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Il romanzo della Gamberale “gambizza” ogni voglia. Per calarvi all’Inferno, leggete “Mazzarrona” della Tomassini – di Davide Brullo su Linkiesta

Il romanzo della Gamberale “gambizza” ogni voglia. Per calarvi all’Inferno, leggete “Mazzarrona” della Tomassini – di Davide Brullo su Linkiesta

“L’isola dell’abbandono” di Chiara Gamberale vorrebbe raccontare la storia di Arianna e il Minotauro, ma è patetico nello stile e nel contenuto. Veronica Tomassini, invece, nel suo nuovo romanzo si conferma una vera regina degli inferi: se vincesse lo Strega, vorrebbe dire che c’è speranza.

Il bastone. Quando una neomamma intorno ai quaranta ti dice quanto è bello avere un bimbo, quanto le ha cambiato la vita, quanto è dura la meraviglia e che, beh, l’importante è che il figlio non si divori la tua identità “perché se fatica a credere di essere diventata madre, nello stesso tempo fatica a credere di essere rimasta, semplicemente, donna”, di solito, gentilmente, la blocchi, la benedici, le dici che è bellissima, ti metti a disposizione per badarle il bebè quando vorrà riavviare una vita sessuale col suo maschio, poi la scansi non sei così suicidale da ascoltare le stesse cose per l’ennesima volta. Chiara Gamberale, invece, che è da poco diventata mamma, intorno alle solite chiacchiere sulla maternità ha costruito un romanzo di tonante banalità.

La storia è questa. Arianna sta con Stefano, maschio dominante e psicolabile di cui è la crocerossina; durante una vacanza a Naxos (eccola, L’isola dell’abbandono) Stefano s’invola a Londra con una Cora artistoide, abbandonando Arianna, la quale si consola tra le braccia di un surfista, Di, che è effettivamente un dio: è figo, amorevole, passionale. Questo accade nel 2008. Poi succede che Stefano muore, Arianna va in crisi, lascia Di con un pugno di illusioni in mano, si fa ricoverare dal dottore bellone e fedifrago e ben più grande di lei, Damiano, il quale, già che c’è, la mette incinta. Arianna partorisce, siamo nel 2018, è di nuovo in crisi – si sa, i drammi della gravidanza, la femminilità un tempo divampante che ora scema, insomma, non fa più sesso, e poi pare che il vetusto dottore torni a intendersela con la ex moglie. Perciò, Arianna torna da Di – che s’è consolato con un’altra, Christina, gran lavoratrice, da cui ha avuto tre figli – che la accoglie a braccia aperte e membro in resta. Dieci anni dopo i due trombano felici come la prima volta, predisponendoci all’happy end finale, con carnevalesco sfoggio di nuvole di zucchero filato, scroscio di stelle filanti, e bacini sulla fronte del bebè.

Insomma, un romanzo sfrontatamente patetico (senti come la Gamberale racconta l’orda del sesso tra Arianna e il vigoroso surfista, “Di la spinge dolcemente sul letto, lei sente un vago profumo di limone, lui riprende a baciarla, i polsi la fronte il collo, eccolo il mio sogno, le dice, sei tu, ha la pelle ancora incrostata di sale, sa di mare, sa di sabbia, sa di buono”, roba d’archeologia rosa, Ridge di Beautiful al confronto è il Marchese De Sade), che dovrebbe mimare il mito di Arianna, la sorellastra del Minotauro, mollata da Teseo sull’isola di Naxos, appunto, e poi raccolta ed esaltata da Dioniso, ma è, al contrario, trent’anni dopo, la pallida, incestuosa imitazione di Due di due di Andrea De Carlo e di quei libri lì. Irto di psicologia studiata a casaccio su canovacci televisivi (“Abbiamo paura di non essere amati. E allora ci rifugiamo nel nostro trauma, nelle nostre ossessioni”), il libro di Chiara Gamberale – target: quarantenni maritati (se separati, preferibile) con bebè a bordo, viziosamente frustrati, chi non lo è, pronti a mollare tutto per il nulla di una felicità qualunque, meglio se palestrata – va letto sinotticamente a Fedeltà di Marco Missiroli.

Entrambi i romanzi si svolgono nell’arco di dieci anni, non si confrontano con la Storia, non si scontrano con il mondo (come fa il romanzo americano) né con il mondo delle idee (come ha sempre fatto quello europeo). Sondano le voglie, inseguono le passioni deboli – qui, pensieri non ci sono, neppure deboli – con pallore stilistico. Solo che Missiroli – riminese bigotto – difende le ragioni del matrimonio, mentre la Gamberale – più scafata ma meno viziosa di Missiroli – lotta perché ognuno faccia un po’ come gli pare. “Mentre tu pensi che devi rinunciare a tutti i te che sei stato fino a quel momento, in realtà quei te si stanno dando all’improvviso un appuntamento”, dice Di ad Arianna, quando si ritrovano, entrambi genitori rosi dal desiderio e grigi di noia. Insomma, essere genitori a quarant’anni rende più intriganti, più sexy. Arianna non la pensa così, ma è Di, didascalico, a rincuorarla, “Sì, certo. Fai schifo. Infatti sono eccitato da sei ore e ancora non mi basta”. Basta, però, non dirlo ai rispettivi coniugi o compagni: non potrebbero capire quanto è sublime il tradimento. Che l’amore sia, soprattutto, obbedienza all’altro e non all’ego – altrimenti è vanità, arguzia di nebbia – non sto neanche a dirlo, la Gamberale, scrittrice che gambizza tutte le voglie – il romanzo è costruito, stilisticamente, come una sequenza di intimi e inutili post spiattellati su facebook – non apprezzerebbe.

Chiara Gamberale, L’isola dell’abbandono, Feltrinelli 2019, pp.218, euro 16,50

Il libro di Chiara Gamberale – target: quarantenni maritati (se separati, preferibile) con bebè a bordo, viziosamente frustrati, chi non lo è, pronti a mollare tutto per il nulla di una felicità qualunque, meglio se palestrata – va letto sinotticamente a Fedeltà di Marco Missiroli

La carota. Raccontare l’amore dalla scarnificazione, celebrare la Storia dal sottosuolo, dall’alcova dei pregiudizi, dal buio del perbenismo, dal lato oscuro, ingordo, ignorato del tempo – gridare lo sgretolio della civiltà, evocare la periferia e i suoi mostri, soffrire lo scrivere fino a dire lasciami, non mi basta più niente, la parola è troppo armonica per arguire il caos. Incredibilmente – per chi legge libri veri – Marco Missiroli e Chiara Gamberale raccontano le storie fatue di uomini quietamente borghesi, in cui non accade altro che lo smottamento di facili emotività.

Al contrario, la letteratura s’è sempre mossa a narrare gli estremi – che siano storie estreme o personalità radicali – mostrando ciò che nessuno vuol vedere. Non l’abbandono – colmato dal dio surfista – di Arianna, ma la scalpitante innocenza, cannibale, di Minotauro. La dico schietta: Veronica Tomassini, scrittrice sofisticata e strappata, regina degli inferi, Persefone dei perduti (una frase come questa, “I giorni si appressavano a finire, si radunavano ai piedi della disfatta”, oppure questa, “Eravamo una loggia di sbandati, ero l’alternativa colta, il parto cieco, quella riuscita male, il corpo estrano, ossuta distratta”, bastano per annientare le velleità letterarie altrui) è la nostra Janet Frame, autrice dell’urlo e del perdono, del delirio accudito, la santa bianca che si sobbarca gli imperdonati.

Mazzarrona, così, è macelleria verbale, l’epica dei disadatti, l’epos dei tossici che come spettri s’abbarbicano uno sull’altro, stipati, nel rione dantesco della “Mazzarruna”, ai confini di Siracusa. Una geologia di gente resa bestiale dalla dipendenza e dal dolore, calcificata nell’oblio, nella città che ospitò Eschilo e Platone, cantata da Pindaro, detta duramente da Tucidide. “Dovevo bruciare Mazzarrona, le steppe, il fango, l’infamia di quel deserto morale… Una giovinetta snaturata della sua salvifica vanità. Non mi bucavo. Non ero malata di Aids. Era solo la morte degli altri, che avanzava implacabile e lenta, ad avermi contagiato”. Di fronte alle storie di muto strazio raccontate dalla Tomassini, con una abbacinante indipendenza stilistica (“Sono fatta per superare i graticci, saltarli, oltrepassare i valli. La buona battaglia. Mi dico: è stata la tua buona battaglia. Sì, ma per dove? O perché? Lasciate che io mi chieda: perché? Oggi mi siedo sotto la finestra, non sono una ragazza, e con la mano, come allora, tengo il mento. Guardo lo stesso cielo, violaceo, verso sera, gli storni, e il mio colore di capelli è ancora bruno come allora”), gli abbandoni della Gamberale hanno fragranza comica. Con altra potenza rispetto ai “libertini” di Tondelli, come una santa nel rebus dei lebbrosi, la Tomassini impone la grazia tra i perdenti, perché la catacomba della periferia è prova e martirio. Mazzarrona è tra i libri che sono stati scelti per concorrere al prossimo Premio Strega: se capitasse a questo romanzo, se varcasse lo stigma della cinquina, ne sarei felice, potrei pure dire che c’è speranza, allora, per la letteratura italiana autentica, che dal basso qualcosa di verticale, simile all’alba, sfugga al controllo.

Veronica Tomassini, Mazzarrona, Miraggi Edizioni 2019, pp.174, euro 16,00

Carlo Verdone si riconosce nel romanzo Roma di Nicola Manuppelli

Carlo Verdone si riconosce nel romanzo Roma di Nicola Manuppelli

Ci arriva a sorpresa la recensione sotto forma di pensiero di Carlo Verdone e ci fa immenso piacere, a noi e a Nicola soprattutto!

Roma è sicuramente un ottimo libro. Io che ci sono nato e l’ho vissuta a fondo posso dire che l’ha resa poetica e vera con i tanti aneddoti e personaggi. Deve aver interrogato tante persone per arrivare a Nino Besozzi e Tofano … Quest’ultimo da bambino l’ho conosciuto di persona e mi regalava le caramelle Rossana. Abitava di fronte a me e mia madre lo adorava.

Insomma un bel viaggio in tanti bei ricordi, nomi, emozioni che in parte ho condiviso perché vissuti, spesso in prima persona. Lei deve essere un uomo pieno di passioni e da romano la ringrazio per l’amore enorme che ha dichiarato per la mia città. Che mi sembra sia diventata un pochino anche la sua. Alla fine del libro ho fatto questa riflessione e cioè che coloro che meglio comprendono Roma nella sua poesia, mitomania, miseria e grandezza non sono mai i romani. Ma scrittori che vengono dal Nord o dall’Adriatico: Gadda, Pasolini, Flaiano, Fellini, Amidei. Lei da curioso e innamorato ha fermato nel tempo tanti frammenti che potevano disperdersi. Lo stile è inconsueto e frenetico. Forse, alcune volte, molto denso. Ma il suo amore e la sua passione per Roma nei suoi anni migliori l’ha, ovviamente, rapita.

Le auguro ogni successo per questa fatica che merita belle soddisfazioni anche in terra francese (Carlo Verdone)

 

La pittura rappresenta la loro rivoluzione interiore – Una storia tedesca – letto da Carmine Amedeo

La pittura rappresenta la loro rivoluzione interiore – Una storia tedesca – letto da Carmine Amedeo

Berlino, 1935.
Reinhardt Korber, pittore e maestro d’arte, passeggia per le strade di una città in cui ogni evento viene valutato secondo il medesimo modo di pensare. Nessuno può esprimere un parere che discorda da ció che appare “scientificamente” provato. Il nero della svastica predomina ovunque. Ed é allora che avviene la sua ribellione: attraverso il colore.
“Rivestite i sentimenti di colore. La gioia può essere rossa, il dolore blu. O forse anche verde. Potete dipingere qualunque cose abbiate l’esigenza di dipingere, ma non quello che, e nel modo in cui, qualcun altro vi impone”.
Reinhardt ha due allieve predilette, Rebecca (ebrea) e Lotte (ariana e di famiglia influente). Per entrambe prova sentimenti diversi e contrastanti: un’affinità artistica lo lega alla prima, un interesse più materiale alla seconda. L’intreccio di emozioni diventerà dramma e ciò che rimane è la solitudine esistenziale dei protagonisti, privati della libertà di esprimersi sotto ogni forma. Eccetto, la pittura. La pittura rappresenta la loro rivoluzione interiore. Loro sono i Re Magi, che sfidano il tiranno Erode. Loro sono la Resistenza che si contrappone al sistema. Loro sono l’amore, la spontaneità e la vita.
#romanzi #librichepassione #libridaleggere #narrativa#rogersalloch #miraggiedizioni #history #germany #berlin#painting #love #plpl18 #rebel #resistenza Miraggi Edizioni

Jan Balabán e Magdalena Parys, emergono gli scheletri della Guerra fredda – di Lorenzo Mazzoni su Il Fatto Quotidiano

Jan Balabán e Magdalena Parys, emergono gli scheletri della Guerra fredda – di Lorenzo Mazzoni su Il Fatto Quotidiano

 

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Forse loro padre non aveva detto così. Non si riusciva a capire molto. Parlava in continuazione. Oppure muoveva solo la bocca, ed Emil aveva messo insieme in questo modo le parole che era riuscito ad afferrare (…) Emil a tratti guardava dalla finestra, dove il sole calava nel bosco. Emil lo capiva, suo padre era nel miglior posto dove potesse essere, stava andando dal suo primo figlio appena nato.

Chiedi a papà, di Jan Balabán (traduzione di Alessandro De Vito), terzo volume uscito per la collana NováVlna di Miraggi edizioni), è l’ultimo manoscritto su cui ha lavorato l’autore ceco prima di morire, prematuramente, nel 2010. Si tratta di un testo impeccabile, semplice e profondo sul destino umano: una storia familiare, raccontata attraverso monologhi, riflessioni interiori e dialoghi veloci, secchi (significativa la scelta di eliminare le virgolette nel discorso diretto).

Il medico Jan Nedoma muore e i figli e la madre devono far fronte, inaspettatamente, a scheletri che escono dall’armadio del padre, ad accuse di complicità con il vecchio apparato comunista e di corruzione. Nell’evolversi del lutto e del dolore l’intreccio traccia un percorso, fatto anche di nebulosi – o al contrario vividi – ricordi, senza mai diventare un nostalgico atto d’accusa al passato collettivo della nazione. Quello che interessa a Jan Balabán è sviscerare, dai suoi personaggi, le tecniche per catturare i pochi istanti d’amore di un’esistenza, per reclamare qualche gesto di dignità umana in un mondo penoso: Da un lato volevano fotterti, dall’altro ti odiavano perché li fottevi (…) Non facevano che mentirsi e sorvegliarsi a vicenda, finendo per sfogare lo stress in grandi bevute.

Jan Balabán e Magdalena Parys, emergono gli scheletri della Guerra fredda

Un altro giorno di ferie. Aveva cominciato a bere già il secondo o il terzo giorno. Be’, forse non del tutto. Del secondo giorno parleremo dopo. Iniziamo col primo. Kowalski non sapeva che i cani morissero con gli occhi aperti. Krenz in seguito gli disse che era impossibile che morissero con gli occhi aperti, ma Kowalski lo aveva visto: Babsi aveva gli occhi aperti.

Il mago, di Magdalena Parys (traduzione di Alessandro Amenta; Mimesis Edizioni), libro vincitore del Premio Letterario dell’Unione europea, è un noir ruvido, ipnotico e completo, amalgamato con la storia recente di un vasto territorio: l’Europa divisa dalla cortina di ferro. L’autrice, nata a Danzicanel 1971 e cresciuta a Berlino Ovest, tesse un mosaico di colpi di scena, innescati dal ritrovamento, in un palazzo abbandonato a Berlino, del corpo di un impiegato agli Archivi della Stasi, e della scomparsa di un fotoreporter tedesco a Sofia. Il disilluso, stanco ma efficace, commissario Kowalski indaga per conto proprio e scopre segreti che collegano l’epoca del Muro ai giorni nostri.

Il mago è un romanzo dallo stile veloce, metropolitano, dalle tinte grigie, con una narrazione strutturata utilizzando un totale punto di vista ottico. L’emotività dei personaggi e le inaspettate sorprese che costellano l’intreccio sono fotografate, come istantanee; e il linguaggio, cinico e realista, non regala sconti: La guerra migliore è sempre quella più vecchia. La prima guerra, la precedente, quasi fosse meno crudele. Bella questa utopia, questa vendita all’asta militare. Forse la seconda guerra mondiale, che per lei e per suo padre era stata più crudele, le si era cancellata dalla memoria (…) e aveva pensato che a volte in questo mondo di merda anche le malattie valevano qualcosa.

De Roux? Da leggere “Immediatamente” (e ripensare con calma) – di Stenio Solinas su Il Giornale.it

De Roux? Da leggere “Immediatamente” (e ripensare con calma) – di Stenio Solinas su Il Giornale.it

L’autore francese fu un battitore libero sempre in controtendenza rispetto al suo tempo

Dietro Immédiatement, il libro di Dominique de Roux ora in edizione italiana (Immediatamente, Miraggi editore, pagg. 252, euro 18, traduzione di Francesco Forlani) c’è un curiosa storia di censura politico-intellettuale-editoriale che vale la pena ricordare.

Pubblicato nel 1972, era una sorta di carnet personale, annotazioni di letture, considerazioni, riflessioni, descrizioni, incontri di chi si era già imposto come un enfant prodige delle lettere francesi. All’epoca trentasettenne, de Roux aveva esordito a vent’anni fondando la rivista L’Herne, finanziata con la vendita di alcuni gioielli di famiglia. A 25 aveva scritto il suo primo romanzo, Mademoiselle Anicet, a 26 trasformato la rivista in Cahiers de l’Herne, Pound, Bernanos, Céline, Gombrowicz, Borges… Nel decennio successivo, fra saggi (La mort de L.-F. Céline, L’Ecriture de Charles de Gaulle, L’ouverture de la chasse), pamphlets (Contre Servan-Schreiber), attività editoriali (le edizioni Christian Bourgois, di cui fu uno dei fondatori, Presses de la Citè, di cui era consulente letterario), romanzi (Maison jaune, L’Harmonika-Zug) aveva consolidato una posizione di battitore libero in controtendenza rispetto al proprio tempo: il «nouveau roman» lo faceva piangere di noia, il maggio francese gli era sembrato una mitomania collettiva, la sinistra intellettuale una tribù antropofaga che faceva carriera sul cadavere del marxismo…

Immédiatement segnò per molti aspetti una sorta di cesura fra ciò che c’era stato prima e ciò che ci sarebbe stato dopo e la frase con cui si apre, «Molto spesso, ho preso congedo», farà dire a biografi e familiari che si trattasse di una cesura volontaria, un farla finita con il mondo in cui si era sino ad allora mosso, grazie a una triplice provocazione, politica-letteraria-intellettuale, propedeutica a una sua inevitabile espulsione.

La prima provocazione ha a che fare con un giudizio su Georges Pompidou, scritto quando quest’ultimo non era ancora presidente della Repubblica: «Pompidou – questa bella Venere di Lapougue della politica francese – sa tutto. Sa come si incula una mosca, come il 15 agosto presentare i suoi ossequi alla Vergine Maria. Conosce pure l’Inferno e i francesi. Porta sulla Francia uno sguardo da veterinario poiché la Francia di Pompidou è una truffa politica». La seconda riguarda Maurice Genevoix, segretario perpetuo dell’Académie française: «Uno scrittore per somari». La terza prende di mira Roland Barthes, pontefice massimo dell’intellighentia parigina: «Un giorno, con Jean Genet, mi dice Lapassade, parlavamo di Roland Barthes; di come avesse separato la sua vita in due, il Barthes dei bordelli con ragazzi e quello talmudista (sono io a precisarlo); dicevo: Barthes è un uomo da salotto, è un tavolo, una poltrona… No, ribatté Genet: Barthes è una pastorella».

L’Eliseo, così come l’Académie a difesa di Genevoix, fecero pressioni sull’editore di Presses de la Citè, Barthes minacciò di procedere per via giudiziaria contro le edizioni Bourgois. Risultato: la pagina relativa a quest’ultimo venne tagliata via dalle copie ancora in deposito e, su mandato imperativo dell’editore, i librai fecero lo stesso con le copie in loro possesso, de Roux venne licenziato in tronco da Presses de la Citè e si ritrovò messo praticamente alla porta da quella stessa casa editrice che aveva contribuito a fondare…

La sua vita successiva sarà quella di chi aveva deciso di non rassegnarsi al recinto del letterato. Farà dei reportage in Angola e in Portogallo sarà una sorta di consigliere di Jonas Savimbi, il guerrigliero leader dell’Unita, nella «rivoluzione dei garofani» si illuderà di trovare l’idea di un impero d’Occidente in grado di costruire fra Portogallo e territori d’oltremare una nuova alleanza… Morirà nel 1977, a 42 anni, per una malformazione congenita al cuore di cui era naturalmente a conoscenza e che per molti versi spiega la precocità, l’attività febbrile, le intemperanze ideologiche e di cuore: sapeva che il tempo a disposizione era poco e intendeva sfruttarlo sino all’ultimo.

Immédiatement ha i pregi e i difetti dei libri fatti di frammenti. Nomi, luoghi e bersagli polemici che al momento sembravano importanti, si rivelano con il tempo di circostanza, e le stesse provocazioni che allora lo fecero mettere all’indice, oggi rischiano di apparire incomprensibili. Il suo valore è altrove, nei pensieri umorali, nelle confessioni a viso aperto: «Lo spirito senza la carne è onanismo. La carne senza spirito è bestialità». «Mi dice Jean, dopo aver parlato di mio figlio Guillaume: Non sei che un attore. A volte il fondale va in pezzi e continui a recitare senza sapere che reciti la tua stessa vita». «Essere moderno vuol dire cedere alle circostanze». «L’odio, dimensione borghese della rabbia». «Non voglio più appartenere alle circostanze della mia vita». «Come far capire a certe persone che funziono solo in condizioni aberranti. Allorché, invece, tutto ciò che è borghese è partecipe di un qualsivoglia interesse». «Guadagnarsi da vivere. Tanto tempo perduto in denaro guadagnato».

Vissuto in un Novecento in cui l’homo ideologicus teorizzato da Cochin per spiegare la Rivoluzione francese e il Terrore aveva ormai raggiunto la sua piena maturità, de Roux venne etichettato dai suoi nemici come «fascista», cosa che in Immédiatement gli detta questa considerazione: «Mi viene voglia di presentarmi così: Io, Dominique de Roux, già impiccato a Norimberga». Quell’etichettatura faceva del resto parte di una singolare inversione del vocabolario: «Il mercenario diviene volontario, l’agente speciale un consigliere, il questurino un patriota, i corpi di spedizione l’aiuto al Paese fratello, l’aggressione deliberata, un’assistenza militare per abbattere la reazione. Il tutto con L’Internazionale in sottofondo».

C’è nel libro un lungo giudizio di Romain Gary a questo proposito esemplare, proprio perché Gary con l’homo ideologicus aveva poco o niente da spartire. Scrive bene de Roux, dice dunque Gary, «un autentico scrittore», ma il suo piglio polemico rimanda non tanto a una «questione di fascismo di fondo», quanto a un «fondo fascista». Che però, ammonisce, non esiste: «Il fascismo è sempre stato un contenitore che soffre del vuoto interiore, del suo vuoto, ecco perché può trasformarsi facilmente in fosse comuni. I cadaveri fanno sempre molto contenuto». Sulle «fosse comuni» per la verità il bolscevismo avrebbe potuto dare delle lezioni, così come il Terrore rivoluzionario giacobino, ma questo Gary non lo può dire, altrimenti l’impalcatura del suo ragionamento non sta in piedi e quanto a praticare «letterariamente l’odio», in Francia come altrove la sinistra colta non andrà certo a lezione dalla destra ignorante… Su una cosa però Gary ha ragione: è tempo che de Roux affronti «non altri ma se stesso con ferocia, coraggio e senza pietà. Io è un contenuto che lo chiama, il grande appuntamento letterario è con lui». Immédiatement è sotto questo aspetto la risposta che proprio Gary avrebbe voluto.

Leggi la recensione anche su http://www.ilgiornale.it/news/spettacoli/de-roux-leggere-immediatamente-e-ripensare-calma-1640272.html

“Viviamo di poesia e non ce ne accorgiamo”: intervista a Valerio Di Benedetto – di Federica Santoni su Artwave

“Viviamo di poesia e non ce ne accorgiamo”: intervista a Valerio Di Benedetto – di Federica Santoni su Artwave

“L’arte è fondamentale per uscire da alcune visioni, per riprendersi la sacralità della vita”. Valerio Di Benedetto racconta su Artwave la sua esperienza poetica e artistica.

Quando la scrittura poetica incontra il talento artistico possono succedere grandi cose. Ce lo dimostra Valerio di Benedetto, in arte Umanamente inbilico: attore teatrale e cinematografico, Valerio ha saputo trasformare le sue poesie in vere e proprie opere d’arte urbana, decorando le serrande di più di una città con la vivacità dei colori e la bellezza dei versi.

“Amore a tiratura limitata” è la tua raccolta di versi edita da Miraggi Edizioni. Come è nata questa esperienza poetica?

Non pensavo assolutamente di iniziare a scrivere delle poesie, le circostanze della vita mi ci hanno portato: mi sono ritrovato a scrivere per canalizzare delle sensazioni che avevo dentro. Recitativamente parlando, non avevo la possibilità tutti i giorni o tutti i minuti di poter sfruttare quella sofferenza buttandola in un personaggio, quindi la cosa più rapida è stata scrivere. Ho iniziato a comporre poesie in maniera totalmente disinteressata rispetto alla pubblicazione di un libro, ma a un certo punto mi sono reso conto che scrivere era diventata una catarsi: ero riuscito a trasformare quella sofferenza in qualcosa di artistico, in questo caso di poetico. Ho pensato che sarebbe stato uno spunto di incoraggiamento per quelli come me, avrei potuto incoraggiarli: le poesie sono state come una corda grazie alla quale risalire per poter raggiungere la luce. Ho trovato così una casa editrice, Miraggi, alla quale mandare i miei scritti: la risposta mi è arrivata dopo quasi un anno. Mentre aspettavo ho sentito l’esigenza di pubblicare e di condividere le mie poesie in qualche modo, e ho trovato un’alternativa nelle serrande, che sono state per me pagine bianche: le città nelle quali poi ho portato le mie poesie (oltre a Roma anche Milano e Parigi, dove ho scritto una poesia in francese) hanno rappresentato per me dei veri e propri libri a cielo aperto.

Raccontaci della tua idea di scrivere poesie sulle serrande.

Nell’attesa della pubblicazione ho pensato che avrei scritto su pagine diverse da quelle consuete, pagine di metallo: trovo che sia molto poetico anche questo. Nel momento in cui “muore” un’attività perché è sera, la serranda viene abbassata e continua a vivere con una mia poesia scritta lì sopra. La leggono, la fotografano, la postano. Qualche volta mi diverto, su Instagram, a cercare l’hashtag #umanamenteinbilico, la mia firma, per vedere cosa esce fuori: all’inizio vedevo che molte persone postavano le fotografie delle mie serrande, magari senza il mio tag, e leggevo descrizioni sotto alle loro foto che mi gratificavano molto, del tipo: “dopo una giornata pesante parcheggio la macchina e mi trovo davanti questa cosa, che presa a bene”. In questo mondo social estremamente egoriferito, fatto di selfies e stories, si dimentica spesso cosa significhi empatizzare con l’altro, con la sua sofferenza, con il suo bisogno. In qualche modo anche la politica ce lo sta dicendo, stiamo vivendo una chiusura, non un’apertura.

 

In che modo credi di aver contribuito al cambiamento della fruizione della poesia, rendendo le tue parole leggibili sulle serrande di negozi o sui tuoi “quadri” così particolari?

Non so bene in che modo ho contribuito al cambiamento della fruizione della poesia. So soltanto che mi hanno chiesto se non sia un po’ anacronistico pubblicare poesie, in un libro o su una serranda, ai nostri giorni. Secondo me questa è una cosa fondamentale. Viviamo di poesia e non ce ne accorgiamo. La poesia è ovunque. Bisognerebbe solo avere più sensibilità nel riconoscerla. Effettivamente quella delle serrande (e, in generale, la poesia di strada in sé) rende l’esperienza poetica piùaccessibile: non perché la poesia sia qualcosa di elitario, ma perché tra le pagine dei libri riposti negli scaffali viene più facilmente dimenticata. Il concetto di arte di strada nasce con l’idea di essere davanti agli occhi di tutti, ogni giorno. Ho scritto una poesia su Spiderman su una serranda del negozio di un mio amico, che ha una fumetteria a San Paolo, in Via Gaspare Gozzi. La cosa interessante e divertente che mi racconta una mia carissima amica è che, quando va a lavorare presto la mattina, nella metro da San Paolo verso l’Eur riesce a vedere questa mia poesia. Io immagino che dalle sei alle dieci tutte le persone che passano di lì possano vederla. Magari la prima volta buttano l’occhio, vedono i colori. Il secondo giorno fanno più attenzione, la leggono, la vanno a vedere. Questa cosa in qualche modo ti fa arrivare a più persone, ed è bello saperlo.

 

 

 

 

Ho desiderato poi fare anche qualcosa che fosse accessibile a tutti: invece dei classici quadri, pannelli di legno o tela, per essere coerente con il mio progetto artistico ho preso dei pezzi di serranda della misura dei quadri e poi ho riproposto lo stesso layout. Mi sono basato sin da subito sulla palette della pop-art, ispirandomi agli accostamenti di Warhol, Keith Haring, Basquiat. Sono nate così queste serrande dalle diverse misure che ho esposto recentemente in una mostra a Via Margutta, e devo dire che mi piacciono tantissimo.

di Federica Santoni

Leggi l’intervista anche qui https://www.artwave.it/cultura/interviste/viviamo-di-poesia-e-non-ce-ne-accorgiamo-intervista-a-valerio-di-benedetto/

L’amore al tempo dei social network, “Facebook Blues” il romanzo di Laura Bettanin – di Enza Petruzziello

L’amore al tempo dei social network, “Facebook Blues” il romanzo di Laura Bettanin – di Enza Petruzziello

A volte tornano. Più spesso sui social network. È il potere del web, ma anche l’arma a doppio taglio dei social. A raccontarci le dinamiche dell’amore 2.0 con quello spirito ironico e sarcastico che da sempre la contraddistingue è Laura Bettanin, nel suo romanzo dal titolo “Facebook blues” edito da Miraggi Edizioni. Un tenero e divertente racconto sulla vita e sulla passione al tempo dei social network.

Un romanzo che fa un’analisi spietata e umoristica del magico mondo dei vari Facebook, Instagram, Twitter e delle sue nevrosi che possono dare dipendenza e che ci parla di ciò che è proprio dell’uomo.

Il bisogno di comunicare, di colmare le distanze, l’amicizia e la confidenza, le incomprensioni che possono essere superate, i figli che si abbracciano anche se sono diversi da come ti aspetti, e l’amore, che quando si incontra, non si deve lasciar andare.

La scrittrice originaria di Venezia, su Facebook è conosciuta con il nome di Janis Joyce e vanta numerosi fan che la seguono proprio per il suo spirito caustico e pungente.

Lo stesso che è possibile ritrovare nelle pagine della sua ultima fatica letteraria. Al centro della storia ci sono due amiche: Renata, divorziata e fanatica di Facebook, Marta infelicemente sposata con un marito ormai anziano, che detesta ma non ha il cuore di lasciare.

“Facebook Blues” il romanzo di Laura Bettanin

Proprio a lei però accade qualcosa.

Il grande amore della sua vita, Jeremy, un americano conosciuto durante il viaggio di nozze e con cui aveva avuto una storia clandestina molto intensa, ricompare in rete dopo vent’anni, durante i quali lei aveva creduto di averlo perso per sempre. In mezzo suo figlio Eligio e suo marito Franco.

Una storia romantica che in fondo potrebbe essere la storia di tutte noi. I social network sono diventati parte della nostra vita e come tali diventano il palcoscenico di quegli amori che spesso “fanno dei giri immensi e poi ritornano”.

Cambia il modo di approcciarsi, ci si scambiano messaggi o like, ma l’amore e la passione restano gli stessi. Laura Bettanin racconta con uno stile gradevole e un guizzo di ironia di questo mondo fatto di incontri e scontri che molto spesso vengono dati in pasto alla pubblica bacheca. “Facebook Blues” è un libro che si legge tutto d’un fiato, in cui è facile immedesimarsi in Marta e nella spasmodica ossessione di rimanere connessa per leggere quel messaggio e non perdersi nulla di ciò che accade (e troppo spesso intrappola) in rete.

Che cosa farà Marta? Seguirà il suo primo grande amore o deciderà di rimanere con la sua famiglia? Per scoprirlo non vi resta che leggere “Facebook Blues”.

di Enza Petruzziello

Potete leggere l’articolo anche qui https://www.voglioviverecosi.com/facebook-blues-il-romanzo-di-laura-bettanin.html

 

Altre ossessioni – La Realtà Pura di Riccardo De Gennaro- di Luisa Grion per La Repubblica

Altre ossessioni – La Realtà Pura di Riccardo De Gennaro- di Luisa Grion per La Repubblica

Carlo Gozzini, l’io narrante, è un professore di economia innamorato di Blandine, attrice di vent’anni più giovane che non lo ama e non perde occasione per umiliarlo. La sua ossessione diventa paranoia quando Blandine viene ricoverata in un manicomio e quando Carlo scopre di essere spiato da una organizzazione criminale e da un uomo misterioso. Sono loro, non la donna, a condizionare la sua vita. Ed è questo, non l’amore, il tema centrale del romanzo. Quali sono le forze che trattengono i nostri desideri facendo sì che non si realizzino e trasformandoci in persone diverse da quello che siamo? “Sentivo che due sono le cose fondamentali: non giudicare la vita e non compiere atti che siano irreversibili”.

di Luisa Grion


Dominique de Roux e Riccardo De Gennaro, miraggi agli antipodi della narrativa – di Lorenzo Mazzoni su Il Fatto Quotidiano

Dominique de Roux e Riccardo De Gennaro, miraggi agli antipodi della narrativa – di Lorenzo Mazzoni su Il Fatto Quotidiano

“Il mestiere del giudice è abominevole, perché condannare significa arrivare troppo tardi”. Immediatamente, di Dominique de Roux(traduzione di Francesco Forlani; Miraggi edizioni), è uno scomodo, riuscito e originale volume di frammenti che racchiudono la poetica e la visione del mondo di una delle figure più singolari del Novecento francese, e non solo.

Figlio nobile di una famiglia monarchica, errante tra Germania, Spagna e Inghilterra sul finire degli anni Cinquanta, polemico, traduttore, visionario, internazionalista gollista, vagabondo nei primi anni Settanta in Svizzera e Portogallo, si rifugia a Lisbona e si dedica al giornalismo, diventando corrispondente nelle colonie lusitane e intimo amico del discutibile Jonas Savimbi. Nell’aprile del 1974, al tempo della Rivoluzione dei Garofani, è l’unico giornalista francese presente a Lisbona.

Immediatamente, racconta questo lungo errare. Tracce di New York, Haiti, Amburgo, Ginevra, Parigi, Lisbona, di almeno quattro continenti e un numero cospicuo di nazioni. Sono presenti le interpretazioni filosofiche e politiche dell’autore sui fatti epocali che vanno dal Dopoguerra agli anni Settanta. Riflessioni sagaci, a volte destabilizzanti: “Il crollo delle ideologie a beneficio degli estremismi nazionali. Il razzismo nazista non è stato nient’altro che un’estetica dell’assassinio. Rinascimento estetico = assenza totale di carità (…) Appena terminata la biografia del maréchal de Richelieu, un cazzone con dietro un maréchal (…) Chi si prende la briga di parlare del Mein Kampf? Un giorno rimarrà di Hitler soltanto questo libro che non opera nella storia ma nell’inattuale. È un’antologia totale del totalitarismo”.

La bellezza – e anche la forza – di Immediatamente è data dal senso di incompiutezza che pervade tutto il volume. Frammenti che devono essere interpretati, parole che richiamano a un’infinità di parole non scritte, attacchi al moralismo in cerca di una libertà nuova, profondamente soggettiva, che Dominique de Roux nei suoi libri e nei suoi articoli ha ricercato per tutta la vita.

Riccardo De Gennaro e Dominique de Roux, miraggi agli antipodi della narrativa – di Lorenzo Mazzoni su Il Fatto Quotidiano

Riccardo De Gennaro e Dominique de Roux, miraggi agli antipodi della narrativa – di Lorenzo Mazzoni su Il Fatto Quotidiano

“Io sono un professore affermato, amato dai suoi studenti, tu un’attricetta senza futuro che, come si racconta, non esita ad andare a letto con chiunque le prometta una piccola parte in un film. Ma una volta che la rabbia mi aveva completamente stremato una seconda voce subentrava alla precedente: amore mio, non vivo senza di te, non respiro, torna, ti prego sei il mio ossigeno. Vivevo come in un ghetto mentale, emarginato in una regione fredda, non potevo ribellarmi, non potevo liberarmi. La sua scomparsa aveva creato il vuoto intorno a me, come quando si pompa via l’aria di un contenitore. Niente è onnipotente come la sofferenza”.Un economista, un’attrice di serie B, un oscuro pedinatole sono i personaggi che si muovono nel “singolarmente” lineare, intenso e a tratti malinconico, La realtà pura, romanzo di Riccardo De Gennaro (Miraggi edizioni), allegoria dell’intoppo continuativo che impedisce alle persone di essere ciò che vogliono, di avere ciò che desiderano.

Il protagonista della storia è un uomo ossessionato che si muove come un tardivo fugueur nei pressi del manicomio dove è ricoverata la sua amata, pedinato e sorvegliato, molto probabilmente, dall’Organizzazione criminale che non gli consente di gestire la propria esistenza in modo totalmente indipendente. La storia si dipana, tesa e angosciante, fino a un riuscito disvelamento narrativo, disseminato sapientemente nel romanzo.

Per certi versi La realtà pura, anche se lo stile – e la vicenda – sia assolutamente differente, mi ha ricordato un libro di un bravissimo autore coreano, Memorie di un assassino, di Kim Young-ha(traduzione di Andrea De Benedittis; Metropoli d’Asia), forse per l’analogo clima che si respira in queste due opere scorrendo tra le righe: un assillo sempre più abbagliante, il tormento della mente umana, pronta a incolpare costantemente qualcun altro per le nostre sconfitte, fino allo svelamento di qualcosa di nuovo, inaspettato: “È un animale, non fa altro che eseguire gli ordini che gli vengono impartiti. Un mulo dove lo attacchi sta. Pedinare qualcuno, d’altronde, non è un lavoro animale? Richiede forze intelligenza? Assolutamente no, l’intelligenza potrebbe essere dannosa e pensare gli è vietato. Nel migliore dei casi gli si richiede soltanto un po’ di pazienza. Gli occhi che non sono ancora riuscito a vedere saranno senz’altro bovini. Anche il suo continuo tenere la bocca semiaperta è un segno della sua stupidità. No, è inutile: non gli dirò nulla, continuerò a mantenere la guardia alta. Non si sa mai, uno stupido può provocare disastri anche quando è inattivo. D’altronde, più passano i giorni, meno sono le probabilità che mi voglia uccidere.”

Vita e opere di Jan Nemec l’anticomunista viveur che odiò la Cannes del ’68 – di Elisa Grando su Il Piccolo

Vita e opere di Jan Nemec l’anticomunista viveur che odiò la Cannes del ’68 – di Elisa Grando su Il Piccolo

Il regista Jan Nemec, scomparso nel 2016, è stato sempre considerato l’“enfant terrible” del cinema cecoslovacco, l’irriverente, lo sfrontato, quello senza mezzi termini e mezze misure. Rispetto ai compatrioti Jirí Menzel e Milos Forman, entrambi Premi Oscar, ebbe meno successo, ma fu uno dei nomi di spicco della Nova Vlna, la nouvelle vague cecoslovacca, e l’unico regista a filmare l’invasione di Praga da parte dei carri armati sovietici, il 21 agosto 1968, gesto che lo rese inviso al regime. Si accorda dunque al suo animo fiammeggiante il titolo italiano del suo libro “Volevo uccidere J. L. Godard”, una raccolta di 31 racconti autobiografici tra il memoir, l’aneddoto e l’apologo grottesco pubblicata in Italia da Alessandro De Vito, traduttore ed editore con Miraggi edizioni(pagg. 288, euro 17,00). Domani mattina De Vito presenterà il volume alle 12 al Caffè San Marco nell’ambito del Trieste Film Festival, del quale Nemec era stato ospite nel 2004.

«Sono di origine cecoslovacca da parte di madre, quindi ho un interesse personale per il paese», spiega De Vito. «In più mi sono laureato con una tesi sulla Nova Vlna, forse anche più importante della nouvelle vague francese: a Praga gli intellettuali, i teatranti, i cineasti e gli scrittori, come anche Hrabal, facevano funzione effettiva di opposizione politica».

I 31 racconti, scritti dal 1970 al 1990, «sono la storia di un uomo libero che ha fatto le sue scelte di vita anche rischiando, come quando, nel 1974, ha lasciato la Cecoslovacchia dove gli era impedito di lavorare, e ha vissuto negli Stati Uniti facendo film di matrimoni. Però non si è mai piegato». Nemec è stato anche un goliarda, un autentico viveur, un irrequieto che amava le feste e le donne, sposato con una delle più grandi cantanti ceche dell’epoca, Marta Kubišová.

La sua prosa schietta trabocca delle speranze della Primavera di Praga, delle disillusioni del post-invasione, e poi di tanta vita, sesso, amori, riflessioni taglienti. Il titolo del libro deriva dalla sua personale cronaca di quel cruciale Festival di Cannes del 1968: «Voci di corridoio dicevano che un premio sarebbe andato a Nemec, in concorso con “La festa e gli invitati”, Forman o Menzel», racconta De Vito. «Invece durante il festival scoppiò il maggio francese e registi “engagées” come Godard e Truffaut proposero di interrompere la manifestazione. La premiazione non si tenne. Nemec rimase arrabbiatissimo: vedere degli occidentali “comunisti” che volevano fare la rivoluzione era per lui un contrasto di campo totale, e in più un premio a Cannes avrebbe dato una svolta alla sua carriera».

Tra i racconti c’è anche quello, surreale e iperbolico, dell’infarto che lo avrebbe colto durante un rapporto sessuale e dal quale si sarebbe salvato letteralmente “stringendo le chiappe” per contrastare il rilascio degli sfinteri. «Nemec si appassiona quando parla del destino del suo popolo e dell’arte, valori assoluti, ma un minuto dopo magari sta pensando al seno di una donna». Ed è rocambolesco il racconto di come Nemec fece filtrare in Occidente le immagini dell’invasione sovietica che poi usò nel suo documentario “Oratorio per Praga”: «Aveva una macchina da dandy, una cabriolet Fiat 850, e conosceva la moglie di un funzionario dell’ambasciata italiana a Praga», dice De Vito. «Insieme alla ragazza e al diplomatico – racconta il traduttore del libro – si è finto italiano per varcare la frontiera con l’Austria e portare a Vienna il negativo. La mattina dopo, la televisione austriaca ha mostrato quelle immagini a tutto il mondo». –

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