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Tutta la solitudine che non reggo più. “Poema bianco”: la recensione di Ippolita Liuzzo su giacomoverri.wordpress.com

Tutta la solitudine che non reggo più. “Poema bianco”: la recensione di Ippolita Liuzzo su giacomoverri.wordpress.com

di Ippolita Luzzo

Il senso del fare il poeta.

Fa’ finta ossia fammi il poeta
(fallo tu)

Amo di un amore smisurato questi versi di Pasquale Panella, li porto con me e quando mi accingo a scriverne non riesco più.

Non è un monologo, è un soliloquio, nessun suono.

Come si possa costruire una meraviglia di versi sul continuo dirsi, nel silenzio e nella chiacchiera, mi sembra un vero incantesimo.
Incantata sto “Così che leggere è aggiungere i rumori, fingendo la leggibilità del soliloquio, che è illeggibile.”
Mi prende voglia che non sia vero, che non esista chi sappia così bene di cosa sono fatti i pensieri della solitaria, della solitudine, dell’essere soli, mi prende e mi accompagna verso il personaggio principale, “l’ascoltatrice”, colei che trascrive il soliloquio.

Il soliloquio, questa intima piazzata, questo comizio, questo convenire, qui, di un’oratrice che ha solo se stessa a ascoltarla, a ascoltarsi, a sentirsi regnante sul silenzio.

Il soliloquio come il mare, come le onde, come le maree, come il moto di rotazione della terra intorno a se stessa, come il respiro nei polmoni arriva, invade, ossigena e va via in anidride, il soliloquio occupa e si disperde nella testa, nel pensiero, va e ritorna.
Puro e bianco movimento che viene fatto e cancellato dal suo farsi.
Nel parlarsi addosso “torniamo alla mia voce che io sola sento” la raccontiamo a tutti, scrivendola su un foglio bianco, raccontiamo che vorremmo raccontare.
La volontà, la nostra ” è vero che ci capiamo, umanità?”
Fra disperazione e divertimento, fra ironia e dramma, facciamo di un foglio bianco il tramite di pensieri e azioni, il tramite di un messaggio scritto, perché se lei, la voce, scrive, scritto è.
In un mio antico farneticare scrissi “Dirlo a tutti per non dirlo a nessuno” ed in Poema Bianco (Miraggi edizioni), in questa delizia in versi, noi ci lasciamo andare dove il poeta ci vuole portare: essere cullati dalle parole, dalla ripetitività della certezza che ce le potremo dire ancora e ancora e ancora.

Non è con il pensiero
che ti ricordo
Non è con il ricordo
che ti penso
È un’altra cosa:
è il senso
Prima non era
necessario”

Salutando con un inchino un autore inarrivabile, un gigante, un grande, e sentendomi rispondere

Fa’ finta ossia fammi il poeta
(fallo tu).

Leggi la recensione di Ippolita Liuzzo anche qui
Tutta la solitudine che non reggo più: Poema bianco di Pasquale Panella

“La notte dei botti”: la recensione di David Frati su mangialibri.com

“La notte dei botti”: la recensione di David Frati su mangialibri.com

di David Frati

Lo chiamano Scriba, perché “ha la fissa di scrivere tutto, con ossessione, ovunque si trovi”. Ormai da anni dorme tre ore per notte, il resto lo passa a vedere i sogni degli altri. Non sa perché gli succede, ma i sogni delle persone che dormono nelle sue vicinanze gli invadono la testa, mostrando i loro desideri marci, le paure, le ossessioni. Scrivere lo aiuta a capire. Conoscere i sogni degli altri lo aiuta a capire. Eppure “ora che la Notte dei Botti è scoppiata il casino è davvero grande”, è difficile orientarsi. C’è un senso in quello che sta accadendo, oltre al “gusto della sopraffazione e all’euforia del pestaggio?”. Esplosioni, scontri, panico, morti e feriti, cariche della polizia, “fumo da non vederci più nulla”. Non è ben chiaro cosa sia successo davvero e perché, forse molte cose insieme: “per strada, oltre alle ambulanze e alle sirene, oltre ai pompieri per i primi incendi, festosi si erano riversati in molti. Grandi e piccini, intere famiglie, in molti gridavano (…) evidenze protese, più o meno alte, più o meno mature, (…) protese comunque, squadernate, rivendicate, falliche evidenze acuminate, acuminate e urgenti, inderogabili, sfinenti”. In cielo è tutto un volare di elicotteri, le strade sono invase da ingorghi colossali, le autostrade sono chiuse da posti di blocco. Molti vengono ammassati in un autogrill – è da lì che Scriba è fuggito quando la puzza di piscio, sudore e merda si è fatta intollerabile – si parla di Resistenti che si oppongono alle forze che guidano la Notte dei Botti (che ufficialmente si chiama la Notte della Libera Espressione), ma esistono davvero? Scriba non lo sa, nessuno lo sa…

Arriva finalmente in libreria questo fascinoso romanzo breve scritto tra 1993 e 1997 da Biagio Cepollaro – poeta e pittore, teorico del “postmoderno critico” e tra i promotori del Gruppo 93 – su indicazione di Nanni Balestrini, che stimolava continuamente l’autore a cimentarsi con la prosa. Dopo qualche abboccamento non andato a buon fine, il romanzo è rimasto però inedito, pubblicato solo online sul sito di Cepollaro, fino a quando Francesco Forlani (che nella bandella definisce felicemente La notte dei botti “un viaggio davvero al termine della notte”) lo ha proposto a Miraggi. Ed ora eccolo qui: un piccolo gioiello a metà tra avanguardia letteraria e pamphlet politico, ambiti apparentemente inconciliabili ma la cui ibridazione Cepollaro governa con maestria e passione, evitando sia la cerebralità sia l’ingenuità. Nato in un periodo di ricerca linguistica molto intensa dell’autore, La notte dei botti è espressione di un laboratorio linguistico: il testo oscilla continuamente tra realismo scarno e visionarietà poetica, ogni parola è scelta con cura, ogni immagine o metafora è rigorosamente non casuale, il linguaggio racconta – o per meglio dire incarna – il passaggio traumatico tra moderno e postmoderno. Si era negli anni ’90, per definizione il decennio della fine delle ideologie, della agonia del Novecento, della ricerca di nuove identità sociali e politiche, della fusione e della confusione. L’alba di una presunta nuova era, i primi vagiti della Seconda Repubblica. La notte dei botti coglie alla perfezione il nucleo di angoscia di quei momenti, sfrondato di tutte le sovrastrutture, le (false) speranze, le farse mediatiche. Con sensibilità da poeta Cepollaro qui scarnifica il reale, ne mostra l’anima nera. La notte che ci descrive è un violento tutti contro tutti, è un sinistro redde rationem. Lo ha spiegato lui stesso alla trasmissione radiofonica “Fahrenheit” qualche tempo fa: “C’è un equivoco fondamentale, anche nel linguaggio comune, che negli anni si è andato aggravando: e cioè che parole che una volta significavano qualcosa – tipo libertà e riforma – hanno cominciato a significare un’altra cosa, anzi a significare l’opposto di prima. Questa notte della Libera Espressione sembra essere finalmente la realizzazione di un sogno, e in realtà è l’inizio della fine, l’inizio di una dittatura di tipo cileno”. Libro apparentemente di non facile lettura, ma se ci si approccia a livello puramente emozionale, regala un’esperienza potente ed epifanica.

Leggi la recensione di David Frati anche qui
http://www.mangialibri.com/libri/la-notte-dei-botti?fbclid=IwAR0dKzE6BibGInFEsYIAoX3Jf6R1iKy8gD0arQm3uURSJHWOQ05PX37GZxo

“Brace”: la recensione di Luciana Tavernini su el-ghibli.org

“Brace”: la recensione di Luciana Tavernini su el-ghibli.org

di Luciana Tavernini

Jacinta Kerketta, una poeta dall’India che parte da sé e dal legame con la madre per agire con forza nel mondo

L’incontro con Jacinta Kerketta amplia il nostro sguardo non solo sulla complessa realtà dei popoli tribali dell’India dal punto di vista di una giovane donna, con una soggettività forte ma riesce a farci riflettere anche sulla nostra.

Conoscendo il suo lavoro e lei, come è avvenuto alla Libreria delle donne di Milano il 5 maggio 2018 durante il tour italiano che l’ha portata in varie università e librerie italiane (Venezia, Torino, Milano, Roma) ho capito da dove le proveniva questa forza e la capacità di muoversi in ambienti sempre più ampi. È una testimone in grado di mostrare non solo ciò che vede ma anche quello che non si vuol vedere e che lei sente, un sentire femminile fonte di conoscenza per tutte e tutti, alla maniera indicata dalla filosofa Maria Zambrano

Ho scoperto attraverso la lettura delle sue poesie, pubblicate in Italia nel volume Brace, che Kerketta riconosce l’importanza del legame con la madre per una soggettività capace di trovare le parole che non nascondano ma illuminino la realtà e che aiutino a trasformarla, insomma per quello che il femminismo della libertà chiama politica del simbolico. Infatti fin dalla dedica. “A mia madre, Pushpa Anima Kerketta, fonte della mia ispirazione poetica”, esprime riconoscenza pubblica verso sua madre, una donna che ha sostenuto il desiderio della figlia di diventare giornalista, con l’iscrizione alla facoltà di Mass Comunication di Ranchi, fatto che Jacinta ricorda nelle sue interviste.

La figura di una madre che, pur avendo sperimentato la violenza maschile e capitalistica, continua a lottare appare nella poesia Le armi nelle mie mani. Una madre che, anche se soccomberà, insegna alla figlia a portare avanti una lotta, in cui si tratta di salvare i sogni della madre, una lotta che va ben oltre la sola militanza.

La potenza immaginifica delle poesie di Kerketta è radicata nel suo essere donna e subito mi è venuto in mente il libro di Luisa Muraro, Non è da tutti, L’indicibile fortuna di nascere donna(Carocci, Roma 2011, p. 92 e seg) dove si sottolinea l’eccellenza femminile non come “superiorità relativa che richieda continui confronti […] ma che va riconosciuta per se stessa come un saper tenersi in presenza del mondo”.

Ad esempio, nella poesia La lingua umana l’io poetante guarda “come il ramo di un albero/ fa cadere pian piano le foglie/ dal suo petto/ come una madre/ che toglie il proprio latte/ al bimbo che cresce” e questo permette alla sua anima di ascoltare “una conversazione che non si è mai potuta registrare/ in un documento storico.// e quelli che sono intenti a riempire documenti/ con mucchi di parole/ quelle parole non le possono capire./ perché l’umanità non riesce a capire/ proprio la lingua umana…?

Mi viene in mente, come dice Zambrano, che la storia vera dovrebbe mostrare lo spessore invisibile dei fatti, trovando il linguaggio più adatto. Non a caso la filosofa spagnola, come Kerketta, rivaluta la poesia come fonte sia di una conoscenza più autentica sia della possibilità della sua comunicazione. Infatti nell’intervista di Daniela Bezzi (“Dalla terra delle foreste. Incontro. Della scrittrice indiana Jacinta Kerketta esce in Italia «Brace», poesie dedicate al riscatto” in Alias, supplemento de il manifesto, 5 maggio 2018, p.8-9 leggibile anche in http://www.libreriadelledonne.it/dalla-terra-delle-foreste-incontro-con-jacinta-kerketta/) racconta che “dopo essere stata testimone di tanti abusi nella totale disattenzione dei reporters locali, e sarebbe fuorviante parlare di corruzione, spesso si tratta solo di pigrizia” aveva deciso di diventare giornalista per “raccontare come stavano veramente le cose e sono stati anni straordinari, prima come apprendista, poi inviata di qua e di là”. Avendo vinto premi importanti lasciò il quotidiano Prabhat Khabar, testata in lingua Hindi con grande seguito per continuare come free lance. Ed “è stato in quel periodo di totale libertà che la poesia ha cominciato a guadagnare spazio, non in alternativa al giornalismo, semmai come trasmissione più immediata di ciò che mi stava a cuore, e dritto al cuore di chi mi leggeva. Ha influito in questo cambio di registro la consapevolezza che il giornalismo, a determinati livelli, ha le mani legate – difficile non ricevere pressioni nella regione ricchissima di risorse minerarie, dove vivo io… Il che ha reso ancor più semplice la mia ritirata dalla stampa. I socials mi hanno aiutato.”

Kerketta conosce il valore della lingua materna, di cui ci segnala l’amorosa cura perché essa sia linfa vitale che scorre tra le generazioni e ci segnala il rischio che le parole diventino solo belle parole. Le sue parole sono l’espressione del radicamento nella propria esperienza soggettiva che solo così si apre all’universale.

Ad esempio nella poesia esseri umani e parole “all’alba la mamma con delicatezza/solleva il cestino colmo di parole/toglie la pula, le mette sul focolare/ fa marinare le parole/le avvolge in foglie di saraī/

e poi le dà da mangiare ai suoi bambini”.

Jacinta Kerketta ci mostra anche come in questo mondo globalizzato occorra essere capaci di destreggiarsi tra lingua madre e altre lingue, come e perché salvaguardare quelle delle minoranze. Lei scrive Hindi: questa è stata la sua prima lingua, benchè appartenga all’etnia Oraon che parla il kuruk. I suoi genitori si spostarono dal villaggio di Khudpos alla cittadina, Manoharpur, dove il padre trovò lavoro nella polizia e la sua educazione fu in Hindi e poi in Inglese. Il kuruk l’ha imparato, quando ha cominciato a tenere corsi di scrittura creativa per le ragazzine del villaggio di Kacchabari, nella zona di Khunti. Lei nell’intervista la definisce: “Esperienza straordinaria, dalla quale ho ricevuto moltissimo, che mi ha messo a confronto con un mondo di cui sapevo ma di cui non immaginavo la felicità, per quella totale consonanza con la natura, e una natura che ovunque guardi letteralmente ti parla… e poi le feste, per ogni momento del ciclo agrario, con le danze, donne e uomini, tutti in circolo, al suono dei tamburi, fin dentro la notte, unica luce quella della luna che non hai idea quanto riesce a illuminare. Letteralmente una gioia scappare dalla città per sentirmi a casa lì, perché è lì che so di avere le mie radici…”

Dunque si passa da una lingua all’altra per amore delle relazioni, per radicarsi e poi comunicare le proprie scoperte.

Della sofferenza per la perdita della lingua materna “[…]imprigionata/ proprio dentro la bocca della mamma/”scrive in La morte della madrelingua, tradotta in inglese in Land of the Roots, Terra di Radici per l’editore tedesco Johannes Laping. La mamma“di fronte alle prospettive che mostravano/ sogni di pane per i propri figli/ lei ha serrato i denti/ e sotto i sogni di quei bocconi/ la madrelingua è rimasta stritolata.” Non è stata morte naturale anche se alla mamma sembra solo un incidente.

Ricordo quando insegnavo italiano, e non solo, a una scuola per mamme straniere come loro cercassero di parlarlo con le loro creature passando così una lingua sgrammaticata e incompleta e come invece, quando dicevo loro di parlare a casa la loro lingua, capivano subito che era la scelta giusta.

Kerketta è capace di osservare empaticamente ciò che la circonda e di sentire la natura in stretta relazione con gli esseri viventi, mostrando i legami tra microcosmo e macrocosmo.

Ad esempio nella poesia Una sera al villaggio scrive:la sera accende il fuoco/ nella stufa a legna del giardino/ dalla stufa esce fumo/ e la luna, sbirciando fra gli alberi, /si mette a tossire,/ la ragazza accorre a dare un colpetto/ sulla schiena della luna.

Nelle poesie la personificazione non è una figura retorica, ma risponde a una concezione della natura e di quale rapporto gli esseri umani possono intrecciare.

Nell’incontro alla Libreria delle donne ha sottolineato il valore dell’essere donna nella cultura ancestrale adivasi e come cerchi di trasmetterla con le sue poesie. Si tratta di una cultura che rispetta gli alberi secolari, i campi ricavati disboscando solo alcune zone, perché gli esseri umani sanno viverci armonicamente, non considerandosi separati dalla natura. Nell’intervista ci propone una riflessione: “partecipe di quello stesso humus che continuamente si arricchisce proprio in virtù di quella infinitamente rinnovata convivenza, l’umanità dovrebbe capire che, nel profondo, we are all one, figli della stessa terra. La politica cercherà sempre di dividerci, per dominarci meglio: hindu contro mussulmani, dalits contro adivasi,e all’interno del mondo adivasi ecco che stanno fomentando il risentimento contro i cristiani. Anche la violenza contro le donne rientra in questa strategia: non è solo violenza di genere, è violenza istigata per dividere ancor meglio uomini di comunità diverse che fino a ieri riuscivano a convivere e oggi conviene che siano in guerra, perché in questo modo ci si appropria più facilmente di territori che magari fanno gola – ed ecco che anche il corpo delle donne diventa campo di battaglia.”

Con una potenza espressionista che ci scuote in Fiumi rossi denuncia sia la distruzione delle foreste con i disboscamenti e con le piogge acide, sia la distruzione dei saperi ancestrali attraverso i modi moderni di intervenire nelle calamità naturali come in Tempeste e soccorsi, dove i soccorritori fanno “a brandelli la storia dei villaggi”.

Vi è uno stretto rapporto tra le sue emozioni, ciò che testimonia e la sua scrittura come in Occhi inondati di lacrime dove racconta: “succede spesso che/ mentre scrivo una poesia/ chissà perché/ mi si riempiono gli occhi di lacrime.” Forse dovrebbe costruire una diga, ma le dighe sono anche quelle che provocano inondazioni e lacrime nelle popolazioni che lei conosce.

Non è una poesia intimistica: denuncia senza perdere la speranza perché conosce la forza della natura ma anche quella del linguaggio che rende coscienti e spinge alla lotta.

Ad esempio Quando la fame diventa fuoco, se all’inizio “il corpo dell’inchiostro sembra sciogliersi/ perdendosi in una profonda apprensione.” alla fine “una poesia canticchia/ mentre arrostisce al fuoco della fame/ e con lei si sollevano insieme/ i fuochi di molte case/ contro tutte le cause della fame.”

È molto attenta a ciò che accade alle donne e voglio terminare con qualche verso di Quando il tempo alzerà la voce? dove“una madre/ che conosce ogni cellula /dei suoi bambini,/ questa volta/ non riesce a capire/ come mai il bastone della sua vecchiaia/ non è altro che pelle e ossa.// da molto tempo ormai/ il suo petto soffre di una spaventosa/ siccità di latte/ come un ciocco bagnato fumante/ lei si consuma all’interno/ bruciando di disperazione/ e continua a percepire/ fisso sulla sua porta/ lo sguardo di un avvoltoio.//”

Questo testo mi ricorda le battaglie di Lina Merlin per la situazione di miseria del nostro Polesine: in un suo intervento parlamentare del 1951 contro gli stanziamenti per armi raccontava di aver visto “una piccola creatura con gli occhi spenti, simile a tante altre che malamente vegetano nel Delta padano, e ciò perché i seni materni sono inariditi dalla fame” (Lina Merlin, La mia vita, a cura di Elena Marinucci, Giunti, Firenze 1989, p.174)

Come Lina ci incitava a lottare così Kerketta denuncia gli accaparratori di terre e si domanda quando inizierà il tempo della rivolta “le giovani ossa finora dormienti/ quando si leveranno in un boato/ e si metteranno a battere/ i nagāṛā come tamburi di guerra?// quando verrà il tempo/ di reclamare a gran voce/ i diritti che spettano come propri/ e di scacciare gli avvoltoi/ che si accalcano sulla soglia?”

Kerketta crea poesia per avere uno sguardo più profondo che diventa capace di trasformare anche il nostro.

Leggi la recensione di Luciana Tavernini anche qui

Brace

 

“E lucevan le stelle”: l’intervista a Elisa Occhipinti su gialloecucina.wordpress.com

“E lucevan le stelle”: l’intervista a Elisa Occhipinti su gialloecucina.wordpress.com

di Alessandro Noseda

Abbiamo il piacere d’incontrare Elisa Occhipinti, in libreria con E lucevan le stelle per Miraggi Edizioni.

Buongiorno Elisa e ben venuta nella nostra cucina.
Buongiorno a voi e grazie per l’ospitalità.

Ami cucinare? Cosa prepariamo?
Amo tantissimo cucinare, soprattutto gli antipasti e i primi piatti. È un’attività che mi rilassa in modo particolare: dopo una giornata in giro e sotto stress, la sera mi fermo e dedico tutto il tempo e l’attenzione necessari per preparare una buona cena. Spesso cucino insieme a mio figlio Leonardo, che ha sei anni e mezzo. Prepariamo uno dei suoi piatti preferiti, il risotto allo zafferano.

Abbiniamo vino o birra?
Vino, preferibilmente bianco (magari un Riesling).

Sei in libreria col tuo romanzo di esordio. Dacci una breve anteprima. Di cosa parli e perché consigli di leggerlo?
E lucevan le stelle è il racconto di una vita apparentemente come tante, “apparentemente” perché in realtà ogni esistenza è straordinaria. La storia tedesca del Novecento e le tradizioni di una piccola isola del Sud Italia si intrecciano con le vicende personali di Ulrike, che decide di ripercorrere, durante il suo ultimo viaggio, la sua storia e quella di quattro generazioni della sua famiglia. Spero che ogni lettore trovi il suo personale perché: per conoscere meglio la cultura e la storia tedesca, perché c’entrano la musica e l’opera (E lucevan le stelle è una famosa aria dellaTosca di Puccini), perché è un romanzo delicato, breve eppure denso di temi e di riflessioni.

Sei una appassionata lettrice, blogger, scrittrice. Che altro?
Vivo in Germania da cinque anni e sono principalmente un’insegnante di italiano, per bambini e adulti. Sto completando una formazione in Italianistica e Comparatistica e lavoro all’Università di Bochum come assistente e tutor. Curo un progetto di promozione della lettura, ogni tanto traduco dal tedesco verso l’italiano, organizzo presentazioni letterarie. Sono caporedattrice del sito Il Club del Libro e scrivo di libri su Magma, il nuovo magazine per gli italiani in Germania.

Come ti sei avvicinata alla lettura? E alla scrittura?
Mi sono avvicinata alla lettura da bambina e non ho mai smesso. Mio fratello Giovanni è un topo di biblioteca (oltre a essere poeta, ma questa è un’altra storia), mi ha sempre regalato molti libri. Non pensavo che mi sarei mai cimentata nella scrittura, semplicemente perché chiunque abbia letto – cito qualcuno dei miei libri preferiti – I Buddenbrook di Thomas Mann, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, Olive Kitteridge di Elizabeth Strout, Un uomo di Oriana Fallaci o Il teatro di Sabbathdi Philip Roth, non può che sentirsi piccolissimo… poi è arrivata una storia da raccontare, e insieme la voglia di raccontarla. Così è nato E lucevan le stelle, ma io continuo a sentirmi piccolissima.

Un consiglio ad un giovane che sogni di diventare scrittore?
Tenere sotto controllo gli avverbi ed evitare come la peste l’editoria a pagamento.

Oltre ad occuparti del mondo delle lettere, quali altri hobbies/passioni hai?
Studio il violoncello e pratico yoga. Mi piace lo scrapbooking, trovo sia un bellissimo modo per creare biglietti d’auguri e album di fotografie davvero unici. I miei prossimi obiettivi sono un corso di calligrafia e un corso di acquerelli.

Grazie per il tuo tempo. Ora, come tradizione di Giallo e cucina, ti chiediamo di salutarci con una ricetta che ami e con la tua citazione preferita.
Cucino quasi esclusivamente “ad occhio”, quindi non ho idea delle dosi. Si tratta di una ricetta semplice, veloce eppure raffinatissima, che faccio ogni volta che ne ho l’occasione e riscuote grandissimo successo: pasta con gamberi, pomodorini e farina di pistacchio.

Di solito uso le mezze maniche o le trofie, ma si sposa benissimo anche con pasta lunga come le linguine o le pappardelle. Faccio soffriggere uno spicchio d’aglio intero in olio extravergine, poi butto in padella i gamberi e sfumo con il vino bianco. Dopo qualche minuto aggiungo i pomodorini tagliati in quattro, insaporisco con sale e pepe e lascio cuocere ancora. Poco prima di spegnere la fiamma, tolgo lo spicchio d’aglio e aggiungo la farina di pistacchio, amalgamando di modo da ottenere una cremina (se necessario aggiungo pochissima acqua di cottura della pasta). Infine faccio saltare la pasta in padella, impiatto e… buon appetito!

La mia citazione preferita, da molti anni a questa parte, è “Be the change you want to see in the world”, sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo. È una frase di Gandhi che mi ha molto ispirata e incoraggiata in diversi momenti della mia vita.

Leggi l’intervista di Alessandro Noseda anche qui
Oggi parliamo con… Elisa Occhipinti

 

Manuppelli: «Roma è il mio omaggio al genio di Fellini»

Manuppelli: «Roma è il mio omaggio al genio di Fellini»

Nicola Manuppelli, come è nata l’idea di Roma e perché ambientarlo in quel periodo storico?
«L’idea è nata da un pettegolezzo su una coppia di amanti emiliani che avevano dimenticato un dildo dentro un cespuglio. Il dildo era stato ritrovato dall’anziana vicina di casa della coppia. La donna, non sapendo di cosa si trattasse, aveva chiamato gli artificieri. Qualche giorno dopo, ero in un ristorante vicino a Cinecittà con Pasquale Panella, il paroliere dell’ultimo Battisti, che mi raccontava di quando da ragazzo scavalcava il muretto per andare a vedere gli studi cinematografici. Da questi due episodi è nata la scintilla. Anche se già da un po’ di tempo avevo deciso che avrei scritto un  libro su Roma».

La scelta di Fellini era nei tuoi pensieri fin dall’inizio o si è fatta strada durante la scrittura della storia? Fellini è un autore che ami? Quali suoi film preferisci e perché?
«Adoro Fellini. Adoro I vitelloni, Amarcord, La dolce vita, Le notti di Cabiria e potrei andare avanti a elencare tutti i suoi titoli, disegni, copioni. Fellini è un autore a cui sono arrivato col tempo. Come mi è successo con Fitzgerald. Nella mia testa, li vedo come due autori molto simili, seppur con una diversa tonalità di voce, ma la sensibilità è quella. Anni fa, a Rimini, ho avuto per la prima volta l’impressione di essere davvero entrato in contatto con la sua opera. Più tardi, ospite a casa dello scrittore americano Chuck Kinder a Pittsburgh, buttai giù un romanzo mai pubblicato che fu il mio primo approccio con un modo di narrare “felliniano”. Sia in Gatsby che in La dolce vita il protagonista/voce narrante è dentro e fuori dalla storia. Questo era lo stesso tipo di approccio che cercavo. Così prima ho pensato a Roma, poi ho pensato che Roma potesse essere una sorta di nostra los Angeles, così come Milano poteva essere una nostra New York. Il protagonista si sposta da Milano a Roma. E a quel punto, ho pensato che il libro dovesse essere una grande festa, con un tocco di malinconia come le feste di Fellini e Fitzgerald – chiamiamoli le due F, i miei numi tutelari – dove ci si perdeva e dove far girare la mia giostra di personaggi. Fellini mi lascia continuamente meravigliato. Pensare a lui in corso della lavorazione del libro è stato inevitabile. Volevo che fosse un personaggio del libro, la luce verde del protagonista. E ho rivisto tutti i suoi film mentre lavoravo a Roma. La Dolce Vita, visto forse per la decima volta, mi ha lasciato ancora a bocca aperta. Non è solo un capolavoro di immagini, ma di moda, dialoghi, struttura narrativa. Un film immenso».

Quanto all’epoca storica, volevo che fosse il tramonto di un’epoca di Cinecittà, e c’era anche l’idea di un doppio piano per cui i protagonisti del libro si trovavano all’interno di una Roma ricostruita sul set di Roma di Fellini, che venne girato fra il ’70 e il ’71. 
«L’uso di più personaggi, poi, con tutte le loro storie, mi permetteva di spaziare anche in altre epoche di Roma, facendo del romanzo una sorta di piccola cronaca di Roma».

A leggerlo si ha la sensazione che sia un’opera in qualche modo “destinata” a trasformarsi in un film. L’hai pensata con questo obiettivo o è casuale?
«Sì, è una delle cose che voglio fare in futuro scrivere per il cinema. E mi piacerebbe molto che Roma potesse diventare un film. Per la prima volta, in un romanzo, ho lavorato in questo modo; visitando i set, visionando gli attori che volevo ne facessero parte – per esempio, mi sono divertito a riprodurre la parlata di Walter Chiari o quella di Fellini -, suddividendo il tutto in scene, parlando con gente che sapeva informazioni che cercavo. Nella mia ottica, mi sono aperto alla collaborazione. Ho fatto come un regista che lavora con dei collaboratori, mentre nei libri precedenti mi chiudevo da qualche parte a scrivere, qui sono uscito e ho ascoltato e ho lasciato che io e tutto il resto fossimo al servizio della storia, o delle storie».

Quanto ti ha impegnato il lavoro di documentazione?
«Sei mesi. Oltre a tutto ciò che avevo accumulato ogni volta che ero stato a Roma e ogni volta che l’avevo vista rappresentata in un libro o un film, da Petronio a Belli fino a Scola e Monicelli. E poi mi è stato  molto utile l’appoggio di amici romani, che mi hanno aiutato per esempio col dialetto. Su tutti, un magnifico libraio che si chiama Emanuele Spinelli e suo padre Franco che è una sorta di Omero romano».

Quanto ha influito la tua esperienza come traduttore di importanti scrittori americani?
«Come ogni altra esperienza biografica influisce sull’opera di uno scrittore. Non amo molto essere visto come “traduttore”. Tradurre fa parte del mestiere dello scrivere. E scrivere rientra nella categoria più grossa del raccontare storie. Vorrei essere in primo luogo uno che racconta storie, quindi per derivazione uno scrittore e infine un traduttore».

Il riferimento a Il giorno della locusta di Nathanael West è esplicito…
«È uno dei miei libri preferiti e ho avuto anche il piacere di tradurre. Non ho invece mai visto il film. In Roma c’è anche un omaggio all’autore, un produttore che di cognome fa Locusta. Invece il libro è in memoria di William Styron, autore un po’ dimenticato ma che con La scelta di Sophie ha scritto uno dei romanzi più belli del secolo scorso».

“E lucevan le stelle”: l’intervista a Elisa Occhipinti su gialloecucina.wordpress.com

“E lucevan le stelle”: l’intervista a Elisa Occhipinti su anajustana.com

LA BLOGGER

In questi ultimi mesi mi sono dedicata molto alla ricerca di blog letterari, soprattutto perché cercavo libri interessanti da leggere in italiano e informazioni sul mondo dell’editoria in Italia. Come tutte le ricerche che si fanno su internet, non sai bene da dove parti e non sai mai dove finisci.

Mi sono imbattuta nel blog di Elisa mesi fa, seguendo il suo profilo di Caporedattrice della rubrica letteraria sul Club del Libro. La cosa che più mi ha colpita? È una mamma che si è trasferita in Germania e ha un figlio maschio con lo stesso nome del mio.

Ho letto il suo blog marginaliae mi è piaciuto molto lo stile delle recensioni e la sua storia. Quando ho visto il suo profilo, mi son detta che sarebbe stata perfetta da intervistare per la rubrica del mio blog “Meet another working mom”. L’ho contattata, le ho spiegato il mio progetto ed eccomi qui.

Elisa mi sorprende per la sua determinazione e positività. Vivendo anche io in un paese di lingua tedesca, so per certo quanto sia difficile integrarsi nella cultura nordica e imparare la lingua. Lei invece è andata alla ricerca di questi elementi. Mi ha raccontato di aver studiato economia e tedesco all’università appassionandosi alla lingua e alla cultura.

LA MAMMA

L’arrivo del figlio cambia gli equilibri di Elisa, che a quel tempo lavorava in uno studio legale a Torino. Noi mamme sappiamo come l’arrivo di un figlio sia sempre uno sconvolgimento nelle nostre vite. Le priorità cambiano, le dinamiche di coppia evolvono e di colpo la nostra esistenza gravita attorno ad un esserino di pochi chili.  Elisa si rende conto che il tempo dedicato al figlio è poco e il suo lavoro poco appassionate le porta via tempo prezioso. Capisce presto di voler un ritmo di lavoro più compatibile con la sua famiglia e una vita più interessante. Queste, ed altre ragioni, l’hanno spinta a voler cambiare vita. Con suo marito decide di trasferirsi in Germania.

Sono molto colpita dal suo racconto: molte persone ci mettono anni, o addirittura decenni, a capire cosa vogliono davvero e rimangono a lungo intrappolate in una vita di frustrazioni. Elisa invece dimostra molto presto maturità e autodeterminazione, caratteristiche rare in una ragazza che non ha ancora compiuto 30 anni.

Elisa: “Ho sempre lavorato” dice Elisa“e anche da mamma in Italia ero molto attiva professionalmente ed avevo molti hobby. Quando sono arrivata in Germania mi sono ritrovata a casa con mio figlio per un anno fino a che non ha iniziato l’asilo. In quel periodo mi sono resa conto di quanto il lavoro fosse importante per me. Lavorare mi fa sentire viva e attiva!”.

Anche Elisa, come molte altre madri, dice che la maternità non è che una parte di lei. Siamo donne con interessi e una vita professionale da sviluppare, oltre ad essere compagne, mogli e madri. I figli sono la nostra priorità, ma non posso essere l’unica cosa a cui ci dedichiamo.

E: “È importante crearsi delle oasi senza figli dove potersi ricaricare. Non siamo solo mamme!” dice lei con foga, dopo avermi raccontato che ogni tanto si ritaglia del tempo per sé stessa.

E cosa ne pensa il figlio di questa mamma piena di passioni?

E: “Sto educando mio figlio alla parità uomo-donna. Lui cresce con l’idea che sia normale che la sua mamma lavori e che abbia anche attività al di fuori della famiglia e del lavoro. Per me è importante che capisca che io sono anche molto altro, oltre ad essere la sua mamma. E lui non solo lo accetta, ne è anche contento”.

Non posso che essere d’accordo con lei. Dare il buon esempio ai figli è sempre la scelta giusta.

SCRITTRICE E…

La vita da freelance si adatta bene ai tempi e ai ritmi dei bambini, specialmente se piccoli. Chiaro che ci sono anche dei contro. Si è da soli e si tende ad accettare molti piccoli mandati, non tutti molto soddisfacenti, ma per ora va bene così. Ho provato a riprendere un lavoro d’ufficio per qualche settimana, pochi mesi fa, ma non mi sentivo soddisfatta ed equilibrata. Per cui ho smesso e sono tornata ai miei progetti da freelance”.

Elisa però non si ferma alla sua attività di editor, redattrice e traduttrice. Cura un blog letterario, è caporedattrice del Club del libro, sta completando una formazione in Comparatistica e Italianistica alla Facoltà di Filologia della Ruhr-Universität Bochum, si dedica all’insegnamento dell’italiano e coordina il progetto per bambini “Nati per Leggere Deutschland”.

Si capisce dalla luce nei suoi occhi come tutto quello che riguarda i libri e l’insegnamento l’appassioni. Non sono molto sorpresa quando alla fine dell’intervista scopro che ha anche scritto un libro, che è stato appena pubblicato in Italia da Miraggi Edizioni.

Decido di leggere il suo romanzo, “E lucevan le stelle”, e lo leggo in un fiato. Bellissimo. Non sono molto stupita che la storia si svolga in Germania, ma sono molto colpita dalla maturità del racconto e dalla scorrevolezza della narrazione, nonostante i temi trattati siano molto seri. Il libro è un lungo racconto della vita di una donna tedesca come tante, delle sue tragedie familiari e del suo sviluppo di donna adulta. Raccontato in prima persona, Elisa, tramite la voce di Ulrike, ci fa scoprire l’impatto che hanno avuto il nazismo e la Seconda guerra mondiale nella vita dei tedeschi e percorre i decenni che seguono raccontando vicende familiari all’apparenza normalissime, ma che nascondo mondi di solitudine.

E lucevan le stelle” è un romanzo bellissimo, poetico, pieno di riflessioni e molto ben scritto. Una lettura che non lascia indifferenti.

Leggendo il primo romanzo di Elisa sono ancora una volta colpita dalla maturità e determinazione di questa donna, ora anche scrittrice.

Un’altra madre che lavora come noi, una vita normale ma allo stesso tempo incredibile, un altro esempio da seguire.

Leggi l’intervista di anajustana.com anche qui

Meet another working mom: Elisa Occhipinti

 

“Ho scoperto di essere morto”: la recensione di Massimo Calandri su Il Venerdì di Repubblica

“Ho scoperto di essere morto”: la recensione di Massimo Calandri su Il Venerdì di Repubblica

Una banale lite tra vicini, di quelle che accadono più o meno a tutti una volta nella vita. Quello che non capita, di solito, è il passo successivo, scoprire dalla polizia di essere morto. O meglio, scoprire l’esistenza di un verbale che notifica il proprio decesso. João Paulo Cuenca, 40 anni, è uno dei più talentuosi scrittori brasiliani contemporanei. Già nel 2012 la rivista inglese Granta lo ha inserito in una ristretta cerchia di autori sudamericani da tenere d’occhio. E la previsione ha trovato conferma nei lavori degli anni seguenti: romanzi, articoli, opere cinematografiche. Ho scoperto di essere morto – pubblicato in otto lingue e in Italia meritevolmente edito da Miraggi (pp. 176, euro 16) con l’avvincente traduzione di Eloisa Del Giudice – è la discesa in un doppio inferno: sociale e personale, un viaggio delirante nelle mille contraddizioni di una Rio de Janeiro che si sta preparando ai Giochi Olimpici tra speculazioni edilizie, polizie più o meno segrete, feste, droghe, alcol, situazioni comiche al limite del grottesco, individui scellerati.

Lo spunto di partenza è autobiografico (nel libro c’è anche il famigerato certificato di morte), ma si trasforma rapidamente in un pamphlet urbano denso di misteri e colpi di scena. L’inventiva anarcoide di Cuenca mantiene alta fino all’ultima pagina la tensione, addirittura amplificata dalla sorprendente postfazione attribuita a una studentessa che nelle pagine precedenti compare con osservazioni critiche nei confronti dello stesso scrittore. Che con questo romanzo si è aggiudicato il premio Machado de Assis, il più importante riconoscimento letterario brasiliano.

Massimo Calandri

“Il lago”: la recensione su La Nuova Sardegna

“Il lago”: la recensione su La Nuova Sardegna

La storia narrata dalla scrittrice ceca Bianca Bellovà è quella di un ragazzino, orfano, allevato dai nonni in un piccolo villaggio sulle rive di un grande lago nel cui si specchio si riconosce la vicenda del lago Aral, una delle più grandi catastrofi ambientali del pianeta. La morte improvvisa dei nonni spinge il piccolo protagonista, Nami, a partire dalla ricerca della mamma che è convinto sia ancora viva. Un viaggio epico in un mondo duro e surreale che forgerà il carattere del giovane. Un romanzo ricchissimo a metà tra il racconto di formazione e la fiaba gotica.

“E lucevan le stelle”: l’intervista a Elisa Occhipinti su gialloecucina.wordpress.com

Elisa Occhipinti: “Io, Brigitte, Ulrike e le stelle”

Elisa Occhipinti, da dove è partita per scrivere “E lucevan le stelle”?
Da diversi anni mi sono trasferita in Germania, appena sono arrivata ho subito stretto un rapporto
con Brigitte: era una signora anziana che viveva in una struttura, appena sei mesi dopo il mio
trasferimento lei è venuta a mancare. Io ho iniziato la mia vita tedesca nell’aprile del 2013, a
dicembre dovevo già darle l’ultimo saluto. E’ stata una figura fondamentale per me, anche se ho
iniziato a conoscerla meglio dopo il suo funerale. La sua era stata una vita particolarmente difficile
e non ne aveva mai voluto parlare, ma io ho iniziato a indagare e ho trovato tanti spunti
interessanti.
Chi è l’Ulrike del libro?
E’ proprio Brigitte stessa, perché sono partita da una storia vera e ci ho costruito sopra qualcosa.
Però è molto romanzato, ci sono tanti elementi di fantasia. Tutto, però, inizia appunto dal mio
incontro con Brigitte: la sua vita mi ha suscitato grande interesse e ho deciso di scrivere un libro.
L’ho iniziato nella primavera del 2014, pochi mesi dopo la sua scomparsa.
Germania e Italia sono i suoi luoghi del cuore?
La vicenda si svolge proprio tra questi due paesi, sono legatissima ad entrambe le terre. L’Italia è il
mio paese, sono nata e cresciuta a Torino e tutti i miei parenti mi aspettano sempre a casa, perciò
non potrò mai dimenticare la mia terra d’origine. Dall’altra parte, però, ho sempre sentito mia la
Germania: ho studiato tedesco a scuola, il mio desiderio di trasferirmi in Germania si è realizzato
cinque anni fa e ora sono felice qui.
Da chi si è ispirata per il titolo?
In qualche modo richiama Dante, sono una sua grande ammiratrice, ma in realtà è tratto dalla
Tosca di Giacomo Puccini: sono proprio le stelle e questa romanza a fare da filo conduttore. E sono
anche le due più grandi passioni di Ulrike, che in qualche modo richiamano quelle di Brigitte.

“Ho scoperto di essere morto”: la recensione di un grande libraio!

“Ho scoperto di essere morto”: la recensione di un grande libraio!

Oggi, dopo qualche settimana dall’incontro di João Paulo Cuenca alla libreria Milton, il libraio che noi della Miraggi riteniamo essere uno dei migliori librai italiani e risponde al nome di Carlo Borgogno, ci manda queste quattro righe che ha scritto perché sono ancora caldi il sentimento e l’emozione della lettura di questo libro! Qualcuno di voi potrebbe interrogarsi su quale sia il metro di giudizio per decretare un libraio un grande libraio, giusto? Credo che la risposta possa essere composta da una serie di aspetti inequivocabili, uno dei quali la passione per la lettura, lui che è prima di tutto vorace e attento lettore e quindi libraio fidato. Entrare da Milton ad Alba si rimane letteralmente affascinati dalla libreria che rispecchia bene lo spirito del libraio stesso. Chi ha letto questo piccolo capolavoro Ho scoperto di essere morto riuscirà a trovarvi qualche comune impressione con Carlo e per chi non l’avesse letto, sicuramente la curiosità di leggerlo. In fondo facciamo e vendiamo libri per cui vale la pena innamorarsi.

Ecco la recensione fantastica di Carlo Borgogno:

Ho letto e riletto il libro di Cuenca negli ultimi giorni poichè dovendolo presentare nella mia libreria ed avendone subodorato l’importanza e lo spessore letterario non volevo farmi cogliere impreparato.
È perciò un libro che consiglio di leggere e rileggere: piacevole, fluido, interessante, divertente e provocatorio ad una prima lettura, si schiude come un fiore prezioso ad un secondo ed approfondito passaggio grazie al quale si incominciano ad avvertire le solide e meditate architetture della narrazione.
Notti insonni hanno accompagnato la rilettura di alcuni passaggi attraverso i quali sono entrato in empatia con la sofferenza e lo sforzo che l’autore deve aver fatto per raccontare l’abiura da se stesso e la riconciliazione avvenuta attraverso un contrappasso di feroce autolesionismo voluttuoso.
Il libro è pieno di carne, sangue e cemento. Una Rio De Janeiro oltraggiata e deturpata fa da sottofondo alle vicende umane del protagonista che come la città stessa si ritrova a pezzi. Entrambi alla ricerca della propria identità sepolta.
Non credo di essermi spiegato. Cuenca lascia ad ognuno sensazioni troppo personali per essere condivise. È un libro da leggere. Assolutamente. È inutile star qui a far tante parole!
carlo
Libreria Milton
Via Pertinace 9/c
12051 Alba (Cn)
+39 0173 293444
“Il suono di Torino”: la recensione di Luca Cangianti su carmillaonline.com

“Il suono di Torino”: la recensione di Luca Cangianti su carmillaonline.com

di Luca Cangianti

Un mosaico di suoni, immagini e racconti prende progressivamente forma fino a offrire al lettore il ritratto vivente di una città, della sua storia e del suo profilo psichico e criminale. E già, perché la Torino di Domenico Mungo è un’assassina “con un ghigno diabolico” stampato sul volto. È lei la protagonista delle trenta storie mutanti del Suono di Torino – una sciarada intrisa di urla poetiche, stridii di chitarre elettriche e tonfi metallici. Seguendo le tracce della killer seriale si scopre, sotto la rapsodia degli eventi narrati, una trama profonda che lega insieme luoghi, vicende e personaggi, fino a far emergere in trasparenza un romanzo noir dove odio ribelle e amore tradito sono avvinghiati in una lotta all’ultimo sangue.

Mediante il libero riadattamento di articoli, opuscoli e volantini si affrontano efferate stragi fasciste, esecuzioni capitali, gli eroici scioperi del marzo 1943, l’immigrazione meridionale verso le fabbriche del Nord, i bagliori insurrezionali dell’autunno caldo, la marcia dei 40 mila, i drammi del fordismo e la crudele persecuzione dei notav.
Il suono di Torino importa in letteratura le tecniche musicali della campionatura, del remixing: “Unico fil rouge, la colonna sonora punk: le strofe rabbiose, dilaniate, furibonde dei Nerorgasmo, distorte qua e là che emergono improvvise tra i fiumi di parole urlate da una gola recisa. Ma anche Negazione, Cesare Pavese, Church of Violence, Totozingaro Contromungo, Rough!, Refused, Fred Buscaglione, Lucio Dalla, il rumore della fabbrica, il deragliare di un treno ad alta velocità.”

Nel capitolo finale l’autore si congeda:

Delle sue valigie di cartone spruzzate di smog e grasso d’officina.
Delle sue barricate operaie
E delle sue università̀ di rampolli della rivoluzione.
Dei suoi mille centri sociali
Ormai necropoli di se stessi
Murati vivi i cuori che anelano
Addio.
Non mi volterò mai, nemmeno per un istante per guardarne i grattacieli e le ciminiere fantasma che mi lascio dietro le spalle.

Torino è la personificazione geolocalizzata della nostra vita miserabile, ma allo stesso tempo la speranza resiliente dell’insubordinazione. Domenico Mungo, del quale Carmilla ha recensito anche Avevamo ragione noi, offre al lettore un modo innovativo di fare poesia e narrativa, una nuova tecnica balistica per scagliare l’arte contro l’oppressione e la violenza del Potere.

leggi la recensione di Luca Cangianti anche qui
https://www.carmillaonline.com/2018/09/16/torino-tra-odio-e-amore/

 

“Casamatta”: la recensione di Giacomo Stocco su Le monde diplomatique

“Casamatta”: la recensione di Giacomo Stocco su Le monde diplomatique

José Diaz Fernández fu uno degli intellettuali delle avanguardie spagnole dimenticati dal lungo periodo franchista. Giornalista, repubblicano, attratto dai “grandi fatti russi” e della rivendicazioni operaie in quanto portatrici di una nuova sensibilità morale e letteraria, visse in prima persona la guerra coloniale in Marocco, dove svolse il servizio di leva. Era il 1921, l’anno del disastro militare di Annual, a cui fece seguito una crisi politica che sfociò due anni più tardi nel colpo di stato di Primo de Rivera. Dal fronte scrisse sette racconti indipendenti l’uno dall’altro, aventi “come elemento di unità soltanto l’atmosfera comune”, dati alle stampe nel ’28 come El blocao, titolo tradotto in Casamatta per questa prima edizione italiana. A questi episodi si aggiungono in appendice due caustici articoli pubblicati nel periodo di stanza in Marocco.

Quest’opera, definita “un piccolo capolavoro” dallo scritto Ignacio Martinez de Pisón, autore dell’introduzione, affronta con demistificante realismo una campagna coloniale che portò allo sterminio di quella gioventù che non poteva permettersi di pagare la quota, l’esonero parziale dall’arruolamento. Il blocao è l’avamposto isolato, spesso situato in cima a un’arida altura, in cui venivano dislocate a rotazione le guarnigioni spagnole a presidio del fronte. In esso i soldati protagonisti di questi racconti si trascinano in una logorante monotonia sperimentando un’alienazione dalla vita sociale e affettiva. La sensualità come richiamo della vita, soffocata dal peso dei fucili sulle spalle, e il supplizio dell’attesa di un nemico invisibile assalgono i personaggi annidati nel desertico paesaggio che circonda una fumante cabila o frastornati dall’ingannevole seduzione della Tetuan occupata. Dietro l’aspro smarrimento dei soldati, privati di ogni eroismo, si coglie la resistenza delle tribù del Rif e l’emergere delle idee rivoluzionarie. Queste compaiono in Maddalena rossa, il testo principale del libro, in cui Angustias, un’impetuosa rivoluzionaria, impone il suo esempio a “Occhialini”, uno studente tanto idealista quanto incerto nell’azione, anche al momento di tradire la chiamata alle armi.

Diaz Fernández condusse una battaglia per la letteratura sociale, per il compito giornalistico di “dare una sensazione esatta delle cose”, contro la glorificazione della guerra che occultava la dolorosa realtà di uomini sottratti alle loro vite per servire una fallace idea di patria. Il suo impegno politico continuò con l’opposizione alla dittatura di Primo de Rivera e ai governi del bienio negro repubblicano, pubblicando ulteriori opere nel solco di quella che egli stesso chiamò letteratura “de avanzado”, tra le quali si ricordano La Venus mecánica, El nuevo romanticismo e Octubre rojo en Asturias, apparso sotto lo pseudonimo di José Canel dopo la rivoluzione asturiana del 1934. Eletto alle Cortes repubblicane, ebbe un ruolo a fianco del governo del Fronte Popolare durante la guerra civile, trovando infine la morte in esilio. El blocao è un libro che risponde al sentimento culturale più avanzato degli anni Venti spagnoli e che seppe trovare un chiaro successo editoriale, a dispetto del successivo oblio.

Giacomo Stocco