Lo scrittore Marco Giacosa, autore de Il pranzo di nozze di Renzo e Lucia, Miraggi, 2017, il saggio L’Italia dei sindaci add, 2015, la serie DisasterChef , Miraggi, 2014, e la raccolta di racconti L’occhio della mucca, MarcoValerio, 2014, ritorna in libreria sempre per la casa editrice piemontese Miraggi, con un memoir dedicato a suo padre, una storia di paesi e di colline, e a suo nonno con il quale ha vissuto l’infanzia in campagna giocando con gli animali, studiando i nidi delle formiche e cercando il muschio.
Marco Giacosa ripercorre i sentieri dei suoi ricordi nelle Langhe Inquiete, una biografia dedicata alla sua famiglia, ai suoi affetti, tra partite di pallone, i primi amori, ma soprattutto ripercorrendo la vita dei suoi genitori, il padre veterinario che ha sempre mantenuto i suoi principi onesti della professione, non si è mai arricchito a spese degli indifesi nella lotta del potere, e Marco si scopre essere identico a lui “perché sono come te, perché io me ne frego se i professionisti come te si sono arricchiti e tu no. Piango come un bovino perché ti sei sentito di questo colpevolmente incapace, io che invece per questo ti ho amato, padre.”
Un passaggio delicato, profondamente intenso che racchiude la storia di un uomo che curava anche i cani dei sinti piemontesi, senza alcuna remora, senza alcun pregiudizio.
Nei suoi racconti di bambino che diventano sempre più maturi, il rapporto genitoriale che assume spesso – come in qualsiasi famiglia – i tratti della conflittualità e della ribellione, ma sempre con pacatezza e condivisione. Sono frammenti, ritagli di immagine di un passato vissuto in una cultura che ostenta una pervicace devozione religiosa, ma anche l’impronta di un luogo ancora intimidito dalle superstizioni dove si narra del canto della civetta, un canto che agli occhi di un bambino può incutere paura, la paura della morte.
“Sei una roccia che si sbriciola, occhi dolcissimi che guardano lontano, seppure l’infinito sia ora il corridoio, sei bellissima perché il male non riesce a spegnere il tuo sguardo. Quando sorridi incanti.”
In queste bellissime parole, Marco affida il ricordo della sua amata madre, della sua malattia e del suo lavoro alla Ferrero e di come siano cambiati i tempi, da una piccola comunità di lavoratori, alle grandi realtà moderne.
“Reinventarsi è la parola che accompagna delocalizzazione. Per una persona che in un posto si reinventa, ce n’è una che altrove migliora la qualità della vita.”
Una realtà – oggi – ben diversa da quella degli anni settanta, che si affacciava al nuovo decennio, cosa sia meglio o peggio rispetto ad allora non è facile a dirsi, resta sempre e comunque la memoria di un vissuto cementato nel profondo e di una idea di casa mai abbandonata sempre e comunque viva nel ricordo
Sono flashback di langhe, si inquieta, perché racchiudono una inquietudine interiore, ma anche forse il ritratto di un luogo in bianco e nero che narra le storie dei suoi protagonisti, e di un bambino che giocava a pallone elastico.
“Sciolgo la barca e ti faccio salire, il mare si calma, ti sospingo via, lontana, è ora che il male vada, che rimanga tutto ciò che sei libera dal male, dalla morte, è ora che tu vada, ti faccio morire, mamma, è il più bel regalo che possiamo farci.”
Nullatenente aizza il padre paralitico: esperimento umoristico a porte chiuse
La violazione della verosimiglianza, in ambito narrativo, è considerata oggi una duplice offesa, che si perdona a pochissimi e gallonati scrittori, di preferenza già morti. È un’offesa nei confronti di un intreccio ben costruito, che non malmena le attese del lettore, e lo è ancor più nei confronti di quel vero, o di quel reale allo «stato puro», che una certa narrativa insegue tenacemente, utilizzando le vie della cronaca nera, della storia con molte maiuscole o dell’esplorazione dell’io, che l’autofiction fornisce di contorni molto elastici. Sergio La Chiusa, nel suo romanzo d’esordio i Pellicanicronaca di un’emancipazione (Miraggi edizioni, pp. 190, € 17,00), si colloca con disinvoltura proprio sul terreno poco frequentato dell’inverosimiglianza. Il suo narratore non solo è poco affidabile, ma necessiterebbe di un’urgente perizia psichiatrica. A ogni pagina, invece di portarci diligentemente al cuore della realtà, per dare senso a qualche fenomeno storico o sociale di pubblico interesse, ci spinge in una zona marginale, dove non accade nulla di rilevante, salvo il suo forsennato elucubrare. A ben vedere, cose turpi, oltreché grottesche e ridicole, accadono nel romanzo di La Chiusa, ma esse emergono in seguito a quella spoliazione radicale dell’ambientazione sociologica e dei meccanismi psicologici ordinari, che ricordano gli esperimenti beckettiani della prima Trilogia. E in fondo i Pellicani può essere letto come un esperimento anomalo, che mette a confronto, in un huis clos claustrofobico, la coscienza risentita e velleitaria di un figlio con l’ebetudine di un padre paralitico.
Pellicani figlio, sconfitto sul piano sociale e professionale, decide di tornare dal padre che non vedeva da anni. Ritrova l’appartamento, ma in un palazzo spopolato e in rovina. Dentro ci vive effettivamente un vecchio, con il nasone simile a quello paterno, ma vegeta su di un letto in condizioni deplorevoli, incapace di comunicare, di nutrirsi e di espletare le più elementari funzioni fisiologiche. Una signora se ne occupa, venendo regolarmente a lavarlo e imboccarlo. È a questo punto che il sottotitolo acquista tutta la sua importanza. Pellicani figlio si mette in testa di riscattare la propria inadeguatezza, trasformando il vecchio paralitico in un ribelle, che sia in grado (in vece sua) di fronteggiare l’orrido sistema produttivistico. Emerge in questa situazione non solo il carattere umoristico del romanzo, ma anche il suo fondo satirico: il volontarismo del logos – nel duplice senso di «raziocinare» e «discorrere» – si scontra con la placida e tetragona resistenza del bíos. Questo limite, però, non è accettato e compreso dal giovane Pellicani, che rivela così di aver introiettato proprio gli imperativi sociali contro cui pretende di battersi. «Ma sostanzialmente il materiale era di prima scelta. Bisognava lavorarci un po’. Si trattava in definitiva di rianimarlo, rimetterlo in movimento perché potesse ribellarsi in maniera completa e credibile». Nonostante se ne vada in giro in completo grigio topo con valigetta da manager, Pellicani figlio è un nullatenente. Ha tentato di mettersi al passo con «la smania di rinnovamento», ma invano. Possiede un’unica cosa soltanto, un’anticaglia del secolo passato: la propria coscienza, che non è poi nient’altro che un potente dispositivo d’inghiottimento e trasfigurazione della realtà. Giulio Mozzi, nella quarta di copertina, la definisce «un’infernale chiacchiera», sottolineando come il piacere della lettura nasca dalla maestria stilistica con la quale l’autore ci conduce nei meandri a un tempo foschi e carnevaleschi di questa parola.
La Chiusa potrebbe sottoscrivere la dichiarazione di poetica di Robert Pinget, altro umorista e guastatore della verosimiglianza. Nella sua postfazione a Le libera (1984) scriveva: «Non m’interessa tutto ciò che si può dire o significare, ma la maniera di dire». La Chiusa, attraverso l’eloquenza sballata del suo personaggio, ci ha restituito un tono, che appartiene precisamente alla nostra epoca: è il tono del risentimento impotente contro l’organizzazione sociale, quel tono che ritroviamo spesso in quelle vittime che, da un momento all’altro, possono trasformarsi in carnefici.
Fiumi di parole per i “Pellicani” riuscita commedia dell’assurdo
Un allucinato avvincente romanzo quello de “i Pellicani” di Sergio La Chiusa, edito da Miraggi e finalista al Premio Italo Calvino 2020. Il protagonista, Pellicani, un quarantenne – vestito grigio un po’ sdrucito, valigetta e portamento da uomo d’affari – ritorna vent’anni dopo nel quartiere dove si trova la casa del padre ottantenne. Nulla è come prima. A resistere alla furia speculativa della riqualificazione urbanistica è rimasto lo scheletro solitario dell’unico immobile disabitato. Solo in alto filtra da sotto la porta una flebile luce. È lì che avanza, tra rovine e oscurità, trovando alla fine disteso sul letto il padre, un vecchio rottame rinsecchito che se ne sta muto in balia di una donna che l’accudisce e di un televisore acceso sui cartoni animati.
Inizia da qui l’estraniante discorrere del protagonista sulla tirannia esercitata in privato dal padre, la sua furbizia, i possibili pensieri nel rivederlo dopo tanto tempo, assieme ai tentativi di accreditarsi agli occhi del padre come persona socialmente arrivata e abituata ai viaggi. Per darsi un tono ed essere credibile ostenta in continuazione la valigetta, con il ripetere che è di passaggio e di dover ripartire subito per la Cina. Uno scorrere torrentizio di considerazioni, riflessioni, sospetti, illazioni, accompagnati da ombre sullo sfondo di pareti scolorite, pianerottoli bui, appartamenti vuoti. Il tutto reso con immaginifica capacità narrativa dall’autore. Molteplici i registri stilistici: l’ironico, il comico, il sarcastico, il tragico-comico, il sentimentale, il cinico. Maschere che si rincorrono e si sovrappongono, nella rappresentazione del Pellicani padre, indicato come “il paralitico”, “l’imbecille”, “il furfante”, “il renitente”, rispetto al Pellicani figlio, proteso all’azione, al movimento, “verso l’anarchia della gioventù”.
In un originale gioco di specchi l’autore mette in scena il rifrangersi del protagonista nel dare corpo, immagine e parola agli altri pochi attori e al padre che, ad eccezione di qualche movimento di mani e di labbra, rimane indifferente a tutte le provocazioni. Un silenzio che gli appare un abbandono ozioso del vecchio e che suscita contraddittorie interpretazioni che finiscono per metterlo in crisi. Una riuscita commedia dell’assurdo, tra Pirandello, Kafka e Ionesco, malgrado qualche ripetuta critica alla società di mercato. E la vecchiaia come scarto o come furbesca ricerca di protezione. Una narrazione che sfuma nel sogno, nell’irreale, perfino nell’estraniamento del protagonista che finisce per non riconoscersi, indicandosi in terza persona.
“Mio nonno è un uomo giovane e forte e su quella piazza gioca alla palla. La palla si batte col pugno, la palla è grande quanto un’arancia ma pesa come un melone, e mio nonno e gli altri uomini sono a messa e dal fondo, quando il parroco si dilunga, fanno vedere la palla e il parroco si sbriga, conclude in fretta, un pater e un’ ave veloci, poi tutti sulla piazza per la sfida degli uomini giovani e forti.”
Marco Giacosa – Langhe inquiete
“Ma se noi ogni estate continuiamo a mandarlo sulle langhe, per forza finirà col farsi un’anima Fenoglio, anche se alla nascita non ce l’aveva. Quanto a me debbo dire che quella miscela di sangue di langa e di pianura mi faceva già da allora battaglia, nelle vene, e se rispettavo altamente i miei parenti materni, i paterni li amavo con passione, quando a scuola ci accostavamo a parole come “atavismo” e “ancestrale” il cuore e la memoria mi volavano subito e invariabilmente ai cimiteri sulle langhe.”
Il romanzo i Pellicani di La Chiusa è un’opera prima dell’indubbio valore, come dimostra anche la segnalazione al Premio Calvino 2019. Altresì è un testo di non facile catalogazione, in quanto romanzo certamente rischioso per le sue scelte normative e fuori canone. Per farcene un’idea possiamo partire da una semplice e preliminare ispezione grafica.
Il libro è diviso in capitoli, segnalati da una numerazione in caratteri romani progressiva, ma a colpire è in primo luogo il pieno di queste pagine, pochissimi gli a capo, la narrazione pare organizzarsi in spazi metrici a forma di rettangoli in cui le parole si susseguono, non si trovano stacchi o segni dialogici o interventi di mimesi del parlato. Le frasi si susseguono le une dietro le altre, queste producono paragrafi e infine capitoli.
Ci si aspetta, quindi, alla lettura un romanzo, in cui la verbosità e l’onnipresenza di chi parla siano centrali, anzi onnicomprensive. La storia del romanzo è appunto il temporaneo ritorno a casa di un figlio, che chiameremo “giovane”, dopo 20 anni di assenza. Un lasso di tempo enorme, che però il giovane, non più tanto giovane a dire il vero, pare non aver vissuto e così torna nella sua vecchia dimora, pensando che tutto sia rimasto intatto. Al di là di una sostanziale rassomiglianza del quartiere, che lo accoglie, l’uomo, vestito in maniera trasandata e con una lisa valigetta 24 ore, simbolo di un lavoro che fu, trova il caseggiato dove ha vissuto in fase di decadimento e fatiscenza; nonostante questo si ostina a pensare che tutto sia come prima e prende le scale per raggiungere la casa del padre: trova il campanello “Pellicani”, il suo cognome, e entra. Nell’alloggio, che è irrimediabilmente il suo anche se più disordinato e dismesso, vive un uomo di circa 80 anni, un vecchio come lo definisce il protagonista, che assomiglia a suo padre, ma che non può essere lui, anche se il naso è proprio quello del vecchio Pellicani. Il romanzo è quindi la cronaca di questa convivenza tra il giovane e il vecchio all’interno dell’appartamento dei Pellicani.
Il testo si svolge quasi completamente all’interno delle mura dell’appartamento, così da giustificare proprio la struttura chiusa e asfittica dell’impaginazione del testo, non ci sono esterni, aperture di squarci, se non brevissimi, che indicano come il romanzo si risolva sostanzialmente in un lungo monologo del giovane. Il romanzo infatti è scritto in prima persona, una prima persona attraverso cui passa l’intera narrazione: lo stile e la scrittura sono notevoli, un vero pezzo di bravura e virtuosismo, soprattutto perché l’autore riesce a instillare in chi legge una sorta di sotterranea sfiducia nel narratore, e nel modo in cui racconta ciò che vede. Questa rottura del patto, ogni narrazione in prima persona prevede una tensione testimoniale a dire la verità, dà il colorito comico grottesco al romanzo, una sorta di sentimento del contrario, omaggio a Pirandello, che lo stesso La Chiusa cita indirettamente quanto appunto carica il naso del vecchio di tutta la possibile identità tra “padre” Pellicani e “vecchio” Pellicani. Nello stesso tempo la verbosità del romanzo in alcuni punti è anche il suo punto debole, questa logorrea dell’Io chiuso in se stesso avrebbe potuto essere gestita con più forza se l’Io narrante avesse accettato il dialogo con gli altri personaggi del romanzo che esistono solo in funzione della sua narrazione. Ciò detto i Pellicani è un ottimo esordio di un autore che speriamo presto di rileggere con la sua nuova opera.
Quando a Barolo il vino si beveva dai pintoni, non nei calici alla moda
Marco Giacosa è uno scrittore che parte dalle cose piccole per raccontare la grandezza della vita. Lo aveva già fatto anni fa con «L’occhio della mucca» o con la rubrica «Cose che ho visto oggi», prima su Facebook e poi sull’edizione torinese della «Stampa». Piccole storie quotidiane capaci di diventare «narrativa» solo nel momento in cui il narratore sapeva riconoscerle come storie da raccontare. Con «Langhe inquiete» (Miraggi Edizioni), Giacosa compie la stessa operazione su se stesso. Ha recuperato una serie di post usciti sui blog e sui social, li ha cuciti insieme, ne ha fatto un libro che nel sottotitolo definisce «appunti per un romanzo». Una sorta di autobiografia che, attraverso le memorie personali e familiari, diventa anche uno specchio delle Langhe «di prima». Prima del turismo, della moda, delle colline cool e patinate.
Giacosa, attraverso i ricordi della sua famiglia, lei ci riporta alle campagne piemontesi del primo Novecento, quando i bambini andavano a lavorare dopo due-tre anni di elementari, quando la religione era più dei bigotti che dei credenti. Una vita scandita da tradizioni che lasciano tracce ancora oggi. Che cosa è rimasto in lei in tutto questo?
«Molto. A quelle tradizioni sono stato legato in modo quasi malato per molto tempo. Sono cresciuto con il codice del “si fa così” e del “non si fa”, l’ho suburra per anni senza neppure chiedermi se mi piacesse o no. Ci ho sofferto parecchio finché c’ero dentro. Poi me ne sono staccato, e a quel punto ne ho riconosciuto il fascino. Adesso che non ci vivo più sono davvero libero di sentirmi figlio delle Langhe».
Le sue pagine raccontano un rapporto stretto, ma a volte conflittuale con la famiglia. Specie con suo padre, a cui ha dedicato il libro e di cui parla spesso su Facebook. Rimpianti?
«È una cosa che succede a molti: cresci nella convinzione di essere molto diverso da tuo padre, e poi con il passare del tempo ti accorgi di assomigliargli sempre di più: te lo fanno notare, i gesti, gli atteggiamenti, il modo di camminare sono uguali ai suoi. Mio padre aveva la mania di tenere diari, scriveva, raccoglieva fotografie. È come se facesse Facebook prima di Facebook: nei suoi album non ci sono solo le foto, ci sono ritagli di giornale, commenti, poesie che aveva scritto per qualche ricorrenza, appunti dei discorsi che teneva ai matrimoni».
Lei ha scritto che l’anno passato nell’Alessandrino a fare il carabiniere di leva è stato il «migliore della sua vita». Perché?
«Perché per la prima volta ero e mi sentivo legittimato a stare lontano da casa. Mio nonno aveva fatto la guerra negli Alpini, mio padre era veterinario ma era stato ufficiale di complemento. In famiglia c’era l’idea del cittadino che deve rispondere quando lo Stato chiama».
Lei però ha studiato a Torino. Non bastava l’Università per sancire il «distacco»?
«Nel weekend rientravo ad Alessandria, mia mamma mi preparava il cibo e mi stirava i vestiti. C’era sempre l’idea, anche metaforica, del “tornare a casa”».
Lei si descrive come un bambino solitario. Era così?
«Io ho avuto la fortuna di crescere con mio nonno, in una piccola borgata come Pela, a sette chilometri da Alba. Quando da piccolo giochi in un cortile di campagna la tua socialità è data dalle persone che passano in quel cortile. E di bambini, in genere, ne passano pochissimi. Così il mondo lo scoprivo da solo: il muschio, l’uva, gli animali. A volte i contadini pagavano mio padre veterinario in natura, con un cambio-merce: ricordo che un giorno arrivò con un asino. La mia infanzia ha avuto un senso di avventura».
Non le mancava qualcuno con cui giocare?
«No. In fondo io non ho perso qualcosa, non l’ho mai avuta».
Nel libro, però, racconta di una vacanza con altri bambini in cui si sentiva isolato perché lei «non era di Alba, ma di un paese vicino». Bastavano i 7 chilometri tra Pela e la città per sentirsi diverso?
«Era come essere la provincia della provincia. Ad Alba c’erano i figli dei professionisti: a casa parlavamo in italiano, mentre noi usavamo il dialetto. La differenza era evidente, specie più avanti, al liceo: io avevo amici che lavoravano da idraulici o da muratori, molti studiavano negli istituti professionali. Erano i tempi in cui andare a bere il vino non faceva ancora figo: c’erano i pintoni, non i calici».
Le sue Langhe «inquiete» oggi sono diventate un’altra cosa. Viste da Torino, dove vive da anni, che effetto le fanno?
«Da ragazzo andavo a Barolo con i miei amici, in motorino. Ci fermavamo in piazza a parlare, compravamo la focaccia, qualche birra di nascosto al bar. Ci sono passato qualche tempo fa: ogni dieci metri un negozio che vende vino, cantine, qualcosa di turistico».
Meglio allora?
«No, no. Mi fa piacere che ci siano dei piccoli imprenditori, che non siano solo Ferrero e Miroglio ad aver trasformato le terre della Malora di Fenoglio. Però lasciatemi un po’ di orgoglio: io ho visto l’anima di questi luoghi, chi ci passa un weekend e se ne va non la vedrà mai».
“Langhe inquiete”, prima vera prova di narrativa pura per Marco Giacosa
Lo scrittore Marco Giacosa (foto a destra), che ci piace considerare “un albese in prestito alla città di Torino”, ha appena pubblicato, con Miraggi edizioni, Langhe inquiete (foto sotto), sua prima vera prova di narrativa pura, dopo alcuni racconti usciti nel 2014, che si aggiunge a “L’Italia dei sindaci”, un saggio d’attualità, scritto come fosse un lungo reportage, “Disasterchef” e “Il pranzo di nozze di Renzo e Lucia” che sono libri atipici: il primo è composto da micronarrazioni, racconti brevissimi con i medesimi protagonisti dall’inizio alla fine: i giudici del famoso programma Tv Masterchef e l’io narrante; il secondo è la riscrittura, scena per scena, dei Promessi sposi, con una lingua della strada, contemporanea, «diciamo che al “plot” lì ci ha pensato Alessandro Manzoni», ironizza lo stesso Giacosa. Langhe inquiete è una collezione di racconti autobiografici, dall’infanzia ai giorni nostri o quasi. Episodi minimi o enormi (come la malattia della madre e la morte dei genitori), mai marginali, sempre personali, in cui però, chiunque può trovare un qualcosa di sé. Con la particolarità che, pagina dopo pagina, la scrittura adotta uno stile più articolato, avanzando di pari passo con l’età del protagonista dei brani narrati. «La maggior parte del libro è costituita da parole scritte nel corso di un tempo che ha un inizio e una fine, dal 2010 al 2012», ci spiega l’autore «quando avevo molto da dire, mi esplodevano dentro le cose, e le ho dette con la scrittura di quel tempo, con gli strumenti che avevo allora. Quelle parole sono rimaste lì per qualche anno, poi le ho riprese e le ho riviste (diciamo “risuonate”?) con gli strumenti che ho adesso, però non le ho toccate molto, non ho riscritto niente, per non togliere loro, appunto, l’anima. Diciamo che ho tolto qualche ingenuità». Sul perché dell’inquietudine del titolo, Giacosa precisa: «Diciamo che sono inquiete le Langhe che io proietto nella mia mente: quindi ero forse io, inquieto, ma perché erano loro, le Langhe, che mi inquietavano, nella mia condizione di figlio di quella terra». E il suo essere figlio di questa terra torna anche nei ringraziamenti con cui si chiude il libro: Beppe Fenoglio e Michele Ferrero (di cui si parla più volte nel testo) in cima a tutti. Sull’ordine scelto, lo scrittore chiosa: «Sono andato dal grande al piccolo, che però, essendo mio, è per me più rilevante. Fenoglio è generico, è un’opera; Ferrero è una filosofia, quella filosofia ha fatto molto per le Langhe e per la mia famiglia (parlo di welfare, non di stipendio). Passo poi a persone che nessuno conosce, che per me sono importantissime, fino a mia moglie».
Come in una pièce del teatro dell’assurdo, tutto si svolge in una sola notte, con i due protagonisti stipati in una stanza, come lo sono nelle 192 pagine del romanzo i vaniloqui del giovane e logorroico protagonista. Ragazzo che, completo grigio topo sdrucito e valigetta da manager piena di cianfrusaglie alla mano, si presenta la sera tardi a casa del padre dal quale era scappato vent’anni prima dopo avergli sottratto i risparmi dal comodino. Cerca ospitalità per la notte, prima di partire per la Cina, sostiene. Come il vecchio padre tradito (ma sarà proprio lui?), il lettore è rapito e trasportato dal turbine ciarliero del giovane che ipotizza, reinventa e trasfigura la banalità del reale che lo circonda. In libreria dal 13 ottobre I Pellicani si è guadagnato la menzione speciale Treccani 2019 come finalista al Premio Calvino.
La Luna viola di Andrea Serra, invece è stato pubblicato di recente da Miraggi edizioni, una casa editrice che nel panorama indipendente è ormai una veterana e che seppure con un neo vistosissimo nel suo catalogo, e cioè la pubblicazione di un mio inutile & dimenticabilissimo librettino, continua a regalarci opere molto interessanti e, perché no, spiazzanti, spesso fuori dall’ordinario. Prendiamo questo La luna viola di Andrea Serra, autore che già ci aveva fatto sbellicare dalle risate con il breve ma densissimo romanzo Frigorifero mon amour, una persona lo sfoglia e si aspetta un secondo tripudio post-fantozziano di battute, un altro trionfo pirotecnico di risate, risatacce, risatone e risatine. E invece no, quel diavolo d’un Andrea Serra che cosa ci combina? Ci regala una fiaba dolcissima, e anche spiritosa, sulla paternità, che è pure un apologo filosofico con cui l’autore fa i conti con la sua vita, con la sua passione per la filosofia (e i suoi studi), con la famiglia e le fatiche connesse, con il precariato e le sue fregature. Certamente dopo decenni di narrazioni ombelicali in tutte le salse, è chiaro che raccontare i fatti nostri è impresa rischiosissima, ma ormai è altrettanto chiaro che uno di quelli in grado di farci morir dal ridere, commuoverci e appassionarci col racconto della sua vita ordinaria è il bravissimo scrittore-papà-filosofo-umorista Andrea Serra.
Jesi, al Vox in scena un recital sul ‘Crinale del tempo’
Appuntamento con lo scrittore Vittorio Graziosi, accompagnamento musicale del maestro Giovanni Brecciaroli e le letture di Antonio Lucarini
Lo scrittore Vittorio Graziosi
Jesi (Ancona), 21 luglio 2020 – Lo scrittore Vittorio Graziosi narra il suo ‘Crinale del tempo’: una storia di rinascita dall’abuso, lirica e toccante. Un nuovo appuntamento che unisce letteratura e musica al Vox Live Club di Jesi. Il locale di via Luigi Mercantini domani alle 21,30 ospiterà l’autore jesino Vittorio Graziosi, che racconterà al pubblico il suo ultimo romanzo “Il crinale del tempo” (Miraggi Edizioni) con l’accompagnamento musicale del maestro Giovanni Brecciaroli e le letture di Antonio Lucarini. L’evento fa parte del calendario di iniziative che uniscono libri e note curato da Davide Morresi per Read and Play, le colonne sonore dei romanzi (readandplay.it).
Dopo il grande successo dei suoi ultimi lavori, “Sangue di rosa scarlatta” e “Sotto il segno della bilancia”, ne “Il crinale del tempo” Vittorio Graziosi affronta il tema dell’infanzia rubata. Il protagonista è un ghostwriter che dovrà trovare nella scrittura di un racconto la forza esorcizzante che cancellerà l’oscurità lasciata da un abuso di cui è stato vittima da ragazzo, insieme al fratello. Una doppia storia con due narrazioni che si alternano attraverso le pagine per donare attimi di profonda riflessione sulla necessità dei sentimenti, della rinascita, di una ripartenza dopo una crisi personale e umana. La penna di Graziosi sa graffiare a fondo con estrema delicatezza, rimarginando anziché ferire. Sarà proprio l’atto dello scrivere, di trarre storie dalle esistenze in bilico degli altri, a ridare al narratore del romanzo la capacità di neutralizzare il veleno che ha infettato l’infanzia di due giovani innocenti.
È un libro molto particolare e molto interessante è la sua struttura. I piani di lettura sono più di uno e tanti sono gli interrogativi di tipo filosofico che percorrono tutto il romanzo che verte fondamentalmente sulla verità, storica e individuale. Protagonisti sono Andrea Ferro uomo di mezza età che si trova ad Udine al capezzale della nonna, con cui è cresciuto,l’eversione nera in uno dei suoi più inquietanti episodi, la strage di Peteano (31 maggio 1972) e in parte lo scrittore stesso Luca Quarin (Nella foto in basso a destra).
Cercando di mettere ordine nella casa della nonna, Ferro si trova a dover mettere ordine anche nella sua vita e soprattutto in quella della sua famiglia. I suoi genitori muoiono in un incidente e lui rimane orfano a tre anni e cresce con i nonni paterni. E quello che piano piano viene alla luce, col quale non aveva mai voluto/saputo confrontarsi è il suo tormento. Altro tormento , come un grillo parlante, è Quarin che si rivolge a lui per la pubblicazione di un libro ,gli scrive mail e propone punti di vista, veri e propri quisillibus filisofici sulla narrazione, sulla scrittura e quant’altro relativo al libro che vorrebbe pubblicare. Si dipana nel romanzo una pagina di storia che si è protratta per anni prima di far venire alla luce una fitta trama di collegamenti e depistaggi legati all’attentato del 1972 che forse ha trovato una verità dopo più di dieci anni. A vario titolo erano coinvolti per ragioni opposte i nonni e i genitori di Ferro, ma il motivo del coinvolgimento è la scoperta con cui non è facile fare i conti. Scoprire una realtà difficile da digerire, pensare a come sarebbe stata la sua vita se, come è stato possibile che, chi erano davvero i genitori, i nonni, quanto erano implicati in una brutta storia?
Un tormento. E sebbene sembra chiaro che la verità relativa ad un evento storico è giusto che venga sempre a galla per giustizia dovuta, quella relativa alla propria storia familiare a posteriori è sempre dovuta? Parrebbe di sì, i conti dovrebbero sempre tornare anche se il costo è alto. Ma forse no, giova sempre scovare fino in fondo? Lo svelamento può cambiare il corso o le scelte di una vita adulta? Ferro vorrebbe dimenticare, lo scrittore può continuare a ricordare il passato. È un romanzo che fa riflettere molto. Nel romanzo Quarin riporta anche documenti ufficiali e contributi giornalistici che si intrecciano bene con la parte romanzata rendendo la lettura piacevole.
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