfalto bagnato. Un barbone emaciato con piedi nudi e lividi – un tempo anche lui è stato bambino di qualcuno – si è intrufolato nel vecchio scatolone di un frigorifero nascosto tra le erbacce di un parcheggio vuoto”:
David Wojnarowicz è stato un artista poliedrico nato nel 1954 e vissuto solo 37 anni (è morto per una complicanza dovuta all’Aids). Scrittore, osservatore acuto del mondo, fotografo, performer, visual artist e attivista, è ora stato portato nelle librerie italiane grazie all’editore resistente e indipendente Miraggi Edizioni, con un libro tradotto da Chiara Correndo e post-fatto da Jonathan Bazzi: “Sul filo della lama”, con sottotitolo eloquente di dostoevskijana memoria: “Memorie della disintegrazione”.
Si tratta di una raccolta di testi autobiografici, un memoir irriverente, crudo, cinico ma verissimo in cui lui si consegna al destinatario senza mezzi termini, palesando quello che Bazzi definisce il suo “cuore scorticato”. Ci mostra la barbarie dei bassifondi, l’altra faccia di una società, quella a stelle e strisce, spesso troppe volte ovattata e ridipinta attraverso film a lieto fine, lustrini e splendori. Qui non c’è la famiglia felice (la sua men che meno, visto che durante l’infanzia fu vittima di abusi da parte del padre, che poi si eclissò), non ci sono storie d’amore melense, ma incontri fugaci e talvolta violenti, scene hot dove il piacere diviene lenitivo della disperazione più profonda, rivendicazioni precise, all’inseguimento di un diritto che si fa sempre più flebile:
“Alcuni mesi fa lessi sui giornali che la Corte Suprema aveva emesso una sentenza secondo la quale gli omosessuali in America non hanno diritti costituzionalmente garantiti contro la violazione della loro privacy da parte del governo. Nel testo si leggeva che l’omosessualità in America è da sempre condannata e che solo eterosessuali, coppie sposate o famiglie possono godere di questi diritti”.
C’è l’Aids, malattia che allora concedeva poche speranze, ci sono le cure, gli amici che scompaiono, le conversazioni, i dubbi, l’ineluttabilità di una vita intensa ed effimera quale fu la sua, divorata fino all’ultimo respiro. Poi ci sono risse, malintesi, meravigliosi scorci urbani psichedelici, accuse coraggiose senza remore di esiti legali (scoprirete, ad esempio, che il cardinale O’Connor è il più grande bugiardo del mondo in fatto di preservativi e sesso protetto e che molti rappresentanti del governo Bush sono pericolosi omofobi). Non mancano le analisi concenti, le speculazioni filosofiche, le bugie e i controsensi smascherati della vita, sui quali, però, non ci si interroga con domande infruttuose, piuttosto la denuncia diviene il canto di un cigno per una nuova consapevolezza che ci porti verso una società più giusta.
Il tutto riportato con un linguaggio feroce e sublime, inseguendo la poesia anche di fronte alla parte più infima dell’esistenza e proponendo talvolta il simbolo dentro un flusso sempre lucido di pensieri, come ipostasi di più alti significati:
“Se si riuscisse a sopportare la luce, ci si accorgerebbe di un cuore centrale con appendici di piovra. Tentacoli come vermi lunghissimi palpitano di pulsazioni stroboscopiche nella bruma bluastra che essuda dal centro. Il centro non è esattamente percepibile con la vista, è più una sensazione: il pingue meccanismo della civiltà, la distruzione totale e programmata del mondo così come lo conosciamo, le svastiche ambulanti che latrano parole di morte quasi fumettistiche”.
QUI l’articolo originale: https://www.huffingtonpost.it/blog/2025/06/03/news/unesistenza_sul_filo_del_rasoio-19340259/?fbclid=IwY2xjawKr76JleHRuA2FlbQIxMQABHlJBok372EpNTxRnSOWZxxAjOuJfOgEqSlqoTKEwsi92dbhaLzAdZXvlcznL_aem_anNQtvKWiEuUa589AYaCsQ
Culture diverse, modi di vivere differenti, storie nazionali che seguono il proprio percorso, ma qualcosa ci accomuna: il desiderio di vivere la nostra vita in dignità e autodeterminazione. La Resistenza è una terra di tutti e di nessuno, appartiene all’Uomo. Quello che è fedele a se stesso.
Fedele a se stesso lo è di certo František Wiendl, protagonista di Tempo confinato. Memorie di un prigioniero politico tradotto dal ceco da Annalisa Cosentino per Miraggi Edizioni. La sua è una vita singolare ed insieme anche una fra le tante, una rappresentazione perfetta della vita di un cittadino Boemo del Novecento. Come tante, è una vita impigliata nelle maglie della grande Storia – quella a cavallo tra i due regimi totalitari – . È proprio questo suo essere vittima del sistema/dei sistemi che lo rende comune. La storia del singolo si eclissa dietro un numero quando la tragedia da storicizzare è troppo grande o anche quando la volontà di narrare manca.
Ma la vita di František è anche una vita singolare, a suo modo, per quella forza di autodeterminazione non solo desiderata passivamente, ma praticata attivamente e per la dignità che ha conservato in ogni circostanza, anche quando la Storia l’ha reso una vittima fra le tante.
Inoltre, se una storia acquista vividezza nel momento in cui la si racconta, anche per le generazioni a venire, la vita di František Wiendl, unica nelle sorti comuni, acquisisce la sua aura di unicità per la volontà del figlio di narrarla.
Trama – La struttura narrativa di Tempo confinato segue la forma di un dialogo, quello generazionale che intercorre tra Jan e František Wiendl. Jan è il figlio ansioso di ricostruire la storia paterna, prima che questa cada nell’oblio con la sua morte. Ma è anche il rappresentante di una generazione che non ha davvero sperimentato in prima persona la parte più brutale dei regimi totalitari. Jan, come noi lettori, è quello che viene dopo, il post-. Il suo metodo è l’indagine che scava nella memoria del padre: pone le sue domande, chiede un chiarimento.
František è ricettivo, paterno e fattuale allo stesso tempo. È, soprattutto, il testimone oculare, la vittima e l’oppositore che ha lottato per ottenere la democrazia di cui Jan, da un certo punto in poi della sua vita, ha potuto godere.
La conversazione segue, dunque, la parabola della vita di František: da partigiano, figlio di un partigiano, durante il regime nazista ad oppositore del bolscevismo durante il regime sovietico, per poi diventare un prigioniero politico. È proprio la scena del processo, quello che cambierà per sempre la vita di František, la scena introduttiva. Dopo la condanna, per aver aiutato alcuni fuggiaschi a passare il confine dall’allora Cecoslovacchia verso la Germania Ovest, František subirà l’umiliazione e la durezza dei campi di lavoro. E poi, una volta libero, il difficile rinserimento nella società.
Nella narrazione inevitabilmente vengono inglobati, oltre agli accadimenti storici, gli altri coprotagonisti di questa pagina nera della Storia. I “complici” ma anche i compagni di prigionia, che hanno aiutato František a non perdere di vista l’aspetto umano. Tempo confinato è inoltre arricchito da foto e dalle commoventi lettere che František inviò nel corso degli anni di prigionia a sua madre e suo padre.
Non voglio assolutamente fare l’eroe, ma nel considerare questa domanda ripenso alla situazione di allora, e in quel momento le possibilità erano queste: entrare nel Partito Comunista […] Oppure si poteva non fare niente, restare a guardare. La terza possibilità era opporsi al loro insediamento non democratico. Era questo il nostro caso, volevamo difendere i diritti democratici. Ciò significa che abbiamo scelto consapevolmente di opporci, considerandolo un nostro dovere, senza avere paura. Eravamo consapevoli anche delle conseguenze.
– Tempo confinato
Ho scelto di proporvi questa citazione perché mi sembra esemplificare al meglio il senso della vita di František Wiendl. Dalle sue risposte al figlio non emerge mai una volontà di eroicizzare le sue azioni. Quando piuttosto quella di sottolineare che la gente comune si è trovata a dover prendere scelte fuori dall’ordinario perché i tempi lo richiedevano. Di fronte a questa verità viene quasi spontaneo chiedersi “cosa avrei fatto al suo posto?” Giudicare da una posizione confortevole non è mai giusto. Forse lo sapremo quando la Storia chiamerà il nostro turno. Ma forse quell’ora è già arrivata.
QUI l’articolo originale: https://giochilinguistici.it/tempo-confinato-jan-e-frantisek-wiendl/
di Maria Dolores Pesce
In Europa tra fine ‘800 e inizio ‘900, per poi oltre proseguire, esplode, dentro una concezione borghese del patriarcato che riproponeva i consueti schemi di subordinazione e sudditanza ma insieme paradossalmente li smentiva nel trionfo della libertà personale e individuale, la contraddizione del femminile proprio per la sua (del femminile) nascente indisponibilità a farsi imprigionare in quegli schemi.
È innanzitutto la drammaturgia nordica ma non solo, tra l’altro quasi esclusivamente maschile, a farsi portatrice dei quella contraddizione e di quella indisponibilità che lo sguardo appunto maschile ‘pativa’ anche angosciosamente mentre, secondo l’insegnamento szondiano, contribuiva non poco alla crisi, speculare a quella sociale, del dramma moderno. Questo bel libro di Enrico Pastore affronta però il tema da un punto di vista diverso, quello delle artiste cioè, oggi diremmo performer, che non furono solo oggetto di quella mutazione ma se ne fecero concretamente carico subendone anche gli effetti. Non solo personaggi, da Salomè all’Olympya di Hofmannsthal, ma veri e propri corpi alieni che ribaltavano la percezione del femminile, incidendo sulla struttura stessa della rappresentazione. Nomi di artiste, da Sada Yacco a Cléode Mérode, da Edith Craig a Valentine de Saint-Point e Emmy Hennings, non a caso, come spesso capitava e ancora capita a molte artiste, praticamente dimenticate nonostante l’impulso essenziale che hanno saputo dare al rinnovamento del teatro. Ma non è un bagno di memoria, è soprattutto un riconoscimento di valore, dovuto e comunque tardivo. Forse altrettanto importante di quello che in precedenza segnò l’esordio sulla scena della donna, non solo come personaggio ma in carne ed ossa, e così capace di modificare anche il senso stesso del personaggio teatrale. Un lavoro importante e approfondito, come testimoniato dalla corposa bibliografia, quello di Enrico Pastore, definito da Renzo Francabandera nella sua prefazione non solo un’operazione di rottura, ma soprattutto di condivisione capace di dare l’avvio a forme sempre più complesse, nel Teatro e nella Società. Una dimostrazione ulteriore di come l’attività di quelle artiste ‘eversive’ non fosse rivolta esclusivamente alle donne nel teatro ma anche, modalità questa tipica del femminile, all’intero teatro e inevitabilmente alla intera Società. Un volume ricco e articolato da consigliare perché parlando del passato parla soprattutto al nostro presente.
Un lavoro a quattro mani, un lavoro a due menti, un lavoro a due cuori, un lavoro a due anime, attraverso una potentissima corresponsione di afflato emotivo ed emozionale, che denota e delinea una comunione di pensiero e una proiezione riflessiva di poderosa empatia intima e introspettiva.
Non è certamente mai semplice e semplicistico improntare un lavoro letterario congiunto, perché ogni scritto di qualsivoglia contenuto si rende sempre “creazione-creatura” elettiva ed eletta, richiede una cura e una premura amorevole e una forma di accudimento esclusivo in ogni sua fase “di gestazione” come se metaforicamente venisse “portata in grembo” per poi venire alla luce e prendere vita. Andy (alias
Andrea Fumagalli) e Lory Muratti, nella loro sintonia alchemica sinergica hanno trovato un perfetto e convincente compromesso ideale di intenti e di intenzioni e sono pertanto riusciti a fondere le proprie singole individualità artistiche e creative in un intreccio di commistione letteraria, sfociato in questo libro dal titolo quasi disarmante e sferzante al contempo “L’ora delle distanze” (Miraggi Edizioni), che pone l’accento in primis sulla componente concettuale e simbolica sottesa e insita nel messaggio sostanziale e in seconda battuta offre degli spunti di richiamo e di rimando trasversali dai molteplici sviluppi interpretativi, lasciando poi al lettore la libertà di una fruizione personale e soggettiva molto ampia e dilatata. La sospensione tra reale e irreale, tra realtà e invenzione, tra visione realistica e immaginaria, prospetta una lettura avvincente e intrigante, dinamica e vivace, prolificante di pulsioni e brulicante di vibrazioni, di quella good vibe energica ed energizzante che appartiene al DNA genetico di entrambi nella caleidoscopica esplosione del rispettivo talento innato, che possiedono assieme alle virtuosi doti e risorse di camaleontico trasformismo. È un libro che non cerca nessuna tipologia di accettazione e gradimento massificante e mercificante e tanto meno aderisce a degli stereotipi standardizzati banali e scontati, emulativi e statici e tanto meno ancora si piega passivamente a quelle cosiddette leggi di mercato editoriale condizionanti e limitative. È un libro altresì che si propone di andare oltre, di guardare oltre, di volare oltre e di viaggiare in una direzione preferenziale sui generis, affrancata da qualunque vincolo e filtro a monte, per accedere a una sfera comunicativa di cosiddetti liberi battitori, quali sono Andy e Lory da sempre, da ravveduti e consapevoli anticonformisti a 360°, da artisti indipendenti mai disposti ad essere inclusi e inseriti dentro schemi di cliché predefiniti e preconfigurati a priori. Andy e Lory confermano e riconfermano con questo libro la loro meritevole e qualificante posizione di scelte coerenti e responsabili nel portare avanti con la massima onestà intellettuale il progetto letterario e si rendono senza dubbio un esempio positivo a modello di orientamento artistico-professionale scevro da ogni volontà speculativa e da ogni ambiguità dialettica, uscendo allo scoperto e cercando un dialogo di incontro, di scambio e di confronto sempre su un piano interattivo paritetico e su un livello relazionale e interrelazionale autentico e spontaneo.
QUI l’articolo originale: https://www.elenagolliniartblogger.com/2025/05/22/recensione-riflessiva-del-libro-lora-delle-distanze-andy-andrea-fumagalli-lory-muratti-edito-miraggi-edizioni/
di Michele Lupo
Quasi in diretta, appena finita la Seconda guerra mondiale, il giovane Josef Škvorecký, fra i maggiori scrittori cechi del secolo scorso (era nato nel 1924) mette nero su bianco un romanzo-fiume, Zbabělci (I vigliacchi) ora in libreria grazie a Miraggi Edizioni con una nuova traduzione a cura di Alessandro De Vito.
Il libro racconta le vicende di un gruppo di ragazzi sollevati finalmente dall’oppressione dell’occupazione nazista ma per nulla entusiasti del nuovo Leviatano, lo stalinismo, che si affaccia cupo alle porte della loro storia.
Siamo in Cecoslovacchia fra il 4 e l’11 maggio del ’45, il contesto è ovviamente imparagonabile, ma a prima vista le giornate della voce narrante, Danny Smiřický, e dei suoi amici, sembrano quelle di una qualunque banda di giovani europei, italiani anche, degli anni Settanta, che se la spassano suonando e rincorrendo ragazze. Ovviamente è un’altra storia, ma indiziaria del tono e del clima che di primo acchito si respira in queste pagine.
Il protagonista tornerà nei romanzi successivi dell’autore, una volta emigrato in Canada, per nulla intenzionato a farsi macerare dal controllo comunista, già immaginando da ragazzo un’alternativa occidentale com’è testimoniato dalla conoscenza dell’inglese e dai primi esercizi di traduzione.
I vigliacchi del titolo amano il jazz, perplessi rispetto agli avvenimenti della grande Storia che li aspetta fuori dalle stanze in cui fanno le prove, e si lasciano tormentare dalle fanciulle che gli ruotano intorno. Rispetto all’underground nostrano di mezzo secolo fa – freak destinati a soccombere sotto i colpi criminali della strategia della tensione e della cupezza delle Brigate Rosse – questi ragazzi tendono a fuggire da una morsa ancor più stretta e tragica: sono sopravvissuti agli eccidi nazisti, gli ultimi fuochi della guerra ancora esplodono, la liberazione dovrebbe renderli euforici ma temono che un nuovo mostro stia rubando le loro illusioni.
Non casualmente, al suo apparire in patria, il libro incontrò una dura ostilità: ma come, i russi comunisti ci hanno liberato dal nazismo e voi siete innamorati dell’America? Škvorecký lo fu così tanto da trasferirvisi, non negli USA ma in Canada, dove contribuì a far conoscere al mondo occidentale scrittori altrimenti destinati alla clandestinità. Com’è in un certo senso clandestina la vita di questi ragazzi, estranea ai drammi della storia o forse così segnati da volersene liberare per ripiegarsi sui fatti propri: più malinconici che gaudenti in verità, nonostante le velleità contrarie, ma riluttanti ad abbracciare i mitra per fare il loro dovere.
Il protagonista in particolare s’imparenta con la stravagante e numerosa famiglia degli spleenetici della letteratura novecentesca (anche quella del secolo prima) – qui illusioni e fantasticherie erotico-romantiche (l’ossessione per l’imprendibile Irena) si alternano a momenti di aspra cupezza, di quelli
ben noti agli adolescenti (seppure qui al crocevia con l’età adulta).
Ha dei momenti di soprassalto, Danny, ascolta per radio le notizie di Praga messa a ferro e fuoco, e lì per lì crede di dover fare il suo, ma sono momenti brevissimi, ci crede poco. Tiene al jazz piuttosto, a una musica attraverso cui incarnare e sublimare insieme gioie e dolori. Il distacco, l’ironia è forte e il sax (un libro di Škvorecký tradotto da Adelphi è intitolato Il Sax basso) sembra fatto apposta per dissacrare gli improbabili entusiasmi comunisti (che a loro paiono tutto sommato non così diversi dai padri borghesi).
La settimana del maggio 1945 (a ogni giornata corrisponde un capitolo) avrebbe tutto per essere la più eccitante della sua giovane vita – lo è pure, da una parte, ma il nuovo che avanza in luogo del nazismo per Danny già puzza di vecchio, di ordinario.
La verve di un sax tuttavia può essere beffarda e malinconica insieme, ossia autoironica, autoriflessa, e irresponsabile, com’è della giovinezza, verso quanto accade intorno, fra soldati tedeschi che scappano e russi che occupano la piccola città, per cui Danny, fra un Diexieland e un “ronzio sincopato del sax”, sempre torna col pensiero a Irena, certo la sua ossessione, salvo che “poi mi dispiaceva un po’ per lei per il fatto che non l’amavo più”.
Come quello di un narratore inattendibile, anche l’io di questo romanzo deve poter disporre di una lingua adeguata, qui uno slang mutuato (e reinventato) da quello giovanile, che dell’irriverenza jazz prova a restituire anche l’umore.
Nella esauriente postfazione Alessandro Catalano ci avverte che non è facile renderne le peculiarità in italiano; Alessandro De Vito (che della casa editrice Miraggi è anche uno dei fondatori nonché curatore della collana NováVln dedicata alla letteratura ceca) vi si cimenta affidandosi a una recente edizione critica che riorganizza i materiali precedentemente soggetti a censure, elusioni e montaggi arbitrari responsabili di una ricezione distorta del romanzo. Che sa dell’America dei giovani salingeriani non meno che delle fumisterie praghesi dell’indimenticato Angelo Maria Ripellino.
QUI l’articolo originale: https://www.alibionline.it/recensione-i-vigliacchi-di-josef-skvorecky/
di Linda Cester
Molto interessante e ben strutturato il saggio di Enrico Pastore, recentemente pubblicato da Miraggi Edizioni con la prefazione di Renzo Francabandera, è un viaggio affascinante e coinvolgente negli anni a cavallo fra Ottocento e Novecento – periodo storico significativo e importante che ha visto l’Occidente nel suo massimo splendore -, alla riscoperta della vita e delle opere di cinque artiste straordinarie, che non solo hanno rappresentato le tendenze e le caratteristiche di un’epoca, ma che hanno anche lasciato, attraverso la loro grande personalità, un segno profondo nel difficile percorso di emancipazione della donna.
Un’opera che si inserisce nel solco di quella produzione letteraria preziosa, volta al recupero e alla valorizzazione di una serie di figure femminili – del mondo dell’arte, della cultura e non solo – che, colpevolmente dimenticate, hanno invece determinato un passaggio fondamentale nello sviluppo della costruzione dell’identità femminile moderna, protagoniste accantonate da quella Storia che ci appartiene e soprattutto ci riguarda tutte e tutti da vicino. Grazie a una scrittura scorrevole, mai pesante, capace di incuriosire il lettore cogliendo dettagli essenziali senza mai perdere l’armonia del discorso complessivo, Enrico Pastore ci conduce così in quegli anni vivaci e accesi della Belle Èpoque, fra cafè chantant, numeri di cabaret, danze ammalianti e spettacoli innovativi, fra le pieghe più interessanti e anticonformiste di una società frizzante in cui il teatro era uno dei mezzi di comunicazione più influente. Ed è proprio in questo luogo magico e così importante da un punto di vista sia culturale che sociale, che le donne, le artiste protagoniste del volume, hanno potuto imporre una propria visione rivoluzionaria della figura femminile, che non è più mite e rassicurante angelo del focolare, ma che diventa anima libera, emancipata, indipendente, intraprendente, lasciando che il corpo diventi campo di battaglia, fulcro significativo di una lotta che intreccia vita privata e pubblica, politica e svolte sociali, nella definizione di un nuovo approccio femminile all’arte scenica che spazia dalla danza all’espressione, dalla scrittura alla regia. Sada Yacco, Clèo de Mèrode, Edith Craig, Valentine de Saint-Point, Emmy Hennings. Cinque donne meravigliose, cinque modelli d’ispirazione, cinque dive purtroppo dimenticate, che grazie al saggio di Enrico Pastore ci vengono restituite in tutta la loro eccezionalità, capaci di lasciare un’impronta decisiva, concreta e duratura, in un mondo culturale, dove purtroppo l’opera delle donne, non solo teatrale, viene ancora vista come un’eccezione, o come direbbe Josephine Baker – e da qui il titolo del volume – “una curiosità”.
Un ultimo accenno merita in conclusione la copertina del romanzo, che grazie all’immagine della bellissima Cléo de Mérode riesce a evocare alla perfezione le atmosfere della tematica trattata incuriosendo il lettore.
QUI l’articolo originale: https://libroguerriero.wordpress.com/2025/05/30/che-peccato-essere-una-curiosita-di-enrico-pastore-miraggi-edizioni/2/
di A.P.
“Sul filo della lama”: un memoir di David Wojnarowicz sulla diffusione dell’Hiv in America
Il libro di David Wojnarowicz, “Sul filo della lana” (Miraggi Edizioni, 336 pagine, 24 Euro, traduzione di Chiara Correndo, postfazione di Jonathan Bazzi), raccoglie – come recita il sottotitolo – “Memorie della disintegrazione”.
In questo
memoir
urgente e denso, David Wojnarowicz offre uno spaccato violento e caleidoscopico sulla diffusione dell’Hiv in America e su cosa significhi essere omosessuale in una società, quella bigotta reaganiana degli anni Ottanta, dove domina il modello eteronormato della “famigliola felice ” e in cui si reprime a colpi di leggi, sentenze, arresti e pestaggi la voce di chi vive ai margini.
Sul filo della lama
è un trip acido nel dolore, una sbronza in un
dive bar
sull’Hudson, un roadtrip furioso nella polvere dell’American Dream, raccontato attraverso una costellazione di capitoli dal taglio ora onirico ora fortemente politico, frutto di una vita dedicata a lottare per il diritto alla salute e alla corretta informazione e per il diritto di amare oltre ogni laccio sociale.
Un’opera di un’intensità che scorre a fior di pelle. Ha scritto tra l’altro
Jonathan Bazzi:
«David fu una vittima – del padre, dell’omofobia, del capitalismo, della sierofobia –, ma decise molto presto di rispondere alle ferite. E non esclusivamente per sé, in forma privata: tutta la sua produzione è una risposta pubblica, e per certi versi corale, alle molte forme dell’abuso di potere, all’ingiustizia quotidiana, ordinaria, affinché nessun altro debba più espiare colpe inesistenti. Leggere Wojnarowicz oggi significa rendersi conto che il dolore personale può trovare nell’azione estetica condivisa un canale per rendere deflagrante e memorabile il proprio messaggio. Molti di noi credo se ne siano dimenticati, travolti come siamo dalla bidimensionalità propagandistica del dibattito mediatico, ma giustizia e bellezza sono sorelle. Dare al dissenso un sigillo formale potente cambia tutto».