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Recensione a L’animale nella fossa su Casadeilettori.blogspot.com

Recensione a L’animale nella fossa su Casadeilettori.blogspot.com


Sii tu le rete che raccoglie 

le olive che cadono

io sarò l’ulivo”

La destrutturazione del linguaggio metaforico attraverso l’immagine: è questo il percorso poetico di Gaia Ginevra Giorgi.

Una sperimentazione che la porta a coniugare il dire con il vedere.

Non ci sono fratture tra queste parti e il soggetto finalmente torna intero.

Mente, corpo, parola, percezione in un intreccio lucido, bilanciato, molto espressivo.

“Oggi sono schiuma

sottrazione

cicatrice laterale – roccia

che frana”

La mancanza di punteggiatura, la scelta accurata del fonema creano una musicalità sacra.

E la sacralità è ricerca di geometrie e di linee e di colori.

Le pause sono respiri trattenuti, incanti, fluorescenze.

I ricordi frammenti di pulviscolo, i sogni evocazioni di un immaginario che sconfina nelle solitarie meditazioni.

“L’animale nella fossa”, pubblicato da Miraggi Editore nella Collana “scafiblù” è “il buio primitivo” di un’assenza, “il rischio del varco”, lo strappo.

È il bosco, la lacerazione, la luce del mattino.

È l’ombra, la possibilità, il confine tra selvaggio e domestico.

È la prosa che arriva senza preavviso, il ritmo accelerato della vita, la corsa verso l’irraggiungibile.

Bellissima la prefazione di Tommaso Ottonieri.

Il labirinto nel labirinto.

Di Anna Maria Patti. QUI l’articolo originale: https://casadeilettori.blogspot.com/2024/03/lanimale-nella-fossa-gaia-ginevra.html?m=1

Malapace – recensione di Alfredo Sgroi su Mangialibri

Malapace – recensione di Alfredo Sgroi su Mangialibri

Il clima è cupo, nella Francia appena liberata dalle forze alleate. Perché sono brucianti le scorie, non solo materiali, del conflitto ancora in corso. Il momento di fare i conti con quello che è accaduto è, infatti, arrivato. E tanti francesi non hanno la coscienza limpida. Così, in un campo di prigionia controllato dagli Alleati, esattamente nel 1944, si raduna un’umanità eterogenea di diseredati, relitti, prigionieri politici. Costretti ad una coesistenza forzata, in cui il caso può fare incrociare destini inconciliabili. Accade così che si incontrano due vecchi compagni d’infanzia, approdati per vie traverse alla medesima scelta politica. Il primo, François, ex comunista poi diventato collaborazionista dei nazisti al tempo della repubblica di Vichy; il secondo, Antoine, vecchio vicino di casa e fascista convinto. L’incontro innesca nel primo un flusso inarrestabile di ricordi, partendo proprio dall’infanzia, vissuta in un piccolo borgo francese. Qui matura le prime esperienze, passa dal cattolicesimo al comunismo, vive la lacerante condizione di orfano di guerra. E poi arriva Vichy…

Francesca Veltri dipana la trama del racconto lungo un arco spazio-temporale ampio. Lo fa concedendo lo spazio maggiore alla rievocazione memorialistica, condotta in prima persona dal protagonista-narratore. Lo sfondo è quello degli anni tumultuosi che vanno dal primo conflitto mondiale, vissuto in Francia in un’atmosfera di acceso patriottismo, fino all’occupazione nazista e all’arrivo degli alleati. Ciò che più conta è che il protagonista vive il suo processo di formazione in maniera intensa, facendo comunque delle scelte controcorrente. Così è quando abbraccia il verbo pacifista negli anni della Grande Guerra, e così è quando diventa comunista, prima, filonazista dopo. E perciò si stacca, talvolta in modo sinistro, dalla massa grigia degli ignavi, che preferiscono defilarsi. Rinunciare, cioè, a partecipare ai grandi rivolgimenti storici, restando così nell’ombra. Una scelta, questa, di viltà, che il protagonista rifiuta recisamente. La sua fisionomia caratteriale risulta quindi minutamente analizzata, ma sempre inerendola nel flusso degli eventi del suo tempo.

QUI l’articolo originale:

https://www.mangialibri.com/malapace

Il buon auspicio – recensione di Gennaro Ricolo su Maremoto Magazine

Il buon auspicio – recensione di Gennaro Ricolo su Maremoto Magazine

Un libro che scava, in maniera dissimulata, nella profondità della relazioni personali, della quotidianità e dell’autrice stessa. La recensione di Gennaro Ricolo

Chi è la Lorenza che scrive un diario in cui annota le vicende martoriate e a volte, loro malgrado, irresistibili dei pazienti di un ospedale psichiatrico di cui è “consulente filosofico”? È l’autrice stessa? È un caso di omonimia? Un alter ego, un Doppelgänger, ovvero un sosia, un viandante ubiquo? Luca Raganin

Così scrive Luca Raganin nella bella quarta di copertina del Buon auspicio, un romanzo non-romanzo, molto particolare, appena uscito per Miraggi edizioni.

Lorenza è l’autrice, è la protagonista, ed è Lorenzo, amico, desiderio e doppio. E racconta, con parole sue «in presa diretta, come in una stenografia del reale», e in più di 500 pagine, pezzi della sua vita, con tanto di nomi dei protagonisti, semplici conoscenti, amici, personaggi noti (gustoso e poetico il racconto di un week end con Houellebecq), senza filtri, in un modo così diretto da risultare urtante, inappropriato, e per questo affascinante.

Si sente spesso parlare di romanzo-mondo, quando un libro vuole ricreare da zero un intero immaginario.
Il buon auspicio di Lorenza Ronzano non ha questa pretesa, ma è fatto di riflessi incoerenti, un collage apparentemente casuale di eco sovrapposte, in cui ricostruire qualcosa di unitario più che impossibile risulta inutile, e infine non necessario.
Se ci siamo assuefatti alle storie intime, e “ombelicale” è un giudizio negativo, qui partiamo invece da un dato viscerale, doloroso ed entusiasta, capace di toccare il nostro stesso stare al mondo nella sua essenza più profonda.

Antonio Moresco, estimatore di Lorenza Ronzano e presente più volte nel testo, ne parla così, dopo aver tentato a lungo di farlo pubblicare:

Si lamentano sempre che non escono libri spettinati, e poi quando ce n’è uno spettinato e pieno di spigoli non lo vogliono!

Antonio Moresco

E ancora, in quarta di copertina:

«È strano, in questi anni in cui la grande editoria sembra fare a gara nel pubblicare libri scritti da donne (purché stiano dentro una certa cornice edificante e un certo spirito culturale del tempo), quelle che faticano a trovare accoglienza sono proprio le voci femminili più originali, più forti, più scomode, più irriducibili.
Quella di Lorenza Ronzano è una di queste.»

Da quello stesso racconto di pancia e cervello si originano poi delle esplosioni di umanità e riflessione più ampia, a contorno per esempio dei racconti dei pazienti psichiatrici che Lorenza raccoglie, e che incontra per lavoro.
Malati lo sono poi davvero? O sono “solo” stati sfortunati? Hanno sofferto nella vita e vengono per comodità sociale chiamati malati e sedati con terapie?

«Sto qui in ospedale a chiacchierare, mi metto a disposizione dei cosiddetti pazienti psichiatrici, loro mi chiamano Dottoressa, ma io sono il loro grande orecchio, la loro cassa di risonanza.
Voglio sdoganare la follia, per questo ho deciso di lavorare contro una visione del mondo proprio nel luogo in cui questa visione viene creata.
Sono l’anticorpo del sistema in vigore.»

Lorenza Ronzano sembra applicare lo stesso metodo a ogni cosa: cercare di forzare la superficie del mondo visibile, del consueto, dei rapporti interpersonali, con un racconto apparentemente piano, con uno stile fatto di «gergo quotidiano.
Talvolta più sorvegliato, nella maggior parte dei casi immediato, concreto, persino grezzo», e lo fa indifferentemente che si tratti di raccontare sogni (assurdi come tutti i sogni, spesso esilaranti), desideri di amplessi sessuali, visite al padre in casa di cura, serate più o meno mondane nella sua città, Alessandria.

Impigliato e in balia del flusso del racconto, il lettore deve subirne i colpi emotivi per essere ricompensato – come accade nella vita – dall’intenso premio di vedere smuovere leve dello spirito che non sapeva di avere (più). Uno spirito che ha un corpo, che è in un corpo.

E qual è allora il “buon auspicio” citato nel titolo? Lo ritroviamo in un passo, riportato sul retro del volume, esemplificatico e come un marchio a definire l’identità di questo libro così inaspettato:

«Oppure, anziché portarlo in Svizzera per praticare l’eutanasia, potrei lasciarlo in un campo.
Mi balugina per un attimo davanti agli occhi, come in un delirio visivo, l’immagine di mio padre sulla sedia a rotelle abbandonato in fondo a un campo.
Quest’immagine mi è sempre sembrata di buon auspicio.»

QUI l’articolo originale:

https://maremosso.lafeltrinelli.it/recensioni/il-buon-auspicio-lorenza-ronzano-libro

Malapace – recensione di Vincenzo Mazzaccaro su Sololibri.net

Malapace – recensione di Vincenzo Mazzaccaro su Sololibri.net

Dopo lo straordinario Edipo a Berlino, che era incentrato sulla vita del ghetto di Varsavia, nella collana “scafiblù” di Miraggi edizioni per gli scrittori cui piace stare ancora scomodi, liberi di raccontare ancora di guerre e di nequizie, Francesca Veltri con Malapace torna al periodo della Seconda guerra mondiale ancora una volta, narrando una storia privata, di un uomo che sbaglia tutto, pur di mantenere una esile pace.

La scrittrice ha fatto un lavoro faticoso sulle fonti scritte, guardando e prendendo appunti da faldoni il cui argomento era la Francia occupata dai nazisti. Se un pezzo della nazione è sotto il potere dei nazisti, perfino la città dell’Illuminismo, Parigi, una parte cospicua di Francia sigla un accordo di pace coi tedeschi, in un governo presieduto da Pétain, in realtà un “fantoccio” collaborazionista in quel di Vichy.

Il romanzo si apre proprio con il Ministro della Propaganda di Vichy, Francois, in carcere a Camp de Carrères, nell’ottobre del 1944, che sta molto male, per problemi cardiaci e polmonari, e d’improvviso si ritrova in cella Antoine, un suo vicino di casa che lui ricorda bambino. Ora Antoine è stato arrestato per delitti ignobili verso le persone. Sembra sia una spia tedesca incaricata di scovare ebrei francesi da portare ai campi di concentramento.
Francois è stato talmente cieco che chiede a Antoine se, ora che la guerra sta finendo, gli ebrei potranno tornare a casa.

Antoine nicchia, ma sa qualcosa di orribile, di mai visto prima e racconta dei campi e delle stanze dove vengono gasati. Il compagno di cella sente su di sé tutti gli sbagli commessi nella sua vita e l’autrice ce lo mostra bambino e poi adolescente, che conosce Martine; mentre a vent’anni conosce Jean-Pierre, se lo ricorda bene, perché si era appena iscritto al Partito Comunista. Non stava più bene a casa, perché la madre si era messa con un industriale, ma il ragazzo non voleva nulla da un estraneo come quello, coi soldi, e si mise a studiare come un pazzo e si iscrisse in un gruppo di preghiere. Credente e comunista, le tante facce che aveva Francois anche da giovane, ma tutte a fin di bene. All’Università studiava tantissimo, appunto, ma pensava a Jean-Pierre.

In realtà Francesca Veltri questa amicizia così speciale la fa finire, con Jean-Pierre che non si presenta dagli amici, perché preferisce fidanzate occasionali che duravano lo spazio di un mattino. Questo andare e venire dai ricordi al carcere è una pietanza troppo amara per il lettore, che trova un ragazzo di grande ideali da giovane, mentre quello del carcere è un uomo svuotato, rassegnato, malato, costretto a parlare con un fascista come Antoine.

L’autrice ha il dono di parlare nella stessa pagina del presente e del passato. Infatti una sera Martine conobbe Jean-Pierre e la notte stessa erano già amanti e divennero una coppia solida e affiatata. Questo prendere atto della nuova situazione sembrò un sollievo per Francois, ma anche un distacco, dal momento che lui amava entrambi.

Ma l’autrice non cade in un facile psicologismo di maniera, o meglio lascia a noi la scelta. Perché sicuramente, dopo che i suoi amici si misero insieme, lui si sentì abbandonato e spaventosamente solo. Rivedrà la coppia solo anni dopo, quando i due avevano già una bambina, e solo dopo mille peripezie, con Jean-Pierre che morì per le botte che aveva preso dai fascisti francesi, Francois cerca di far emigrare Martine e la bimba; ma lascio al lettore la possibilità di scoprire come andò veramente.

Quello che accadde servi a Francois per aprire gli occhi sul suo “crudele” pacifismo, come aveva potuto credere che i tedeschi prendessero sul serio la non belligeranza nella Francia di Pétain, se stavano perdendo dappertutto, che anche coi nazisti la Germania cominciava le guerre per poi perderle tutte, come uno strano destino di crudele ambizione che tuttora la Germania dell’Europa unita, a volte ha nei confronti di altre nazioni europee, per poi ritirarsi in buon ordine. Ma ci sono voluti anni e guerre e distruzione e la riduzione significativa degli ebrei che vivono tuttora in Europa e non nel paese scelto, Israele.

Francesca Veltri ha fatto un lavoro certosino e faticoso per studiare carte e faldoni della Francia occupata e di quella libera “per finta” del governo Pétain, ha studiato le motivazioni del collaborazionismo di gente perbene, e tornata di nuovo, dopo il romanzo fluviale Edipo a Berlino, a guardare carte che attestavano il numero di ebrei che riuscì a emigrare in altri paesi nel periodo bellico.

Tutta questa fatica ha prodotto un libro ineccepibile, perfetto, ma con un retrogusto amarissimo di chi, studiando, ha capito che tuttora l’Europa unita non è esente da errori madornali e da Stati membri che si sentono investiti da un potere decisionale maggiore, come appunto la Germania e la Francia (l’Inghilterra con la Brexit, si è tenuta lontano da questa macro area).

Nondimeno un libro necessario, importante, candidato allo Strega 2023, ma poi rimasto indietro con altri sessantasette libri che non hanno passato il turno per l’accesso alla dozzina finalista.

QUI l’articolo originale:

https://www.sololibri.net/Malapace-Francesca-Veltri.html

Malapace – recensione sul Corriere della Calabria di Antonio Chieffallo

Malapace – recensione sul Corriere della Calabria di Antonio Chieffallo

“Malapace”, i tormenti della politica e della memoria

L’ultimo libro di Francesca Veltri affronta l’eredità difficile del Dopoguerra e i suoi effetti sulle storie personali dei protagonisti

«Mi sono lasciato andare sul cuscino, mentre il prete ungeva la fronte. Ho provato a sbattere le palpebre, non distinguevo più bene le voci né i volti. La sola frase che ho colto con chiarezza era anche l’unica che m’interessasse, – non passerà la notte -. È difficile spiegare la gioia che ho provato. Non ci sarebbe stata più un’altra notte».
Poche righe che, però, sono sufficienti a delineare l’intensità narrativa di “Malapace”, edito da Miraggi, l’ultimo romanzo di Francesca Veltri, scrittrice e docente universitaria all’Unical. La storia inizia nell’ottobre del 1944, in un campo di prigionia alleato dove è detenuto Francoise, con un passato nelle file del Partito Socialista, poi a fianco dei pacifisti per finire al collaborazionismo con il regime filo-nazista di Vichy. A Camp de Carrères arriva Antoine, suo amico di infanzia e fascista convinto, che non rinnega i suoi trascorsi di torturatore assassino. 
Inizia un confronto-scontro tra i due che costringe Francoise a fare i conti con i suoi demoni ed a ripercorrere le tappe di una vita in cui riemergono le origini cattoliche e altoborghesi della famiglia, le scelte politiche e gli incontri con Martine e Jean-Pierre, figure tragiche e potenti della sua esistenza. 
Iniziano quindi a delinearsi i temi fondamentali del racconto a partire da quello centrale della pace: «È una delle questioni che ha caratterizzato quegli anni e che ha visto su fronti contrapposti anche persone che provenivano dalla stessa estrazione politica». Il dibattito ha prodotto grandi lacerazioni tra «chi pensava che la pace dovesse essere ottenuta ad ogni costo, anche attraverso accordi con la Germania di Hitler, e quanti vedevano in lui il male assoluto. Uno scontro che travolgerà storie personali, vite e percorsi politici». 
E non è il solo terreno di confronto. I protagonisti dei Malapace si troveranno anche ad affrontare il dramma del rapporto con l’idea comunista che, da un lato rappresenta una speranza di riscatto per milioni di persone rispetto alle gravi ingiustizie sociali dell’epoca, dall’altro finisce per produrre regimi dittatoriali in grado di mortificare quei principi di libertà che avrebbero dovuto incarnare. Tormenti interiori che pervadono Martine, Jean-Pierre e lo stesso Francoise alle prese con un vero e proprio supplizio interiore provocato dalle scelte che lo porteranno ad un destino politico mai pensato o immaginato.
Scelte dettate dal «tentativo di ottenere una disperata approvazione degli altri e dal bisogno di sentirsi amato», con il fallimentare risultato finale di una completa «solitudine, la maledizione peggiore per lui, ancora più della prigionia stessa».
Dopo “Edipo a Berlino”, Francesca Veltri si supera con un libro capace di una straordinaria narrazione lirica attraverso la quale pone temi ancora irrisolti e quanto mai attuali. La tragedia che accompagna la vita di molti protagonisti ci obbliga a fare i conti con noi stessi e con un passato che non può e non deve essere dimenticato. 

QUI l’articolo originale:

https://www.corrieredellacalabria.it/2023/01/27/malapace-i-tormenti-della-politica-e-della-memoria/

Malapace – recensione su Casa lettori di Maria Anna Patti

Malapace – recensione su Casa lettori di Maria Anna Patti

Francesca Veltri sa raccontare i demoni che albergano nell’animo.

Va in profondità, scava nelle viscere nel passato, mette in moto meccanismi mentali.

“Malapace”, pubblicato da Miraggi Editore, non è solo un frammento storico.

È la ricostruzione di un tempo che ci appartiene.

Una ferita mai rimarginata e che continua ad insanguinare il nostro presente.

Sullo sfondo la Seconda Guerra mondiale come un paesaggio ingombro di nuvole.

Al centro un centro di detenzione con i suoi umori, le grida notturne, gli spasmi di un’umanità dolente.

Due uomini: François e Antoine.

Compagni d’infanzia si ritrovano dopo anni.

Entrambi hanno fatto delle scelte.

L’incontro è una resa dei conti.

La tensione narrativa si scoglie nei dialoghi serrati, nelle pause di riflessione, nello struggimento dei ricordi.

Quello che emerge è il dubbio di essere stato dalla parte sbagliata.

Tradire il proprio credo e diventare collaborazionista dei fascisti per un fine alto.

Fermare la guerra, matrigna che devasta e lascia una scia di assenze.

Può la Storia trascinarti nell’inferno?

Hai il diritto di annullare te stesso pur di arrivare ad un compromesso?

È questa l’inquietante domanda che è rivolta al lettore.

Amore, amicizia, parole vane.

Tutto scompare quando si entra nelle dinamiche del nemico.

Un romanzo che sa bilanciare gli eventi storici con la tensione emotiva dei personaggi.

Una scrittura tersa, tragica e libera da stratagemmi narrativi.

Un testo di grandissima attualità che ci invita ad essere temerari difensori della pace.

QUI l’articolo originale:

https://casadeilettori.blogspot.com/2023/03/malapace-francesca-veltri-miraggi.html?m=1

Paolo Brunati su La Balena Bianca (Roberto Batisti)

Paolo Brunati su La Balena Bianca (Roberto Batisti)

Meritevole di collocazione nelle intricate mappe della prosa non-narrativa è anche un autore italiano, Paolo Brunati (1943-2021), che dopo una vita di appartato sperimentatore fra parola scritta e arti figurative ha pubblicato proprio in punto di morte, due anni fa, i Colloqui con il Pesce Sapiente. I 160 brevi testi, che fin dai loro titoli giocano con la forma del trattato, possono sembrare molto diversi dalle buffe vignette di Edson, e il loro stile intellettualistico e lessicalmente estroso è certo più debitore del Barocco che dello slapstick. Laddove Edson mostra, Brunati racconta. Eppure, anche in queste godibilissime prose non-narrative e divaganti (a cui decisamente manca la natura di canovacci teatrali ridotti all’osso, tipica di Edson) troviamo un gusto per la creazione di scenette bizzarre, in cui uno sguardo indagatore si deposita sulle evenienze apparentemente meno clamorose della quotidianità per trasformarle in mirabilia grottesche sotto la sua lente. Così, corpi, animali e oggetti (archetipizzati dalla maiuscola pure di ascendenza secentesca: “il Tempo”, “le Colpe”, ma anche “gli Ornitorinchi”, il “Moscerino della frutta”) subiscono le conseguenze paradossali di un interrogativo filosofico spinto fino all’assurdo. Un po’ come in Edson, l’attenzione di Brunati si sofferma particolarmente spesso sui legami familiari (il Marito, la Nonna…); e se l’autore italiano si diverte a immaginare strani modi di fare figli (“Trovarli dentro una coppia preziosa e antica […] scoprire l’Albero dei Figli e trapiantarne in vaso dei germogli […] prenderli vivi al volo con una sorta di enorme acchiappafarfalle […] partorirne infiniti dalla bocca”), troviamo varie nascite non convenzionali anche in Edson, dove un uomo fa nascere un rospo dall’ascella della moglie, o un giocattolaio costruisce un bambino-giocattolo.

Spesso Brunati rivolge la sua contemplazione ai Morti, trattati come una specie misteriosa e un po’ incongrua, che suscita ammirata perplessità o al massimo il fastidio concettuale del classificatore enciclopedico davanti a un fenomeno contraddittorio. Tipico è lo scandalo di fronte al cadavere, un “coso affatto estraneo alla morte”, imbarazzante nella sua fisicità di burattino inanimato, che sembra mimare malamente quella dei vivi. “I Morti […] ancora parlano, ma senza effetto”, e se “la Morte non può che cogliere nel pieno della vita”, le trasformazioni “sbalorditiv[e]” a cui va incontro la salma suscitano “una curiosità di paure”: anche al cadavere di un animale “sono possibili emozioni ed avventure altrimenti invivibili”, ma gli toccherà viverle in stato d’immobilità. Anche in Edson troviamo morti trattati alla stregua di vivi dalla strana, inaccettabile inerzia. Fra le prose più memorabili, l’apologo del Raccoglitore di legna, che appena deceduto è rimesso prontamente all’opera dalla moglie, a cui la morte sembra solo una scusa per non lavorare: ma al vecchio taglialegna ormai cadavere l’ascia cade maldestramente di mano, di modo che finisce per amputarsi una gamba; al che la donna si adira (“hai tagliato la gamba del mio vecchio”) e impadronitasi dell’ascia fa definitivamente a pezzi quel corpo che non è più, ormai, il marito (il quale, anzi, la incita dal cielo). In un’altra pagina, un defunto viene riportato in vita (ma senza che si arresti la putrefazione) e accompagnato in giro per fiere, ristoranti e festini, dove continua a perdere pezzi con grande disgusto e scandalo dei presenti. Altra soluzione ancora è quella dello scultore che esuma i cadaveri per riportarli in vita, “rimpolpati con una specie di argilla viscida”.

Così nascita e morte, i due termini del percorso terrestre, vengono svelate nella loro assurdità dalla penna dei poeti, che sembrano non volersi arrendere a darne per scontata la naturalezza e si ostinano a presentarceli come esotici, goffi misteri. E lo stesso vale, naturalmente, per tutte le sfaccettature della vita tesa fra questi due estremi. Ma in entrambi gli autori i perturbanti interrogativi suscitati dalle prose non fanno in tempo a generare inquietudine, perché sono invariabilmente proposti con tocco ironico e lieve. Gettano piuttosto i semi di un possibile sguardo altro sul mondo, come ogni poesia (in prosa o meno) dovrebbe fare.

QUI l’articolo originale:

Dura mater – recensione di Maria Anna Patti su Casa lettori

Dura mater – recensione di Maria Anna Patti su Casa lettori

“Dura Mater”, pubblicato da Miraggi Editore, racchiude la poetica dell’inconscio.

Esplora l’immaterialità dell’esistenza, il luogo nel quale la rappresentazione del reale e quello dell’irrazionale convergono.

Mostra l’immaginario che ognuno di noi tiene celato.

Apre le porte ad una dimensione onirica, straniante.

Si interroga sul senso della morte e della vita.

Culla le dispercezioni, le amplifica.

Crea un’atmosfera impalpabile, misteriosa.

Dà voce all’indicibile, ai desideri repressi, agli affetti azzerati.

Rimargina le ferite di chi non riconosce più i suoi luoghi.

Trasforma il tempo in una bolla che vaga nell’incertezza.

Mariella, in coma farmacologico, assente per gli altri, riesce a spappolare il silenzio interiore.

Mette insieme ciò che resta del sè e ciò che è perduto per sempre.

La sua parola è vertigine, abisso e luce.

In questo suo viaggio interiore emergeranno le fratture e i conflitti, il confine scivoloso della memoria.

La presenza della terra d’origine si fa viva nel tentativo di aggrapparsi al suolo, alle tradizioni, agli avi.

Ada Sirente ha una prosa poetica nella sua essenzialità.

Modera il linguaggio, lo fluidifica, lo scompone.

Negli stilemi visionari coglie l’attimo nel quale il pensiero diventa protagonista assoluto.

Una prova letteraria carica di quel non detto che ci fa oscillare rischiando di farci affondare.

QUI l’articolo originale:

https://casadeilettori.blogspot.com/2023/03/dura-mater-ada-sirente-miraggi-editore.html

Malapace – recensione di Ippolita Luzzo su Il Regno della Litweb

Malapace – recensione di Ippolita Luzzo su Il Regno della Litweb

Leggendo malapace il libro di Francesca Veltri due sono i film che mi vengono a cercare: Le vite degli altri un film del 2006 di Florian Henckel von Donnersmarck, vincitore del Premio Oscar per il miglior film straniero e Le invasionibarbariche un film del 2003 diretto da Denys Arcand. In entrambi i film la stessa domanda su come sia possibile credere che qualcosa sia giusto e poi accorgersi dopo anni che quella cosa non era giusta affatto, su come sia possibile avere fiducia cieca in un ideale e poi accorgersi che quell’ideale una volta applicato diventa una tortura. Ce lo domandiamo insieme al protagonista di questa storia, François, che è detenuto in un campo di prigionia nell’autunno del ’44 con l’accusa di aver collaborato con i tedeschi, con il regime fascista di Vichy, benché sia stato iscritto al partito comunista.

L’occasione per rivivere tutta la sua vita sarà l’incontro con Antoine, un uomo che lo ha conosciuto dall’infanzia, un incontro irritante e di disturbo, perché Antoine, fascista e provocante, cerca di spiazzare i ricordi che François ha e di rivoltarglieli contro. 

Un gioco al massacro di grande perfidia.

Nel rievocare una vita alcuni incontri restano come punti fermi, come presenze non ineludibili, l’incontro con Martine, da bambina e da adulta, l’incontro con il padre di Martine, il maestro che gli fa conoscere letture e pensieri, l’incontro e l’amicizia grande con Jean-Pierre che gli farà amare il comunismo e insieme prenderanno la tessera del partito comunista.

Già Francesca Veltri con Edipo a Berlino aveva narrato la storia del drammatico conflitto d’identità vissuto da un giovane militante nazionalsocialista che, nella Notte dei Cristalli, scopre di non essere ariano, ma di origine ebraica. Il protagonista sta al confine fra identità e menzogna, interrogandosi, ed anche qui ci interroghiamo insieme a tanti che ancora stiamo interdetti e confusi davanti alle guerre di oggi. 

Credere, credere, credere, in cosa credere, per cosa decidiamo di perdere la vita, come ci facciamo una opinione di tanti fatti intorno a noi e poi quel desiderio della pace, della pace a qualunque costo. 

Quando gli eventi storici ci travolgono cosa resta delle scelte individuali? cosa resta delle speranze e degli ideali? Quando Jean-Pierre sarà imprigionato dai compagni in cui credevano, quando ciò che si crede non corrisponde più a ciò per cui si è combattuto allora la disperazione fa scegliere altri errori, fa scegliere ciò che sembra ma non è “quella pace ad ogni costo” che perderà definitivamente la vita di François.

Non vi racconto nulla se non la bravura di Francesca Veltri che sa, che conosce il tormento di anime straziate, che vorrebbero stare dalla parte del giusto e del buono, e finiscono sballottati nel caos degli avvenimenti.

Leggere un libro per interrogarci, come il protagonista delle Invasioni barbariche che rimane anche lui sorpreso quando conosce gli errori ed orrori perpetrati da Mao in Cina, leggere il libro con le immagini delle Vite degli altri, il clima di sospetto e diffidenza, le spie, i vicini di casa orribili come la vicina di casa della cugina di Martine, e interroghiamoci ancora sugli orrori del capitalismo di ogni genere, sulla falsa democrazia e sul fascismo, su ogni terribile forma di incubo chiamato storia.

QUI l’articolo originale:

https://trollipp.blogspot.com/2022/12/francesca-veltri-scrive-malapace.html?fbclid=IwAR0ZX17KzdW1NrJGSRtg4nru5DLA7BwcAtNQJyaGKEean9AjuKM1mOpa_EY

Malapace – recensione di Antonio Pagliuso su Glicine

Malapace – recensione di Antonio Pagliuso su Glicine

“Dove ci sono gli uomini, stai pur certo che c’è un inizio di corruzione.”

Anno 1944. Ancora in pochi lo hanno capito o ammesso, ma la Seconda guerra mondiale sta giungendo al suo epilogo, perlomeno in Europa. Di certo non lo ha compreso – e neppure ne è interessato – un gruppo di uomini reclusi in un campo d’internamento francese; uomini sfiniti dagli stenti, in attesa di condanna, ché pensare a un processo pare oramai un’utopia.

Questo è lo scenario gelido e opprimente che ci introduce in Malapace, il nuovo romanzo di Francesca Veltri pubblicato da Miraggi nella collana Scafiblù, dedicata alle penne stilisticamente e contenutisticamente più anarchiche della Penisola.

Uomini sott’accusa per le proprie scelte

Tra i prigionieri c’è Antoine, soldato volontario della Légion des Volontaires Français, costola francese delle milizie tedesche, avvinghiatosi alla storica nazione nemica perché folgorato dalla perfidia di Adolf Hitler susseguentemente all’aggressione dell’Unione Sovietica del 1941, a dispetto del patto Molotov-Ribbentrop che due anni prima aveva sottoscritto la vicinanza – o sopportazione reciproca – tra il Führer e Stalin:

“Questo è un uomo senza scrupoli, ho pensato, ma è così che dev’essere un capo”.

Di impronosticabili cambi di bandiera, François, un altro internato, ne ha fatti pure di più: figlio di un ex militare decorato al valore durante la Grande Guerra, è stato prima comunista, poi pacifista, infine collaborazionista dei tedeschi e funzionario del ministero della Propaganda a Vichy.

“[…] è la mia stessa ipocrisia a farmi nausea. […] Ero al Ministero della Propaganda, dove che ci piacesse o meno difendevamo quello che loro e i nazisti facevano in Francia.”

François, voce narrante di Malapace, si rivela presto un uomo debole, cagionevole di salute, condizionato dal giudizio altrui, a disagio con le proprie decisioni – anzi, come letto, letteralmente nauseato da esse –, timoroso che non siano accettate, che gli vengano ricordate mettendolo nuovamente con le spalle al muro, psichicamente sott’accusa, rendendo manifeste ancora una volta la sua cedevolezza e la sua pusillanimità. Prima che in quella del campo di prigionia, François è rinchiuso nella gabbia di ignominia da lui generata: la delusione data agli altri gli è assai più greve di quella che ha dato a se stesso.

Si vergogna profondamente di essersi arreso, di avere aiutato i tedeschi a stabilirsi a casa sua, di avere scelto quello che reputava il “male minore”; una decisione presa da molti francesi nella insensata speranza di mantenere inalterati la propria integrità e i propri territori. Fare cessare il fuoco nazista, consegnare al Terzo Reich il Nord del Paese – Parigi inclusa – per poi costruire, nella restante parte, un nuovo governo francese, quello dello stato collaborazionista di Vichy.

La patria dell’Illuminismo si arrendeva al tiranno tedesco, ché “la guerra andava fermata a qualsiasi costo”.

“Perché mi ha guardato con quell’aria stupefatta? In effetti erano anni che non ci incontravamo, ma avevamo un certo numero di conoscenti in comune, e avrei pensato che lui sapesse tutto di me, così come io sapevo di lui anche più di quello che avrei voluto.”

Il torturatore e il pacifista

L’incontro tra i due uomini – torturatore impenitente Antoine, pacifista colmo di sensi di colpa François – è occasione per ripensare ai rispettivi percorsi di vita, per fare emergere episodi sottovalutati dell’infanzia, rancori malcurati, per riflettere sulla ferocia dei conflitti, sulle ipocrisie e le meschinità degli ideali politici, amati, traditi e disconosciuti, credi messi in discussione, ma senza il coraggio necessario per ammetterlo a se stessi e agli altri.

Francesca Veltri ci conduce in questo vortice in cui i disagi del presente si mescolano alle passioni incerte del passato: la ancestrale gelosia di François per Martine, socialista e anticlericale di origini ebraiche, amore mai accolto e compiuto, e Jean-Pierre, rivoluzionario e fermo idealista, il ragazzo che François avrebbe voluto essere prima di tradire la famiglia, la fede, i valori in cui è cresciuto.

La guerra va fermata a ogni costo? Anche tramite una “malapace”?

La lettura procede verso il fine che pagina dopo pagina diviene ineluttabile: la resa dei conti. Un confronto – magnificamente orchestrato dall’autrice – traboccante d’odio ma non più derogabile, rude ma attraente, che crea fratture nella coscienza, che divide inevitabilmente anche il pubblico. È giusto proseguire una guerra per non soccombere e risvegliarsi schiavi dell’invasore? Oppure lo spargimento di sangue va fermato a ogni costo? Come si può torturare una persona per obbedire a un ideale? Come ci si può accanire su un corpo inerme, ridotto a non più che pelle e anima?

“E a ogni colpo, ogni urlo, vedi letteralmente la lotta fra la carne che si ribella al dolore, che farebbe qualsiasi cosa per farlo cessare, e l’anima o quel che è che gli impedisce di arrendersi, quando in fondo basterebbe così poco… qualche parola soltanto, e tutto sarebbe finito.”

È semplice comprendere che i temi trattati da Francesca Veltri sono quanto mai attuali. Malapace ci pone dinanzi a dei bivi, non ci lascia lettori passivi, ma esamina il nostro pensiero, ci risveglia dal sogno delle ideologie e ci fa sentire colpevoli e innocenti, condannati e assolti per le scelte compiute o anche solo assecondate.

Dopo Edipo a Berlino, Veltri riapre le pieghe degli eventi che hanno segnato l’ultimo conflitto mondiale con un romanzo storico e politico che stuzzica i nervi scoperti di una guerra che ha lasciato capitoli irrisolti, strascichi mai affrontati e divenuti autentici tabù.

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L’animale nella fossa – citazione su Nazione indiana

L’animale nella fossa – citazione su Nazione indiana

Gaia Ginevra Giorgi: “di una specie che ho tradito”

Ospito qui alcuni estratti del libro L’animale nella fossa di Gaia Ginevra Giorgi, pubblicato da Miraggi Edizioni.

***

il mio mestiere ha a che fare con il silenzio

– con il dolore elementare raccolto nelle stanze:

ascoltare l’acqua che gonfia la terra, la luce

che filtra, misurare a lunghi sonni le radure

saper battere in ritirata. scavarmi

un buco nello sterno

ritrovare i fili che mi portano

le radici che mi tengono

***

con questa terra a lungo

sono stata in aperto dialogo:

mi sono abbeverata alla fonte

della sua luce rigorosa,

roccia bianca e schianto d’onda,

sentiero acceso,

esuberanza e poi rovina.

sono figlia di queste grazie

rispondo a leggi organiche,

qui ho imparato a stare. essere oggi

senza te e tuttavia respirare

***

coltivo il bianco – a perdere bianco

giardino della mia memoria

così simile al vuoto, ma più leggero

dell’alabastro più bianco

per combattere la levità

ho il peso delle tue ossa

dei tuoi denti e dei tuoi nervi tutti

– ripenso spesso al tuo piccolo femore

che un carro con grandi ruote aveva spezzato

quand’eri bambina

come a segnarti sulla pelle un destino

so riprodurre tutti gli attacchi di panico

che nelle piazze troppo affollate ti assalivano

– li affronto uno a uno

ma ogni mia battaglia sale a fissare il bianco

dei tuoi passi lievi

della tua risata selvatica

di ragazza

***

mi hanno generata in autunno inoltrato

all’interno di una specie che ho tradito

sono evasa, mi sono messa qui di lato

sospesa abbandonata su un fianco

sono venuta al mondo per piantare in asso

***

cosa diciamo quando diciamo latte

– che parola elementare, la sanno dire tutte

quando diciamo mulino diciamo casa

tra il costone e la conca che si svuota

verso il mare. tutto è vetro, pietra,

legno e carta. le prime ore del giorno

sono stabilite da luce a perdere

che scopre le nervature della terra,

poi i corpi si mischiano in azzurro

novembrino e ombre nuove:

eucalyptus, mimosas e ulivi

derive tra i rovi e le frane

xilù: per dire argentino cangiante

lucente per dare i nomi alle cose piccole

per trasecolare

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Il bambino intermittente – candidato al Premio Strega 2022 | segnalazione sul Corriere della Sera

Il bambino intermittente – candidato al Premio Strega 2022 | segnalazione sul Corriere della Sera

Quarta mandata di titoli in gara per il Premio Strega: dal lavoro degli Amici della domenica (membri del nucleo storico della giuria) ecco la nuova dozzina di libri che dovranno – con gli altri, e siamo a 48 – contendersi l’ingresso nell’Olimpo dei 12 finalisti e affrontare la selezione della cinquina, prima della finale del 7 luglio. La novità più evidente? Il candidato della fede.

Hotel Padreterno di Roberto Pazzi (La nave di Teseo), presentato da Massimo Onofri, è stato infatti già «recensito» da un Lettore d’eccezione: Papa Francesco, che ha inviato un elogio personale all’autore. Forse perché è un libro visionario che racconta di un miracolo moderno. Di un Dio che scende tra gli uomini (questa volta senza inviare il figlio), per «tornare a capire l’umanità». E lo fa incarnandosi in un uomo di 78 anni, cappotto e borsalino nero, che incontra un bambino nella metropolitana di Roma.

La madre è spaventata da quell’uomo che si compiace di parlare col figlio; ma lo sconosciuto finirà col guarire il bambino da un tumore al cervello, con la sola imposizione delle mani. «Quell’uomo vorrà provare tutto della vita degli uomini, perfino l’innamoramento», rivela l’autore.

C’è un piccolo protagonista anche in un altro libro entrato nella selezione: è Il bambino intermittente di Luca Ragagnin (Miraggi Edizioni), che ricostruisce la realtà attraverso l’incontenibile immaginazione di un bimbo straordinario, un piccolo impacciato ma iperattivo, problematico ma poetico, che «trova Dio in una cabina da spiaggia… poi lo perde in una mensa sotterranea».

Tra le segnalazioni emerge poi quella di «un affresco unico della società culturale italiana e americana, e di quella comunità di intellettuali italiani che si ritrova, per caso o destino, a New York»: è Una disperata vitalità di Giorgio van Straten (HarperCollins), romanziere e traduttore, già direttore dell’Istituto italiano di Cultura cli New York. Lo ha candidato Giovanna Botteri.

Degno di attenzione Il digiunatore di Enzo Fileno Carabba (Ponte alle Grazie): racconta la vita di un «artista del digiuno» realmente esistito, Giovanni Succi, nato nel 1850 a Cesenatico, che conquistò fama internazionale negli anni fra Otto e Novecento, arrivando a ispirare un racconto di Kafka. Narra invece la storia familiare intrecciata alle pagine più scure della storia d’Italia Stirpe e vergogna di Michela Marzano (Rizzoli), che parte dalla scoperta del passato fascista del nonno per svelare il fascismo «sotto la cenere della vergogna che riaffiora in famiglia, in comportamenti e relazioni».

Di livide memorie parla anche Mordi e fuggi. Il romanzo delle Br, di Alessandro Bertante (Baldini+Castoldi). Tra gli altri candidati ci sono poi: Sogno notturno a Roma 1871-2021 di Annarosa Mattei (La Lepre Edizioni); Il cuoco dell’imperatore di Raffaele Nigro (La nave di Teseo); Con tutto il mio cuore rimasto di Rosaria Palazzolo (Arkadia); La ladra di cervelli. Un Alzheimer in famiglia di Ciriaco Scoppetta (Armando Editore); Padri di Giorgia Tribuiani (Fazi); Il sole senza ombre di Alberto Garlini (Mondadori).

Luca Zanini

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