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Vita e opere di Jan Nemec l’anticomunista viveur che odiò la Cannes del ’68 – di Elisa Grando su Il Piccolo

Vita e opere di Jan Nemec l’anticomunista viveur che odiò la Cannes del ’68 – di Elisa Grando su Il Piccolo

Il regista Jan Nemec, scomparso nel 2016, è stato sempre considerato l’“enfant terrible” del cinema cecoslovacco, l’irriverente, lo sfrontato, quello senza mezzi termini e mezze misure. Rispetto ai compatrioti Jirí Menzel e Milos Forman, entrambi Premi Oscar, ebbe meno successo, ma fu uno dei nomi di spicco della Nova Vlna, la nouvelle vague cecoslovacca, e l’unico regista a filmare l’invasione di Praga da parte dei carri armati sovietici, il 21 agosto 1968, gesto che lo rese inviso al regime. Si accorda dunque al suo animo fiammeggiante il titolo italiano del suo libro “Volevo uccidere J. L. Godard”, una raccolta di 31 racconti autobiografici tra il memoir, l’aneddoto e l’apologo grottesco pubblicata in Italia da Alessandro De Vito, traduttore ed editore con Miraggi edizioni(pagg. 288, euro 17,00). Domani mattina De Vito presenterà il volume alle 12 al Caffè San Marco nell’ambito del Trieste Film Festival, del quale Nemec era stato ospite nel 2004.

«Sono di origine cecoslovacca da parte di madre, quindi ho un interesse personale per il paese», spiega De Vito. «In più mi sono laureato con una tesi sulla Nova Vlna, forse anche più importante della nouvelle vague francese: a Praga gli intellettuali, i teatranti, i cineasti e gli scrittori, come anche Hrabal, facevano funzione effettiva di opposizione politica».

I 31 racconti, scritti dal 1970 al 1990, «sono la storia di un uomo libero che ha fatto le sue scelte di vita anche rischiando, come quando, nel 1974, ha lasciato la Cecoslovacchia dove gli era impedito di lavorare, e ha vissuto negli Stati Uniti facendo film di matrimoni. Però non si è mai piegato». Nemec è stato anche un goliarda, un autentico viveur, un irrequieto che amava le feste e le donne, sposato con una delle più grandi cantanti ceche dell’epoca, Marta Kubišová.

La sua prosa schietta trabocca delle speranze della Primavera di Praga, delle disillusioni del post-invasione, e poi di tanta vita, sesso, amori, riflessioni taglienti. Il titolo del libro deriva dalla sua personale cronaca di quel cruciale Festival di Cannes del 1968: «Voci di corridoio dicevano che un premio sarebbe andato a Nemec, in concorso con “La festa e gli invitati”, Forman o Menzel», racconta De Vito. «Invece durante il festival scoppiò il maggio francese e registi “engagées” come Godard e Truffaut proposero di interrompere la manifestazione. La premiazione non si tenne. Nemec rimase arrabbiatissimo: vedere degli occidentali “comunisti” che volevano fare la rivoluzione era per lui un contrasto di campo totale, e in più un premio a Cannes avrebbe dato una svolta alla sua carriera».

Tra i racconti c’è anche quello, surreale e iperbolico, dell’infarto che lo avrebbe colto durante un rapporto sessuale e dal quale si sarebbe salvato letteralmente “stringendo le chiappe” per contrastare il rilascio degli sfinteri. «Nemec si appassiona quando parla del destino del suo popolo e dell’arte, valori assoluti, ma un minuto dopo magari sta pensando al seno di una donna». Ed è rocambolesco il racconto di come Nemec fece filtrare in Occidente le immagini dell’invasione sovietica che poi usò nel suo documentario “Oratorio per Praga”: «Aveva una macchina da dandy, una cabriolet Fiat 850, e conosceva la moglie di un funzionario dell’ambasciata italiana a Praga», dice De Vito. «Insieme alla ragazza e al diplomatico – racconta il traduttore del libro – si è finto italiano per varcare la frontiera con l’Austria e portare a Vienna il negativo. La mattina dopo, la televisione austriaca ha mostrato quelle immagini a tutto il mondo». –

Leggi l’articolo anche qui https://ilpiccolo.gelocal.it/tempo-libero/2019/01/18/news/vita-e-opere-di-jan-nemec-l-anticomunista-viveur-che-odio-la-cannes-del-68

Tutte le vite sul fondo di un lago – Il Lago: Recensione di Angelo Di Liberto su La Repubblica

Tutte le vite sul fondo di un lago – Il Lago: Recensione di Angelo Di Liberto su La Repubblica

Gentili lettori,

Se scrivere significa spezzare il legame tra la parola e chi la imprime su carta, il libro di cui vi parlerò quest’oggi rappresenta un ottimo esempio di sacrificio, di sparizione, di solitudine, di messa al bando dell’autore. Una forma di liberazione che implica il passaggio dal soggetto alla moltitudine. Per l’autrice de “Il Lago”, Bianca Bellová, deve valere quell’assunto per il quale lo scrittore appartiene a un linguaggio che nessuno parla, incomunicabile, indicibile, che non rivela nulla se non l’interminabile cammino degli uomini, del mondo e la sua impossibilità a conoscersi del tutto.
Se la storia della letteratura è un racconto di anime, ve ne sono di stropicciate, sbrindellate, traviate, corrotte e miserabili nelle vicende delineate dalla scrittrice.
La voce italiana di Bianca Bellová è di Laura Angeloni, traduttrice di fiuto alchemico e di raffinata maestria interpretativa. Non stento a credere che il libro conti traduzioni in quindici lingue e che sia stato premiato nel 2017 con il “Premio Unione Europea per la Letteratura” e col “Magnesia Litera”.
L’editore, che per l’occasione inanella il secondo successo dopo “Volevo uccidere J.-L. Godard”, inserisce “Il lago” nella collana “NováVlna”, letteralmente “Nouvelle Vague”, che racchiude e solidifica quel rapporto costante tra innovazione e esistenzialismo degli anni della Primavera di Praga.
Protagonista della storia è la ricerca delle origini come punto di partenza del passaggio sulla Terra di Nami, un bambino senza genitori, che vive coi nonni, che ha un passato oscuro, inviso alla popolazione di Boros, un paese che confina con un lago, principio cardine della vita della comunità, presenza inquietante e sfigurata.
Il lago alberga nell’immaginario della collettività come origine della vita e caduta nella morte. Ma è anche luogo di perdizione ed emblema dello sfregio della natura. Ogni anno le sue acque si assottigliano sino a restituire corpi, oggetti, forme, fantasmi.
La nonna di Nami accarezza i capelli del nipote, dopo averlo fatto adagiare sulla sua pancia morbida, e gli racconta dello Spirito del lago e dei guerrieri dell’Orda d’Oro, di quanto dormano da secoli sulla rupe di Kolos, aspettando un potente guerriero che li svegli.
Nami non ha nessun ricordo del padre, e della madre rammenta tre macchie rosse, il suo bikini di quando andavano insieme in riva al lago. Perché Nami ha dimenticato il volto di sua madre?
Se apparentemente penserete di avere già sentito storie del genere, resterete di stucco per la lingua usata dalla scrittrice, perché è essa stessa strumento conoscitivo e intuitivo della storia, coi suoi furori sintattici e le sue staffette strutturali, scarni crudeli, rarefatti, necessari.
Si parte dal primo capitolo dal titolo “Uovo” e si procede con “Larva”, “Crisalide” e in ultimo, “Imago”.
E non sarà un caso se l’imago per Jung era un’immagine ancestrale, amata nell’infanzia, che corrispondeva di solito a un genitore, e che rimane, esercitando un’influenza nella psiche dell’adulto.
Nami cerca sua madre, la cercherà sino a quando non lo lasceremo, all’età di diciotto anni, e saremo passati insieme a lui attraverso la fame, la persecuzione, l’amore, la violenza, l’amicizia, la dittatura e il tradimento.
Nonostante non si faccia mai riferimento a un lago che abbia un suo corrispettivo nella vita reale, è indubbia l’affinità con l’Aral, il cui prosciugamento è uno dei più biechi disastri ambientali del novecento.
Il suo destino procede parallelo a quello del nostro protagonista. Nami custodisce memorie e lutti, ingloba l’amore sino a rappresentarlo come perdizione, allarga i suoi confini ma viene depredato di ogni sicurezza, così come succede al lago della storia e a quello della vita reale, a causa delle piantagioni di cotone. Non ultimo, nel libro compare il fantasma della dittatura russa, con le sue violenze, come quella compiuta da due soldati ai danni della fidanzata di Nami, Zaza, sotto i suoi occhi impotenti e pietrificati.
Bianca Bellová raschia via tutte le nostre convinzioni crivellando di colpi la scrittura, rivoltando il paradosso della perdita in una ritrovata comunione con l’elemento primordiale: quell’acqua di cui si avverte “il puzzo del fango fradicio” ma che è ricongiungimento nell’abbraccio finale.
L’Antiquario vi saluta.

Angelo Di Liberto

Immediatamente di Dominique De Roux – recensione a cura di Nicola Vacca

Immediatamente di Dominique De Roux – recensione a cura di Nicola Vacca

immediatamenteMi piace definire Dominique De Roux il Karl Kraus francese. Scrittore e intellettuale fuori dal comune, cavaliere delle lettere in territorio nemico, fa parte degli irregolari e degli impresentabili del  Novecento.
Fu il creatore dei «Cahiers de l’Herne», una collana che riportò al centro della vita culturale scrittori maledetti, liberi e anticonformisti (che molto gli somigliavano) come Céline, Pound, Artaud, Lovercraft.
De Roux riuscì a presentare criticamente al grande pubblico autori del calibro di Borges, Gombrowicz, Solženicyn, Koestler e movimenti come la beat generation.
Siamo davanti a un grande scrittore controverso che decise di essere sempre un uomo libero, di non appartenere a nessuna banda letteraria. La sua penna e la sua intelligenza si schierarono apertamente contro il mondo culturale del suo tempo.
De Roux, come Kraus, nelle sue invettive non risparmiò proprio nessuno.
In Italia non è molto conosciuto e soprattutto è pubblicato poco. Grazie a Francesco Forlani da Miraggi edizioni esce Immediatamente, libro di frammenti e aforismi in cui l’irriverente scrittore francese intinge la sua penna corrosiva di provocatore e di agitatore culturale.
Immediatamente esce in Francia nel 1971 e De Roux è vittima di una violenta reazione del mondo intellettuale francese. Il primo a scagliarsi contro di lui fu Roland Barthes.
Dolo l’uscita del libro «l’impresentabile» De Roux fu costretto a lasciare la Francia.
Dominique De Roux è uno straordinario inattuale che vale la pena conoscere e approfondire. Uno scrittore irregolare che rientra a pieno titolo nella tradizione dei pensatori controcorrente.
Un uomo e un intellettuale che veste da uomo sempre libero i panni del polemista e scrive del proprio tempo sedendosi orgogliosamente dalla parte del torto, in compagnia degli spiriti scomodi e degli infrequentabili.
Immediatamente è un libro di illuminazioni che folgorano. Dominique De Roux è uno scrittore che scrive per disturbare e con i suoi aforismi taglienti ha squarciato, come sanno fare soltanto gli irregolari e gli uomini di pensiero che decidono di rispondere soltanto alla propria coscienza, tutto il marcio di un’epoca che sa solo esprimersi attraverso la rappresentazione ipocrita di se stessa.

«Viviamo il tempo degli istrioni di massa. Coloro che fanno gesti differenti non sono più originari di nessuna parte»; «Al gaullismo succederà la Germania, o peggio ancora i francesi».

Per De Roux scrivere è rinunciare al mondo. Una grande e coraggiosa lezione inattuale.
Quando le epoche si fanno torbide dobbiamo assolutamente leggere gli inattuali. Perché solo loro sanno dirci le cose come stanno.
Leggiamo assolutamente Dominique De Roux che, come Cioran, Kraus, Céline e tutti gli altri infrequentabili, ha diffamato e squartato il suo tempo.

Dominique De Roux (1935-1977) fu un letterato fine e controverso. Il primo romanzo, Mademoiselle Anicet, è del 1960; nel 1963 fonda la rivista «Cahiers de l’Herne», raccolta di numeri monografici dedicati alle figure maledette o misconosciute della letteratura europea (Céline, Gombrowicz e Pound, tra gli altri). Nel 1966 dà alle stampe il saggio La morte di Céline (Lantana), che inaugura il catalogo della casa editrice Christian Bourgois, co-fondata dallo stesso De Roux.
Immediatamente esce nel 1971 e la violenta reazione del mondo intellettuale, con Roland Barthes in prima linea, costringe De Roux ad abbandonare la Francia per diventare corrispondente giornalistico e autore televisivo. Inviato soprattutto in Portogallo, documenta le guerre nelle colonie africane e nel 1974 è l’unico inviato speciale francese a Lisbona durante la rivoluzione dei garofani, che portò alla caduta di Salazar e della dittatura portoghese.
Pubblica l’ultimo romanzo, Le Cinquième Empire, cinque giorni prima di morire improvvisamente per infarto, nel 1977; La Jeune Fille au ballon rouge e Le Livre nègre usciranno postumi.

:: Immediatamente di Dominique De Roux (Miraggi Edizioni 2018) a cura di Nicola Vacca

Stefano Colucci e la poesia 2.0 – di Ilaria Giudice su Artwave

Stefano Colucci e la poesia 2.0 – di Ilaria Giudice su Artwave

“La confusione non è mai stata così bella”, la raccolta poetica di Stefano Colucci (quasi 37mila seguaci su Instagram), è un invito a cogliere la bellezza delle piccole cose. La lettura dei suoi versi ci dà modo di ragionare sulla poesia 2.0 e su quel pubblico di giovani che ha trovato esattamente ciò che cercava: verità, brevità e semplicità”.
 di Ilaria Giudice – 01.02.2019

La poesia di Stefano Colucci è quella delle piccole cose contemporanee: il Mc Donald’s, la metropolitana, La La Land, le felpe giganti, i gol di Totti, Whatsapp.

In La confusione non è mai stata così bella (Miraggi Edizioni), Colucci condensa tutta la concretezza dell’esistenza, ne coglie i particolari tipici dell’età giovanile, stila liste di cose attuali, elenca film e quadri da vedere (“cosa vuoi che me ne freghi/dei tramonti/del mare/dei film di Tarantino/dei quadri di Klimt”) usa il linguaggio di tutti i giorni, le parole quotidiane, pesca i termini nella rete delle conversazioni giornaliere tra ragazzi, (“perché quando andiamo al Mc Donald’s/mangi come se/nessuno ti stesse guardando/ e te ne freghi di ciò che gli altri pensano di te. Mi piaci…”).

Qui ci troviamo di fronte alla nuova poesia, quella che nasce su Instagram o sui social network in generale, quella che riceve migliaia di like, che piace perché è diretta, chiara, schietta. Basti pensare a Guido Catalano o a Gio Evan.

Stefano Colucci ha quasi 37mila followers su Instagram, i suoi post ricevono migliaia di mi piace e numerosi commenti. Il suo modo di fare poesia piace perché cattura, coinvolge ed è comprensibile a prima lettura. È la poesia dei Millennials, è la poesia pop; funziona e vende numeri di copie che gli altissimi della Letteratura si sognano. È la poesia che senza pretese raggiunge il suo pubblico, lo immerge in quella atmosfera Tumblr che tanto piace, lo trasporta dentro una promessa di vita che alletta, lo catapulta dentro la scena di un film in cui lei si alza dal letto, gira mezza nuda per casa e lui la guarda con occhi innamorati sotto lenzuola bianchissime. Questa è la poesia del sogno, è ciò che una ragazza vorrebbe sentirsi dire, è il dipinto di scene semplici, ma platoniche, o perlomeno rare.

“La notte non dormo/guardo il telefono/ogni cinque minuti/ho venti messaggi/ma nessuno è il tuo”.

L’amore fa da sfondo all’intera raccolta di Colucci, un amore tenero e adolescenziale, l’amore che un attimo spinge in altro tra gli eroi e un attimo dopo lacera (“Abbiamo litigato di brutto/ci siamo detti di tutto/ma mai addio”). Questa raccolta è un invito a rendere grande tutto ciò che di piccolo e quotidiano ci circonda perché per essere felici bisogna essere innamorati, di qualcuno o del mondo.

La critica si divide quando si parla di questo genere di poesia, e a ragione. Niente, però, può far male alla poesia e, anzi, questo è un modo efficace per avvicinare i più giovani a questo genere letterario. Si cerca la brevità e la poesia è breve, si cerca la semplicità e la poesia 2.0 è semplice.

I giovani sono liberi, impauriti e innamorati e questa poesia qui, la poesia di Stefano Colucci, i giovani li capisce, li comprende e gli dà esattamente quello di cui hanno bisogno: qualcosa di familiare in cui rintanarsi.

Colucci è nato nel 1995, e l’età che ha si rispecchia completamente nei suoi versi. Comincia a pubblicare i suoi versi sul web quando ha solo 16 anni. La confusione non è mai stata così bella è la sua seconda raccolta. Nel 2006 pubblica Precedenza al cuore che raggiunge in poco tempo il primo posto sulla classifica Amazon. Ha prodotto, ha scritto e ha fatto da voce narrante per cortometraggi diretti da Paolo Reali e da Elonora Sabet, diventati virali sul web.
Autostop per la notte – Intervista a Massimo Anania di Chiara Stival su Italian-directory.it

Autostop per la notte – Intervista a Massimo Anania di Chiara Stival su Italian-directory.it

Autostop per la notte, libro d’esordio di Massimo Anania recentemente pubblicato da Miraggi Edizioni, si legge tutto d’un fiato: il ritmo della scrittura rispecchia le vicissitudini raccontate, è sostenuto, incalzante fino a giungere a quell’estremo che vede come unica soluzione la necessità di un tuffo in un’altra dimensione. Questo stacco prende la forma del flusso di coscienza che interrompe il vorticoso incedere della narrazione con pause di disorganizzata riflessione, momenti di sospensione utili nella musicalità di questo immaginario pentagramma.

L’alternanza tra i fatti reali che accadono a Maurizio, il protagonista, e le sue incontrollate riflessioni mantengono la cadenza sincopata per l’intero romanzo, un continuo movimento tra mondo reale e un mondo che si fa onirico per l’intero romanzo.

Autostop per la notte è ambientato a Torino, scelta che evidenzia maggiormente il contrasto tra possibile e impossibile, tra chiaro e scuro; il capoluogo noto per essere catalizzatore di magia bianca e magia nera, si mostra come una Torino signorile e aristocratica e al contempo segreta, chiusa in palazzi inaccessibili e governata da personaggi potenti, perché ricchi e privi di scrupoli.

In questo sfondo notturno e labirintico, un gesto abituale per Maurizio, quello di fare autostop, lo proietta in un susseguirsi di accadimenti che sfuggono al suo controllo e a qualsiasi sensata previsione, che si intrecciano anche quando sembra si siano finalmente districati.

L’apparente casualità, che innesta un’avventura durata tre giorni, assume diverse sembianze, inizia con quella del gentile automobilista che gli concede un passaggio, poi prende forma di donna e infine quella di un professore; il fluire degli eventi trasportano protagonista e lettori in una breve quanto incessante discesa agli inferi urbani.

Intervista

Come definisci Autostop per la notte: romanzo breve o racconto lungo?

Il confine tra romanzo breve e racconto lungo è difficile da stabilire, personalmente lo vedo come un romanzo breve ma non credo sia errato definirlo racconto lungo.

La seconda persona singolare per la narrazione è una scelta audace: perché la usi?

Mi trovo a mio agio in fase di prima stesura, anche se non è semplice da utilizzare mi permette di tenere il ritmo della narrazione elevato. E ho scoperto che mi piace parecchio.

In gabbia © disegno di Luca Ferrari

Perché hai scelto Torino per ambientare la tua storia?

È una scelta d’istinto, ho vissuto a Torino per 26 anni e adesso che vivo lontano l’apprezzo di più e ne sento la mancanza. Tutto quello che scrivo è ambientato a Torino, non potrei scegliere un’altra città. L’unica eccezione potrebbe essere inventarsi un mondo nuovo, ma credo che in un modo o nell’altro somiglierebbe al capoluogo piemontese.

L’autostop è una pratica in disuso ma è il fatto che mette in moto tutte le altre connessioni del racconto: come ti è venuto in mente?

Per me l’autostop è stato il mezzo più usato per gli spostamenti dai sedici ai diciannove anni. A Torino non era difficile trovare qualcuno che si fermasse e questo mi permetteva di risparmiare i soldi dell’autobus e soprattutto di sottostare agli orari imposti dal servizio pubblico. All’occorrenza mi fermo a bordo strada con il pollice rivolto all’insù anche adesso.

Autostop per la notte © disegno di Farbod Ahmadvand

La tua passione per l’arte si unisce in questa “avventura” in diverse forme. Partiamo dalla prima: chi sono gli illustratori delle immagini che compaiono nel libro?

Gli scorsi anni ho organizzato diverse mostre di pittura alle quali hanno partecipato numerosi artisti. Mi piaceva l’idea di aggiungere qualche illustrazione nel romanzo e ho chiesto a qualcuno di loro di realizzare un disegno. Tra gli illustratori ho selezionato artisti che per tecnica potessero darmi un qualcosa in più. Farbod Ahmadwand dipinge fondendo gli insegnamenti della scuola europea con quella persiana. Luca Ferrari è il batterista dei Verdena che tra un tour e l’altro si diletta con la pittura e i collage. Sharon colli ha un modo unico di interpretare il disegno attraverso il quale riesce ad esprimere in modo deciso concetti anche semplici. Fabrizio Berti, Michela Roffarè e Sonia Luzzatto sono artisti che hanno esposto in diverse gallerie sul territorio nazionale e in diverse manifestazioni culturali non solo in Italia ma anche all’estero. Poi c’è un disegno di mio figlio di otto anni: un giorno gli ho chiesto di disegnarmi una macchinina e ha fatto un lavoro così bello che non potevo fare altro che includere.

Il passaggio © disegno di Samuele Anania

C’è anche un video che promuove il libro: da dove nasce questa idea?

L’idea è del regista Eric Lot che ha anche realizzato le foto di copertina. Riprese, montaggio e musica sono opera sua, e credo che riesca a guardare il mondo da un punto di vista inusuale e in futuro potrà togliersi grandi soddisfazioni.

Spesso accompagni le tue presentazioni con la musica: perché questa scelta?

Perché mi piace mettere insieme arti diverse e per dare libertà di espressione al maggior numero di artisti possibile. L’interazione tra musica, colori e parole è in grado di elevare il livello dei singoli artisti, pur esprimendo sentimenti e idee diverse.Consiglio: se sei un lettore interessato ai romanzi brevi, consigliamo Il blues delle zucche.

“Autismi”: la recensione di Luigi Preziosi su vibrisse.wordpress.com

“Autismi”: la recensione di Luigi Preziosi su vibrisse.wordpress.com

Luigi Preziosi

Autismi di Giacomo Sartori potrebbe essere preso come esempio della non del tutto serena relazione tra pubblicazione via web e pubblicazione cartacea, oggetto di tante dissertazioni in materia che ormai da una ventina d’anni occupano i siti letterari. Sarebbe facile pensare che una raccolta di racconti in volume pubblicati in prima versione su una delle riviste on line più autorevoli tra quelle in circolazione possa incontrare un largo favore ed una altrettanto ampia diffusione. Diversa la storia di questi racconti. Usciti dal 2008 al 2010 su Nazione indiana, di cui l’autore è tra gli esponenti più autorevoli (e più appartati), sono stati antologizzati a fine 2010, quando, come si legge nella Nota dell’autore, “un microeditore ha stampato centotredici eleganti copie della versione rivista della raccolta, che non sono mai arrivate in libreria, forse perché si sentivano incomprese e sole.”
Per contro, il volume è stato finalista al premio Settembrini, e alcuni dei testi hanno trovato la fortuna che meritano in forma di monologo teatrale o grazie a traduzioni su riviste americane e francesi. Finalmente, qualche mese fa Autismi compare in libreria, per merito di Miraggi editore.
Ma che cos’è Autismi? Una raccolta, pregevole per intensità espressiva e densità concettuale, composta da sedici episodi correlati per formare altrettante tappe di un percorso di esplorazione e di descrizione del mondo di un unico personaggio, che si intuisce avere parecchio in comune con l’autore: una prova di autofiction (la lunga permanenza dell’autore in Francia può avere a che fare con questa scelta narrativa) per frammenti, che danno conto di un io coerente, per quanto strambo possa apparire.
Significativa del genere di autofiction che l’autore ha in mente è del resto la citazione da Marguerite Duras posta ad esergo del libro, in cui la scrittura è avvicinata a “un altro individuo che fa apparizione e avanza, invisibile, dotato di pensiero, di collere, e che qualche volta con i suoi maneggi si mette in pericolo, anche di morte”. Sartori oggettivizza l’altro se stesso che opera nel libro, lo rende autonomo, facendone un altro da sé, di cui però conosce i pensieri, le impressioni e le ossessioni più riposte.
L’autismo del protagonista si esprime con un desidero di inapparenza periodicamente ritornante, una tendenza al confinamento di sé, al nascondimento, come si desume dai testi iniziale e finale della raccolta. ”Il mio lavoro consiste nel fare buche nella terra. Buche grandi e profonde, in cui ci entra comodamente una persona. Poi appunto ci entro dentro. Mi ci seppellisco, si potrebbe dire”: questo l’incipit del primo racconto (Il mio lavoro), mentre si direbbe non casuale che l’ultimo testo sia Il mio testamento biologico. Il senso di chiusura che percorre almeno parte, se non tutti, i racconti genera a tratti effetti claustrofobici, già esplorati dall’autore in alcuni suoi romanzi, come Sacrificio (Italic e Pequod, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011) e Rogo (Cartacanta2015). Il campo di analisi è però qui diverso da tutti gli altri precedenti: la patologia è più esistenziale che fisica, l’inquietudine si manifesta nel martellante arrovellarsi del protagonista su questioni apparentemente minime, ma capaci di dilatarsi progressivamente sino a saturarne la coscienza.
A volte la materia dell’ossessione tende a superare i confini della ordinaria narrabilità, almeno quella misurabile in un contesto di decoro borghese (che l’autore, nonostante l’eleganza della scrittura, o forse, in deliberato contrasto con questa, non pare voler rispettare). E’ il caso delle vicende raccontate in Il mio organo di riproduzione, in cui il membro dell’io narrante pare vivere di vita propria, acquisendo lo statuto di protagonista di un particolare tipo di scissura della personalità (echi del moraviano Io e lui?). La mia cacca è altrettanto intenzionalmente anticonvenzionale. Il protagonista constata con stralunato stupore che l’umanità nel corso di millenni di evoluzione, non ha affrontato né tanto meno risolto il problema della pessima qualità dei propri escrementi, non essendo riuscita “a creare una cacca di qualità omogenea, puntuale e affidabile, e di odore sopportabile, se non proprio profumata”. Inizia uno studio meticolosamente condotto, al termine del quale ha modo di capire che l’uomo “è un lunghissimo tubo digerente, al quale l’evoluzione ha attaccato le gambe, indispensabili per la locomozione, le braccia, utilissime per procacciare il cibo e avvicinarlo alla bocca, e gli altri organi che servono a far funzionare il lungo budello digerente, assicurandogli tra le altre cose la riproducibilità nel tempo.”
L’egocentrismo che pare filtrare la percezione del mondo dell’io narrante non si limita ovviamente agli aspetti più materici dell’esistenza, ma abbraccia con eguale acribia anche le relazioni umane e si sentimenti che suscitano le diverse condizioni esistenziali. Investe così i rapporti familiari, dei quali il protagonista insiste a ricercare le crepe, anche quando si abbandona a riflessioni esistenziali depurate da quella sovrabbondanza di cinismo, che altrove si dimostra straordinariamente efficace per reggere la narrazione sul filo sottile del paradosso. E’ il caso di Mio figlio, in cui la descrizione di un figlio amato, ma in certo senso costantemente distante, sfocia in una rivelazione finale da non anticiparsi al lettore, in cui si leggono riflessioni come questa: “I figli servono ai genitori per capire se stessi. Guardandosi riflessi nelle loro pupille dove sfavillano scintille di amore ma anche di odio capiscono che non sono come hanno sempre creduto di essere, o che comunque possono essere visti in maniera radicalmente diversa. Il che apre pur sempre un deleterio varco. Si rendono soprattutto conto che il mondo è già intrinsecamente diverso da come sono abituati a pensarlo, e che in altre parole sono già vecchi. Non occorrono le frasi, bastano gli occhi. Tramite mio figlio ho avuto per la prima volta la certezza che ho fallito: una cognizione cristallina, un cancro inoperabile.”
Altrove, come in Mia sorella, il racconto della relazione familiare si fa più duro, svela quasi subito una ferocia che solo il più vieto senso del rispetto borghese delle forme riesce a contenere, salvo deflagrare all’improvviso, senza una causa proporzionata alla violenza dell’esplosione. Un alternarsi sapiente di registri tonali caratterizza un altro ritratto familiare, Mio suocero, arguta descrizione della veglia funebre del padre della moglie, in cui in poche pagine si concentrano compiute descrizioni di diverse figure, colte nei loro tratti caratteriali più significativi, dal cognato, sospettoso e preoccupato per dover dividere l’eredità con un estraneo, al miglior amico del morto, “persona con importanti responsabilità a livello nazionale”, ad un altro amico, ex terrorista, alle due sorelle del morto, che portano un contributo di autenticità alla situazione proprio perché dolenti (“non avevano bisogno di mostrarsi tristi, visto che erano tristi davvero. Dicevano quello che avevano voglia di dire, trasformando la veglia funebre in un allegro e toccante chiacchiericcio”) ed anche per via di una certa vena di anticonformismo latente sotto le apparenze perbeniste. Il finale si modula su una tonalità ancora diversa, laddove il protagonista scopre di conoscere il defunto “tramite la figlia, tramite gli atomi della figlia che ritrovavo nella sorella omosessuale, tramite i geni indomiti che vorticavano in quel ramo della famiglia, e che erano sciamati anche in mia moglie. Quei barlumi di follia che amavo. Il fatto che lui fosse morto e io fossi ancora vivo non mi appariva più la differenza così fondamentale che mi era sembrata quel mattino.” Diversa modulazione rivela, invece, Il mio migliore amico, ritratto appassionato e tragico di un’amicizia duratura, nata sui banchi del liceo e alle svolte della vita riaffiorante in forme diverse ma con un’intensità che, per una volta tra tutti gli altri autismi, mette la sordina all’ironia e consente lo sfogo al racconto di emozioni.
Alla moglie (presente in più racconti), l’autore dedica il ritratto più definito in Terapia di copulazione, raffinata satira delle terapie (e dei terapeuti) per coppie in crisi, in cui la soluzione per la riconquista di una moglie diffidente e prevenuta (a dire del marito) si trova in una sana raffica di risate, di cui il racconto comprova effetti miracolosi nella ricostituzione di una complicità perduta. Anche del rapporto con la madre il protagonista evidenzia le zone d’ombra, con debiti per i quali non è facile ottenere risarcimenti: “Come ogni angioletto che si rispetti amavo di amore corrisposto mia madre. Insomma, abbastanza corrisposto. Prima di me venivano pur sempre gli amici ricchi, la pelliccia, le sue sorelle, la sua asma, l’anello con il diamante, l’anello con lo smeraldo, la batteria di scarpe con i tacchi, le vacanze, l’organizzazione delle vacanze, il suo amico omosessuale, l’estetista, i costosissimi lavori nella casa di famiglia, la pedicure, la pettinatrice, i problemi con le donne di servizio, l’antiquario, le fatture del telefono, le altre fatture, il preside della scuola dove insegnava, la sanguinosa guerra con mio padre, gli esami per diventare di ruolo, i nervosismi ingiustificati, la guerra di posizione con mia sorella, le visite mediche per capire se mio fratello era o non era pazzo. Ma insomma vivevo pur sempre un grande amore abbastanza corrisposto.”
Ben più di un’ ironia irriverente Sartori spende nella descrizione feroce della sua città d’origine (La mia città), dove “ogni misfatto locale – a patto beninteso che venga perpetrato da criminali autoctoni – viene travestito con un eufemismo appropriato, e archiviato” e “l’adesione incondizionata al fascismo … viene definita fredda accoglienza, la zelante collaborazione con i nazisti viene chiamata Resistenza, il giogo della religione viene chiamato tradizione cattolica, gli affaristi e i governanti colpevoli di ogni sorta di corruzioni e furti vengono chiamati Egregio Direttore ed Egregio Presidente, i luna park sciistici vengono definiti parchi naturali, i preti pedofili colti in flagrante Padre Tale o Padre Tal Altro, il genocidio delle specie animali e vegetali sviluppo della viabilità e delle infrastrutture, i vigneti e i frutteti avvelenati per l’eternità dai pesticidi zone rurali di pregio, e via dicendo.”
L’oltranza della satira deborda a volte in episodi di autentica crudeltà, espressa sempre con forme di rara eleganza. Il nitore della scrittura lascia trasparire sia le meschinità dei singoli sia il degrado dei rapporti umani generato dalla somma di queste meschinità nelle comunità (famiglia, amicizie, cittadina) che il protagonista frequenta. E da un punto di vista in apparenza orientato su vicende personali, lo sguardo dell’autore si allarga verso prospettive più ampie, fino a scrutare con inesorabile lucidità la progressiva disgregazione di un impianto di valori sempre meno socialmente condivisi. Ma la pars destruens della critica sociale che l’autore riesce sorprendentemente ad accennare in via implicita, raccontando casi così squisitamente privati, non trova compensazione nell’invenzione di alternative. Gli Autisminon inclinano affatto a particolari compiacimenti verso costumi e assetti sociali che il conformismo dell’anticonformismo propone come nuovo. Piuttosto, l’auscultazione di sé in essi ampiamente praticata ci immette nel cuore della contemporaneità, e tutto ciò che di essa appare consunto dall’uso, banale, ordinario, nella vita e nei rapporti umani per Sartori non solo nasconde una vena di bizzarria, ma segnala, nel suo piccolo, il senso del limite che affligge il nostro tempo.

 

“Brace”: l’intervista a Jacinta Kerketta su il manifesto

“Brace”: l’intervista a Jacinta Kerketta su il manifesto

Daniela Bezzi

«Fin da bambina, era come se nel mio intimo ci fosse un tizzone di brace ardente. Crescendo, fui testimone della violenza domestica su mia madre e già in giovane età questa brace prese la forma di poesie…» Così si presenta Jacinta Kerketta nell’incipit alla sua prima raccolta di poesie dal titolo Angor, appena pubblicata dalla Miraggi Edizioni di Torino, con il titolo appunto Brace. Una quarantina di poems vibranti di tensione per quel continuo stupro di terre (oltre che di corpi) del quale è stata testimone fin da bambina nelle zone tribali del sud Jharkhand, in cui è nata. Land grabbing, sfollamenti, regolamento di conti tra minatori e caporali, dispute regolarmente risolte in favore del più forte, foreste teatro di ogni genere di saccheggio – e poi la fame, “che diventa fuoco”; campi impunemente sacrificati, magari a una diga. E la città che avanza, annulla/rimescola ogni identità: questi i temi che ricorrono nel lavoro di Jacinta, fortemente intriso di determinazione al riscatto e impegno a tutto campo, come animatrice di workshop di scrittura creativa nei villaggi, come role model per tante donne (e anche maschi) più giovani di lei, come esploratrice di quell’infinito field work che è il personale/politico – e quindi appunto scrittrice.

In questi giorni Jacinta è in Italia, protagonista di un lancio degno di una star: ieri era alla Ca’ Foscari di Venezia, per unalecture dal titolo quanto mai intrigante, Voices of Nature, Voices of Human Beings. Milano la vedrà oggi ospite della Libreria delle Donne, e lunedì dell’Università Statale; e poi Torino, Roma (tutti i dettagli nel Box) «e senza alcun bisogno di crowdfunding, perché ci sono situazioni, come questa che siamo riusciti a mettere in moto, dove bastano e avanzano le relazioni» commenta il suo editore/agente/amico Johannes Laping, che da anni frequenta quelle zone in rivolta in cui lei è nata, come attivista della piccola Adivasi Koordination che ha contribuito a fondare in Germania nel 1993 – quando le popolazioni indigene dell’India non se le filava nessuno…

Quel che segue è il succo di una lunga chiacchierata telefonica con Jacinta Kerketta qualche giorno fa, in attesa di incontrarla di persona.

Il tuo CV racconta di uno strepitoso debutto professionale come giornalista: borse di studio, premi, promettente carriera da inviata nelle zone calde del centro India, che poi interrompi per darti alla poesia…

Avevo deciso di diventare giornalista, iscrivendomi alla Facoltà di Mass Communication di Ranchi (e per questo devo ringraziare mia madre), dopo essere stata testimone di tanti abusi nella totale disattenzione dei reporters locali, e sarebbe fuorviante parlare di corruzione, spesso si tratta solo di pigrizia. Avevo voglia di raccontare come stavano veramente le cose e sono stati anni straordinari, prima come apprendista, poi inviata di qua e di là, e poi i Premi, alcuni importanti… al punto da farmi decidere a un certo punto di lasciare il quotidiano Prabhat Khabar (testata in lingua hindi con enorme seguito, ndr) e continuare come free lance. Una gioia alzarmi presto la mattina, fiondarmi dove mi pareva a bordo del mio scooter, il pomeriggio tutto per me, pubblicare quel che volevo, magari solo sulla mia pagina Facebook – ed è stato in quel periodo di totale libertà che la poesia ha cominciato a guadagnare spazio, non in alternativa al giornalismo, semmai come trasmissione più immediata di ciò che mi stava a cuore, e dritto al cuore di chi mi leggeva. Ha influito in questo cambio di registro la consapevolezza che il giornalismo, a determinati livelli, ha le mani legate – difficile non ricevere pressioni nella regione ricchissima di risorse minerarie, dove vivo io… Il che ha reso ancor più semplice la mia ritirata dalla stampa. I socials mi hanno aiutato.

 

Ho dato uno sguardo alla tua pagina FB: non c’è componimento che non registri centinaia di condivisioni, ti ho visto nominata “ambasciatrice della causa adivasi fuori dal Jharkhand”…

Sorprendente anche per me. L’unica spiegazione è che la poesia risuona con un’intimità speciale, in immediata sintonia con la musicalità rapsodica della gente per cui scrivo, che magari è inurbata da due generazioni ma nel suo intimo non ha perso il ricordo di ciò che nutre anche il mio scrivere: e parlo del sarna, quello che voi tradurreste come animismo, e che per noi è proprio un sentirsi dentro, ritrovarsi nella propria essenza dentro il creato, immaginare ciò che certi alberi o pietre hanno visto, in dialogo con il profilo delle colline, con la voce dei fiumi… un senso di viscerale appartenenza che nei miei versi si intreccia a fatti di inaudita brutalità, di cui tutti ormai sanno (grazie ai social networks) senza bisogno dei giornali. L’ultimo è di pochi giorni fa: decine di morti ammazzati, contadini innocenti, nell’ennesima battuta di caccia contro i naxaliti, in Bastar. Una guerra di cui nessuno parla da voi e che ha di nuovo traumatizzato quella terra di foreste da cui provengo.

 

Di tutto questo scrivi in hindi, che non sarebbe la tua lingua madre…

Ti sorprenderà sapere che l’hindi è la mia prima lingua, benché io appartenga all’etnia Oraon la cui lingua sarebbe ilkuruk. Ero piccola quando i miei genitori si spostarono dal villaggio di Khudpos alla più vicina cittadina, Manoharpur. Mio padre era entrato nei ranghi della polizia (un sogno per un giovaneadivasi di allora, come per tanti giovani di oggi, ahimè) e la mia educazione fu in hindi e poi in inglese, neppure a casa si parlava il kuruk. L’ho dovuto quasi imparare, quando ho cominciato a tenere i miei corsi di scrittura creativa per le ragazzine del villaggio di Kacchabari, nella zona di Khunti. Esperienza straordinaria, dalla quale ho ricevuto moltissimo, che mi ha messo a confronto con un mondo di cui sapevo ma di cui non immaginavo la felicità, per quella totale consonanza con la natura, e una natura che ovunque guardi letteralmente ti parla… e poi le feste, per ogni momento del ciclo agrario, con le danze, donne e uomini, tutti in circolo, al suono dei tamburi, fin dentro la notte, unica luce quella della luna che non hai idea quanto riesce a illuminare. Letteralmente una gioia scappare dalla città per sentirmi a casa lì, perché è lì che so di avere le mie radici…

 

Su questo tema è appena uscita infatti la tua seconda raccolta poetica, Land of the Roots, Terra di Radici,che presenterai in Germania subito dopo questo tour italiano.

Importanti le radici, questo ho scoperto rivivendomi nella mia identità più ancestrale di donna adivasi – questo cerco di trasmettere con le mie poesie. Esattamente come per quegli alberi secolari, quei campi che sono stati ricavati disboscando solo alcune zone, quegli esseri che armonicamente ci vivono dentro, partecipi di quello stesso humus che continuamente si arricchisce proprio in virtù di quella infinitamente rinnovata convivenza, l’umanità dovrebbe capire che, nel profondo, we are all one, figli della stessa terra. La politica cercherà sempre di dividerci, per dominarci meglio: hindu contro mussulmani, dalits contro adivasi,e all’interno del mondo adivasi ecco che stanno fomentando il risentimento contro i cristiani. Anche la violenza contro le donne rientra in questa strategia: non è solo violenza di genere, è violenza istigata per dividere ancor meglio uomini di comunità diverse che fino a ieri riuscivano a convivere e oggi conviene che siano in guerra, perché in questo modo ci si appropria più facilmente di territori che magari fanno gola – ed ecco che anche il corpo delle donne diventa campo di battaglia. Ma come dimostrano i corpi rimasti sul terreno nel massacro di pochi giorni in Bastar, questa è una guerra che non risparmia nessuno.

(il manifesto, 5 maggio 2018)

 

 

“Roma”: la recensione di Stefania Nix su la Libertà

“Roma”: la recensione di Stefania Nix su la Libertà

Stefania Nix

La labile linea che separa realtà e finzione, e la possibilità che i due piani s’intreccino e si scambino di posto, sono i temi chiave dell’ultimo romanzo di Nicola Manuppelli, milanese trapiantato a Piacenza, traduttore dall’inglese coon già due libri di narrativa alle spalle. “Roma”, pubblicato da Miraggi edizioni, è ambientato nel mondo di Cinecittà all’inizio degli anni Settanta e racconta di una sgangherata banda di giornalisti sui generis che scrivono, ma molto più spesso creano, notizie di gossip su attori famosi. Come quando Satchmo – capo e anfitrione della compagnia, un moderno Trimalcione, come lo stesso autore lo definisce, alto poco più di un metro e somigliante a Louis Armstrong -, per poter scattare una foto che documenti di una fantomatica riconciliazione tra Richard Burton e Liz Taylor, non esita a far travestire il suo eclettico collaboratore Calabria, facendogli vestire i panni dell’attrice hollywoodiana, con esiti grotteschi ed epilogo rovinoso. Protagonista del libro è Tommaso che, partito da una Milano descritta come stoica e polverosa, si ritrova travolto da una città epicurea, gaudente, dissacrante, una città stracciona e felice. Il libro attinge all’immaginario felliniano, s’inspira al regista riminese fin dal titolo, e vedrà, al suo culmine, la sguaiata cricca guidata da Satchmo sul set di “Roma”, in una scena acquatica e quasi orgiastica la cui pellicola, naturalmente, andrà persa. Se felliniano è il libro, ancor più felliniana è stata la presentazione piacentina a palazzo Ghizzoni Nasalli, organizzata dalle librerie Fahrenheit e BookBank. Infatti, insieme a Manuppelli e al giornalista di Libertà Paolo Marino, c’era l’attore americano Peter Gonzales Falcon, che nel film “Roma” impersonò un giovane Fellini che lascia la Romagna e, guarda caso, approda in una Roma fantasmagorica. Gonzales ha raccontato in maniera suggestiva la forza dello spirito felliniano e la città che visse in quegli anni magici tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo. «Tanti pensano che la Roma rappresentata da Fellni fosse tutta un’invenzione, invece era proprio come lui la racconta, un’immensa festa dove si viveva assieme e ci si divertiva. Gli americani fanno fatica a capirlo».

Il romanzo di Manuppelli è soprattutto un libro di storie che si affastellano una sull’altra, di invenzioni e di avventure bizzarre. Ed è attraverso il gioco del racconto che Tommaso trova infine se stesso. A Roma Tommaso riesce a liberarsi dalla corazza «di uno nato in un posto freddo», una corazza, dice, che «invece di difendermi, mi isolava». A Roma Tommaso scopre la vita. «Lì dentro, a Cinecittà, era come tornare bambini. Era esaltante, era gratificante. Inventare. Costruire mari di plastica, teatri di marionette, ombre cinesi. Partecipare gioiosamente a quell’attività semidivina che è la creazione. Giocare. Giocavano tutti. Io mi sentivo fortunato, mi sentivo eletto e mi sentivo Tommaso del presente che aveva fatto pace con tutti i Tommaso precedenti. E in quel giardino dell’Eden non c’era più nulla da riconciliare, non c’era più nemmeno il tempo. C’erano le infinite possibilità delle storie».

“Torneremo ad Amsterdam”: la recensione su Tuttosport

“Torneremo ad Amsterdam”: la recensione su Tuttosport

Due amici, Ettore e Paolo, e un viaggio attraverso l’Europa. Si comincia in Islanda, si arriva a Torino, al Filadelfia. Apparentemente sembra un tour senza una filo conduttore, alla ricerca di incontri improbabili con personaggi famosi oppure di una scazzottata con un gruppo di danesi sovrappeso. Eppure c’è una logica di fondo in “Torneremo ad Amsterdam” (Miraggi edizioni, 107 pagine 12 euro), il romanzo scritto da Fabio Selini. Ed è una logica granata, nel senso di Torino. Di quei tifosi che hanno sognato di conquistare l’Europa con la Coppa Uefa nel 1992 e vennero fermati nella doppia finale da traverse e decisioni arbitrali controverse. Ettore e Paolo hanno in mente di prendersi una rivincita, nel nome di chi lottò contro tutto e tutti, come Emiliano Mondonico e la sua famosa sedia sollevata al cielo. E questa rivincita riparatrice arriva. Come? Lo scoprirete nelle ultime pagine.

 

“Torneremo ad Amsterdam”: la recensione su Tuttosport

La notte in cui il Toro sfiorò la Coppa Uefa: “Torneremo ad Amsterdam” su La Stampa/Torino

Una sedia alzata diventata simbolo di appartenenza. E ora anche un libro che ricorda la notte più coinvolgente della storia recente granata. Il Toro non poteva che fare da sottofondo alla nuova fatica di Fabio Selini, bresciano che si è innamorato del Torino grazie a Pulici e Graziani. “Torneremo ad Amsterdam”, edito da Miraggi e nelle librerie dal prossimo 15 dicembre al prezzo di 12 euro, è stato presentato ieri al Circolo della Stampa-Sporting.

Non è un’opera storiografica però, ma un romanzo che racconta la storia di due amici quarantenni, Ettore e Paolo, che nel loro viaggiare senza una destinazione precisa per l’Europa – apparentemente, perché tutte le tappe coincidono con la cavalcata granata: dall’Islanda fino all’Olanda – si ritrovano come ultima metà nella città dei tulipani, dove 26 anni fa il Torino guidato da Emiliano Mondonico si giocò la finale di ritorno di Coppa Uefa contro l’Ajax mancando il successo a causa di tre pali (dopo il 2-2 dell’andata). «A quella partita, l’unica finale del Toro, penso dalla notte del 13 maggio 1992», le parole di Roberto Cravero, storico capitano granata, al quale è stata affidata la prefazione.

In quella squadra giocava anche Silvano Benedetti, oggi responsabile della Scuola Calcio del club di Cairo. «Fu un’esperienza bellissima, nonostante la delusione – le parole dell’ex difensore, allora però non ci rendemmo pienamente conto dell’occasione di entrare ancora di più nella storia. L’abbiamo capito dopo».

Francesco Manassero

“Roma”: la recensione di Stefania Nix su la Libertà

“Roma”: la recensione su volevoesserejomarch.blogspot.com

A sette anni Tommaso batte a macchina con disinvoltura; il padre, che fa il segretario in uno studio legale, gliel’ha insegnato quando era piccolo e il suo primo regalo importante è una Olivetti portatile. È questo il motivo che spinge il ragazzo a scegliere la carriera di giornalista a Milano, mentre è l’esplosione della bomba di piazza Fontana e il ferimento subito in quell’occasione a fargli decidere di partire per Roma alla ricerca di un cambiamento. In Roma, pubblicato da Miraggi edizioni, Nicola Manuppelli affronta una sfida coraggiosa: raccontare la Cinecittà di Fellini, ma anche il Pigneto, Trastevere, piazza del Popolo degli anni 1970-71 attingendo ad aneddoti su aneddoti (su Richard Burton, su Walter Chiari, su Gore Vidal per citare solo alcuni dei personaggi che compaiono nel libro) senza cadere nel bozzettistico. Ci riesce e il suo romanzo fa scoprire al lettore un’epoca d’oro del cinema italiano attraverso gli occhi di un giovane ingenuo ed entusiasta. A Roma, Tommaso conosce Satchmo, un sosia di Louis Armstrong, che vive costruendo notizie false sui divi grazie a una rete di collaboratori, tra cui presto annovera anche il nuovo arrivato. Tra cene che si protraggono tutta la notte, bevute interminabili, corse di maiali al Circo Massimo, Tommaso fa gli incontri fondamentali della sua vita. A stregarlo è Judy, un’inglesina di Bath, che sogna di fare l’attrice e vende gelati. L’amarissimo finale oltre a segnare la fine della giovinezza, marca quel confine tra vero e falso che tutta l’atmosfera intorno a Tommaso sembrava voler negare. Manuppelli alterna il lavoro di scrittore a quello di traduttore di classici americani: la sua prosa vivace e appassionata ne trae gran giovamento.

Leggi la recensione si volevoesserejomarch.blogspot.com anche qui
https://volevoesserejomarch.blogspot.com/2018/11/roma.html?fbclid=IwAR1jcHZaOObcg8hMjzG-v-cAa-9ZI44nR6jH6gqRFa2wMa-5mGSZUsZzMtM

“Quasi tutti”: la recensione di Renzo Brollo su mangialibri.com

“Quasi tutti”: la recensione di Renzo Brollo su mangialibri.com

di Renzo Brollo

“Le ragazze stan sedute/ I ragazzi le osservano in piedi/ Attaccano bottone” oppure “Una volta lo facevamo/ Allora lo tengo io?/ Sì sì tienilo tu/ Pronto?/ Una cosa storica sull’Italia/ Della lavanda/ Mi manda l’email dopo, ha detto” oppure ancora “Bruciata a bruciapelo/ Ce l’aveva adesso in mano/ Ognuno ha le proprie/ Quanto?”. E infine: “È molto facile contrarre la malattia e l’opposizione deve essere pronta fin delle prime ore del mattino. Non è semplice opporsi ma è il livello minimo e anche massimo di soluzione nota. Anche se in realtà, almeno fino a oggi, non ha quasi mai veramente rappresentato una soluzione”. La tensostruttura di quest’opera vive nella temporaneità della posizione nella quale i materiali sono mantenuti. Guardandola dal basso uno si può chiedere come diamine si regga in piedi. Ma ecco ci viene in auto la citazione iniziale: “non sentirti in imbarazzo, puoi leggere in tutti gli ordini / come? / indicazioni preziose / come?” La risposta era già nella prima frase. Porsi ulteriori domande o meravigliarsi non ci porterà beneficio. Prestando l’orecchio alla rete-realtà, o alla reale realtà, come una grattugia con il formaggio, ecco che cosa cade dentro al piatto. Frammenti di un tutto e non briciole, che sono gli avanzi. Hanno forse una propria vita e una propria dignità, questi frammenti? Sono tessere di un puzzle in grado di sopravvivere se staccate dal resto del gregge? Ed è come se prendessi tutte le tessere di questo puzzle e le disponessi a casaccio sopra un grande tavolo. La figura intera c’è, è tutta lì, solo che ancora non si comprende e non si vede e, forse, non si vedrà mai del tutto, eclissata dall’incapacità della mano o dalla volontà di completarla o meno, semmai un puzzle disposto in tale modo completo non lo sia già…

Di cosa stiamo parlando? Di un tipo di ricerca poetica sviluppatasi dopo gli anni Novanta in un contesto che succede alla tradizione delle avanguardie storiche e nel quale i nuovi autori, in pratica, si trovano in un ambiente editoriale vuoto che essi stessi intendono riempire. Flarf poetry, googlism, minimalist concrete poetry, cut up e cose così. Metto subito le mani avanti: non conoscevo l’argomento, la tecnica, il dietro le quinte, ho cercato di saperne di più. Sono cioè un lettore popolare al quale questo volumetto è capitato tra le mani. Perché è questo quello che accade ai libri. Vengono presi in mano. Da chi? Da lettori senza pregiudizi e così devono fare anche i libri nei confronti di chi li legge: essere senza pregiudizi. Farsi cioè leggere da chiunque. Logico, direte voi. Non è così semplice. Tornando a noi, Marco Giovenale in questo mondo di ricerca poetica è uno degli esponenti più noti, facente parte del gruppo GAMM, attivo dal 2006 assieme ad Alessandro Broggi, Gherardo Bortolotti, Massimo Sannelli e Michele Zaffarano. Ma tornando alla domanda iniziale: di cosa stiamo parlando? Di una ricerca poetica che rinuncia al lirismo, smembra i testi (nella postfazione di Paolo Zublena la si paragona a una ventata fredda come l’asetticità di un’operazione chirurgica) trasformandoli in frasi volanti che prendono quasi la forma di spezzoni di conversazioni captate in mezzo alla gente. L’autore rifiuta uno stile qualsiasi, una struttura qualsiasi, allo scopo di ottenere un componimento non assertivo e una poesia no-logo, mi verrebbe da dire, a cominciare dalle maiuscole che non esistono più. Un approccio “caviardage” del poeta nel cosmo delle parole possibili, non ancora scritte e fluttuanti. Almeno questa è la sensazione del vostro lettore popolare.

Leggi la recensione di Marco Brollo anche qui
http://www.mangialibri.com/poesia/quasi-tutti?fbclid=IwAR3kfkT4MO6VGu6fidH1X7kkK1LdM3IIw7uE4nuK68dH27NS1YdjzJlt9Sc