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Il bambino intermittente – presentato da Alessandro Perissinotto al Premio Strega 2022

Il bambino intermittente – presentato da Alessandro Perissinotto al Premio Strega 2022

«“La vita, istruzioni per l’uso”. Se si volesse cercare nell’universo letterario un riferimento per l’opera più recente di Luca Ragagnin è nel capolavoro di Perec che lo si troverebbe. Certo, come il titolo lascia intendere, non è su tutta la vita che l’autore si concentra: queste sono istruzioni per l’uso dell’infanzia. Se insisto sulla locuzione “Istruzioni per l’uso” è per sottrarre Il bambino intermittente dalla più logica e immediata delle classificazioni, quella che lo collocherebbe nei memoir: Ragagnin non ci racconta la sua infanzia, ma un’infanzia universale, un’età di scoperta che si estende ben oltre il numero canonico degli anni “fanciulleschi” e che dura fino a quando gli occhi di Berg, il protagonista, rimangono sgranati a osservare stupefatti l’incomprensibilità del mondo. Certo, nella narrazione di Ragagnin sono presenti alcune marche temporali e il lettore che si approssima alla sessantina potrà ritrovare nelle esperienze di Berg le sue stesse esperienze; potrà ritrovare gli oratori, le feste casalinghe degli anni Settanta, i 45 giri, le paure e le leggende metropolitane di quell’epoca, ma il libro, lo ripeto, non è un tuffo nella memoria, è semmai una proiezione verso il futuro, la domanda a cui risponde alla domanda non è “cosa abbiamo vissuto?”, ma “cosa abbiamo imparato?”, “cosa potremo usare, domani, di tutto quel passato?”.
Però il contenuto, lo sappiamo, non è che uno degli aspetti di un libro. Un buon contenuto non fa, da solo, un buon romanzo. E qui interviene allora la forza espressiva di Ragagnin e anche in questo, nella girandola di soluzioni linguistiche e grafiche, il paragone con Perec non è affatto azzardato. Pervase da una costante ironia, le quasi settecento pagine del Bambino intermittente, sono sempre vivaci, inframmezzate da canzoni, da trame di vecchi film, da cronache di eventi più o meno immaginari, quasi si trattasse, in forma letteraria, di una di quelle agende adolescenziali sulle quali incollavamo ritagli di giornale, biglietti di concerti e adesivi. Personalmente, detesto il concetto abusato di “opera mondo”, ma di sicuro, Il bambino intermittente è un mondo narrativo che il Premio Strega 2022 può prendere in considerazione con interesse.»

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Colloqui con il pesce sapiente – recensione di Angelo Di Liberto su Modus legendi

Colloqui con il pesce sapiente – recensione di Angelo Di Liberto su Modus legendi

Il Pensiero originale è infatti collettivo e indescrivibile.

Non esiste forse enunciato più acconcio per viaggiare in direzione eguale e contraria verso l’opera di Paolo Brunati. Scrittore, poeta, scultore, artista totale, nella cosmogonia letteraria che lo caratterizzò ogni elemento veniva irradiato di una vita propria che serviva a creare altra vita, altro significante.

Allora insetto non si riferiva soltanto alla minuscola vita strisciante, volante, saltellante di artropodi comuni, ma la metafora del passaggio dell’uomo sulla Terra, nella sua impossibilità d’essere altro dal minimo contributo occasionale e fugace di pensiero.

Mi chiedo a volte se la scrittura non sia, rispetto al pensiero, quello che è l’Insetto trafitto nella scatola entomologica rispetto all’Insetto vivo.

E il ricordo dell’insetto più famoso della storia della letteratura ritorna prepotente. Lo scarafaggio kafkiano trafitto nella sua scatola familiare è al tempo stesso pensiero e scrittura del pensiero, è il vivo-morto, il ritornante della sua specie mutata, così come lo è la scrittura del pensiero defunto che si fa carta e che riverbera da centosessanta prose intitolate all’inorganico, all’inessenziale, all’infinito, contenute in un testamento letterario dal titolo “Colloqui con il Pesce Sapiente”.

Brunati non conclude, non cristallizza nelle forme ma spazia negli oceani plasmabili dell’inconoscibile la sua materia filosofica, immergendola nelle acque tiepide dell’ironia sottile, del boudoir di un illusionista, in quel dietro le quinte di una rappresentazione a scopo dimostrativo e preparatorio della vita.

Nella sua incessante riscrittura dell’avventura umana, l’autore fagocita l’assurdo restituendo plausibili scenari, insuperate visioni metafisiche collimanti con l’abituale rapporto col quotidiano, con l’ineludibile consunzione della materia.

Ogni Morto è un grandissimo attore drammatico. La sua persona anagrafica sparisce con la sua totale immedesimazione nel personaggio.

L’umorismo paradossale che alberga in ogni prosa brunatiana fa i conti con una consapevolezza profonda del rapporto che lega gli elementi primordiali. Il gusto del contrario è cifra identitaria strutturata in relazione paritetica. Si è nel momento irripetibile del dolore e della farsa.

Persino sentimenti come l’inimicizia sovvertono l’efficacia di un’esperienza.

Sì, l’inimicizia è uno dei sentimenti più forti, più genuini. Un vero nemico è colui che riesce a rivoltarti, farti cambiare posizione da quella in cui già fin da troppo tempo giacevi anchilosato.

La letteratura come nemico è un’idea affascinante che scoraggia il lettore, aduso a un rapporto infantile, si direbbe quasi elementare con la parola scritta. Da un libro vuole ristoro, non la spinta al confronto. Ricerca il simile, l’ovvio, non l’eccezione, l’insolito.

La filosofia contenuta in “Colloqui con il Pesce Sapiente”, pubblicato da Miraggi Edizioni, da cui sinora sono stati tratti spunti di riflessione, è un luminoso istinto non già verso la salvazione, ma l’incontenibile suggestione di essere in presenza di un’aurora polare, il cui effetto ottico sta all’occhio che la osserva e al cuore che la prova. Non raramente chi legge Brunati avvertirà quei suoni elettrofonici che si odono in alcune manifestazioni di aurore boreali ma, come quest’ultime, si sarà in presenza di fenomeni che ancora sfuggono alla comprensione dell’origine della creazione di uno scrittore, che ha dato alla letteratura materiale organico in continuo divenire.

QUI l’articolo originale:

Uno di noi – recensione di Francesco Subiaco su Contro il nulla

Uno di noi – recensione di Francesco Subiaco su Contro il nulla

Un affresco tragico e tormentato della società italiana

La collana scafiblù della casa editrice Miraggi si ispira alle omonime imbarcazione usate a Napoli per il contrabbando di sigarette. Gli scafi blu della letteratura non trasportano più tabacchi e merci, ma contrabbandando idee clandestine, messaggi disobbedienti, originali e originari, attraverso stili e contenuti ribelli. Trasportando, oltre l’attenzione generale, i luoghi oscuri dell’uomo e le verità segrete ed inconfessabili dietro ogni uomo. Ci riesce bene Daniele Zito che nel suo “Uno di noi”(Edito da Miraggi Edizioni) compie l’affresco tragico e tormentato della società italiana. Raccontando la vicenda di un gruppo di amici, frustrati e sconfitti, che in un giorno di euforia, dopo l’ennesima disfatta in una partita di calcetto, decidono di dare fuoco ad una baraccopoli della loro città. Un gesto assurdo a cui cercano di dare più significati, etici, politici, morali, che nella loro mente nasce con la noncuranza spietata con cui ognuno distrugge senza pensarci nella vita. una noncuranza che li porterà a bruciare case e abitazioni di disperate e a condannare ad atroci ustioni una giovane ragazza emarginata e disabile. Un fatto drammatico per entrare nel ventre molle della società, nelle paure e gli odi di un mondo emarginato e sconfitto. Fatto di cattiveria ed emotività, di paure e disperazione. In una indagine priva di quella retorica patetica dei romanzi del nostro tempo, attraverso uno stile poetico e terribile che spezzetta le azione, apre le vite dei suoi personaggi mostrando vittime e carnefici, certamente, ma soprattutto, uomini, turbamenti, oscurità. Un romanzo anomalo che più che una trama ha una atmosfera, più che personaggi riflessi. Non hanno nomi veri i membri della banda del calcetto, né dottori precari, passanti e soccorritori, la bambina che soffre, suo padre rimasto solo e in agonia. I quattro hanno una voce unica rappresentata dal “uno di noi”, parlante, che
si distrugge e logora tra i sensi di colpa e il bisogno di indifferenza per non farsi scoprire, tra la violenza verbale e l’annientamento umano e intimo. Ha nome solo sua moglie, Irene, che gli legge dentro, lo vede turato, orribile, pentito, confuso. Maschere che si accompagnano al coro volubile ed emotivo della società, capriccioso ed istintivo, bisognoso di certezze e comprensione, ma anche affamato di vendetta, arringato e sconvolto dalla chiacchiera e dagli sciacalli sociali. Dai ministri opportunisti sempre pronti a salire sul carro del vincitore, a giornalisti che si nutrono di morte e dolore. Volti, riflessi, allusione che raccontano la grande tragedia anonima che può aggirarsi nella vita crepata di ognuno di noi.

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Gaia Ginevra Giorgi – intervista di Filippo Rosso su Singola

Gaia Ginevra Giorgi – intervista di Filippo Rosso su Singola

Mi sono accostato alla poesia di Gaia Ginevra Giorgi, i primi tempi, facendo un po’ di fatica a empatizzare, a tenere insieme i ragionamenti, semmai ce ne fosse il bisogno.
Questo perché la sua opera ha dei margini sfuggenti, a volte ombrosi, mentre altre volte ti sbatte in faccia una parola risonante e carnale, organica, mai orrenda, che stringe i versi come la bocca dello stomaco, e si ricomincia.
Si tratta di una poesia performativa ancora prima delle inclinazioni dell’autrice verso la parola detta e registrata, è ritmo ancora prima del sonoro: e questa parola – “spezzato” – ricorre molte volte, ed è altrettante volte segno distintivo e iniziativo dell’opera. Le aree nevralgiche del discorso si fondano su un’indagine del tempo, sulla memoria, sulle innumerevoli capacità sensibili dei corpi. L’incedere si fa tutt’uno con il divenire.

Come altrove abbiamo dialogato con il poeta nel tentativo di comporre un quadro sulla nuovissima produzione di questa arte in Italia, in cui Gaia Ginevra Giorgi – nonostante il dato anagrafico – sembra occupare un posto sempre più centrale e rivelatorio.

Filippo Rosso – La parola “spezzato” associata al respiro, alla schiena; i versi quasi del tutto priva di punteggiatura che sembrano schegge. E Sylvia Plath, di cui hai analizzato l’esistenza e l’opera, che si toglie la vita a 30 anni… Perché ricorre questa rottura, questa dimensione dell’infranto? 

Gaia Ginevra Giorgi – Spezzare, qui come a dire: fare a pezzi, dividere in parti, sezionare, per vivisezionare. Fare a pezzi per me non ha a che fare con un principio di distruzione, di annullamento, piuttosto con una pratica di frammentazione, che è sempre possibilità generativa di ricomponimento in complessità, secondo un metodo di assemblaggio che si basa sulla ricontestualizzazione, la dislocazione e il decentramento delle parti. Porre l’attenzione sulle parti, sulle pluralità, occuparsi dei margini, delle estremità e delle superfici, diventa metodologia decolonizzante di ricerca linguistica.

Questo sminuzzare analitico – quasi chirurgico – necessita di un corpo. Quali caratteristiche deve possedere questo corpo? È necessaria una certa resistenza strutturale perché possa spezzarsi? È possibile, ad esempio, frantumare qualcosa di fluido, di liquido, o addirittura di sottile, postumo e spettrale? Di cosa parliamo quando parliamo di corpo? Probabilmente di materia pensante, in sé vitale, intelligente e capace di autorganizzazione, umana e non umana, animale e non animale.

La mia poetica si esprime lungo una sorta di asse orizzontale tracciato tra le specie, nell’interdipendenza simpoietica (per dirla con Haraway) tra i corpi, in cui anche gli oggetti sono vivi, pensanti e attivanti. Allora la “dimensione dell’infranto”, dello “spezzato”, ricorre nella misura in cui produce la possibilità di decostruire, per poter leggere le trasformazioni, le mescolanze, le possibili alleanze, includerle nel discorso, riorganizzare le forme del pensiero in una continua negoziazione con il centro, con la norma, con l’istituzione in senso lato.


FR –
 Ci sono delle intersezioni tra il tuo lavoro performativo e la poesia, dei punti di incontro o delle zone mutualmente esclusive?

GGG – Quando il testo poetico si svincola dalla pagina, attraverso un progetto di riaffermazione dell’oralità riarticolata in ottica intermediale, la poesia si trasforma in materia sottile, volatile, spettrale proprio perché performativa. Della performance della parola m’interessa l’apparizione – la postura dell’attraversamento – tutta rivolta verso la costruzione di una nostalgia, dove la nostalgia è meccanismo progettuale e non desiderio malinconico di qualcosa che non è più. Il ricordo che irrompe all’improvviso è già progetto, ciò che viene ricordato torna in circolo sotto forma di spettro.

In effetti, questa è una delle specificità che accomuna la poesia alla performance: il suo manifestarsi come apparizione di una lontananza. Per questo difendo la dimensione performativa della mia ricerca sul testo poetico, e mi mostro reticente rispetto all’ipotesi di registrare un disco. Non rifiuto il dispositivo della registrazione in sé, anzi. Pratico field-recording da anni e mi occupo di paesaggio del suono e di contesto sonoro, conosco il microfono e so che non è un dispositivo “innocente”, registro la mia voce e lavoro su livelli mobili di elaborazione del suono (la ricerca sulla spazializzazione, per esempio – con il sound designer Riccardo Santalucia, con cui collaboro, lavoriamo usando MaxMSP, che è un sorprendente generatore di possibilità a partire dalla sola voce – , l’utilizzo della loop-station, che consente interventi drammaturgici live, quali progressioni, intensità, cut-up ecc.). Ho del materiale registrato in archivio ma si tratta di registrazioni in presa diretta di performance che sono state eseguite live.

Mi disturba, invece, l’idea di organizzare il suono in fase di editing, di intervenire in post-produzione. C’è qualcosa del definitivo, del concluso, del confezionato, che non mi risuona. Difendo l’accadimento. Le parole, a dirle, si avverano e si rinnovano. Ogni volta. Lo studio sulla voce, poi, coinvolge sempre tutto il corpo, la comunicazione orale comporta inevitabilmente la modificazione di uno stato complessivo che impegna il corpo intero. Quindi la voce rende la poesia concreta, abitabile, almeno per il tempo di un attraversamento, di un’apparizione. D’altronde sono questi i tempi della poesia: l’istante, e, allo stesso modo, l’eternità. Con le ricerche elettroniche – scrive Henri Chopin, pioniere assoluto della poesia sonora – la voce è diventata finalmente concreta. In questa prospettiva, la voce è da considerarsi, insieme alla gestualità, come una funzione del testo – per dirla con le parole di un altro grande maestro che è Giovanni Fontana – una sua estensione modale. La dimensione sonora del testo, infatti, collabora in maniera efficace con alcuni punti per me essenziali per poter dire “poesia”: invenzione linguistica, rinnovamento delle strutture del testo (fino alla radicale sovversione del concetto di testualità), processi neo-tecnologici, coscienza intermediale, valori della voce e del corpo.


FR  Le tue poesie, come è stato correttamente più volte notato, si soffermano spesso su parti “attivanti”, qualcuno ha detto “erogene”, del corpo. La sensualità è sicuramente un modo di trasferire carnalità alla parola e -correggimi se sono fuori strada-, in questo rientra il tema della transustanziazione (o detransustanziazione) dei corpi e della poesia. C’è dell’altro che giustifica la presenza di questa dimensione?

GGG  La mia è una poesia dell’esperienza. La ricerca linguistica è tutta tesa verso uno sforzo di traduzione, di tradimento dell’esperienza. Dare i nomi alle cose per avverarle. La relazione con i corpi è qualcosa che mi permette la messa a fuoco. Non inizio mai a comporre a partire da un concetto, ma sempre da un’esperienza immersiva. C’è una sezione del libro in uscita che s’intitola “profezie del corpo. archivio di fatti umani e non umani”, ed è una specie di glossario anatomico sentimentale, in cui tutte le parti del corpo (e non solo quelle erogene, anche se mi chiedo se esista qualcosa di strutturalmente non erogeno) vengono rinominate attraverso un esercizio di memoria e, al tempo stesso, di prefigurazione.


FR – 
Allora mettiamo al centro questo, la memoria. Il passato – la tua poesia sembra dirlo nella performance – può trasformarsi in un’incursione nel futuro?

GGG – La memoria è un tema cruciale, ricorrente, uno dei fuochi che lega “Manovre segrete” a “L’animale nella fossa”. Il lavoro inedito (che è già stato performato live, in perfetta risonanza con il principio di spettralità), si costruisce attraverso il meccanismo della memoria, come fenomeno contrario alla museificazione. La memoria vive di scarti, di paesaggi modificabili, di attraversamenti fantasmatici, è un fatto di smaterializzazione, di quello che era materia e ora non è più, è sostanza plasmabile, trasmettibile, altamente infettante. Forse da questo punto della memoria sarà possibile inventare il futuro, pensare e innescare i nuovi processi. In questo senso forse, come dici, avviene l’incursione del primitivo nel futuro, del memorabile nel prefigurabile.

La memoria crea i vuoti e così facendo apre spiragli, produce uno spazio vivo, autorizza il gioco, rende abitabile. La museificazione, al contrario, fissa e porta a ragione, per questo è una pratica sterile e non vivificante.

Ricordare è una pratica performativa, disegna percorsi, derive, evoca luoghi che sono sempre abitati da spettri, da segnature, da stratificazioni di racconti. La memoria è una finzione, una pratica significante che agisce nelle maglie del reale molto più di qualsiasi altra operazione intellettuale. Inventa il presente. Lo esercita.

Oltre a una sezione intitolata “sullo smembramento e sulla dissoluzione (di tutte le cose)” che, per l’appunto, incarna quello “spezzare” di cui parlavamo prima, la perdita, gli strappi, e le rinnovate configurazioni, con l’ultima sezione, intitolata “la materia ha superato la postura della carne”, si inaugura la riflessione sul residuale, ponendo una domanda: come si chiama quello che resta? La sottrazione diventa metodologia per lasciare alle cose lo spazio necessario per accadere. Dare un nome al residuo, alla cosa più piccola, per conferirle dignità. In effetti, è il residuo il paesaggio che meglio può accogliere nuove specie.

Il libro conterrà anche una sorta di diario, un cut-up di appunti e corrispondenze (materiale raccolto durante il confinamento), in cui emerge la dimensione del corpo postorganico, della materia sottile, del ricordo e del sogno.

FR – Cosa resterà dell’umano in questa dimensione? Sarà ridefinito, ridimensionato, avrà altre caratteristiche? E cosa resterà di te? 

GGG – Evidentemente è già in atto un processo trasformativo dell’umano, è necessario attivare pratiche di defamiliarizzazione, attraverso le quali i soggetti si liberino dalla visione normativa dominante del sé, per comprendere il divenire relazionale in modo molteplice e multidirezionale. In questo senso la teoria femminista e post-coloniale ha messo in campo il concetto di disidentificazione, ma sempre nei termini dei criteri di un approccio antropomorfo, se non consideriamo il pensiero di Braidotti e Haraway. Immagino l’introduzione della dimensione planetaria, cosmica, corpi relazionali, interdipendenti, senza organi, una comunità non più legata dal nesso negativo della vulnerabilità, ma dal riconoscimento empatico della propria interdipendenza con i molteplici altri. Nelle pratiche artistiche e nelle scienze umane è necessario allontanarsi dalla logora postura antropocentrica e spostarsi verso la trasversalità, l’interdisciplinarietà, queerizzare i saperi per una teoria della complessità.

Quanto a me, sarò uno dei fatti del mondo, e continuerò a dare i nomi alle cose, a inventare parole, a generare possibilità.


FR –
 A cosa stai lavorando attualmente? Quali direzioni sta prendendo il tuo lavoro?

GGG – Questo è un tempo molto vivo per i miei studi e la mia ricerca: i processi immaginativi sono attivati e i centri sono fioriti. Si staglia di continuo il territorio della prefigurazione. Ho trascorso l’ultimo anno costruendo architetture effimere dove poter installare il mio osservatorio sconvolgente e tenere gli occhi aperti sul contemporaneo. È da maggio che ciclicamente abito la dimensione del bosco, la foresta, non solo come ciò che sta fuori dallo spazio domestico, ma anche come ciò che sta fuori dalla legge comune, il luogo in cui le regole della civitas non sono più sufficienti. È necessario attraversare la realtà diagonalmente, come fa il teatro, la performance, la poesia, per trovare altre forme di abitabilità e progettualità che si distanzino da una verità singolare e definitiva. Tenere lo sguardo fisso sul buio significa tenere lo sguardo fisso sul presente, scrive Giorgio Agamben in Che cos’è il contemporaneo, di cui riporto un passaggio.

[…] il poeta – il contemporaneo – deve tener fisso lo sguardo nel suo tempo. Ma che cosa vede chi vede il suo tempo, il sorriso demente del suo secolo? Vorrei a questo punto proporvi una seconda definizione della contemporaneità: contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, chi è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente. Ma che significa “vedere una tenebra”, “percepire il buio”? […] il buio non è la semplice assenza di luce, qualcosa come una non-visione, ma il risultato dell’attività delle off-cells, un prodotto della nostra retina. Ciò significa, se torniamo ora alla nostra tesi sul buio della contemporaneità, che percepire questo buio non è una forma di inerzia o di passività, ma implica un’attività e un’abilità particolare, che, nel nostro caso, equivalgono a neutralizzare le luci che provengono dall’epoca per scoprire la sua tenebra, il suo buio speciale, che non è, però, separabile da quelle luci. […]

Il suo buio speciale mi si rivela nel decentramento delle affettività, dei desideri. Abitando il bosco, come spazio marginale, notturno, misterico, ci si accorge che i primi elementi a scomparire sono la certezza delle distanze e delle misure. Le alterazioni delle comuni coordinate spaziali coinvolgono tutti i sensi, anche lo spazio acustico e olfattivo muta, attivando i corpi, allertandoli. Finalmente ci si accorge della presenza di altri esseri viventi non umani. Questa distanza mi consente di poter prendere una posizione nello spazio. In questa lucidità, sto precisando e mettendo a punto il mio prossimo libro, che uscirà in primavera e raccoglierà il lavoro degli ultimi quattro anni. È un materiale complesso e spaventoso, che ho tenuto da parte a lungo, che ho lasciato maturare. Mette in campo questioni legate all’improduttività, all’orizzontalità come scardinamento delle gerarchie, alle derive come privilegio degli assenti, dei senza-luogo, si articola in una sorta di materialismo vitalistico, di panteismo ctonio tutto teso alla mescolanza, costellato da innesti e spettri, esercizi di memoria e profezia.

Nel frattempo, sto scrivendo una tesi sui processi intermediali della poesia, precisamente nel campo delle sperimentazioni sonore, e proseguendo il lavoro con il collettivo performativo e curatoriale veneziano EXTRAGARBO, di cui sono co-fondatrice. Si è da poco conclusa la residenza a Santarcangelo di Call Monica, gruppo di ricerca performativa di cui faccio parte, che riflette sullo sguardo come costruzione culturale e vettore di potere, e in particolare sullo sguardo maschile.

In questo momento mi trovo in un ex mulino di pietra, a Latte – che parola elementare – nell’estremo ponente ligure, sul confine con la Francia, dove sto sviluppando un progetto insieme con un’artista visiva (una nekomata) su Terzo (Quarto) Paesaggio, specie pioniere (che durano troppo poco per capitalizzare), affettività, piante infestanti, alieni, fantasmi e liminalità. Pratico regolarmente psicomagia e allestisco altarini.

QUI l’articolo originale:

https://www.singola.net/arti/il-corpo-spezzato-intervista-gaia-ginevra-giorgi

L’uomo che rovinava i sabati – recensione di Vincenzo Trama su Il foglio letterario

L’uomo che rovinava i sabati – recensione di Vincenzo Trama su Il foglio letterario

Ma che bella scoperta è L’uomo che rovinava i sabati!

La cosa pregevole è che la lettura di un libro di 352 pagine è andata giù come una birra fresca, tipo una festa molto più mobile di qualche americano triste. Conoscere Jack Ebasta e gli altri auto-reclusi della Val Crodino mi ha fatto pensare che in fondo sono meno solo di quanto possa pensare. Sì, perché se c’è una cosa che ho afferrato della vacuità di Facebook, da cui sono iscritto da maggio con grande, grandissima riluttanza, è che libri come questi, in contesti dove si ciarla a vanvera di qualsiasi cosa, li trovi col lumicino, se insisti, a tentoni. E invece dovrebbero essere loro a trovare te, in qualche modo, perché teoricamente sei in cerca di qualcosa, di qualcuno, di un modo diverso di pensare e di leggere.

Se aspetto però gli algoritmi faccio in tempo a chiudere il profilo, per cui tanto vale parlarne, almeno un po’, qui nel cantuccio della nostra rivista online.

Nella Val Crodino, in Lombardia, Poloni ci racconta della storia di tre amici: il poeta Jack Ebasta, il cantautore Chiarugi e il Palma, che invece fa il liutaio. Nelle loro vite c’è sempre un “che” di sbagliato, una nota distorta che non vuole sapere di accordarsi con il resto del volgo, quello che “sta bene”, che non sosta nella “zona disagio”, come la definiscono loro. Eppure anche il solo parlarne, il condividere assieme punti di fuga, più che di vista, rende la loro esistenza sensata, pur all’interno di una enclave che ha scelto consapevolmente di rimanere ferma nel tempo – o meglio con il tempo – rifiutando una scellerata corsa alla modernità a tutti i costi, alla spersonalizzazione social e alla svendita un tot al chilo della propria libertà.

C’è tanta poesia in questo libro, e tanta natura. C’è l’immersione in un borgo screziato di verde e di blu e c’è l’amicizia. C’è una scrittura paziente e tenace, che leviga il foglio. E ci sono passaggi, spunti e riflessioni che vanno ben oltre la soglia del romanzo.

Il bello di questo libro è proprio questo, che è soltanto in apparenza un romanzo. È molto di più; è un distillato visionario, un estratto allucinogeno di qualche funghetto montano, un file corrotto di un sistema affaticato, che si ostina a girare male, malissimo.

Nelle pagine de L’uomo che rovinava i sabati si trovano indicazioni di vita, scelte plausibili per quanto rischiose, modalità alternative per condurre un’esistenza più faticosa, magari, ma estremamente libera. Questa urgenza comunicativa di Poloni io l’ho avvertita, tra le righe. Nella sua stessa bio, quando parla di insegnante redento, si legge tutta la disillusione di una professione allo sbando da più di un trentennio. E i tre amici che partono alla ricerca di un uomo che forse neanche esiste sono lo specchio di tutto ciò; ci si lascia qualcosa di certo alle spalle, ma solo per tendere ancora una volta all’indefinito, come promessa che nessun database o forma sociale prestabilita può darci. La ricerca a tutti costi del successo, sia esso espresso anche da un semplice like in più, ha avvelenato le coscienze della maggior parte di noi, sterminando quei minimi anticorpi che avevamo da stagioni di lotte sociali e civili. Leggere un libro come questo riequilibra. E ne abbiamo bisogno, dannatamente.

Io, vi assicuro, un giro nella Val Crodino me lo vado a fare. Se ci venite anche voi buttate un fischio, che si prepara lo zaino assieme.

QUI l’articolo originale:

Vincenzo Trama – “L’uomo che rovinava i sabati” di Alan Poloni

Più di là che di qua – recensione di Massimo De Feo su Il manifesto

Più di là che di qua – recensione di Massimo De Feo su Il manifesto

Passeggiata in bicicletta con celebrità

Inforcata una bici un monaco buddhista tibetano si inoltra nel Bardo, dimensione in cui per 49 giorni viaggia l’anima del defunto in attesa di rinascere o di raggiungere l’illuminazione. Nel suo pedalare si imbatte in Garibaldi, Fausto Coppi, Omero, Gesù, Attila, Van Gogh, Dante, Karl Marx, Freud, Hitler, Santippe, Elvis Presley, Cleopatra… per citare solo alcuni dei 49 trapassati, tutti più o meno «illustri» e tutti confusi e perplessi, di cui riporta le peripezie. Nel Bardo non valgono le leggi dello spazio-tempo dei vivi, passato presente e futuro si intrecciano, si sovrappongono, e i ricordi di quanto si è fatto in vita non mollano facilmente la presa, annebbiando la mente. È la trama di «Più di là che di qua», ultimo scritto di Paolo Morelli (Miraggi edizioni, 170 pag. 16,15 euro). Di ogni deceduto viene riportata la data, il luogo e la causa della morte, e quando è possibile anche l’ora. «’Addio Totonno, non veggo più luce’ esalato l’endecasillabo sfranto Giacomo Leopardi s’è appressato alla morte il 14 giugno del 1837, alle 21 precise in vico Piero 2 a Napoli, tra le braccia di Ranieri Antonio, appunto». Dopo varie avventure calcistiche ed endecasillabi sempre peggiori, l’ex poeta infinito «riuscirà a intrufolarsi nella signorina Clemente Anna, la quale il 15 febbraio ’98 dava alla luce Antonio Vincenzo Stefano, meglio conosciuto come Totò».

Alighieri Durante, detto Dante, cerca di capire chi sono tutti questi arrabbiati con lui che gli vengono incontro. Che gli ha fatto? Non se lo ricorda. Johann Sebastian Bach si risveglia in un canneto. Gesù «ha esalato l’anima il 7 aprile dell’anno 30 dopo sé stesso, un retrogusto acetoso in bocca…».

I primi passi nel Bardo di Blaskó Béla Ferenc Dersö, in arte Bela Lugosi, sepolto con mantello di velluto nero e rosso, sono in un campo sterminato, coltivato ad aglio. «Ah no! Io qui non ci vivo neanche morto!». Per Karl Marx c’è il deserto rosso di Marte, landa senza una capitale, per Napoleone Buonaparte ovviamente il manicomio. Cristoforo Colombo è prigioniero di una banda di vichinghi. Cervantes e Shakespeare, morti entrambi il 23 aprile 1616, si ritrovano abbracciati l’un l’altro guardandosi in cagnesco. Adolf Hitler si porta appresso le ultime ore nel suo bunker, e ossessivamente cerca invano di suicidarsi di nuovo, con coltelli, veleni, cocci di bottiglia, salti nel vuoto… «non era certo un trionfo per la logica tentare di ammazzarsi per chi è già morto». Archimede di Siracusa fu ucciso veramente il 14 marzo del 212 a.C., ossia nel giorno del pi greco?

La testimonianza del monaco a un certo punto viene interrotta da un reportage dalla Moravia, regione della repubblica Ceca, di cui discutono Alberto Moravia, Elsa, Pierpaolo ed Enzo. In chiusura prende il via il Gran Premio del Mandala, corsa ciclistica di 40 km. Garibaldi va subito in fuga, il plotone guidato da Bach e Paganini lo riprende quasi subito. Il primo gran premio della montagna se lo aggiudica Lugosi su Savonarola. La corsa continua, scatti di Van Gogh, Dante e Salomone e via pedalando con Romolo, Elvis, Cleopatra, pioggia e vento contrario, cadute, inseguimenti, fino al circuito di Quintessenza dove si taglia il filo di lana caprina dell’arrivo.

«Più di là che di qua ha un che di psichedelico, si specchia nella dimensione dei sogni, a volte assurdi e sconclusionati, a volte profetici o misteriosi. I giochi di parole e i calembour abbondano, la fantasia straripa. L’autore si è chiaramente divertito in sella a questo libro, che rimanda alla Livella del Principe de Curtis lucidando la falce del Tristo Mietitore.

QUI l’articolo originale:

https://ilmanifesto.it/passeggiata-in-bicicletta-con-celebrita/

Più di là che di qua – recensione su Blow Up

Più di là che di qua – recensione su Blow Up

Per festeggiare lo stato di prolifica grazia in cui versa la sua prosa da qualche anno a questa parte, Morelli si concede un vagabondaggio oltre la soglia non oltrepassabile che divide perentoriamente in due le esistenze di noi tutti: il di qua della vita e il di là della morte. Nell’intercapedine, quello che i buddisti chiamano Bardo, l’interregno di 49 giorni prima dell’ingresso in nuovo corpo e via così. Se Saunders si era dilettato di buttarci Lincoln, in quella terra di mezzo, crogiolandosi (anche) nel lacrimevole dolore, Morelli prova ad attraversarla in bicicletta, inanellando una schidionata di incontri che si riappropriano delle salutari rughe della commedia, sorridendo di fronte all’imperscrutabile. Fedele alla strampalatezza, il nostro crea un pretesto ridicolo per violare il diaframma e dilagare tra le anime dei morti, millenarie o giovani che siano.

Che sia Elvis o Napoleone, Gesù o Omero, Nerone o Salomone, Hitler o Socrate; ma anche Totò, o Marx, Bela Lugosi o Luigi Malabrocca la celebre maglia nera del ciclismo eroico, il punto vitale sta sempre nella felicità dell’incontro. Non c’è mai abbassamento o sarcasmo, piuttosto una serena attenzione di sguardo, pronto al riso, certo, ma anche all’inevitabile malinconia della finitezza, a una salutare saggezza del non sapere.

I PELLICANI di Sergio La Chiusa, libro del giorno a Fahrenheit il 15/09/2021

I PELLICANI di Sergio La Chiusa, libro del giorno a Fahrenheit il 15/09/2021

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Rare volte la lettura di un romanzo dà tanto piacere per la scrittura in sé; e rare volte tanta ricchezza narrativa viene con tanta disinvoltura stipata in un solo romanzo, in un solo appartamento, quasi in una sola stanza.l giovane Pellicani è un chiacchierone. Si presenta una sera – una sera tardi – nella casa del padre, casa dalla quale si era allontanato – dopo aver sottratto certi risparmi da un certo cassetto – vent’anni prima. L’immobile, un condominio di sei, sette piani, è disastrato. Ma la scritta «Pellicani» sul campanello dell’ultimo piano c’è ancora; e la porta è appena accostata. Il giovane Pellicani – un completo grigio un po’ sdrucito, una valigetta ventiquattrore portata solo per darsi un tono – vuole fermarsi una notte e via, andare altrove: ha degli affari in Cina, sostiene. Il padre avrà dimenticato i fatti di vent’anni prima, lo accoglierà volentieri. 

Il bambino intermittente – recensione di Dario Voltolini

Il bambino intermittente – recensione di Dario Voltolini

Questo librone è un libro leggerissimo. La sua vasta e perenne nevicata verbale copre e ricopre di candore un territorio che, tutto bianco, ci appare come sconfinato. Ha invece dei confini, ma noi non li avvertiamo perché Luca Ragagnin è un fuoriclasse del montaggio e il suo racconto corre, si impenna come un cavallo imbizzarrito, dilata in lunghe e molto belle pagine dialoghi di un momento, inventa a getto continuo cose, persone, situazioni, si riallaccia continuamente in sé stesso con rimandi vertiginosi messi lì sulla pagina pacatamente, tra parentesi in apparenza umili, comprime il Tempo mentre espande i singoli tempi. L’oceano di parole allestito dallo scrittore ha qualcosa di mirabolante: cioè è bello perdersi fra le sue onde, le sue correnti, senti che alla fine le quasi 700 pagine avrebbero potuto essere il doppio, perché le parole, qui, oltre ad avere il loro senso hanno anche una funzione particolare, che confluisce in un senso più ampio e generale. La funzione, che è a loro conferita dall’agilissima scrittura dell’autore, è quella di andare a dissodare un intrico di tempi, quello storico e quello personale, quello psicologico e quello immobile di un’infanzia e giovinezza cristallizzate. È una funzione di scoperta e insieme di copertura. È di scoperta perché tutte le figure che compongono il racconto e che attraversano il piccolo Berg (il bambino intermittente, ma anche una montagna) vanno a costellarsi in una formazione che probabilmente neppure l’autore si prefigurava all’inizio di questa straordinaria esperienza di scrittura (lo si intuisce dalla libertà che spira da tutte le frasi e che non esisterebbe se il progetto fosse stato tutto disegnato in anticipo). Dunque è una scoperta anche per l’autore, per il narratore e figuriamoci per il lettore. Ma è anche una funzione di copertura, perché la generosità e la ricchezza dell’affabulazione – la penna che scivola sulla pagina in stato di grazia e senza attrito – coprono qualcosa di abissale che si fa presto a chiamare “vuoto”, ma che vuoto non è: è piuttosto uno spazio tremendo fatto di paura e inesistenza, fatto di ondate di fumo nero e tossico, fatto di emozioni indicibili e maledettamente inevitabili, che riguardano la vita e la morte come un tutto, l’esserci e il sentirsi nulla incollati insieme in un organismo disperato. Qui il libro di Ragagnin va visto come un prodotto eroico, secondo me. Io vedo questo libro come la registrazione verbale, e pertanto preziosamente a disposizione di chi lo legge, di un atteggiamento che è dell’autore e che viene autodefinito come bulimico. Bulimico di che? Molto semplicemente della vita, direi. Un segno di questo sta nella mostruosa conoscenza musicale di Luca, tale per cui viene da chiedersi come sia possibile che tutti i brani che conosce totalizzino insieme un tempo di ascolto che supera di molti lustri il tempo della sua vita cronologica: li ascolta tutti insieme? Ha un acceleratore musicale in casa? Ha un’entrata nel cranio per fare un rapido download di tutto quanto? Qui nel suo libro la musica ha l’importanza che deve avere, ma è anche oggetto di smisurato amore, la bulimia di Luca è un atto d’amore. In questo libro si entra da tutte le parti e si esce anche da tutte le parti. Ma se si sceglie di uscire linearmente dalla fine, rimaniamo con questa immagine centrale e neuronale della perpetua costruzione di “nuovi edifici che crolleranno”, poiché questo fanno i nuovi edifici, crollano (struggente saluto, in epilogo, agli Einstürzende Neubauten).

Colloqui con il Pesce Sapiente – recensione di Anna Cavestri su Exlibris20

Colloqui con il Pesce Sapiente – recensione di Anna Cavestri su Exlibris20

Sulla consultazione dei sogni. Il sogno vien su durante il sonno, attratto dalla sua luce come lo sono
i pesci dalla lampara. Come quelli della fiocina, viene arpionato e ucciso dall’interpretazione (…) Un’antica sapienza vuole invece che lo si consulti come un Pesce Sapiente e poi, spenta la luce del sonno, lo si lasci tornare intatto nel profondo e si tragga profitto dai suoi insegnamenti.


Paolo Brunati è un fiume in piena, in questo libro, Colloqui con il pesce sapiente, disserta sui fatti della vita quotidiana, riflette sulle caratteristiche degli umani, usi e costumi , con occhio critico e acuto.

A volte canzonatorio, ironico quasi si diverta a beffeggiare anche se stesso.

Ci sono temi ricorrenti quali la morte, la poesia, lo scrivere e la lettura, di cui parla con ironia o con convinti disappunti.
Della lettura (…) a me per leggere non fa più bisogno del libro. O, meglio, di tutto il libro. Mi si è sviluppato un sistema per cui me ne basta un pezzetto (…) Potrei dire che come alla Rana cade la coda del girino, ho abbandonato la lettura del libro come una spoglia, come in una muta

Gli animali compaiono spesso, nei ricordi di bambino quando “mutilai molti insetti e altri ne arsi vivi con la lente a scopo scientifico, lo stesso che perseguono con gran merito Entomologhi laureati “. Geniale.
O come paragone con gli umani. Anche i ricordi tornano spesso, nei capitoli “Delle colpe la seconda colpa inespiabile “ quando a un compleanno della madre ebbe l’impulso di tirarle in faccia la torta che lei aveva preparato con tanto amore.

L’animo fanciullesco ritorna spesso ed è molto divertente. Di tutto scrive: A proposito della mia vita, Del nudo, Del tempo, Sulla Trinità, senza mai annoiare anzi lasciando al lettore punti di riflessioni su argomenti che magari non sono proprio all’ordine del giorno.

È una raccolta di pensieri diventati libro, che ha accolto con meraviglia, meraviglia e stupore che ha avuto di fronte ad ogni situazione trattata. E per citare un evento particolare, che esprime bene la “filosofia “ dello scrittore: “Il giorno che la nonna cadde all’indietro è rimasto per me un giorno di chiarezza. Come uno di quei giorni di primavera dove senti nell’aria odore di resurrezione. Cadde all’indietro scendendo dal tram della linea 16. E già questo è strano (…) Quello della nonna fu un ribaltamento importante, una prova generale, una simulazione della sua uscita dal mondo (…) Andare in cielo in tram“. “Del nascere. Io nacqui nell’ottobre del 1989 dall’amore di mia moglie, una donna bellissima, con il suo amante. È stata per me una liberazione, perché fino ad allora qualcosa di plumbeo aveva gravato sulla mia testa dandomi un’andatura curva.

E tanto altro tutto da leggere e sempre con almeno un mezzo sorriso. Purtroppo Brunati, se n’è andato poco dopo la pubblicazione del libro, in tempo per provare ancora con lo stupore di bambino questa nascita.

Libro profondo, lettura divertente.

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Il bambino intermittente – recensione su Tuttolibri

Il bambino intermittente – recensione su Tuttolibri

L’intermittenza rende unici

Leggere Il bambino intermittente di Luca Ragagnin è un’esperienza formativa, divertente e anche ancestrale. Conosciamo Berg, uno dei più interessanti personaggi della letteratura contemporanea, fin da quando maneggia il biberon e gironzola intorno alla mamma impegnata nel rito del trucco. È figlio unico, i genitori sono separati, ha una madre professoressa, un padre che lo porta in giro con un Maggiolino giallo a pois rosa insegnandogli i nomi degli alberi e dei funghi e i nonni di mare e quelli di città. Con una sorella immaginaria e l’amico Paul, Berg vive l’infanzia nella Torino degli anni 70. Trascinati dalla sua straordinaria immaginazione ne attraversiamo l’adolescenza fino all’età adulta.

Berg sente di avere molti «nemici», persone, luoghi, oggetti, ostacoli che gli impediscono di diventare chi vuole davvero essere. Anche per questo Berg cambierà nome molte volte, scoprendo così, e noi con lui, il valore salvifico dell’Intermittenza: accettarla lo porterà a diventare adulto mantenendo la sua identità cangiante e variopinta, scontrandosi con la realtà, con i suoi aspetti duri, feroci ma anche di commuovente bellezza, e trovando infine il modo di armonizzarli. Il bambino intermittente mostra a noi lettori il valore inestimabile dell’unicità dell’essere umano, rivivendo il nostro passato, le nostre meraviglie, le nostre paure e arrivando a definire chi siamo veramente.

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I Pellicani – recensione di Leonardo Malaguti su LiminaRivista

I Pellicani – recensione di Leonardo Malaguti su LiminaRivista

Sintassi, solitudine e Simmenthal. I Pellicani di Sergio La Chiusa

A cavallo tra Beckett e Lo Sgargabonzi, tra Topolino e Kafka, I Pellicani di Sergio La Chiusa (Miraggi 2020) si snoda come un sogno lucido, un’allucinazione verbale in cui il lettore viene risucchiato e imprigionato in un trilocale claustrofobico assieme al protagonista e al suo (presunto) padre.
L’appartamento dell’anziano Pellicani è assieme stanza, mondo, e l’interno della mente di Pellicani figlio (?), che – narratore prepotente e assolutamente inaffidabile – filtra attraverso la sua logorrea ogni frangente della realtà, rendendola indistinguibile dalle sue fantasie e angosce. 
Il libro è l’appartamento e l’appartamento è il libro, e i protagonisti non possono uscirne perché vorrebbe dire uscire dalla narrazione, staccarsi dalle pagine. 

«Il corpo è la gabbia dalla quale nessuna fuga è ammessa e che ci rende tutti simili […] anche l’immobile fatiscente in cui entrano in contatto i Pellicani potrebbe essere visto come un grande corpo-gabbia, o, meglio, un corpo sociale in rovina – e se un’etica del corpo è rintracciabile nel romanzo va forse cercata nella presa d’atto di questa precarietà e impossibilità di fuga che ci rende tutti simili.» [1]

Questo corpo-gabbia di cui parla La Chiusa, prima ancora di essere «immobile fatiscente», pezzo di carne o costrutto etico-sociale, è il testo stesso. O meglio, è soltanto il testo: la scrittura non s’immerge nella storia e nei personaggi, non si mimetizza, non si fa immagine, ma seguendo un moto inverso che dalla profondità porta alla superficie mette al centro se stessa e le parole, il loro suono, il flusso che creano. Utilizza un italiano eccentrico, desueto e pop, che attraverso un’ipotassi prepotente spinge il testo a perdersi in mille diverse linee di pensiero, voli pindarici senza capo né coda, un vortice senza un centro che col sorriso sotto i baffi fa progressivamente sfaldare il senso del discorso e delle parole. L’incertezza tracotante di Pellicani figlio, l’angoscia muta e scatologica di Pellicani padre, la decadenza marcescente del palazzo, non vengono tanto descritte, quanto letteralmente incarnate dalla prosa stessa. Tutto viene messo in discussione, anche l’identità della voce narrante in prima persona, che – nel momento di massima incertezza semantica e formale – non regge la tensione e, prendendo le distanze da sé e persino dal lettore, muta per qualche paragrafo in una terza persona.

«Il vecchio ci stava ipnotizzando, risucchiando nei vortici del suo naso, e anzi in un certo senso eravamo tutti accucciati lì dentro, rannicchiati, al calduccio, trasportati nel suo mondo, incavernati, per così dire, inselvati tra ruvidi peluzzi e ivi vezzeggiati da una brezzolina […].» 

L’attenzione di La Chiusa alle possibilità espressive della prosa è senza ombra di dubbio l’elemento più originale e riuscito del libro (che non a caso ha ricevuto la Menzione speciale Treccani alla XXXII edizione del Premio Calvino), approccio in controtendenza rispetto un panorama letterario che solitamente privilegia l’eccessiva semplificazione, e che ricorda per certi versi quello (più filologico ma altrettanto fantasioso) di Massimo Roscia, un tour de force linguistico venato di un’ironia nera e surreale. Non sempre però la lettura scorre, non tanto per la lingua, quanto per certi momenti di ridondanza, che, a volte, più che scelte di stile sembrano provare a nascondere una prematura stanchezza drammaturgica. Come nel recente La Madre Assassina di Ermanno Cavazzoni (La Nave di Teseo, 2020) – formalmente opposto, ma dalle tematiche simili, entrambi racconti kafkiani incentrati su protagonisti che mettono in dubbio tutto ciò che vedono e che sono, intrappolati in un mondo ostile ma da cui dipendono, uno che cerca di emanciparsi da una madre/mostro, l’altro da un padre/parassita – l’impressione è che quello che sarebbe stato un racconto incisivo sia stato diluito in un romanzo sì piacevole, ma meno pregnante. 

Con I Pellicani, La Chiusa ha tentato l’impossibile: una summa della trilogia beckettiana – di cui tocca tutti i temi salienti, dall’identità sfaldata, alla solitudine esistenziale, al caos, alla malattia, alla morte, all’incomunicabilità, e di cui rievoca la prosa fiume – ibridata con una vena satirica allucinata che, tra il trash e il nostalgico, tra la Simmenthal e Amleto, racconta di un Paese infantile e senile assieme, che si riconosce soltanto nella pubblicità andata in onda tra un cartone e l’altro quando eravamo piccoli. Un’ambizione mastodontica, insomma, destinata a fallire in partenza: ma La Chiusa sa che, stando a Beckett, il fallimento non è che il risultato ineluttabile di ogni azione umana, il motore che ci muove e paradossalmente ci spinge a vivere, e che, non a caso, è anche il fulcro de I Pellicani; dunque si può tranquillamente affermare che si tratta di un fallimento riuscito. In fondo il sottotitolo del libro è storia di un’emancipazione: emancipazione dalla società, da se stessi, dal falso mito capitalistico del dover “riuscire” per potersi definire umani.

«You must go on. I can’t go on. I’ll go on.» [2]





[1] Intervista a Sergio La Chiusa di Angelo Di Liberto.
[2] da Samuel Beckett, L’innominabile

QUI l’articolo originale:

https://www.liminarivista.it/comma-22/sintassi-solitudine-e-simmenthal-i-pellicani-di-sergio-la-chiusa/?fbclid=IwAR1NUmFm7vo9HFnzW5ERfCfxw0F_7iXWvep4utYeKmaUgrup5hDXEsVkoPs&cli_action=1631806272.318