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Storie da una Milano di emarginati e freak, «Il cimitero delle macchine» di La Chiusa sul «manifesto»

Storie da una Milano di emarginati e freak, «Il cimitero delle macchine» di La Chiusa sul «manifesto»

di Stefano Zangrando

Quando cinque anni fa Sergio La Chiusa, palermitano d’origine e milanese d’adozione, fu finalista al Premio Calvino e premiato con la Menzione Speciale Treccani per il romanzo I Pellicani, poi pubblicato da Miraggi, ci fu chi ne salutò l’eterodossia rispetto alle forme narrative dominanti. Ispirato a maestri della letteratura umoristica come Gombrowicz e Beckett, quell’esordio in prosa di un ex-poeta attestava in effetti doti stilistiche non comuni, un senso pronunciato dell’assurdo e la capacità di osare senza manierismi il richiamo a certi capisaldi del modernismo letterario. Oggi sappiamo che quel libro fu scritto tra una fase e l’altra del lavoro quasi ventennale a un’opera più ampia, ora proposta con altrettanto coraggio dallo stesso editore torinese: Ilcimiterodellemacchine(Miraggi, pp. 400, euro 26) è un romanzo – mondo esaltante e benefico, perché dimostra come l’arte nata con Rabelais e Cervantes possa ancora esercitarsi in piena libertà.

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ILBELLO è che fa ridere e non spaventa: il protagonista si chiama Ulisse Orsini, la sua peregrinazione estiva nella «città delle opere» (o «della moda e degli eventi») ammicca tanto all’antenato joyciano quanto al progenitore acheo di entrambi, la rete intertestuale è fitta e sfacciata nel chiamare in causa altre pietre miliari della cultura occidentale, letterarie quanto figurative o spirituali, eppure il romanzo non pecca né di grandeur né di epigonismo. Alto e basso vi si amalgamano anzi con una tale divertita disinvoltura da non lasciare dubbi sulle intenzioni dell’autore: abbordare ogni stortura del nostro presente con un mezzo più duttile possibile, sia linguisticamente sia nella composizione, e farlo attraverso un protagonista sfigato per bene, ma privo di una dimensione tragica. Orsini è infatti un quarantenne senza più lavoro, trascurato e depresso di conseguenza, indebitato quanto basta, che vive da solo fra condòmini più o meno molesti e da uno di questi si lascia avviare alla prima tappa del suo smarrimento: nel palazzo fatiscente dove ha sede l’ambulatorio del dottor Klammermann, kafkiano per nome e imperscrutabilità.

È solo l’inizio, ma già qui il narratore s’immischia parlando per sé e il proprio personaggio alla prima persona plurale, con il disincanto di chi sa quando rompere la finzione perché sa anche come ripristinarla, per poi di stazione in stazione concedersi divagazioni, accumuli, proliferazioni a latere che illuminano direttamente aspetti del reale. Il quale per il resto è qui trasfigurato in un cosmo metropolitano ad alto tasso immaginifico, non importa se si tratta di un artista mancato fattosi prete o di una venere dell’immondizia, di un bordello o di un reparto geriatrico: sempre le vicende di Orsini attraversano luoghi e s’imbattono in esseri di sorprendente vividezza e icasticità, e la sorte bislacca e inconcludente che sembra perseguitarlo nella prima parte è solo la premessa della sua avventura centrale – poiché a un eroe dei nostri tempi può toccare, nel migliore dei casi, di finire in una discarica.

È QUESTO IL CIMITERO delle macchine: lo scenario alla periferia di una Milano mai nominata ma ben riconoscibile dove convergono gli estromessi di un sistema votato alla catastrofe. Ci sono i giovani incendiari, che dibattono puerilmente da posizioni ideologiche complementari ma inconciliabili, le antispeciste che indossano la mascherina per non ingerire i moscerini, gli imbrattamuri infoiati, il palestinese in crisi post-traumatica e la

naturista gravida. Ma soprattutto c’è Lazzaro Lanza, guru del «Movimento per la sopravvivenza dell’umanità» nonché imbianchino con l’Ape, capace di affondi profetici sull’oggi come di dialoghi notturni con Lao Tzu e altri «intellettuali insonni», e parente figurale sì di Gesù, giacché toccherà anche a lui una via crucis sui generis con annessa ascensione, ma anche del Franchino di Fantozzi, con pari dignità.

Non è tuttavia tra i rifiuti e gli scarti del capitale che finirà la deriva di Ulisse Orsini, né a Lanza basterà teorizzare ai margini, intenzionato com’è a conquistare il centro urbano con un nutrito seguito di diseredati inneggianti alla rivoluzione. Il trionfo pseudo-apocalittico in cui tutto culmina, prima del congedo di un Orsini sfrattato e spogliato, si sdoppia: ora in due varianti opposte e soltanto sognate di un diluvio che sommerge la città, ora in un ingresso cristico nella medesima che, quando non finisce a manganellate, è la farsa di un anzianotto accolto con ogni onore dalle autorità. Smarrito pure lui, non fosse per un’irresistibile ostia al cioccolato.

QUI l’articolo originale: https://ilmanifesto.it/archivio?autore=Stefano%20Zangrando

Ulisse Orsini e il peso insostenibile della libertà – Angelo Di Liberto su Modus Legendi

Ulisse Orsini e il peso insostenibile della libertà – Angelo Di Liberto su Modus Legendi

di Angelo Di Liberto

Quando nel 1926, in una nota a “Il Castello”, Max Brod divulga la volontà di Franz Kafka di fare terminare il romanzo con la morte dell’agrimensore K. proprio quando dal castello arriva la concessione all’uomo di poterci vivere e lavorare, Kafka apre una questione mai risolta sul rapporto tra essere umano e libertà.

Già nel quinto paragrafo del quinto libro di Fëdor Dostoevskij, “I fratelli Karamazov”, dal titolo “Il Grande Inquisitore”, l’autore russo mette l’Inquisitore nella condizione accusatoria contro il Cristo ritornato, che aveva tentato di portare la libertà a un popolo non in grado di riconoscerla e di usufruirne. In questo al pari di Vasilij Vasil’evič Rozanov, che nel suo “La leggenda del grande inquisitore” analizza quel rapporto in seno al potere ecclesiastico, vero responsabile della deriva nichilistica dell’essere umano, allontanato da se stesso e da Dio.

Perché sei venuto a infastidirci?, dice l’Inquisitore a Cristo, disvelando quell’inquietante verità del bisogno di un’autorità che governi e induca l’illusione di felicità negli uomini, che è una finta libertà, che acquieta e abiura l’incertezza.

La domanda viene ripetuta ancora, è il cardine di un consolidamento di potere, perché è nel binomio potere-libertà che l’Uomo fa i conti con la persecuzione, la solitudine e la colpa dinnanzi all’autorità.

Il terribile e ingegnoso spirito, lo spirito dell’autodistruzione e del non essere, – continua il vecchio, – il grande spirito parlò con Te nel deserto, e ci è stato tramandato nelle scritture che egli Ti avrebbe «tentato».


E prosegue, “I fratelli Karamazov”, col dubbio su chi fosse nel giusto, se Cristo o colui che l’interrogò.

In questa enunciazione vi è la forte opposizione dell’essere e del non essere, che è propria del gioco sottile del potere, che tenta di annientare qualsiasi volontà. L’Uomo acconsente perché il peso della libertà è insopportabile.
L’irresolutezza, secondo l’Inquisitore, condurrà l’essere umano a innalzare una nuova Torre di Babele al posto del Tempio di Dio, in mezzo alla pena, agli affamati, ai torturati, nel ciarpame e nelle discariche del mondo. E in questo inganno consisterà la sofferenza. Nel non trovare un posto nel Castello, nel non poter incontrare Klamm, il sommo funzionario, sfuggente, iperboreo, a cui K. vuole rivolgersi per risolvere la sua situazione. In ceco “klam” significa inganno, illusione, e tale sarà il funzionario, le cui competenze non verranno mai esperite nel romanzo.

Ulisse Orsini invece non ha nessuno a cui rivolgersi. Nella sua innocua nullità non ha nemmeno un Mefistofele moderno che gli insidi l’anima. Ulisse Orsini è un ultimo, un esodato, un rifiuto, una crosta purulenta, un ibrido umanoide senza identità. Ce l’aveva, Ulisse Orsini, ma l’ha persa. È stato costretto, Ulisse Orsini, ad andare via da casa, dal lavoro, dalla società. Ulisse Orsini non esiste più. E al suo creatore, Sergio La Chiusa, non resta altro che regalargli la parte in un romanzo per tenerlo in vita, da cui entra ed esce, con un “tu”, con un “noi”, a seconda di chi lo segue, se i lettori da soli o insieme a lui, il protagonista, lo scrittore e chissà chi.

Calma però, calma: Ulisse non sa d’essere in un romanzo: è un personaggio serio, a suo modo, e invece di perdere tempo mettendo in discussione i ruoli cerca una via d’uscita.

Lo inducono ad andare dal dottor Klammerman, il deus ex machina, in ospedale, che il suo sia un caso clinico?, quest’Ulisse che sragiona, che non sa che farsene della sua libertà, ora che la società non lo vede più.

Ma è l’inizio di un’odissea tra gli antispecisti, tra statue e manichini, in un condominio frequentato da fantasmi, tra incendiari ed enigmisti, con la sua valigia piena di vestiti o di niente, come un moderno “Bad Boy Bubby”, alienato, visionario pronto a tutto, che non è capace di ribellarsi, o per meglio dire, che in una smaniosa, affettata e quanto mai disperata ribellione non trova la felicità.
E allora vaga tra discariche e relitti umani scambiati per guru, mentre Sergio La Chiusa svuota le frasi del superfluo, quei pensieri che a Ulisse Orsini mancano, vanno e vengono si fanno ipotattiche paralisi dinnanzi all’abisso.

Come aveva fatto nei precedenti testi, La Chiusa, “Che ci facevo sulle scale di un caseggiato in rovina? La mia situazione mi sembrava così irreale che sospettai di essermi inventato tutto (“I Pellicani”, pubblicato da Miraggi Edizioni, finalista al Premio Italo Calvino – Menzione Treccani; al Premio Bergamo, al Premio Giuseppe Berto e al Premio Megamark) e “Tali interrogativi mi spaventano e m’allontanano pericolosamente dalla realtà” (“Madre nel cassetto”, pubblicato da Industria & Letteratura), dicevo, come aveva fatto nei precedenti testi, lo scrittore induce il suo protagonista in una realtà deliroide fatta di frasi stroboscopiche sapientemente dosate, che allargano la visione del lettore e la costringono a vedere tutto in primo piano, non esiste più la tridimensionalità, la visione di fondo, ogni cosa è percepibile accanto all’altra, senza soluzioni di continuità ma con forme nitide e riconoscibili nonostante non siano scisse dalle altre.

A La Chiusa non resta che l’ironia, il tragico umorismo come primordiale autocoscienza del personaggio, in questi tempi in-drammatici e non più tragici. E così Cristo torna tra noi, in una versione burlesque e anacronistica alla James Ensor, autore del quadro che lo stesso La Chiusa cita nel romanzo, “L’entrata di Cristo a Bruxelles”, un’opera pittorica del 1889, in cui Gesù è attorniato dalla trasfigurazione epigonale di categorie ridicole. Buffoni, medici, paladini, maschere da ruolo sociale. Quest’opera è da subito ribattezzata “L’ingresso di Cristo nella città della moda e degli eventi nel 2004”, alludendo a Milano, nella sua impostura più spietata, città finta e di superficie.

«Cari concittadini, come potete vedere vi abbiamo riportato Gesù in persona, la nostra giunta comunale ha lavorato a lungo per arrivare a questo risultato che ci ha permesso di vincere un’agguerrita concorrenza internazionale. Tutte le capitali europee se lo contendevano: Parigi, Berlino, perfino Londra, che avrebbe voluto metterlo in coppia con la regina ed esibirli insieme a Buckingham Palace, e più tardi al museo delle cere, e siamo davvero onorati che nonostante le molte proposte alla fine Gesù abbia scelto la capitale morale del Belpaese per ripresentarsi nell’arena pubblica, e ciò è motivo d’orgoglio per la nostra città delle opere, sempre all’avanguardia, sempre un passo avanti… Ma ora basta! Ve l’abbiamo fatto vedere!».

Il Cristo pare vacillare, non è più di questi tempi, il Grande Inquisitore l’ha spodestato, tra palestrati, assessori, imprenditori, tutti a chiedere sciocchezze da talk show, incapaci di focalizzare le questioni essenziali.
Sindaco e Cristo, come ne “I fratelli Karamazov”, solo che ora è una farsa, la farsa dei pomeriggi in tv, degli esperti che vedono talenti dappertutto, anche se il talento è fuggitivo ed è meglio che quello vero si disperda, liquefatto dalla prestazione posticcia di un qualsiasi saltimbanco da circo, fino a distorcere la parabola dei talenti.

Perché oggi si preferisce il fenomeno e tra tutti il morto singolo, fenomeno dei fenomeni, quello empatico, che scippa una lacrima al tizio seduto in poltrona a casa sua.

E chi vuole la verità?

Sono io il vero Ulisse, il signore è un impostore. Un personaggio! Posticcio e inattendibile pure come personaggio!

E avanti il prossimo! Senza peso, senza libertà.

QUI l’articolo originale

Le rovine di La Chiusa. Recensione a «Il cimitero delle macchine» su Nazione Indiana

Le rovine di La Chiusa. Recensione a «Il cimitero delle macchine» su Nazione Indiana

di Giorgio Mascitelli

Il cimitero delle macchine (Torino, Miraggi, 2024, euro 26) è il secondo romanzo di Sergio La Chiusa, anche se, come precisa l’autore nella nota alla fine del libro, la sua ideazione precede I Pellicani risalendo al biennio 2003-05 e avendo poi vissuto una serie di rielaborazioni e riscritture anche in tempi più recenti. In questo romanzo dominano le rovine, le discariche abusive, le costruzioni fatiscenti e per l’appunto i cimiteri di macchine; ora al lettore di La Chiusa un paesaggio del genere non giungerà affatto sorprendente, ma se ne I Pellicani ci troviamo in una generica periferia urbana, in questo romanzo l’azione si svolge a Milano, che nell’immaginario mediatico nazionale è la città patinata e nuova di zecca per eccellenza. Ovviamente, come sa ogni milanese salvo quelli onorari, anche a Milano ci sono posti del genere, del resto l’immaginario futurista della città nasce da quelle tre piazze e quattro vie che oggi ricorrono in tutti gli spot pubblicitari, ma il tema della rappresentazione di La Chiusa non è di ordine geografico né sociale, perlomeno nel senso ristretto e immediato che tale aggettivo prende nella narrativa realistica di denuncia. In La Chiusa la rovina è la concretizzazione spaziale della natura della civiltà contemporanea e della dimensione psichica dei suoi abitanti. Se “La visita delle rovine ci fa fugacemente intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita. E’ un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri e di ricostruzioni, da questo nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine. Un tempo perduto che l’arte riesce talvolta a ritrovare” (Marc Augé), le rovine di La Chiusa in realtà non hanno alcuna funzione di recupero e di rievocazione e non sono nemmeno macerie che non hanno fatto in tempo a diventare rovine, al contrario esse sono perfettamente funzionanti, come dimostra il fatto che sono fittamente popolate. Si direbbe quasi che sono state progettate per essere fatiscenti come i carceri di Piranesi, infatti esse sono regolarmente previste dal funzionamento standard del potere e questo ne rivela la natura allegorica della situazione storica contemporanea, in cui sia le città sia i rapporti tra gli uomini sono malfunzionanti e tendenti al degrado perché sono state progettati e promossi per una finalità diversa da quella di un’armoniosa vita collettiva.

In questo spazio devastato si muove Ulisse Orsini. Egli è un disoccupato, disadattato che appartiene alla stirpe degli Ulissidi, ma più che al capostipite deve qualcosa al fondatore del ramo moderno della famiglia, quel Leopold Bloom di Dublino, con il quale se non altro condivide una qualche propensione a scorgere, nella veglia e nel sonno, epifanie della bellezza in questa realtà desolata. Ulisse incarna il tipo del fuggiasco, è un fuggiasco assoluto per così dire: dapprima resosi conto di essere ormai un emarginato fugge dalle ambigue istituzioni che il mondo predispone per coloro che non ce la fanno oppure è costretto a fuggire da casa sua e da altri luoghi;  quando arriva nel cimitero delle macchine dove trova altri emarginati come lui, non molla mai la valigia e si pensa provvisorio, anche perché scopre a sue spese la verità del vecchio detto di Trotzky che è più facile morire in nome dei proletari, che qui potremmo parafrasare con reietti o appunto emarginati, che viverci assieme. In Ulisse è talmente connaturata la tendenza alla fuga che perfino quando partecipa a una dimostrazione per riformare il mondo, superando per una volta le proprie inclinazioni individualiste, viene messo in fuga dalle forze dell’ordine costituito. E questa tendenza spiega anche il finale, che per comprensibili motivi non posso anticipare qui.

Al protagonista capita di assistere nella discarica ai disperati tentativi di un bassotto di avere un coito con una cagna maremmana, destinato a fallire comicamente nel suo intento per le ostensibili differenze di taglia. In qualche modo in questa immagine vi è condensato lo scarto tra aspirazioni a una vita degna di essere vissuta e opportunità di viverla per davvero. Eppure questa immagine solleva lo spirito di Ulisse perché la vitalità del suo scopo sembra assegnare un senso a un mondo in cui anche il senso appartiene a pieno titolo alle rovine. Analogamente l’entrata di Cristo a Milano non è destinata a riprendere il racconto evangelico, come invece l’entrata a Bruxelles nel dipinto di Ensor che La Chiusa cita esplicitamente nel testo. Qui Cristo è accolto dalle autorità cittadine, trattato come celebrità per il quarto d’ora di sua spettanza e poi rapidamente dimenticato senza bisogno di alcun tradimento o voltafaccia della folla. Il racconto evangelico perde di senso nella società dello spettacolo.

Il romanzo è narrato in terza persona con cambi di focalizzazione e addirittura in alcuni passi con un cambio verso la prima persona plurale, quasi che il narratore onnisciente ci suggerisse la sua identificazione con il protagonista. Inoltre sono presenti inserti metanarrativi in cui il narratore rompe deliberatamente la finzione del racconto apostrofando il lettore. Tutte queste sono procedure, come nei classici del modernismo, volte a creare un rapporto di straniamento. Il problema non è qui fare una storia ben narrata che spieghi un po’ di tutto e un po’ di niente, ma di offrire squarci e agnizioni sul presente, quasi dei flash che illuminano frammenti di paesaggio nella notte e questo spiegherebbe perché in questo autore è presente un forte immaginario pittorico non solo in termini di citazione colta, ma di dialogo con alcuni grandi della nostra tradizione (il già menzionato Ensor, Botticelli, il prediletto da La Chiusa Brughel ecc.). Verrebbe da dire che nel romanzo ciò che conta non è il soggetto, ma lo sguardo doloroso che Ulisse grazie al chiaroscuro della scrittura di La Chiusa volge sulle persone e sugli oggetti senza mai distogliere gli occhi. Tutto questo iscrive Il cimitero delle macchine nel campo della letteratura inattuale, eppure quell’inattualità è la verità della letteratura ossia la capacità di gettare uno sguardo sul presente libero da quelle ipoteche culturali e psicologiche che la società getta su se stessa nella forma dell’ideologia se non della menzogna. E questo libro è oltremodo vero.

QUI l’articolo originale

Segnalazione di «Duramater» sul Blog del «Fatto Quotidiano»

Segnalazione di «Duramater» sul Blog del «Fatto Quotidiano»

di Maurizio Di Fazio

Ada Sirente segnalata col suo Duramater tra le «quattro autrici per l’estate: dal ‘taccuino’ alle voci degli expat, ecco i libri da portare con sé»:

Vanta natali abruzzesi anche Ada Sirente (il nome è d’arte), autrice di un libro straordinario come Dura mater (Miraggi Edizioni), sperimentale e intriso di un post-stream of consciousness, palpitante di preziosa poesia. Mariella è nel letto numero 5 della terapia intensiva. Una cicatrice demarca il confine tra un limbo di visioni e la realtà che le sfugge. È in coma farmacologico, operata al cervello. Dubita di sé, non riesce a ricostruire gli eventi. Una cicatrice separa anche i suoi due luoghi: Roma, un fondale di carta, e l’Abruzzo, la sua terra antropologica. Miscelando un affilato argot medico e corruschi tratti lirici, alla fine la strada da percorrere è una sola: quella del capetiempe dei contadini abruzzesi. Il ripartire sempre daccapo insieme al volgere delle stagioni, sublimando il dolore delle sciagure: quelle individuali, quelle collettive di terremoti e frane.

QUI l’articolo originale: https://tinyurl.com/465axkd2

Segnalazione, «Il quarto piano» di Riccardo De Gennaro su «Repubblica»

Segnalazione, «Il quarto piano» di Riccardo De Gennaro su «Repubblica»

a cura della Redazione Cultura

“Il quarto piano”. Un uomo in fuga nei libri nel romanzo di Riccardo De Gennaro

Giorgio Lanfranchi è un cinquantenne del nostro tempo: non si è mai sposato, non ha una fidanzata, non lavora e vive con gli anziani genitori, una madre succube e un padre estraneo e burbero. La sua realtà è rappresentata dai libri, che ama e che acquista compulsivamente.

È lui il protagonista dell’ultimo romanzo di Riccardo De GennaroIl quarto piano, appena pubblicato da Miraggi Edizioni nella collana Scafiblù.

Una sera, in attesa della misera cena in famiglia, Giorgio esce rabbiosamente di casa, diretto in libreria, un posto che frequenta sin da ragazzo e che un paio di volte a settimana chiude molto tardi, un rifugio e una prigione. Qui il “?nostro eroe?”, così lo definisce il narratore, concede libero sfogo a manie, idiosincrasie, frustrazioni e accessi di rabbia apparentemente ingiustificata. Sperimenta però anche rari attimi di autentica condivisione umana e di pensiero con Maria, unica commessa con cui Giorgio senta di avere qualcosa in comune.

Quella sera, alla cassa, Giorgio si troverà però di fronte Laura, la compagna di classe di cui era segretamente innamorato. Sono passati ormai più di trent’anni dai tempi del liceo, ma l’incontro inatteso genererà in Giorgio uno stato di totale confusione in cui realtà e desideri confluiscono in un magma di pensieri e allucinazioni da cui, forse, non saprà più uscire. Una realtà inabitabile, una fuga nei libri e nell’immaginazione e un un finale fantascientifico.

Riccardo De Gennaro è nato a Torino. Per oltre vent’anni ha lavorato come giornalista dapprima al Sole-24 Ore, poi a Repubblica. Dopo il noir I giorni della lumaca(Casagrande, 2002), ha pubblicato il romanzo La Comune 1871 (Transeuropa, 2010), il libro-reportage Mujeres. Storie di donne argentine (Manifestolibri, 2006) e la prima biografia di Lucio Mastronardi, La rivolta impossibile (Ediesse, 2012).

Nel 2005-2006 è stato direttore di Maltese Narrazioni. Ha fondato e dirige il trimestrale il Reportage, giunto al suo 24° anno. Collabora come critico ad Alias, il supplemento culturale del Manifesto. Con Miraggi edizioni ha pubblicato il romanzo La realtà pura(2018).

QUI l’articolo originale: https://tinyurl.com/2z5xnnaz

Recensione a Piergianni Curti su Culturalismi.com

Recensione a Piergianni Curti su Culturalismi.com

di Francesco Bordi

Smarrirsi infinite volte in un albergo, ma per quale motivo? “Gli amanti perduti nel transfinito” sembrano suggerircene più di uno

Perdersi…

Che pensate di questo verbo, cari lettori? Ha un’accezione positiva o negativa?

«Dipende», direte voi…

«Mi sono perso di notte in una zona poco abitata. Mi sono perso nel nulla».

Oppure… «Lei si era persa nei suoi occhi». O ancora «Entrambi si sono persi nel centro di Parigi al tramonto. Che giornata fantastica!».

Evidentemente il concetto di perdersi ha una valenza che risente del “dove” e del “quando”. Ma cosa succederebbe se tale smarrimento avvenisse infinite volte in un luogo infinito?

Cosa potrebbe succedere a “Gli amanti perduti nel transfinito”?

Succede che la Miraggi Edizioni ha avuto il coraggio di credere in un testo che davvero risulta appartenere alla nicchia della nicchia. Questo fa del titolo di Piergianni Curti un libro dignitosamente emblematico dell’editoria indipendente.

In poco più di centoventi pagine l’autore dà vita ad una storia che non ha un inizio ed una fine, nel senso canonico dell’espressione, ma potremmo dire invece che si tratta di una finestra sull’infinito.

La trama, di base, non esiste: una coppia, Maria e Giuseppe, si reca in un albergo dove si rivolge al concierge per prendere una camera. Fine. Non sembra molto interessante, vero?

La chiave del libro, invece, è proprio nell’entità di questi 4 elementi. Chi è Maria e chi è Giuseppe? Sono quei famosi Maria e Giuseppe della Storia? Quel concierge è un portiere d’albergo qualunque? Ma soprattutto questo Hotel Hilbert, che prende il nome da un matematico tedesco di metà ottocento inizio novecento, che tipo di struttura è? Una sorta di residence con infinite stanze per infiniti clienti può davvero esistere nel mondo? Magari non esiste nel mondo finito, ma nell’infinito funziona egregiamente.

Come potete vedere tante le domande, perché tanti sono gli spunti di riflessione che lo scrittore, fisico e matematico, ha voluto sottoporre alla nostra attenzione.

L’idea di base è che l’hotel sia ubicato nel transfinito: un concetto introdotto dal matematico Cantor per esprimere la molteplicità degli insiemi infiniti. Di fatto lo studioso ha concepito e spiegato DIVERSI GRADI DI INFINITO nelle sue teorie.

Una volta chiarito che il luogo in cui si incontrano questi tre personaggi è collocato in un posto che non ha un limite, tutta la “vicenda”, estremamente semplice nella sua essenza, avrà conseguentemente delle sfaccettature “infinite”. Quella Maria, una influencer della castità, e quel Giuseppe, attivo nel settore della lavorazione di materiali fra i quali il legno, hanno problemi di coppia che risentono anche dell’ingombrante presenza del padre di lei. Entrambi finiscono per esternare le proprie difficoltà e il Signor F. dell’accoglienza tenterà di sfruttare la situazione per sedurre l’unica donna protagonista. Anche se… Maria è davvero l’unica protagonista de Gli amanti perduti nel transfinito? La riposta è “no”, perché esistendo infiniti insiemi, infiniti numeri ed infinite situazioni, ci saranno altre Marie che nello stesso momento e nello stesso albergo staranno subendo le stesse avances da altri signor F. di fronte ad altrettanti Giuseppe contrariati e scorbutici.

Le riflessioni, le ipotesi e le teorie ed i drammi che si consumano all’interno di queste declinazioni di persone costituiscono, di fatto, il libro di Piergianni Curti.

Il testo è un continuo susseguirsi di stimoli che vanno al di là della trama, dell’autore e dello stesso lettore. Per quanto possa sembrare assurdo, paradossale ed inattuabile, il concetto di transfinito non è poi così lontano nella vita di noi tutti. 

Intendiamoci in molti si sono espressi sulla concezione dell’infinito con annessi e connessi. La matematica è il campo più adatto per affrontare questo tipo di elaborazioni. Niente è più concreto e, allo stesso tempo, più astratto dei numeri. L’autore cita Cantor, Hilbert, Gödel, ma nomina anche Sant’Agostino, Nietzsche e Borges.

Il suo testo narra ancora della crisi di coppia che si confronta con il sesso, della crisi dei fondamenti della matematica, ma racconta anche che nell’infinito esiste una ripetitività che di fatto non potrà mai mettere la parola fine a qualcosa. Infiniti noi si troveranno a svolgere le nostre azioni infinite volte, magari cambiando qualcosa oppure senza cambiare nulla.

Gli amanti nel transfinito non è certamente il primo scritto che affronta tali tematiche, ma è certamente uno dei pochi che imposta tutta questa complessa impalcatura composita a livello di intrattenimento.

Nel titolo della collana “scafiblù”, della Miraggi, c’è un occhio critico che attrae, perché da un lato è funzionale alla narrazione, ma dall’altro lato è la narrazione stessa. Ritroviamo così religionepsicologiadelusione e speranzaingannigelosiapassionefilosofiadrammi irrisolti e addirittura un colpo di scena finale, collegato all’ingresso di un (altro?) personaggio storico.

Persino imprese colossali come la Marvel o la Shūeisha assieme alla Toei Animation (quelle di Dragonball per intenderci) si sono servite degli sviluppi di concezioni simili alle teorie utilizzate da Piergianni Curti.

Il concetto del multiverso, tanto sfruttato dai comics e dai cinecomics, o la visone delle altre dimensioni, nei manga e negli anime giapponesi più recenti, è così diverso dal punto di partenza dell’autore?

Condensare tante tematiche in poche pagine non era facile. Orchestrare ogni aspetto in maniera tale che il testo potesse essere fruibile per tutti, era ancora più difficile. Credere in un titolo del genere, in conclusione, è davvero raro.

Complimenti all’autore, alla Miraggi ed a tutte le Miraggi Edizioni che amano perdersi nel transfinito e non solo.

QUI l’articolo originale: https://www.culturalismi.com/smarrirsi-infinite-volte-in-un-albergo-ma-per-quale-motivo-gli-amanti-perduti-nel-transfinito/

Intervista a Francesca Veltri su BeCult

Intervista a Francesca Veltri su BeCult

di Giulia De Sensi e Esteban De Gori

Francesca Veltri (1978) è una scrittrice italiana e calabrese fondamentale per comprendere la complessità delle emozioni e delle idee che muovono uomini e donne in situazioni estreme.  Professoressa associata presso l’Università della Calabria e Dottore in Scienze Politiche. Gli interessa osservare quell’umanità che si rivela in queste situazioni. Fammi vedere la umanitá, scrive la Veltri. Ci mostra crudamente come quella “carne” spirituale si confronta, si tormenta e si contorce continuamente di fronte a varie decisioni, principalmente politiche ed etiche. Il suo libro Malapace (2022) è stata candidato al Premio Strega, grande riconoscimento della letteratura italiana. È un libro crudo e commovente con un realismo che ci trattiene

Non amando scrivere del presente perché – indica – non riesce a occuparsi della propria cerania, nel 1944 si ritrova coinvolto nella fine della Seconda Guerra Mondiale. Approfondisce i dilemmi umani di Françoise, detenuta in un campo di prigionia istituito dagli Alleati. Questo prigioniero, che era stato membro del Partito socialista, che si appellava al pacificismo, divenne un sostenitore del governo filonazista di Vichy. Come uomini e donne che perseguono un’idea “nobile” possono finire per sostenere regimi totalitari. In quello stesso campo di prigionia arriva un amico Antoine, sostenitore del fascismo, torturatore. E in quell’incontro costruisce tra loro un profondo dilemma, dolore e mortificazione

Questo libro fa parte di una lunga carriera letteraria. Nel 2015 ha vinto la Giara d’Argento RAI con il romanzo Edipo a Berlino (2016/2019). Due anni dopo scrive con Paolo Ceri Il Movimento nella Rete. Storia e struttura del Movimento 5 stelle. Nel 2023, oltre ad essere candidato al Premio Strega, vince il Premio Muricello. Quest’anno si è qualificato secondo per il Premio Nabokov ed è stato finalista per il Premio Carver.

Quando finiamo questa intervista ci rendiamo conto che il fratello di Francesca vive a Quito e che avevamo intervistato anche la Segretaria della Cultura di quella città, Valeria Coronel. La vita è misteriosa. Francesca e Valeria parlano, senza conoscersi, degli stessi argomenti e drammi

“Malapace”, proposto al Premio Strega nel 2023, è un romanzo in cui i conflitti della Storia si intrecciano inestricabilmente ai conflitti interiori dei personaggi, con effetti laceranti, inflitti dalla lama delle loro convinzioni presenti e passate. Dopo la profonda ricerca che ti ha portato a dare vita a queste due opere, qual è, nella tua personale visione, la sostanza e il limite del pensiero ideologico? E quanto può incidere nell’esistenza di un essere umano

Provo a rispondere pensando al testo La prima radice di Simone Weil, dove l’autrice scrive che l’essere umano ha bisogno di appartenenza. Di appartenere a un paese, a una nazione, un partito, una chiesa, un universo di idee e di credenze. Se l’uomo resta solo, privo di un ambiente sociale e culturale che ne permetta lo sviluppo interiore, finirà per atrofizzarsi e cadere nel più sfrenato individualismo o nel ripiegamento in un sé privo di senso. Tuttavia, questa necessità di radici porta con sé il rischio opposto e complementare di veder annegare la propria coscienza individuale nell’identità collettiva; di aderire a un ‘noi’ opposto fisiologicamente a un ‘loro’. Di accettare in nome dell’appartenenza cose che la propria morale avrebbe altrimenti rifiutato. Ciò che spesso si sintetizza attraverso la celebre frase, messa in bocca a più autori: ‘right or wrong, my country (ma anche: my party, my church, ecc). Ho scelto di raccontare questo dilemma nei miei romanzi, perché la disperata ricerca di un equilibrio tra i due estremi, per quanto precario e incerto, è qualcosa che sento profondamente.

I tuoi personaggi – come il tuo stile di scrittura – sono vividi al punto da avere il sapore della realtà, nonostante vivano una guerra nata e conclusa in un secolo diverso dal nostro. Pensi che le dinamiche umane che si osservano in situazioni di violenza, conflitto, tortura siano rimaste identiche? Per ricrearle trai ispirazione dalla cronaca del presente e dall’osservazione empirica, o ti affidi principalmente alla ricerca storiografica

Ho scritto Malapace nel 2019, e – come dissi in occasione di una recente presentazione – se non l’avessi scritto allora, oggi forse non sarei riuscita a farlo. Perché il presente ha riportato all’improvviso alla ribalta i temi che lo attraversano, li ha resi una volta ancora scottanti, incandescenti. E, per come sono fatta, quando sono troppo immersa nel presente, mi è impossibile avere il distacco necessario a scriverne, a far parlarne i protagonisti come se fossero entità diverse da me. Però, allo stesso tempo, mi rendo conto che rileggere oggi quelle pagine mi aiuta a comprendere meglio ciò che sta accadendo attualmente nel mondo. Perché i conflitti, la violenza, le torture possono cambiare contesto, ma l’umanità resta la stessa, dall’epoca in cui Omero ha cantato nell’Iliade la guerra di Troia. Una volta ancora cito Simone Weil e il suo L’Iliade o il poema della forza, in cui l’autrice si richiama ai versi omerici per capire le atrocità del conflitto mondiale che sta vivendo: individui e collettività incarnano una spinta distruttiva che è un elemento integrante della natura umana. Come affrontarla, come tentare di contrapporsi ad essa, è qualcosa che ci riguarda oggi e che riguarderà anche, credo, tutte le generazioni che seguiranno.

Il tuo “Malapace” è occasione di spunti molteplici, quasi un pungolo per la coscienza del lettore, che si ritrova di fronte interrogativi eterni che toccano temi come la giustizia, l’umanità, il peso reale delle idee. Ѐ questa, per te, la funzione che la Letteratura dovrebbe avere nella situazione politica e sociale che l’Europa sta attraversando? C’è forse anche l’intento di prevenire il ripresentarsi della Storia

Elsa Morante ha scritto all’inizio degli anni Settanta La storia. Uno scandalo che dura da 10.000 anni. Mi ricollego a queste parole. Dura ancora oggi e durerà finché gli esseri umani saranno al mondo. In sincerità, non so dire se e quale possa essere un’attuale funzione politica e sociale della letteratura; personalmente, credo solo che sia importante sollevare dubbi, suscitare domande, indebolire sicurezze: poi tocca a ciascuno di noi fare i conti con se stesso per scegliere quale risposte gli si addicano di più. Rischiando di sbagliare, anche. La certezza di essere nel giusto è, per me, forse il pericolo più grande in cui l’essere umano può incorrere, eppure è così difficile farne a meno, per chiunque di noi. Anche e soprattutto per chi non se ne rende conto, come – almeno all’inizio – entrambi i protagonisti dei miei due romanzi.

Nella tua formazione ti sei trovata a contatto anche con la letteratura argentina o latinoamericana? Pensi che ci sia un rapporto forte o un dialogo tra letteratura italiana e latinoamericana?

Da adolescente ho letto con piacere opere di autori latinoamericani molto noti in Italia, come le poesie di Jorge Luis Borges, o i libri di Gabriel Garcia Marquez, Jorge Amado e Isabel Allende.  Qualche tempo fa mi è capitato di parlare di Umberto Eco con delle studentesse dell’Università di Rosario, in scambio culturale presso l’ateneo dove insegno, che avevano amato Il nome della rosa(lo conoscevano meglio di alcune loro coetanee italiane). Ho detto loro che, se pensavo alla letteratura argentina, mi venivano in mente delle poesie, più che dei romanzi. In particolare è stata una bellissima scoperta venire in contatto con i Frammenti fantastici di Miguel Angel Bustos. Sul rapporto tra la letteratura italiana e quella latino-americana, immagino che la grande diffusione in Italia delle opere di Marquez, di Amado e della Allende abbia lasciato un segno sulla nostra letteratura attuale, ma non sono abbastanza competente per delinearlo più precisamente.

Credi esista propriamente una letteratura della Calabria, o del Sud italiano? Esistono caratteristiche che possano spingere a parlare di una letteratura legata a un territorio?

Sicuramente esiste una letteratura che in Calabria trova radici, ispirazione e contenuti, e che negli anni ha dato vita a opere preziose. Io, pur avendo vissuto in Calabria tutta la mia infanzia e adolescenza e gran parte della mia vita adulta, non ho ambientato in questo territorio i miei romanzi, per una questione simile a quella temporale cui accennavo prima: esattamente come avrei difficoltà a parlare di argomenti nel periodo in cui essi mi coinvolgono in prima persona, sento la difficoltà di parlare di cose che mi sono troppo vicine – come se non riuscissi a metterle a fuoco in modo adeguato – e ammiro chi invece ci riesce.

Ci sono tantissimi calabresi nel mondo. In Argentina si trovano il numero maggiore di calabresi emigrati. Si può pensare ad una letteratura che parli con questi emigrati e con i loro figli?

Questa domanda mi ha ricordato un libro che ho avuto la fortuna di leggere e di presentare qualche mese fa in una libreria di Cosenza: Addio al mare dell’esilio, di Lucia Donadio. L’autrice, figlia di un calabrese immigrato in Colombia, ripercorre in pagine struggenti il legame tra le due patrie della sua famiglia, narrando il rapporto complesso e anche doloroso tra la terra di origine e quella di arrivo, tra speranza e nostalgia, che si ripercuote anche sulle generazioni successive. Si tratta di un tema che sento molto vicino, perché mio fratello ormai da anni vive a Quito, in Ecuador, dove lui e sua moglie insegnano all’Università e dove è nata e cresciuta mia nipote che ora ha otto anni.  

QUI l’articolo originale, dove potrete leggere anche la versione in Spagnolo: https://revistabecult.com.ar/francesca-veltri-es-importante-plantear-dudas-suscitar-interrogantes/

Video-recensione:  L’ infinito di Cantor nel libro «Gli amanti perduti nel transfinito» dello scrittore Piergianni Curti

Video-recensione: L’ infinito di Cantor nel libro «Gli amanti perduti nel transfinito» dello scrittore Piergianni Curti

L’ infinito di Cantor nel libro Gli amanti perduti nel transfinito, dello scrittore Piergianni Curti

da «Le novità Letterarie di Bookterapia

Amici lettori benvenuti in questa novità letteraria il libro Gli amanti perduti nel transfinito, dello scrittore Piergianni Curti, romanzo di narrativa contemporanea che affascina per la sua audace mescolanza tra una storia d’amore poliamorosa e le profonde riflessioni sulla teoria matematica dell’infinito attuale di Cantor.

I romanzi di De Gennaro Scrivere, ribellarsi e vivere in un folle ballo tra Bachmann, Joyce & Co

I romanzi di De Gennaro Scrivere, ribellarsi e vivere in un folle ballo tra Bachmann, Joyce & Co

«Fatto Quotidiano », di Massimo Novelli

La chair est triste, hélas! Et j’ai lu tous les livres (“La carne è triste, ahimè! E ho letto tutti libri”). Questo verso di Stéphane Mallarmé, che apre Brise marine, scritta nel 1865, può essere posto a epigrafe de Il quarto piano (Miraggi Edizioni, collana Scafiblù), il nuovo romanzo di Riccardo De Gennaro, scrittore e giornalista (Il Sole-24 Ore, Repubblica) torinese di indubbio e non ancora giustamente riconosciuto valore, che da anni vive a Roma a pochi metri dal ponte Testaccio, luogo pasoliniano (muore Accattone nell’omonimo film) per eccellenza. La citazione del poeta francese, infatti, descrive perfettamente il personaggio e la storia del libro di De Gennaro, che si impone come un romanzo colto, originale, triste e allegro nel contempo, e decisamente rivoluzionario. Perché è rivoluzionario, oggi, affermare, in un mondo negato alla vita vera, autentica, che “forse è venuto il momento di leggere meno e vivere di più”. Vivere per vivere davvero, a dispetto di chi ci vorrebbe dei morti viventi (e comunque continuare a leggere, però non barattando la carne con la carta).

Il protagonista è un certo Giorgio Lanfranco, disoccupato più che cinquantenne che vive con i genitori e si nutre letteralmente di libri, li acquista compulsivamente, ne ha fatto l’unico scopo della sua solitaria esistenza. Ma poi tutto cambierà, complice un amore giovanile. E muterà come in un racconto di fantascienza, con un finale fra Philip K. Dick e Dino Buzzati. Tutto ciò in una sarabanda che ha come teatro ovviamente una libreria, e in cui folleggiano brani e personaggi dei libri prediletti: De Gennaro li indica alla fine, un elenco raffinatissimo che va da Ingeborg Bachmann a Oscar Wilde, passando naturalmente per l’Auto da fé di Elias Canetti e senza scordare Albert Camus e Antonio Delfini, la Ortese e James Joyce.

Sarà felice Giorgio Lanfranchi alla fine delle sue traversie, dopo i tanti colpi di scena che stravolgono la routine di perdigiorno (una sorta di Oblomov) cartaceo? Ai lettori, e a chi vuole vivere, la sentenza al termine della lettura.

Già autore di altre buone ottime opere narrative, come I giorni della lumaca e La realtà pura, e di una notevole biografia di Lucio Mastronardi, La rivolta impossibile, lo scrittore torinese è anche il fondatore e il direttore di «il Reportage», un trimestrale di giornalismo d’inchiesta di stampo felicemente antico, attraverso cui orchestrala vita vera e i libri, cioè la vita immaginaria, che tuttavia, per l’eroe del suo romanzo, sono forse T’ossigeno che mi tiene in vita”. Il quarto piano è un romanzo che va controcorrente nell’attuale desolata terra letteraria. A differenza di tanti testi odierni del tutto inutili, che vanno (in apparenza) per la maggiore, il suo fa pensare e sa divertire, non concede niente alle mode, è da scaffale e non da bancarella o da autogrill. Del resto, De Gennaro è anche uno dei pochissimi che hanno continuato a scrivere storie di rivolta sociale, a essere antagonista all’esistente, a credere che ribellarsi sia assolutamente giusto. Basti pensare a La Comune 1871, ambientato durante i giorni della Comune di Parigi, unica rivoluzione, ci rammenta, che durò troppo poco per potere essere tradita come tutte le altre.

QUI l’articolo originale: https://tinyurl.com/3yavxjhu

Le scomode figlie di Eva

Le scomode figlie di Eva

Alcuni ritratti in un libro sulle donne del Novecento

«L’Osservatore Romano», di Bianca Stancanelli

Le chiamarono «le scomode figlie di Eva»: erano laiche e religiose, «storiche, antropologhe, filosofe, teologhe», decise a rinnovare una Chiesa che sembrava ferma all’«idea dell’inferiorità naturale della donna, maschio mancato, come aveva ribadito san Tommaso». Sul finire del Novecento, quelle donne furono «una spina nel fianco della Chiesa tradizionale», ma anche la forza propulsiva di un profondo cambiamento – che continua tuttora.

Lo racconta Liliana Madeo, giornalista e saggista, in un denso capitolo del suo Donne “cattive”, variegato mosaico di figure femminili che ripercorre cinquant’anni di storia italiana, dai tardi anni Quaranta alla fine del secolo. E può forse sorprendere trovare una teologa come Adriana Valerio, un’intellettuale eremita come Adriana Zarri, una suora come Theresa Kane, che rivolse pubblicamente a papa Giovanni Paolo II l’invito a includere le donne «in tutti i sacri ministeri», in questa galleria di ritratti che s’inaugura con un’assassina, Rita Fort, e si conclude con un’ambientalista, Anna Donati, prima donna nominata nel consiglio d’amministrazione di un’azienda di Stato. Ma la scelta si spiega solo a voler ricordare che l’irruzione sulla scena di laiche che, nei loro gruppi, «facevano teologia» e di religiose non più disposte a farsi considerare «le domestiche di Dio» seminò sconcerto e spesso scandalo, ma servì a «stimolare quel pensiero sulla donna che ha portato negli anni Novanta al messaggio rivoluzionario del pontefice sul “genio” femminile».

Pubblicato per la prima volta nel 1999, oggi riedito dalla casa editrice Miraggi, il saggio di Madeo non ha perso nulla della sua freschezza. Ed è anzi ancora più attuale oggi, nel ridare nuova luce a personaggi come Franca Viola che, rifiutando di sposare il giovane che l’aveva rapita e violentata, dette il via al lungo processo che condusse a cancellare dal codice penale relitti del patriarcato come il matrimonio riparatore. Un racconto utile per misurare quanta strada sia stata percorsa dalle donne e dall’intera società in un’Italia dove sessant’anni fa era proibito anche soltanto scrivere sui giornali della pillola anticoncezionale ma nessuno si scandalizzava se al funerale di un camorrista dodici deputati inviavano corone di fiori listate a lutto in onore del defunto.

QUI l’articolo originale: https://www.osservatoreromano.va/it/news/2024-02/dcm-002/le-scomode-figlie-di-eva.html

Donne irregolari del Secondo Novecento

Donne irregolari del Secondo Novecento

«Micromega», 24 maggio 2024
Recensione di Marilù Oliva

In “Donne cattive. Cinquant’anni di vita italiana”, Liliana Madeo tratteggia uno spaccato sociale e culturale dell’Italia attraverso il racconto di alcune figure femminili ritenute maledette, negative, diaboliche. Tredici capitoli, tredici storie di irregolari, donne scandalose, non omologate, che hanno sfidato la morale, il buoncostume e l’ottusità.

Ho scoperto da vicino questa deliziosa casa editrice, Miraggi Edizioni. Uno di quei progetti precisi, rari, lucenti. Stampano i libri solo se ci credono e ritengono che l’editoria non sia una meta commerciale, ma un’utopia, un miraggio, appunto, ragion per cui, come hanno dichiarato sul loro sito, l’ intento “è da sempre quello di ‘fare’ i libri che altri non fanno, quelli che ci piacerebbe trovare in libreria, e spesso non si trovano”.
Ho letto Donne cattive, della giornalista e inviata della Stampa Liliana Madeo, che recita nel sottotitolo: Cinquant’anni di vita italiana e ve lo propongo.
Attraverso il resoconto di alcune figure femminili ritenute maledette, negative, diaboliche l’autrice tratteggia uno spaccato di Italia vicino a noi, che forse spiega anche molto di ciò che siamo oggi, a livello sociale e culturale. Si tratta del periodo storico che va dall’immediato Dopoguerra fino alle soglie del nuovo millennio, una parentesi fondamentale in quanto cambiano i costumi, la mentalità, si attuano alcune rivoluzioni, mentre una parte retriva rema contro vento. La trasgressione fa crollare alcuni tabù, ma a volte viene duramente additata (e punita).
Tredici capitoli, tredici storie di irregolari, donne scandalose, non omologate, che hanno sfidato la morale, il buoncostume e l’ottusità. Talvolta criminali o mafiose, altre volte, come nel caso di Franca Viola, donne spartiacque, coraggiose, eroiche.
Dietro di loro si staglia un paese prima messo in ginocchio, ma ora che si sta rialzando, nel tentativo di superare povertà e disoccupazione. Il costo della vita è aumentato terribilmente e gli ideali della Resistenza si scontrano contro la realtà. Tante le piaghe e le storture. Un’arretratezza di fondo, il patriarcato che mantiene salda la sua presa su assetto sociale, su abitudini, sul quotidiano. Basta poco per scorgerlo. Come quando la suocera di Franca Pappalardo le raccomanda di non lamentarsi qualora vedesse assieme il marito e l’amante. La stessa amante che poi massacrerà lei e i suoi bambini: Rina Fort, detta la Bestia. Un omicidio spietato, fatto per gelosia, frustrazione, tanta rabbia covata e la convinzione che l’altra sia una rivale da eliminare.
Poi c’è la Dama Bianca che sconvolse l’opinione pubblica per la relazione col campione Fausto Coppi: contro di lei si scagliarono volgarità e anatemi. Una vicenda, questa, che è specchio degli Anni ’50 nel Belpaese.  Del resto quello fu un decennio “Misogino e sessuofobico”, il diritto di voto alle donne era stato appena concesso e la verginità era un bene da preservare. Se qualcuno la rubava, poi, poteva rimediare con un matrimonio riparatore. La relazione duratura tra il celebre ciclista e la Dama Bianca viene vissuta proprio in questo contesto:
“Un amore proibito, il loro, che cade nel tempo meno appropriato. Tempo di crociate religiose, di sentenze e gesti esemplari. Contro “la dilagante licenziosità dei costumi”. Contro i diritti delle donne, anche i più semplici”.
Così, le protagoniste di questo libro vengono raccontate con uno stile curato che non rinuncia all’afflato giornalistico e chi legge divora le storie, una dopo l’altra, catapultate in un passato non poi tanto lontano, incantato da resoconti così precisi che sembra quasi di vederceli sfilare davanti agli occhi.

QUI l’articolo originale.

Recensione di Malapace su «exlibris 2.0»

Recensione di Malapace su «exlibris 2.0»

di Federico Prezioni

Titolo emblematico, tematica attuale, storia antica. No, non è una nuova puntata editoriale sul conflitto russo-ucraino o israeliano-palestinese che angoscia i nostri giorni, sebbene i due principali focolai del presente abbiano molta attinenza con i contenuti di questo libro. Malapace(Miraggi) è un romanzo nato dalla riformulazione di uno scenario storico non molto approfondito in verità tra i banchi di scuola. Parliamo della Francia della Repubblica di Vichy, argomento che l’autrice, Francesca Veltri, ha affrontato per ragioni professionali.

Come l’Italia, anche se per diverse dinamiche, la Repubblica transalpina era divisa in due parti durante la Seconda Guerra Mondiale, in un arco di tempo che va dal 1940 al 1945, ben più lungo rispetto alla separazione avvenuta di fatto all’indomani dell’8 settembre del 1943 sul territorio italiano. La parte meridionale della Francia, convenzionalmente chiamata Repubblica di Vichy, era di fatto un satellite del Terzo Reich sebbene si dichiarasse neutrale sulla carta. Dopo l’invasione nazista e l’occupazione del nord del paese, lo Stato francese aveva trovato un compromesso per sopravvivere in quanto entità politica e culturale, accettando una condizione di “malapace”, volendo estendere il titolo del libro al contesto storico fin da subito.

Fatte queste doverose seppure sbrigative premesse, il titolo dell’opera e l’ambito in cui la vicenda si snoda costituiscono elementi già sufficientemente precisi su cui incardinare qualche riflessione utile per il presente, perché in letteratura è necessaria una ricerca di natura esistenziale e spirituale: laddove l’attuale interroga il presente è necessario attingere al passato per poter arrivare a deduzioni più vaste e complete da parte della nostra coscienza.
Francesca Veltri ci guida in questo processo con ponderatezza, ma altrettanta decisione, e nel definire personaggi credibili, tra loro complementari eppure opposti, attraversa una serie di situazioni e stati d’animo talmente intricati da rendere così bene la tragedia che si consuma pagina dopo pagina. La Storia non può essere solo un fatto memoriale, si caratterizza per atti, azioni che in determinanti momenti vanno oltre le ideologie e le convinzioni personali. Pertanto non mi soffermerò sui caratteri principali dei protagonisti, preferisco lasciare al lettore l’onere di empatizzare con François, Antoine, Martine e Jean-Pierre; chi legge ha il diritto di regalarsi un giudizio pieno o parziale, riflettere doverosamente e vivere l’azione come se si svolgesse sulla propria pelle.

Da parte mia, invece, cercherò di addentrarmi nello spirito che caratterizza il romanzo e nella complessità che i contesti e le convinzioni personali generano, nell’intento di deragliare da un dibattito attuale dominato dall’opinionismo da talk show, più interessato a eccitare gli animi che a ragionare. Non è importante maturare immediatamente un’idea definita, questo non è un romanzo che intende osannare i vinti e crocifiggere i vincitori, ma è pur sempre un testo che ribadisce la labilità tra idea e coerenza al cospetto della necessità. Le parole di Francesca Veltri tentano di andare oltre determinate contrapposizioni, la Storia è terreno comune quando riesce a trovare, per quanto possibile, chiavi interpretative che sappiano infondere un senso di condivisione e appartenenza. Per certi versi tutti i personaggi del romanzo sono degli sconfitti, uomini e donne non privi di ingegno e di cultura, abitati da passioni incontenibili, da un senso di bene comune dai propositi nobilissimi. Eppure, qualcosa di più grande nelle loro vite incrina questo assetto di idee e i protagonisti si ritrovano a rivedere posizioni e lottare su postazioni divenute quasi irriconoscibili tenendo conto proprio dei presupposti iniziali. Si è spesso portati a ritenere che certi cambiamenti siano frutto del trasformismo e della convenienza personale, al contrario Malapace riesce a far emergere la perfetta buona fede delle parti, prigioniera nell’ineluttabilità degli errori dettati dalle contingenze, nonché dalle terribili conseguenze che il contesto politico e sociale impongono. Volendo trovare un parallelismo, oggi come allora ci si chiede se sia un bene sacrificare lo Stato, inteso come entità di valori e luogo di espressione collettiva, in nome di una non identificata sopravvivenza, chiamando con la parola pace un mero esistere. Ci si chiede se sia necessario ribadire i principi di libertà e combattere fino in fondo laddove le forze individuali e plurali possono arrivare o se non sia meglio cedere sul terreno dei diritti in funzione di uno stato di relativa quiete. Sono domande urgenti che da qualche anno a questa parte hanno ritrovato dimora nelle coscienze di molti. Mai come in questi tempi avvertiamo i confini sottili di una pace che in un nonnulla si converte in resa o addirittura prostrazione. Nulla di nuovo sotto al sole, è solo che a tali dinamiche del tutto comuni nella Storia ci eravamo disabituati per via di decenni di stabilità, crescita, fiducia e prosperità farcite da considerazioni storiche fatte con il senno del poi. Questo romanzo arriva a interrogarci su questioni delicatissime, sulla necessità di dover fare scelte dure, con consapevolezza e fuori dalla retorica nazionalista, pacifista o non interventista, andando verso le ragioni che spingono gli attori politici a muoversi e che determinano le misure del campo da gioco con o senza il consenso popolare. 

Malapace non risparmia critiche alle dottrine politiche dell’epoca (i cui echi non si smarcano dall’attualità), non elude il processo di autocritica all’interno della trama in cui si muovono i personaggi: nello sfondo della vicenda si intravedono momenti dove le attuazioni delle utopie, nelle declinazioni più drammatiche, scuotono convinzioni granitiche mettendo a repentaglio valori personali, imprescindibili, e Francesca Veltri, atomizzando il proprio Io autoriale in varie creature letterarie riesce a entrare nel vivo di certi sentimenti attraverso una grande capacità di immedesimazione, strumento di cui la letteratura non dovrebbe fare a meno, in particolar modo in un’epoca in cui tutto viene polarizzato dall’esperienza personale e/o familiare, senza ricercare un senso più ampio dei contesti. In altre parole, si tratta di un romanzo che intende fare i conti con la Storia andando oltre le storie mettendo da parte la buona fede e l’appartenenza.

Termino questi spunti con un passo brevissimo, esempio di una capacità rappresentativa notevole da parte di Francesca Veltri, decisamente lucida e schietta nella narrazione, senza risultare tagliente in maniera forzata. La parte affilata di questa faccenda spetta al non detto, al silenzio, un invito a nozze per il lettore. A chi legge lascio le conclusioni.

«Immaginai Martine che usciva insieme alle SS da quella stessa porta, il cappotto sulle spalle perché all’Est avrebbe fatto freddo, un po’ curva sotto il peso della valigia, forse appena affannata, in viso la smorfia di sfida che le riusciva così bene. Mi chiesi se si fosse fermata a guardare per un attimo la donna che l’aveva venduta, prima che la portassero via.

Com’è che aveva detto a Jean-Pierre, in quel parco di Leningrado? Fammi vedere la faccia di quest’umanità per cui si fanno le rivoluzioni».