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Tre “panini” di Mangialibri a Valeria Carletti

Tre “panini” di Mangialibri a Valeria Carletti

Articolo di Andrea Micalone

Valeria Carletti è innanzitutto una stalker di professione e una groupie accanitissima. Cerca sempre di infilarsi nei backstage dei concerti e, perché no, se possibile anche nei camerini, così da scambiare quattro chiacchiere con i suoi artisti preferiti. C’è però un piccolo dettaglio da aggiungere: Valeria è in carrozzella, ma sogna comunque di fare uno stage diving. Ma non importa se ciò (per ora) è irrealizzabile, perché la musica la fa sentire viva, e molti cantanti ormai la conoscono bene e sono diventati veri e propri amici (Zen Circus, Dario Brunori, Samuele Bersani, Max Gazzé, eccetera eccetera). Poi con il suo cane Luna… Anzi, diciamolo bene: la sua cana… Ecco, con la sua cana Luna, si aggira sempre per le vie di Torino con le cuffie nelle orecchie. Ogni canzone le spalanca mondi ed emozioni fortissime, che la fanno vibrare di quella vita che a volte sembra sfuggirle. Perché sì, la sua non è soltanto una storia di entusiasmi e di “andràtuttobene”! Tutte cazzate, quelle. Ci sono anche i momenti bui, in continuazione. Alcuni amici le dicono che lei ascolta troppe canzoni tristi, ma non importa: si sa che le canzoni tristi sono anche la cosa più bella del mondo. E poi Valeria ha già organizzato in un’occasione un festival (naturalmente incentrato sulla musica) avente l’obiettivo di discutere, e se possibile abbattere, le barriere architettoniche: l’Oltranza Festival. Ora sta già pensando a una seconda edizione. E per via di tutto questo attivismo, di conseguenza, non riesce proprio a sopportare gli odierni governanti, del tutto indifferenti alle fatiche degli ultimi ma con la bocca sempre impastata di cristianesimo. Valeria, in effetti, talvolta pensa: “Chissà come si vergognerà quel crocifisso che tengono in mano”…

Cinquanta canzoni. Cinquanta canzoni che, se si ha tempo e voglia (trovateli), si possono anche ascoltare su internet grazie a QR Code presenti all’inizio di ogni capitoletto. Cinquanta canzoni che ci introducono alla vita, alle esperienze e agli innumerevoli concerti a cui Valeria Carletti ha preso parte. E va specificato: cinquanta canzoni di artisti per lo più indipendenti, tanto si sa: ormai (concordo con Valeria) la buona musica si trova soprattutto da quelle parti. Questo è dunque un diario, ma un diario di un genere molto sghembo e simpatico. Stracolmo appunto di musica (sono felicissimo di aver dovuto recensire io questo libro, dato che con gli Zen e Brunori ci sono cresciuto, e quindi…) e stracolmo di emozioni. Non tutte positive, sia chiaro, ma non stiamo qui a trattare Valeria come una poverina, né al contrario come una donna di forza eccezionale o altre scemenze del genere. Valeria è una donna, punto. Anzi no: devo aggiungere una cosa (del resto sarei qui proprio per questo). Valeria è una scrittrice. Questo infatti è un libro magnificamente scritto, struggente in molti punti, e capace di trasmettere un dolore intenso come solo certi libri sanno fare. Ci pone insomma dinanzi alle difficoltà della vita (di lei, ma anche nostra) con grande sincerità. In conclusione, davvero, qui c’è bellezza.

Qui l’articolo originale: https://www.mangialibri.com/oltranza-disavventure-di-una-vecchia-groupie

La conversazione infinita. “Trittico” di Saša Sokolov.

La conversazione infinita. “Trittico” di Saša Sokolov.

di Manuel Paludi, «Andergrraund»

Saša Sokolov (Ottawa, 1943) è uno delle voci più importanti ed originali del panorama letterario dell’emigrazione russa del secondo Novecento. Esule nella vita, dal 1975, e nell’animo, è autore di tre romanzi: La scuola degli sciocchi (Škola dlja durakov, 1976; traduzione di Margherita Crepax, Salani 2007); Tra Cane e Lupo(1980); Palissandreide (Palisandrija, 1985; traduzione di Mario Caramitti, Atmosphere Libri 2019); oltre che di diversi saggi “proetici”. Trittico è l’ultimo e più maturo frutto della sua ricerca.

Sul pannello di destra del Giardino delle Delizie di Hieronymus Bosch – quello raffigurante “l’inferno musicale” – campeggia la misteriosa figura dell’Uomo-Albero. Il corpo di questa creatura è costituito da un guscio d’uovo schiuso sorretto da due gambe-tronchi calzati di scialuppe. Il suo volto – in cui alcuni hanno voluto vedere l’autoritratto del pittore fiammingo, altri addirittura quello dell’anticristo – è rivolto verso l’osservatore, mentre lo sguardo è diretto alla bisca ospitata all’interno del suo corpo, che osserva con aria indifferente e sorniona, come a una cosa che non lo riguardasse. Sul capo porta un disco inclinato su cui alcune figure ibride marciano tenendo per mano i corpi nudi dei dannati. A completare la scena, in alto a sinistra si trovan o, tra le altre cose, un paio di orecchie trafitte dalla lama argentea di un pugnale.

L’Uomo-Albero – atipico direttore d’orchestra nell’“inferno musicale” del trittico di Bosch – sembra una figura quanto mai adatta per parlare di un altro trittico, che, anche se meno grottesco, non è per questo meno musicale, né meno brulicante di strane creature. Si sta parlando dell’ultimo libro dello scrittore di lingua russa Saša Sokolov, Trittico (Triptich, 2011), tradotto in italiano da Martina Napolitano per i tipi di Miraggi Edizioni. Il volume, che, come gli altri della collana “janus|giano”, gode del pregio di riportare il testo originale russo a fronte, raccoglie e presenta per la prima volta al pubblico italiano tre componimenti poetici pubblicati inizialmente sulla rivista letteraria “Zerkalo” durante gli anni 2000.

I tre “pannelli” che vanno a comporre Trittico – Ragionamento (Rassuždenie), Gazibo, e Il filornita (Filornit) –  sono suddivisi in strofe numerate di lunghezza variabile non rispondenti ad alcuno schema metrico tradizionale. La scelta di adottare il cosiddetto verso libero non è casuale da parte di Sokolov e, come non manca di sottolineare la traduttrice nella prefazione al libro, sembra rispondere alla precisa volontà dell’autore di risalire alle origini prime della poesia e della lingua, che sono confuse con quelle della musica. I tre componimenti infatti abbondano di riferimenti e indicazioni musicali che conferiscono al testo un carattere quasi librettistico. Anche la struttura corale (mnogoloso p. 42), e il carattere performativo dell’opera, da leggersi espressamente “a voce non troppo alta”, “come un recitativo” (p. 37), sembrano confermare il desiderio dell’autore di ricongiungersi alle origini ancestrali della poesia, intesa prima di tutto come dialogo polifonico sul Bello (izjaščnoe) che dovrebbe trascendere la sfera dell’umano.

Prendiamo piuttosto il punto di vista dell’eternità,
allora diverrà chiaro che tutto, compresa
la sabbia dispersa del sahara
dai sette samurai,
si sistemerà, s’incollerà,
si riunirà, tornerà come prima
” (p. 49)

Se da un lato la danza linguistica” (p. 5) di Trittico si articola sul piano atemporale dell’Arte e nella dimensione ciclica dell’eterno ritorno, dall’altro il testo si pone espressamente come autentico documento umano” (p. 45), che in virtù del suo legame con la phonè, con la voce, o meglio, con le voci, acquista una portata etica. In quest’opera infatti, in modo ancora più radicale che nelle precedenti, la figura autoriale si dissolve nel respiro ritmico della scrittura e del verso, e, come il corpo dell’Uomo-Albero nel trittico di Bosch, si fa concavo per ospitare una moltitudine di personaggi e di voci, a cui guarda con un sorriso misto di malizia e rassegnazione, come se non gli appartenessero, come se provenissero, appunto, da altrove.

Nella vita come in Letteratura, Saša Sokolov esorta i lettori ad abbandonare le categorie prestabilite (“ci è assai di conforto che voi non siate di quei / linnei che gli insetti e gli uccelli, / sulla sola base che i secondi / sono alati sempre, e i primi talvolta, / li riducono al comune denominatore, / […]  ah, quanta ancora superficialità in loro, / quanto dogmatismo” pp. 67-69), orientandosi piuttosto verso una visione panteistica del mondo e dell’esistenza, in cui “qualunque cosa si prenda è correlata” (p. 73). Solo così si sarà in grado di pensare a folate, nello stile del vento” (p. 63), ma anche nello stile del fiume” (p. 65) e in quello del giunco; ovvero di uscire dalla monade del sé per divenire Altro.

In questo senso, Trittico rappresenta l’ultima tappa della ricerca dello scrittore, che porta alle estreme conseguenze il progetto di disgregazione della voce narrativa già iniziato nel suo romanzo d’esordio, La scuola degli sciocchi. Il risultato è una scrittura diafana e rarefatta che oscilla tra espressionismo astratto e preziosismo barocco, e in cui è talvolta impossibile stabilire con certezza quale sia l’argomento del discorso e chi stia parlando. Che sia, per esempio, la vedova di guerra trasformata in mosca in Gazibo, il compositore cinquecentesco Antonio Scandello, o ancora la signora ispanica che appare nel Filornita, personaggi e voci si accavallano e si confondono nelle pieghe del tessuto contrappuntistico dell’opera, che, nonostante gli appigli offerti dall’apparato di note che correda il volume, a un primo approccio può lasciare a dir poco disorientati.

Una possibile strategia per approcciare un testo di questo genere sarebbe forse quella di “tirare i remi in barca” e, inerti, lasciarsi trasportare dal flusso sonoro della scrittura, così come, del resto, l’autore stesso si lascia volentieri andare ad un’euforia puramente fonetica per la Parola, e per la sua capacità di generare associazioni inaspettate, personaggi ed episodi sempre nuovi. Questo entusiasmo si riflette, per esempio, nel leitmotiv dell’enumerazione e delle liste, che percorre in modo trasversale i tre “pannelli” di Trittico.

Già artificio principe del cosmo sokoloviano, liste ed elenchi vi svolgono una funzione opposta a quella che a loro viene solitamente assegnata, cioè invece di ordinare il discorso, hanno il compito di disperderlo ulteriormente, e di mostrare quindi il mondo e il linguaggio nella loro dimensione di caos e entropia. Ma poiché, si sa, i dettagli sono nella lettera” (p. 37), l’elenco particolareggiato, stilato lentamente, con cura e dovizia di particolari, diventa per esteso metafora delle Belle Lettere e, quindi, della creazione di quel Bello (izjaščnoe) che è al cuore della poetica dell’autore. Inoltre, come confermano i riferimenti ai papiri e alle antiche civiltà mesopotamiche disseminati per il testo, in Trittico cataloghi, liste, fogli contabili, registri e quant’altro si legano al tema dell’infanzia della scrittura, alle cui origini si trova appunto l’esigenza di enumerare ed elencare possedimenti e beni, e di rendere conto degli scambi commerciali.

In conclusione, non resta che augurare buona fortuna (e buon viaggio!) alle lettrici e ai lettori italiani che vogliano cimentarsi con un’opera tanto complessa e stratificata come Trittico. La traduzione della sokolovedka Martina Napolitano, fedele alla sostanza originale della lingua dell’autore, sarà di certo una guida preziosa per apprezzare a pieno la bellezza e la musicalità di questo testo fuori dal comune: un vero e proprio giardino delle delizie.

QUI l’articolo originale: https://www.andergraundrivista.com/2024/05/31/la-conversazione-infinita-trittico-di-sasa-sokolov/

Sylvie Richterová, da Praga a Roma, la casa è la coscienza

Sylvie Richterová, da Praga a Roma, la casa è la coscienza

di Margherita Ghilardi, «Alias – il manifesto»

SCRITTRICI CECHE. «Il secondo addio», (Miraggi edizioni), primo romanzo di Sylvie Richterová a essere stato pubblicato non in samizdat, 1994: cortina di ferro e anni di piombo, una doppia prospettiva tra illusioni e stupore

Un «vivaio di fantasmi» e anche un’«arena di sortilegi» fu Praga per Angelo Maria Ripellino. Una «trappola che, se afferra con le sue brume, con le sue male arti, col suo tossicoso miele, non lascia più, non perdona». Si direbbe che respirino ancora gli stessi enigmi e gli stessi incantesimi nella Praga meno gotica ma più metafisica, quasi cubista in cui Sylvie Richterová allestisce lo scenario del suo quinto romanzo, il primo che ha potuto pubblicare non in samizdat, uscito in ceco nel 1994 e ora disponibile in italiano nella limpida traduzione di Alessandro De Vito con il titolo immutato Il secondo addio(Miraggi edizioni, postfazione di Massimo Rizzante, pp. 156, € 18,00). Dei tredici personaggi che abitano il libro, formandovi una sorta di scombinata famiglia stretta da legami d’amore, soltanto Pavel rimane avvinghiato a Praga, chiuso in un suo rassegnato isolamento «dietro i chiavistelli del tempo totalitario». Praga continua però a chiamare indietro dalla città in cui si sono rifugiati durante gli anni settanta, una Roma colorata e rumorosa che diventa il secondo sfondo della trama, sia Marie sia Jan, i cui differenti percorsi disegnano un ponte tra due luoghi del tempo oltreché dello spazio.

Richterová, nata a Brno nel 1945, a Praga si è trasferita nel ’63 per frequentare la facoltà di lingue e letterature moderne all’università. Nel ’71 si è stabilita in Italia, prima a Roma, dove ha insegnato alla Sapienza fino al 2009, poi a Trevignano Romano; grazie alla doppia cittadinanza ha potuto tornare spesso nel suo paese di origine anche prima della rivoluzione di velluto. Nasce dall’esperienza personale, benché Il secondo addionon sia affatto un libro autobiografico, quell’insolito, straniato ma acuto sguardo bifocale che l’autrice posa sulla vicenda mentre la narra. Non si tratta unicamente della doppia prospettiva geografica da cui la storia è osservata, piuttosto del duplice stupore che percorre l’intero testo. Sulla pagina l’assurdità del regime a cui si sottraggono Marie e Jan non risalta con minore evidenza rispetto alla follia di quei nostri anni di piombo in cui si trovano a costruire una nuova vita. Malgrado l’opzione di uno stile disincarnato e asciutto, l’atmosfera emotiva del testo è così incandescente da produrvi un ulteriore sdoppiamento, se lo stupore appare acceso sia dall’insensata violenza degli eventi sia dalla loro frettolosa rimozione. Il titolo stesso evoca un’accezione biforcata: l’addio di Jan, personaggio principale del romanzo e per buona parte suo narratore, è indirizzato tanto al suo paese di origine quanto a quello di adozione, alle speranze che si è lasciato alle spalle come alle illusioni che proiettava davanti a sé.

«I movimenti, i gesti, gli atti e i fatti, che costituiscono una storia, stanno in superficie. All’interno c’è il battito del cuore e il dolore che insiste su di esso, una grande domanda aperta come la mandibola di uno spazio nero, vuoto, in silenziosa attesa. Mi sto avvicinando al limite?» dice nel libro una voce che sembra appartenere a Jan. Malgrado l’apparenza Il secondo addio non è un romanzo sulla storia e nemmeno sulla memoria: piuttosto sulla coscienza umana e su ciò che accade quando la coscienza umana si spegne. La coscienza sembrerebbe rappresentare per la scrittrice l’unico luogo in cui ognuno di noi, a maggior ragione chi ha perduto la sua patria e la propria infanzia, può davvero ritornare. È significativo che il testo si apra con la descrizione di una casa in fiamme e che l’immagine della casa, persa cercata o ritrovata, attraversi percussiva tutte le sue pagine. Spazio percorribile in ogni direzione e in cui ogni personaggio può sentirsi accolto, spalancato ai venti ma protettivo, il libro stesso ha la forma di una casa. Perfino la scrittura sembra assumerne la funzione rassicurante in questo romanzo dove tutti i protagonisti scrivono, mosaico assemblato con lettere spedite o solo immaginate, note di taccuino, frammenti di biografie e saggi, spezzoni di manoscritti mai compiuti, dimenticati o smarriti, donati affinché siano custoditi. La scrittura soltanto, sembra dire la narratrice, può salvare i personaggi dalla dispersione della memoria, dalle amnesie di quella storia che pure hanno vissuto.

Più dei personaggi, privi del resto di qualsiasi connotazione fisica, contano infatti i legami, le parole e i pensieri che si scambiano: nel libro le loro voci si sovrappongono e disorientando il lettore si avvicendano in una sorta di corale prima persona. «I secondi non si susseguono nel tempo uno dietro l’altro, colpiscono come le punture di un ago acuminato, attaccano da ogni parte, come quando piove e c’è vento, ma non si portano via l’attesa, non riescono a lavare via nulla» riflette Jan in Che ogni cosa trovi il suo posto, romanzo con cui vent’anni dopo Richterová completa di significato la sua storia ribaltandone la prospettiva. Per Il secondo addio, la cui partitura ricorda il modernismo polifonico delle woolfiane Onde, l’autrice costruisce un’architettura ferrea benché in apparenza destrutturata, adotta una forma chiusa in cui però le sequenze possono essere scomposte e riordinate dal lettore come le tessere di un caleidoscopio. La trama procede per illuminazioni e soprassalti assecondando la memoria, si dispiega per poi arrotolarsi di nuovo alla maniera di un tappeto. Nel romanzo il tempo coincide esattamente con lo spazio narrativo.

Sylvie Richterová, volendo rubare gli aggettivi usati da lei per un’altra narratrice ceca, è «uno dei personaggi più eccezionali, innovatori e difficilmente classificabili della letteratura contemporanea»: in lei, le parole provengono ancora dal suo Ritratto di Vera Linhartová, «rigore e coerenza sono le qualità che più sorprendono» perché esse «conducono regolarmente a risultati imprevedibili o almeno imprevisti». Davvero grande scrittrice, Richterová racconta un trauma che non può essere narrato seguendo strade conosciute perché ogni strada esplode con quel trauma. La scrittura che sceglie per sé, edificando la sua casa, è il materico emblema, la figura stessa della libertà.

QUI l’articolo originale: https://ilmanifesto.it/sylvie-richterova-da-praga-a-roma-la-casa-e-la-coscienza

Letterate Magazine – Recensione di «Donne cattive»

Letterate Magazine – Recensione di «Donne cattive»

di Nadia Tarantini, 27 aprile 2024

È il titolo del libro di Liliana Madeo, appena ripubblicato. Mezzo secolo di storia italiana, dal 1946 al 1998, da Rina Fort a Anna Donati. Sono «donne con il gusto della provocazione, con un proprio progetto di vita, capaci di scelte radicali, di scelte a volte perverse. Donne scomode. Le madri delle ragazze del nuovo millennio»

Di Nadia Tarantini

Sono «le donne che rifiutano un destino predeterminato e scelgono di buttare all’aria tradizione, gerarchie, persino il rispetto della legalità», le protagoniste di un libro di cronaca, di storia, di cultura – che si legge come un romanzo, o una raccolta di racconti.
Lo si dice spesso, ma in questo caso l’arte grande di cronista di Liliana Madeo, autrice di Donne “cattive”. Cinquant’anni di vita italiana (Miraggi edizioni), sfocia spesso e volentieri nella sapienza letteraria che troviamo in altri suoi libri, e compiutamente in Si regalavano infamie. Antonina e Teodora le potenti di Bisanzio, pubblicato da Pironti nel 2021.

Un libro, Donne “cattive”, ripubblicato nel 2023, a ventiquattro anni dalla prima edizione con La Tartaruga, che conserva l’incredibile freschezza delle scoperte, con il vantaggio di poter suscitare sorpresa e interesse in chi quegli anni – dai Cinquanta in poi – non li ha vissuti.
Trama, personagge e personaggi, relazioni e ambiente: il tutto intessuto con abilità per creare curiosità e riflessioni su fatti di cronaca e di costume, su fenomeni sociali e criminali, in una rete di donne diversissime: la pluriomicida Rina Fort a fianco di Franca Viola che ci ha regalato la fine del matrimonio riparatore; la marchesa Casati e Tamara Bormioli, accomunate dal desiderio di diventare altre, di calcare i palcoscenici del potere e della vita di lusso; Doretta Graneris, che inaugura i decenni dei giovani assassini delle famiglie, per soldi; e Pupetta Maresca, la prima donna di camorra. E poi Ilaria Occhini dama bianca di Coppi, antesignana delle rovinafamiglie per amore; Vera Piegai, Lorena Nunziati, che sfidano poteri forti e Chiesa con atti di consapevole audacia o forse di incoscienza. Le teologhe che vengono allo scoperto, le femministe, la prima donna nella stanza dei bottoni (Anna Donati).

Tutte «donne con il gusto della provocazione, con un proprio progetto di vita, capaci di scelte radicali, di scelte a volte perverse a volte audacemente innovative. Persone cariche di valenze simboliche»; «in grado di innescare meccanismi grazie ai quali in Italia sono nate leggi degne di un paese democratico»; «Donne scomode. Le madri delle ragazze del nuovo millennio».
Il libro tra-scorre così dal secondo Dopoguerra alle soglie del Duemila, regalandoci quadri precisi e arguti del passare del tempo, del mutare delle abitudini e delle passioni; si comincia dal 1946, con l’immaginario ancora pervaso da simboli arcaici: «Una specie di demonio si aggira dunque per la città, invisibile, e sta forse preparandosi a nuovo sangue», scrive Dino Buzzati all’indomani della scoperta dei cadaveri di una donna e i suoi tre figli, pluri-omicidio di cui sarà accusata (e per i quali poi condannata all’ergastolo) Rina Fort, amante del marito e padre della famiglia. E si finisce nel 1998, dentro al moderno scontro fra diritti alla salute e diritto al lavoro: «In quella stanza dei bottoni non era stata mai ammessa una donna» ovvero Anna Donati, designata dal ministro del Tesoro Ciampi a far parte del Consiglio di Amministrazione delle Ferrovie dello Stato.

Trama, ambienti, personagge e personaggi – ricostruzione documentata di ogni momento storico in cui le vicende si sono svolte: dall’economia al teatro, dalle condizioni sociali e personali delle protagoniste alla musica e al cinema. E la scrittura di Liliana Madeo. Scrittura abile, esperta, arguta, di cronista avvezza ai grandi fatti di cronaca come agli eventi e ai personaggi della cultura, disinvolto scivolare in una scrittura letteraria.
«È una trentenne con viso ovale, pelle olivastra, zigomi alti, occhi scuri, bellissimi. Veste cercando sempre di “essere in ordine”, ha maniere spicce. Sa rispondere con durezza a chi la infastidisce. È una friulana brusca e silenziosa. […] A Milano arriva a 16 anni. […] Con una rabbia antica in corpo, fin da quando era una bambina selvatica, che al paese si distingueva da tutti perché odiava le bambole […] Due facce diverse dell’Italia contadina vengono alla luce sotto i riflettori dell’aula. Da una parte c’è Rina Fort, icona arcaica di una femminilità oscura, tetra, possessiva, la donna che nell’appartenenza a un uomo trova la sua identità e il senso della propria vita. Dall’altra parte ci sono le donne della famiglia Ricciardi, che sfilano davanti alla corte con gli abiti neri, gli scialli sul capo». «Nessuno ebbe dubbi. Anna (Anna Fallarino, marchesa Casati Stampa, n.d.r) provava piacere, si divertiva a fare quei giochi proibiti. Una viziosa […]. A nessuno venne in mente che quella di Anna potesse essere un’altra storia. Che […] forse lei aveva spezzato le barriere che definiscono e censurano il desiderio femminile».

E, infine, la Milano del 1946, quando Rina Fort lascia l’appartamento della strage: «La città è ancora poco illuminata. Ma Milano ha ripreso a vivere, la gente ha incominciato a uscire la sera. […] La voglia di dimenticare, di recuperare il tempo perduto esplode. La prima estate di libertà è una frenesia di balli, canzoni, giochi di sesso. Un’estate calda, con tutte le aspettative di rinascita ancora intatte. La pace che è scoppiata dà al ridere e al sognare il senso della speranza. L’Idroscalo si è affollato di corpi smagriti ma bene in mostra. Svolazzano le gonnelline delle ragazze in bicicletta. Le notti si sono fatte piene di piroette, magari di ragazze che per mancanza di cavalieri ballano fra loro, di danze sui selciati, negli spiazzi aperti fra le macerie, nei cortili delle case popolari, nella Galleria che le bombe hanno scoperchiato. In canottiera, in abiti di cotonina rivoltati».

QUI l’articolo originale.

“Andandosene altrove” Roberto Calasso lascia un grande insegnamento e un invito per il futuro.

“Andandosene altrove” Roberto Calasso lascia un grande insegnamento e un invito per il futuro.

“Andandosene altrove” Roberto Calasso lascia un grande insegnamento e un invito per il futuro.

L’insegnamento è che si può diventare editori per moltitudini di lettori con la curiosità, l’amore per il sapere, la certosina ricerca del valore letterario anche dove le opere nascono lontane dai dettati commerciali.

Imprevedibilità, estro, intuizione e colpi di genio, ma anche cura estrema, eleganza, precisione. E la padronanza del tempo, perché i libri ticchettano diversamente dagli orologi.

L’invito è di continuare con calma, con pazienza, anche noi piccoli che ci siamo seduti alla sua ombra, all’ombra di un gigante.

Non è un caso che il typeface delle collane di Miraggi sia il Baskerville: l’abbiamo scelto per omaggiare lo stile inconfondibile delle creature di Roberto Calasso.

Miraggi si è ispirata senza nasconderlo. La realtà è fatta di ogni visione. Grazie.

Alessandro De Vito

Davide Reina

Fabio Mendolicchio

Francesco Marchianò

Luca Ragagnin

Marco Repetto

Paolo Ciampi

L’arte di raccontarsi in “Quando i padri camminavano nel vuoto” a cura di Eleni Molos su L’Indice Dei Libri

L’arte di raccontarsi in “Quando i padri camminavano nel vuoto” a cura di Eleni Molos su L’Indice Dei Libri

 “Si può guardare dentro di sé in due modi, uno alla Montaigne, che è quello di guardare dentro con lo sguardo da fuori. L’altro, di non avere più nessuno sguardo esterno per guardarsi, e tu diventi il tuo buco nero, che ti attira inesorabilmente e diventa un abisso senza fine”. Se la ragione di tanta cattiva produzione letteraria è che gli autori si illudono che fare della terapia psicanalitica basti per scrivere un romanzo autobiografico, nel libro di Curti, Quando i padri camminavano nel vuoto – segnalato nel 2016 dal Comitato di lettura del Premio Calvino – troviamo esattamente il processo contrario: l’autore sa fare della bella letteratura, e questo affilato strumento gli serve, inevitabilmente, per indagare nei ricordi, riscrivendo la propria infanzia e risolvendo nella tessitura del romanzo tante ossessioni che lo perseguitavano da bambino. Scopriamo così che la sua più grande paura, quella di non saper distinguere i vivi dai morti, si è trasformata nella sua dote più grande di scrittore: saper riportare in vita tutti i suoi morti, in particolare suo padre e quei padri spirituali che con lui ha condiviso. Nelle righe del romanzo, la vita si decanta, si filtra attraverso una ammemorazione sentimentale, e ne rimane un distillato liquoroso e denso. Le più belle pagine di Curti richiamano alla mente autori come Romain Gary o Manuel Vilas, che hanno raccontato i propri genitori dosando tenerezza, ironia e disincanto. Lo scrittore descrive in lunghe pagine l’ostinazione del genitore, insegnante e intellettuale, a scrivere in latino, a trovare per tutto una verbalizzazione, guidato da una fede incrollabile nel potere della parola: scegliere le parole per addomesticare la realtà è l’unica forma possibile di vita, l’unico espediente per procrastinare la morte. 

È un lascito gravoso da raccogliere, per un figlio, e il giovane Curti lo sa bene quando decide di studiare fisica, invece di seguire il richiamo forte della poesia. Tuttavia certe vocazioni non possono essere tradite, e anche i problemi matematici possono diventare narrazione e viceversa. D’altro canto, da uno dei suoi maestri d’infanzia ha appreso un altro stratagemma per depotenziare la morte: usare i numeri, invece dei nomi, per separare già in vita l’anima dalla sostanza corruttibile. Così un’altra ossessione del piccolo Piergianni, che fissa le lancette orarie dell’orologio per percepirne il moto, è diventata un’arma di Curti scrittore e matematico: saper fermare il flusso continuo della durata in attimi discreti, in appigli per non essere trascinati via. L’instabilità, infatti, è uno dei temi che più emergono: a partire dal titolo, l’autore ci descrive il difficile passaggio di epoca e di generazioni del secondo dopoguerra, in cui le certezze faticano ad affermarsi e gli adulti quanto i giovani annaspano alla ricerca di un’identità: tutto sembra ambivalente, passabile di più definizioni, tutto è cedevole e malsicuro per chi, come il padre dell’autore, fatica ad accettare etichette ideologiche. 

Quando i padri camminavano nel vuoto, allora, è anche un romanzo storico, in filigrana, e un profondo romanzo di formazione: non solo dell’autore bambino, bensì anche, parallelamente, di suo padre: entrambi si educano a restare orfani di padri spirituali, entrambi imparano a diventare genitori l’uno dell’altro, e di se stessi. Nelle prime pagine del romanzo, vedendo una foto sbiadita del padre, Curti ne riconosce “lo sguardo serioso dei predestinati alla speranza”. È questa, forse, l’eredità più preziosa che ha ricevuto. Luigi Pintor, ne La signora Kirchgessner, riporta la frase di un anonimo secondo cui “si può essere pessimisti riguardo ai tempi e alle circostanze, riguardo alle sorti di un paese o di una classe, ma non si può essere pessimisti riguardo all’uomo”. La predestinazione alla speranza è una condanna alla ricerca, e forse all’insoddisfazione, perché deve leggere dei segni che restano nascosti allo sguardo pigro e alle facili schematizzazioni. Tuttavia, è anche il dono della grazia, perché ha reso la sua scrittura acuta e capace di infinita indulgenza, ha dato spirito all’ironia e gli permette di trovare nel passato, nei morti e nei vivi, ricchezze inesauribili di senso. Da lettori, ciò sia anche un augurio per la prosecuzione del romanzo, che l’autore ci ha promesso e a cui sta già lavorando.

Natalia Ceravolo intervista quel “santo, poeta e commissario tecnico…” di Angelo Orlando Meloni

Natalia Ceravolo intervista quel “santo, poeta e commissario tecnico…” di Angelo Orlando Meloni

  1. Angelo, spiegaci un po’ il titolo Santi, poeti e commissari tecnici.

Il titolo della mia raccolta è anche il titolo del primo racconto, che poi è l’ultimo che ho scritto, e l’ultimo figlio è quello a cui vogliamo più bene. Ma è un racconto che non parla davvero di calcio, credetemi. Parla di donne, d’odio e d’amore, di quanto noi uomini siamo schifosi, anche se tutto ciò viene fuori a poco a poco, tra un gol, una risata amara e un calcio d’angolo. Ditemi un po’, questo paese popolato da santi guaritori, poeti pubblicati a pagamento e commissari tecnici da bar, da masnadieri che sanno solo fischiare i calciatori di colore, non ha stufato pure voi?

  1. Abbiamo spesso il mito tutto italiano del “campionato più bello del mondo” : perché secondo te ci si identifica in vite così lontane dalle nostre?

Bella domanda, ma io sono un ex tifoso, ho raggiunto la pace dei sensi. La verità, secondo me, è che questa è una religione con tutti i relativi apparati, leggende, storielle e supereroi, tra cui anche il mito del campionato più bello del mondo. Gli italiani non sono cattolici, quella è un’abitudine; e dopotutto non conosco quasi nessuno che abbia letto la Bibbia. Ma se quasi nessuno di noi ha mai letto la Bibbia, come possiamo definirci cristiani? L’unica vera religione italiana è il calcio. Non è solo identificazione, è idolatria vera e propria. È una fede. Il tifoso non tradisce la squadra, ma tradisce la moglie o la fidanzata. Io invece ho tradito un sacco di squadre e nel corso di questi anni, per esempio, ho tifato per tutte quelle allenate da Znedek Zeman l’eretico e non ho sensi di colpa.

  1. Raccontaci il goal mancato e il sogno infranto che ti hanno fatto soffrire di più.

Avrei dovuto fare studi scientifici e perseguire i miei veri interessi e la mia vera natura. Invece ho ripiegato sulla cultura umanistica, sulla noia intesa come moralità, sul sacrificio per motivi risibili, sulla brutta letteratura fatta di “bello scrivere”… poi per fortuna a un certo punto mi sono imbattuto nel mio amore di gioventù, la fantascienza, l’horror, il fantastico in generale, da Tommaso Landolfi a Terry Pratchett passando per tanti altri autori non del tutto canonici, e la vita è diventata meno tetra.

  1. Tre aggettivi tre con cui descriveresti la tua opera.

Sexy, immarcabile e sincera.

Natalia Ceravolo intervista Marco Lazzarotto sul suo nuovo romanzo Social: A cosa stai pensando…

Natalia Ceravolo intervista Marco Lazzarotto sul suo nuovo romanzo Social: A cosa stai pensando…

1) Michele, Sandra e il nome impronunciabile della figlia deciso tramite la Rete. Marco Lazzarotto ma tu cosa pensi dei social oggi? Insomma, a cosa stai pensando?

Sto pensando che i tre personaggi che hai nominato incarnano il mio rapporto con i social. Da un lato c’è la diffidenza di Michele, che nonostante sia iscritto a diversi social non li usa perché dubita della loro utilità – o quantomeno, all’inizio del romanzo. Poi c’è Sandra, invece, che è ossessionata dal numero dei mipiace e crede che prima o poi possano cambiarle la vita, ma per il momento si limita a invidiare il successo (cioè i tanti mipiace) altrui. Infine, il fatto che il nome della loro figlia sia stato deciso da un sondaggio online rappresenta l’importanza che oggi ha la rete, di come il virtuale confermi il reale – insomma, quante volte mi è capitato a un concerto di voler condividere una foto, altrimenti avevo l’impressione di non esserci stato davvero?

2) Un giorno, mentre sta attraversando le strisce pedonali, Michele rischia di essere travolto da un’auto di passaggio. Non succede nulla, ma lui ha una reazione violenta e, trovato un sampietrino per terra, lo scaglia contro la vettura. È un po’ la rabbia inaspettata dei buoni?

Spesso mi è capitato di leggere romanzi che culminavano in un gesto violento ed estremo del protagonista, più o meno inaspettato. A cosa stai pensando invece è proprio così che comincia, rovesciando il meccanismo. La reazione di Michele è la rabbia inaspettata di chi crede di essere buono, ma che da quel momento in avanti passerà le giornate a domandarsi chi sia veramente. È stato un episodio, o dentro Michele si nasconde qualcos’altro, o qualcun altro? Messa così, il romanzo potrebbe sembrare un horror, ma niente di più lontano: si tratta di una commedia.

3) MorganaScrive, la blogger nemica, è un po’ la voce della coscienza, anche se noir, e animata più dalla sete di scoop che da quella di verità. Il tema dell’alter ego nei tuoi libri è la tua personalissima chiave per indicarci le sfaccettature delle umane personalità?

È un tema che ho già affrontato nel Ministero della Bellezza, ma lì i social non c’erano; in A cosa stai pensando sì, e infatti Michele non ha un solo alter ego ma, creando diversi profili falsi per cavarsi d’impaccio da situazioni complicate, fa sì che la sua personalità si moltiplichi, si rifranga, permettendogli di sperimentare nuovi lati di se stesso.

4) Tre aggettivi tre per descrivere il tuo romanzo?

Vorrei che il mio romanzo fosse divertente e inquietante. Di sicuro è social.

Grazie, a presto!

Natalia Ceravolo intervista Daniele Zito – Nuovo libro “Uno di noi” nella collana #scafiblu

Natalia Ceravolo intervista Daniele Zito – Nuovo libro “Uno di noi” nella collana #scafiblu

1) Uno di noi è il resoconto di una fine, strutturato come se fosse una tragedia greca. Quattro amici di vecchia data, al termine di una partita di calcetto, decidono di dare fuoco a una baraccopoli. Sono uomini mediocri, padri di famiglia, essere umani rabbiosi.
Leggendolo mi è sembrato di riscontrare i loro volti nel quotidiano. Mi vuoi dare una tua visione su di loro? Chi sono?

Sono persone ordinarie divorate da alcuni dispositivi retorici estremamente persuasivi. Roba del tipo “prima gli italiani”, “padroni a casa nostra”, “fermiamo l’invasione”, “stop buonismo”, ho omesso i punti esclamativi per rispetto dell’intelligenza dei lettori.
Grazie a questi slogan, molti di loro si sentono arruolati in un’enorme guerra immaginaria contro chiunque sia diverso, chiunque, cioè, non rientri in quel “noi” immaginario che spacciano per identità.
Da fuori sembrano persone ordinarie, conducono vite ordinarie – giocano a calcetto, tornano a casa dalla compagna, si riscaldano la cena, rimboccano le coperte ai loro figli –  in realtà agiscono, pensano, combattono come dei soldati.
Sono in trincea. Hanno l’ordine di sparare su qualunque cosa si muova.  

E in guerra, secondo la loro logica, tutto è permesso, compreso infliggere ogni tipo di dolore al nemico.

Siamo tutti vittime di un uso politico spregiudicato della crudeltà. La crudeltà viene esibita in ogni modo possibile nel tentativo di creare consenso. Le vicende della Diciotti, della Sea Watch, dello sgombero di Primavalle, delle barricate di Casal Bruciato hanno legittimato e propagandato un’idea disumana di convivenza, sono state dei veri e propri spartiacque. L’Italia che stiamo vivendo è una delle italie peggiori di sempre.
Uno di noi è il tentativo di raccontare tutto questo in prima persona e dal punto di vista di chi fa le barricate contro gli ultimi.

2. “Lì proprio in quel punto X c’era una bambina”. Forse, di tutto il testo, questo è il punto che mi ha richiesto un momento di pausa per l’estrema veridicità dell’immagine della scena, probabilmente anche alla luce del periodo storico che stiamo vivendo. Qual è stato il passo più duro da scrivere?

Raccontare il dolore del padre della vittima. 

Sono padre anch’io, ho due figli, mi sono immedesimato col suo dolore, col suo smarrimento, col buco nero che una vicenda di questo tipo spalanca nel cuore di un genitore. Non è stato facile. Non è stato per niente facile. Nel libro è l’unico punto in cui ho dovuto prendere delle pause per respirare, calmarmi, provare ad andare avanti.

3. Come descriveresti Uno di noi con tre parole, tre?

Uno di noi, purtroppo.

4. Che messaggio vorresti restasse nel cuore e nella testa di chi legge?

Ama i libri, odia il fascismo.

POEMA PER VOCE SOLA su Il Pickwick – Scritto da Alida Airaghi

POEMA PER VOCE SOLA su Il Pickwick – Scritto da Alida Airaghi

La voce narrante di questo Poema bianco di Pasquale Panella è femminile (come dichiara in apertura l’autore), e scandisce in tre sezioni di versi liberi una lunga e silenziosa riflessione in cui si confondono rimpianto e ironia, elegia e sarcasmo, logicità e insensatezza: a sottolineare una storia di amore e disamore, fedeltà e stanchezza, nel suo nascere crescere finire. Non assistiamo a una pièce teatrale destinata a un pubblico di spettatori, né a un dialogo che attenda risposte da un interlocutore privilegiato. Piuttosto rileviamo la volontà esplicita di districare, in un soliloquio lucidamente controllato, i fili aggrovigliati della mente, illuminando zone oscure del cuore e della memoria.

Il bianco citato nel titolo rimanda sia al candore sia al vuoto, alla pagina ancora da scrivere come a quella cancellata, a un’esigenza di chiarezza interiore o al bisogno di silenzio. Il poema pare invece riferirsi alla forma che assume sulla pagina questo monologo, un vero e proprio flusso continuo di versi, in cui i segni di interpunzione sono dati da virgole-virgolette-parentesi, e assidui, incalzanti punti di domanda. Nessun esclamativo, e un unico punto fermo conclusivo, dopo la parola “Fine”.
Pasquale Panella, che nella sua vita artistica ha consegnato parole importanti a musiche altrettanto importanti, sembra anche qui voler dar voce a una sonorità di base che, sviluppandosi da armonie attutite e terse, si spezzano frequentemente in improvvise dissonanze, in brusche alzate di accenti, in ribadite sottolineature. Così il tono colloquiale, lo scherno, la battuta ironica irrompono ad alterare o prosaicizzare il carattere più delicato e nostalgico della profferta amorosa rivolta a un assente.
In un lunedì sera piovoso di un mese imprecisato, alle otto meno dieci, una “lei” parla a se stessa e di se stessa, parla a un “lui” e parla di lui, pur diffidando di qualsiasi possibilità di comunicazione, in un rapporto che per entrambi è diventato indifferenza, incomprensione, accusa reciproca, rancore: “Quando il telefono non squilla / sei sempre tu / che non mi chiami”, “Tutto accade quando tutto è finito / Anzi, prima di finire / non è nemmeno tutto, / diventa tutto quando / è finito tutto, appunto”, “Noi, ci siamo mai dati del Noi?”.
L’amore c’è stato, e affiorano i ricordi (“Ma quante ombre / abbiamo fatto insieme”, “Respiravamo e basta / Le mani come il vento che si calma / sul ventre, su una coscia, su una spalla / Il viso ritornava a fare il viso, / il profilo la prora / di una barca incagliata”), insieme alle tracce di un passato che si intende smitizzare attraverso un uso giocoso della lingua, con l’utilizzo di ripetizioni, assonanze, calembour: “Io ero la tua vita nella mia vita / che era la tua vita / Ero quella parola che ti volevo dire / Ero il mio amore / E tu eri l’amore mio / Insomma tu eri io”.
L’idea platonica di fusione di due corpi e due anime torna a tentare insidiosamente il personaggio narrante, ma viene respinta beffardamente come lusinga ingannatrice: “Parlarsi da vicino come quando / parliamo da soli / a chi siamo, noi, l’altro / (ecco il Noi, lontano) / che non c’è (ma lo siamo)”.
Ingannevole appare anche lo scambio di ruoli sessuali programmato dall’autore del testo, e svelato da chi si proclama donna sapendo di non esserlo: “La voce è femminile, certo, / perché tu sei vile / Ti scrivi come se io / ti avessi scritto / Poi credi che l’abbia fatto per davvero”, “noi siamo fatti / di contraddizione e corpo umano”. Le contraddizioni, le incoerenze, le insicurezze che minano il rapporto tra due amanti svelano il sospetto nutrito nei riguardi di tutta la realtà (“Non è questione di realtà, / l’esistenza / È questione di credulità”), e addirittura del linguaggio: “Dalla sfiducia nelle parole / nasce la sperimentazione / o il loro gioco”, “C’è questo difetto / nella descrizione: / che sembra sempre / un compito copiato”.
Il poeta con voce di donna si diverte a usare gli strumenti del mestiere soprattutto quando ironizza sull’uso-abuso della rima, artificio cui i versi e le canzoni ricorrono da sempre per blandire occhio e orecchio di chi legge o ascolta: “Mi piacciono le rime con gli accenti / alla fine, baciate, per esempio: me con te”, “(le rime facili, sì, che sono rime, / le difficili, sì, che sono fisime)”, “(La facilità delle rime / è dovuta alla spontaneità delle parole in ente)”, “O è colpa delle rime: / le rime, penso,/ spesso fanno il senso”.
Alla “storia” raccontata nella prima sezione del Poema bianco segue “l’antistoria” della seconda parte (aggiunta dieci anni dopo la prima pubblicazione: “Versi esclusi, inclusi / qui / per togliermeli di torno”), un redde rationem in cui Pasquale Panella ritrova, passata la pioggia, il sole; dopo il lamento e la recriminazione, il sorriso indulgente e la leggerezza del divertissement. Un addio al dolore sentimentale, con la decisione di rivolgere le proprie attenzioni più alla scrittura e alla sua diffusione che ai tormenti del cuore (“L’amore era l’amore, / adesso è il mio editore”, è scritto in epigrafe). L’esperienza di coppia vissuta diventa terreno di riflessione disincantata e graffiante, riconsiderata nei suoi momenti di noia, delusione e incomprensione reciproca: “E siamo al romanzesco coniugale / (che non se ne può più recentemente) / tutto cavilli, distinguo inguinali, / pignolerie meticolose orali anali, / tutto un detto stradetto e ritrattato”. La liberazione dai ricatti affettivi si compie quindi proprio sulla pagina scritta, e nella terza sezione del Poema Panella conclude “Che scrivere è farla / finita con la storia”, una sorta di terapia programmata per guarire dal mal d’amour, esorcizzando fantasmi e sensi di colpa, e riproponendo un foglio vergine su cui vergare parole nuove.
“Il rischio dello scrivere è uno solo: / essere letti / Lo dicevi anche tu / Anche tu chi? Tu, io // E allora finiamoci, / o lettrice, / amore mio, / mia lacrima / di lettura fuor degli occhi // E fine”.
Rimangono ancora i rumori, nella conclusione del libro, quelli prodotti e ascoltati da chi si muove nella solitudine di un appartamento dopo che il compagno o la compagna se ne è andato: i passi sul pavimento, la doccia, le sedie spostate, il frigo aperto, la pasta che si cuoce nella pentola. Rumori che sono echi di una presenza eclissata, quando le parole non servono più a niente, e si riducono a un’impalpabile esalazione di fiato: “Il soliloquio, questa intima piazzata, questo comizio, questo convenire, qui, di un’oratrice che ha solo se stessa a ascoltarla, a ascoltarsi, a sentirsi regnante sul silenzio”.
Eppure anche le parole della donna solitaria a cui Pasquale Panella ha prestato voce ci hanno fatto compagnia, prima di dissolversi nel fumo: “vedi il fumo di tutte le parole / (vedilo, fa’ il favore).

Pasquale Panella
Poema bianco
Miraggi Edizioni, Torino, 2018
pp. 144

Pubblicato in Letteratura
POESIE DAL CAMPO DI CONCENTRAMENTO di Josef Čapek (Miraggi Edizioni 2019) a cura di Nicola Vacca su Liberi di Scrivere

POESIE DAL CAMPO DI CONCENTRAMENTO di Josef Čapek (Miraggi Edizioni 2019) a cura di Nicola Vacca su Liberi di Scrivere

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Poesie-dal-campo-di-concentramentoJosef Čapek appartiene alla stessa generazione di Franz Kafka. È morto da poeta e da combattente antifascista e antinazista in un lager. Durante la sua detenzione nel campo di concentramento scrisse poesie.
Questi versi rappresentano una testimonianza e un paradosso. Il poeta – intellettuale – prigioniero scrive dal terribile baratro dell’universo concentrazionario con l’intenzione di scavare nell’impossibilità della parola e allo stesso tempo è vigile e presente davanti al terrore dei suoi aguzzini.
L’editore Miraggi pubblica una scelta delle poesie dello scrittore boemo. Poesie dal campo di concentramento (traduzione di Lara Fortunato) è un viaggio nel calvario di un uomo privato della sua libertà. La poesia di Čapeck affonda i suoi artigli nella rappresentazione più feroce che il male ha raggiunto nel secolo breve.
Dall’inferno del campo di concentramento il poeta scrive del baratro senza fine, perde il sonno per scrivere poesie come tracce di bene davanti all’orrore del sangue.
La poesia per Čapek è l’unica istanza di verità. Nella poesia la parola rimane viva e sveglia. È proprio grazie alla sua lucidità che il poeta è in grado nei suoi versi di catturare nell’essenzialità l’inferno mortale del campo di concentramento.

«A tratti i componimenti – scrive Laura Fortunato nella prefazione – si fanno cronache condensate dello sterminio in atto, riuscendo a ignorare del tutto la miseria degli aguzzini, per porre invece al centro la condizione dei prigionieri».

Josef Čapek prese apertamente posizione contro l’avanzata del nazismo, nel 1939 fu arrestato e deportato in un campo di concentramento.
Qui scelse la poesia per cantare la disgrazia, il lutto e il dolore dei giorni infernali trascorsi nell’orrore terribile del campo di concentramento dove «le cose umane si sgretolano» e l’angelo della morte arriva in volo per oscurare con le ali il palpito della vita.
Nel campo di concentramento, dove il nulla fiorisce e gli uccelli non cantano e primavera e inverno sono una catena di giorni di pena continua e tristezza, Josef Čapek scrive poesie chiedendo alla parola di donargli tutto il suo impeto per descrivere dal vivo e nel vero tutto il turbamento dell’orrore.
Il 25 febbraio del 1945 Čapek venne trasportato nel campo di concentramento di Bergen –Belsen, dove morì qualche mese dopo.
Consapevole di andare incontro alla morte scrisse la sua ultima struggente poesia.
Si congedò dal mondo con Prima del grande viaggio:

«Difficili momenti, giorni difficili / non vi è scelta, decisione, / ultimi giorni scuri, / siete giorni di vita o di morte? / Indietro alla vita o nelle fauci della morte / – cosa vi sarà alla fine del viaggio? / A migliaia vanno, non sei solo… / Avrai, non avrai fortuna? / Sorto è il giorno del grande viaggio / – da tempo vi sei preparato: / messe di vita o di morte / – tanto vai verso casa – tu torni a casa!».

Poesie dal campo di concentramento è un libro da leggere. Solo un poeta poteva lasciarci in eredità la testimonianza straziante e viva dell’orrore di cui sono capaci gli esseri umani.

Josef Capek (Hronov, 23 marzo 1887 – Bergen Belsen, aprile 1945) è stato un pittore e scrittore ceco, e appartiene alla stessa generazione di Franz Kafka.
Fratello di Karel Capek, fu autore di varie opere in collaborazione col fratello (tra cui Della vita degli insetti, 1925), ma ne scrisse anche altre autonomamente. Tra queste Lelio (1917) e La terra dei molti nomi(1923). Fu l’inventore della parola “Robot”.
Morì nell’aprile del 1945 nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, in Germania, dove venne deportato a causa del suo atteggiamento ostile nei confronti della politica di Hitler e del Führer stesso. Durante la prigionia scrisse Básne z koncentracního tabora, una raccolta di poesie, pubblicata postuma nel 1946.

Source: libro del recensore.

Leggi l’articolo originale qui: https://liberidiscrivere.com/2019/05/07/poesie-dal-campo-di-concentramento-di-josef-capek/

Pontescuro di Luca Ragagnin – Recensione di Loredana Cilento su Mille Splendidi Libri e non solo

Pontescuro di Luca Ragagnin – Recensione di Loredana Cilento su Mille Splendidi Libri e non solo

«I veri pericoli a Pontescuro sono sopra, nella ricerca difettosa di pulizia e ordine.

Preferisco il popolo delle radici. Lìalmeno nessuno ammazza nessuno. Nel carnaio di sopravvivenza e nutrimento, dove sto io, nessuno farebbe quello che hanno fatto a Dafne. »

Dafne Casadio, figlia del signorotto di Pontescuro viene ritrovata morta con stretto al collo un nastro rosso: è facile incolpare lo scemo del paese, Ciaccio l’ amico sincero della scandalosa e spudorata  ragazza.

Pontescuro di Luca Ragagnin, edito da Miraggi Edizioni, è una favola noir, dove il male dimora nelle persone,  dove la nebbia, il fiume, una blatta e lo stesso cadavere di Dafne danno voce al male.,

« Mi chiamo Dafne Casadio e avrò per sempre ventiquattro anni. Sono morta da sette ore.»

Immaginate ora di essere nel lontano 1922 in un  piccolo paese di campagna dove il tempo resta sospeso, un paese diviso a metà da un ponte dove la continuità di questo luogo è data dall’interruzione, come le persone che sono nate e cresciute  qui, interrotte dai lori segreti o da peccati inconfessabili, ma del resto negli anni Venti tutto taceva sotto una coltre di piccoli e nefandi segretucci di paesi.

Un paese che non risente dei tempi che stanno cambiando, le case restano di paglia e pietra, il cuore di cento anime, poco più, è di paglia e pietra.

Tutti colpevoli, ma solo uno pagherà, l’unico innocente.

Una narrazione, quella di Pontescuro, semplice e diretta, ma che ti stupisce: un coro di voci astanti a dir poco  inconsueto, si fanno carico  di raccontare la morte e la vita della sfrontata Dafne.

Una ragazza nata con la luce nei capelli, un affronto per quel paese incolore e nebbioso.

Per le donne che chiudevano gli scuri al suo passaggio, per gli uomini che la desideravano, ma a Pontescuro i desideri non sono contemplati.

Pontescuro è una storia di male viscerale, di uomini e di donne, di bigotti che non percepiscono la vera essenza del bene, inneggiando senza scrupoli, puntando il dito, e sentenziando dal pulpito o dal banco di un tribunale di anime nere. Una bellissima storia amara, la spinta della gelosia fa commettere crimini orribili, oscurando il cuore degli uomini, che saziano la loro sete di vendetta, stringendo un nastro rosso, non di seta, non sarebbe stato adatto a sgualdrina. E infine l’amicizia tra Ciacco e Dafne e di una bellezza straordinaria…come straordinarie sono le pagine di Pontescuro che via via si lasciano leggere e amare…ti lasciano sospesi felicemente.

«Visti da lontano assomigliavamo a un quadro, uno di quei dipinti che le gallerie importanti delle grandi cittàrifiutano perché ce ne sono di migliori, nel genere, e nessuno ha bisogno di un paesaggista ubriaco. «Ma non eravamo ubriachi, soltanto sospesi, e nella sospensione, felici.

« Felici di essere una ghiandaia, lo scemo del villaggio e la sgualdrina ribelle. Felici di non avere soldi ma solo corde, stupore e aria, maledetti o compatiti da tutti. Felici di farci scappare il tempo dalle mani e dalle ali senza accorgerci nemmeno del tonfo che fa,

cadendo a terra. « Non piacevano a nessuno, quei due, ma a me sì»

 Luca Ragagnin è scrittore e paroliere.

Inizia a scrivere racconti e poesie nei primi anni ’80 e a pubblicare su rivista all’inizio dei ’90. Nel 1992 il testo teatrale “Eclisse del corpo” viene rappresentato a Torino e a Bologna.

È autore di romanzi (“Marmo rosso”, “Arcano 21”, “Agenzia Pertica”, “Pontescuro”), racconti (tra gli altri, “Pulci”, “Un amore supremo”), testi teatrali (“Misfatti unici”, “Cinque sigilli”) e poesie (tra le altre, le raccolte “Biopsie” e “La balbuzie degli oracoli”), tradotte in Francia, Svizzera, Portogallo, Polonia, Romania e Montenegro.

Nelle vesti di paroliere ha scritto testi di canzoni, tra gli altri, per Mina, Antonello Venditti, Garbo, Subsonica, Delta V, Totò Zingaro e Mao e la Rivoluzione.

 

Qui l’articolo originale: https://millesplendidilibriblog.wordpress.com/2019/05/16/pontescuro-di-luca-ragagnin-recensione/