fbpx
Più di là che di qua – recensione di Anna Cavestri su LoScrivodaMe

Più di là che di qua – recensione di Anna Cavestri su LoScrivodaMe

Secondo un rito arcaico della religione tibetana chiamata “ divagazione o vagabondaggio dell’attenzione “ lo sciamano specializzato è in grado di fare dei veri e propri viaggi nell’aldilà , o meglio, può vedere nello stato post mortem delle persone.

Il protagonista esperto, monaco buddista, va nell’aldilà di alcuni personaggi famosi in bicicletta, che è un’altra delle sue passioni.

Ci sono delle condizioni affinché questo possa avvenire radicate in quella visione della vita e della morte di questa religione, il concetto viene chiarito nel libro.

I personaggi che vengono osservati nel momento della loro transizione, che ha una durata che è tutto un programma pure quella, sono i più diversi nei periodi più lontani e meno rispetto al nostro tempo.

Dice il monaco:” sono proprio le cose che non capiamo a tenerci vivi e non solo, per quanto mi riguarda quelle che capiamo o crediamo di capire più tempo ci mettiamo a capirle e più si allunga la vita…..”

E quindi troviamo Archimede, Lucrezia Borgia, Attila, Napoleone, Marx, Hitler, Elvis Presley, Freud, Frida Kalo e tanti altri a vivere situazione diverse da quelle che hanno vissuto.

Marx a dire che “ il lavoro è una funzione animale “, Freud rimasto piegato su se stesso, come un libro dal titolo: “L’interruzione dei sogni “ per esempio. E che dire di Dante che “appena giunto sull’altra sponda si è visto arrivare contro migliaia di persone illustri e sconosciute ma tutte arrabbiate…..che lui non ricordava cosa gli aveva fatto…”

E tanto altro.

Il libro l’ho trovato originale e divertente. Questo “ritorno in vita “, che è quasi una ritorsione per i personaggi presi in considerazione è interessante e pieno di riferimenti letterari e culturali. .

Ed è anche l’occasione per ripassare la storia, in cui i personaggi sono esistiti o per scoprirne altri di cui magari si è solo sentito nominare.

È un libro molto originale, una lettura piacevole.

QUI l’articolo originale:

Il bambino intermittente – recensione di Silvia Acierno su Exlibris20

Il bambino intermittente – recensione di Silvia Acierno su Exlibris20

In questa storia le parole vengono in qualche modo prima di tutto. E allora comincio proprio dalle parole che riempiono gli spazi, le distanze tra le mots et les choses, tra Luca Ragagnin, l’autore, e le cose, tra sé e il mondo. Tra i mobili della stanzetta in cui era bambino, la sua scrivania, il suo lettino, e i muri perché da bambino il narratore non sopportava che il suo letto fosse stretto alla parete. Quello spazio è l’insostenibile vertigine del vuoto. E le parole che devono riempirlo, “mettersi tra” (intermettersi), diventano infinite, quasi quanti sono gli atomi che ci separano, sempre più lontane dalle cose, che finiscono per perdersi in descrizioni e sovradescrizioni, voragini e burroni. Per avvicinarsi però all’autore, alla sua psiche e nevrosi. Berg, così si chiama il narratore, in fondo sta lì, in quello scarto, in questa distanza. Dove appunto la digressione e i suoi flussi sono uno stato d’animo, un modo di stare al mondo. L’opposto della digressione è la mancanza di immaginazione, la pigrizia, così ci dice. L’immaginazione invece per Berg è quello che separa la parola dall’azione, il reale dalla realtà, tutto quello che sta lì in mezzo. Lì senza argini, il bambino che contava numeri si allunga nell’adulto che conta parola per allungare il tempo.

Le parole hanno un’origine materna o paterna. Quelle del padre sono tassonomie, quelle della madre aspettative. Tra parentesi mamma o papà perché i genitori sono separati e quindi non solo doppie vacanze ma anche cose separate, quelle di mamma e quelle di papà, parole separate, e in qualche modo due universi separati, gli uomini da un lato e le donne dall’altro. Ad un certo punto della storia la madre di Berg, una maestra, compra una casupola in campagna che il narratore descrive nei minimi particolari con la solita autoironia che è un modo per nascondere a se stesso quei sentimenti scomodi che si nutrono nei confronti dei nostri genitori e che non sempre siamo disposti a vedere ed accettare. Questa casina dove tutto batte contro tutto, dove ogni spazio si scontra con quelli contigui, avviluppata da erbe e cose ed insetti minuscoli, una casa giocattolo, una casina delle bambole, un fortino è, allo stesso modo del romanzo, una rappresentazione perfetta dello scrittore, almeno di quello che si nasconde dietro Berg, e delle sue fobie. Ma è anche la forma del ricordo. Cos’è in fondo quella casa in cui siamo vissuti quando cresciamo e tutto cambia, e siamo nelle nostre case e ci mancano tante cose, se non uno spazio minuscolo, un nocciolo, chiuso e perfetto nelle sue imperfezioni come un carillon, come una casa giocattolo, appunto?

Ma anche la casa o stanza che il narratore va costruendosi è un piccolo cerchio forse ancora più angusto della casetta della madre. Un cerchio che allontana tutti gli altri, per snobismo, le ragazze stupide, i figli di papà, e tutti quei nemici, reali o immaginari, che ci costruiamo, forse solo per paura, prima che quegli altri ci facciano del male o ci feriscano di nuovo. “Non sarà un cerchio perfetto, probabilmente non sarà nemmeno un cerchio; sarà una forma chiusa, irregolare, spezzettata, ma avrà una porta, per lasciare fuori”.

Nella stanza, tra i muri e sipari del cerchio, le parole devono assolutamente sostituirsi agli oggetti, coprirli, nasconderli. Soprattutto alcuni: quelli che hanno occhi e ingranaggi, quelli da cui il narratore anche adulto continua a distogliere lo sguardo. Le cose che lo fissano con occhi inanimati, come le bambole di pezza nella stanza della madre. Le bambole sono come tre bambine che odiano Berg. Così come la sveglia, che il bambino osserva mentre la madre riposa nella sua stanza, scatena la visione del cadavere di una donna nuda (di nuovo una figura femminile, di nuovo legata alla stanza intima della madre) e insidiosa. Oggetti che portano con sé quell’angoscia che nel romanzo di Saramago, Las intermitencias de la muerte, è per assurdo moltiplicata dall’assenza del tempo e della morte. Quegli oggetti sono il tempo che si prende beffa di te andando indietro per poi prendere quella rincorsa che si porta appresso tutte le illusioni.

Intorno alle parole ci sono le parentesi anche loro oggetto di infinite moltiplicazioni. Poi ci sono le forme che non si adattano alle cose e alle parole che le descrivono, ma hanno una consistenza propria, un’idea, forse l’immaginazione propria dell’infanzia, che si interpone tra la cosa e la parola, trasformandola e creando un lessico molto intimo.

Le parole-talismano o piuttosto parole-leggendarie attorno a cui si materializzano i passaggi da un età ad un’altra, che sono sempre piccoli salti o piuttosto passi attorno a un punto, sempre lo stesso, in sfere che da quel punto si allontanano sempre di più. Fino a quando quel punto resterà dentro pulsante o soffocato. Catavoletto è una di queste: il tavolo posato su due cavalletti che gli regala il padre e che in qualche modo rappresenta il luogo della scrittura che per Ragagnin è un tavolo-sorella. Una sorellina immaginaria, Kyoko, (ancora una versione della femminilità della madre) della cui mancanza il bambino in qualche modo si è fatto una specie di colpa. Un cappello che è un po’ come un orsetto. C’è la panchina. Nel mio immaginario la panchina è un posto romantico, lo spazio stretto di un appuntamento, un bacio svolazzante come quelli di Doisneau sulle piazze e i bancs publics di una Parigi che sopravvive ancora, fedele a se stessa. Niente di più lontano dalla panchina di Ragagnin: luogo della comitiva ristretta di pochi ragazzi, sicuramente appassionati di musica cult, non il pop dei comuni mortali. Solo ragazzi, magari un po’ misogini ma per timidezza. Queste parole sono soprattutto oggetti su cui ancora scorre il tempo. Ma questa volta non minacciano Berg, piuttosto lo difendono come bastioni.

Ragagnin si mette sotto torchio. E quando ci si mette sotto torchio le parole diventano labirintiche e hanno ganci che trascinano con sé tutto, pieni e vuoti. Ganci ancora sono quelle parole tra parentesi a fine capitolo che visivamente devono anticipare ed afferrare l’inizio del capitolo successivo. Il suo bambino intermittente è un bambino distratto, un adulto con la testa tra le nuvole, incapace di portare a termine qualsiasi progetto, uno che inciampa, si scontra continuamente nelle cose che sporgono e quando resti impigliato anche le parole e i ricordi fanno cadute rocambolesche, giri vorticosi. E allora possono far male. È un bambino che probabilmente la madre ha sempre cercato di incasellare. Il biglietto da visita che la madre gli regala in una risma e che il bambino riscrive continuamente è una metafora di questa necessità di inquadrarlo. Che poi diventa una necessità quasi maniacale del ragazzino e dell’adulto di nascondersi, e di coprire sotto tutto il suo vero me. E su quel biglietto ci sono alcune delle definizioni che sentiamo dire distrattamente o con grande apprensione ai nostri genitori: bambino iperattivo, bambino problematico, Ragagnin aggiunge, bambino tra parentesi, bambino maltagliato, bambino indeciso… Tutte tristi testimonianza della difficoltà dell’adulto di accogliere un bambino. Lui quei biglietti racconta di averli inceneriti ma nel romanzo ritornano. Il romanzo stesso è l’ennesimo biglietto da visita, un’altra identità.

Berg è un collezionista, di libri, di musica e vinili, di erudizione musicale. Ma soprattutto di parole e ricordi e di immaginazioni, che hanno una consistenza diversa dalla sabbia della famosa collezione che Calvino sceglie come metafora della sua raccolta. Eppure anche tutti quegli oggetti e fantasie ancora così corporee, accumulate, a volte affastellate in queste pagine finiranno per diventare granelli di sabbia, edifici che crollano.

Come raccontare la propria infanzia? Forse meglio nello spazio incompiuto del frammento, di quelle poche scene che sopravvivono di un tempo del prima. Difficile farlo in una narrazione classica, dove a una pagina segue un’altra, ad un anno segue quello successivo. Difficile farlo quando si pretende di raccontare invece di mostrare. In questa narrazione l’adulto Ragagnin è sempre presente anche troppo, accompagna sempre per mano quel bambino ne completa il gesto, lo interpreta, lo racconta con parole troppo adulte. Eppure, nonostante il narratore si intrometta continuamente, provi a rientrare negli spazi vuoti, quel bambino impacciato, che pende dalle labbra degli adulti sta lì, eccolo. E quanto più l’io narrante non si ridimensiona, non si rimpicciolisce, dà libero corso alle sue fantasie gotiche e non, tanto meglio vedo quel bambino protetto ma sempre vigile, che ha paura di dormire, paura di mangiare, paura che accada qualcosa alla madre mentre dorme. Il bambino che guarda gli enormi vagoni merce dal terrazzo della nonna.

Il bambino intermittente è un bambino che avanza e si ferma, si accende e si spegne. Ma è anche quel bambino che ritorna continuamente e involontariamente nell’adulto, nella scrittura. Evoca le “intermittenze del cuore” di Proust. La memoria involontaria che sola può farci sperimentare il vero dolore, e restituirci la persona che si ricorda assieme a un sé più vero e autentico. Un sentimento intermittente è incompleto, anacronistico, non freudiano. Una rivelazione in cui si inciampa senza volere.

All’intermittenza del cuore si addice forse uno stile frammentario (Roland Barthes nel Journal de deuil, e in La chambre claire), invece qui il ricordo è sostenuto da una narrazione fitta, lunga, più o meno cronologica, stilisticamente agli antipodi di qualsiasi frammentarietà. Eppure a ben guardare la scrittura non è un ponte che conduce dal passato al presente. Ragagnin si muove piuttosto nell’indeterminatezza, una specie di confusione che forse è il suo modo di sopravvivere. Così la scrittura confonde e trasforma un imbarcadero nel punto romantico in cui Berg immagina che i suoi genitori si siano scambiati quella lontana promessa, nel punto dannato in cui si ritrova con un gruppo di musicisti, l’infelicità dei bicchieri vuoti sul tavolo, dei travestimenti ben stirati, delle parole acide, fino a dissolversi in un luogo di occasioni mancate avvolte in una nebbia che morde le parole.

Nella nebbia dove la realtà compare a blocchi intermittenti, nonostante tutte le parole e tutti gli appigli, il ricordo è ancora più rotto di un frammento, più frammentario di una scaglia, è un punto statico, desolatamente irraggiungibile, amplificato all’infinito. Sul quel punto Ragagnin-Berg si ferma e cerca di imbalsamarlo, “non dimentico più nulla”, applica gli unguenti, l’impronta morbida del silenzio delle nonne “su tutti quei bambini che sono stato” e sull’unico bambino che è stato, sulle sue paure e solitudini che sono forse il biglietto da visita più vero.

QUI l’articolo originale:

https://www.exlibris20.it/il-bambino-intermittente-di-luca-ragagnin/

L’uomo che rovinava i sabati – recensione di Claudio Calzana su La Provincia

L’uomo che rovinava i sabati – recensione di Claudio Calzana su La Provincia

Alan Poloni, l’uomo salverà la bellezza?

Dopo “Dio se la caverà” dallo scrittore bergamasco arriva il sorprendente “L’uomo che rovinava i sabati” Romanzo picaresco che richiama la commedia all’italiana, “suona” come una sarabanda, fa ridere e anche riflettere

L’andatura narrativa è picaresca, in diversi luoghi richiama la commedia all’italiana, e si potrebbe anche scomodare il romanzo di formazione, o meglio il viaggio iniziatico, quello che osa spingersi oltre gli angusti limiti della coscienza ordinaria. Il termine esatto è sarabanda, forse. D’altronde, in chiave musicale la sarabanda per eccellenza è la “Follia Spagnola”, consiglio la versione di Corelli per un assaggio. Di sicuro il romanzo di Alan Poloni, “L’uomo che rovinava i sabati”, edito da Miraggi a fine 2020 – seconda prova dello scrittore bergamasco dopo “Dio se la caverà” (Neo 2014) – ha pochi paragoni con le opere che van per la maggiore: e questo sia detto a merito, s’intende.

Questo romanzo non ha genere, semmai crea un genere nel segno dell’invenzione continua, divertita e divertente. Per restare in ambito musicale, è una sorta di Arte della Fuga, e magari anche un Enigma, come quelli che Bach si divertiva a far risolvere a Federico II di Prussia. Altri tempi, altri sovrani.

Tre amici

Tutto nasce da tre amici scombinati, che fanno fatica a “starci dentro”, come ama dire Poloni: un poeta, Jack Ebasta, in perenne bilico e conflitto sia con gli affetti primari, sia con il sistema editoriale; un cantautore tombeur de femmes, Malcolm Chiarugi, che campa installando cessi chimici; un liutaio che realizza chitarre per intenditori, Palmiro detto Palma, che però fatica a separarsene, ovvero non le vende al primo che passa, ci mancherebbe anche quella. E poi c’è il contesto, la fantomatica Val Crodino, nicchia antropologica che ospita una popolazione sopra – meglio: sotto – le righe, gente dall’animus anarcoide che non ha certo di mira il posto fisso e men che meno il consumo, refrattaria com’è ai centri commerciali, che qui non hanno il permesso di soggiorno; gente che si contenta di poco o nulla, eccezion fatta per certi funghi psicotropi, opportunamente ripassati in pentothal dal druido di turno. Date un occhio alla copertina del libro: il serpente tenta Adamo ed Eva avvinto a un Amanita Muscaria, qui albero del Bene e del Male, proprio come accade in un affresco medievale.

Messa a fuoco

A onor del vero, andrebbe anche aggiunto un quarto personaggio, che magari passa via minore, ma che minore non è affatto per la messa a fuoco della trama: trattasi di Cecchini, figlio del farmacista, ovviamente ipocondriaco, una sorta di Roi Ipnol, di sacerdote del monte Tavor. A me il libro si è acceso proprio all’arrivo del Cecchini, per la precisione a pagina 136. Prima i tre stiracchiano le loro vite in assenza di direzione certa, o perlomeno retta. I sodali hanno una vocazione, eccome, ma la medesima marciava sul posto, ingavinati com’erano nelle rispettive ossessioni: Palma a elaborare il lutto della separazione dalla Rossana e a cacciare dal negozio clienti indegni delle sue creature; Chiarugi a impiantare bagni chimici e a tener testa al suo parco donne, che a quanto pare proprio cessi non sono; Jack che resiste alle gioie della serenità familiare e in cambio di due palanche declama in pubblico poesie con «fredda cantilena da monatto incallito» (21).

Bene: entra in scena il Cecchini e gli altri tre trovano la via, guarda caso uniti e solidali. Siccome il Palma insegue un misterioso antropologo disperso tra i monti – vuole a tutti i costi provare una sua teoria sull’ostinata stanzialità dei Camuni, antichi abitatori della Valle –, gli altri due lo accompagnano nel fantastico viaggio finale; nel mentre, in quattro e quattr’otto Malcolm sforna un album con una canzone dedicata a ciascuna delle donne del suo harem, invitando l’intero parco al concerto di lancio, per vedere da vicino l’effetto che fa; Jack verrà richiamato in servizio permanente effettivo dagli affetti familiari e dal sistema editoriale, cercando di mantenersi passabilmente impuro e folle.

Sorriso benevolo

Alan Poloni si mette in traccia dei suoi personaggi, li pedina, a volte li affianca facendosi il quarto di tre, certo li scruta col sorriso benevolo del genitore che sorvola sui difetti, ci regala l’utopia delle intenzioni, arreda con cura questo suo ripostulato altrove. Esibisce uno stile libero, crepitante come il fuoco quando prende bene, felice per inventiva e dismisura. Si ride di gusto, preparatevi, ci sono giri di frasi da sbellicarsi, e la commedia si fa largo con felice grazia e levità. Come avete capito, i temi del libro sono parecchi. Uno, l’amicizia virile, che prova a dare un senso al mondo a partire da quelle primitive vocazioni che non devi mai scordare per strada, o peggio tradire. Due, il romanzo è fitto di rimandi musicali, il sapore è pop e soprattutto rock, mondo che mi sfugge abbastanza, per cui mi astengo. Certo l’intera narrazione è musicale in senso stretto, cioè fatta di intro, sviluppo del tema, ritornello polifonico, ripresa finale, chiusa a sorpresa, con una ritmica solida a scandire il tempo. Terzo, per me delizioso, l’infinito gioco di rimandi e citazioni letterarie, altrettanti segreti omaggi ad autori che Poloni evidentemente predilige.

Però, ecco, a ben vedere, al centro di tutta la narrazione, e dunque delle intenzioni dell’autore, sta la preoccupazione per la sorte della poesia, che poi sarebbe la vocazione allo stato puro, o bellezza che dir si voglia: questo è il cuore segreto dell’orologio, la forza propulsiva generata dalla coppia conica persuasione/retorica.

Chiariamo il concetto: Poloni non sta dicendo che la bellezza salverà il mondo, che è roba da involucro dei cioccolatini; no, dice che tocca al mondo, cioè a ciascuno di noi, salvare la bellezza, cosa possibile solo se si lascia campo alla poesia. Il che non significa solamente alla parola, che della poesia è la versione sciamanica per eccellenza, ma anche alla misura di un gesto, all’ascolto dell’altro, all’etica del prendersi cura, all’inevitabile ossessione dell’artigiano, alla felice mania dell’artista. In questa chiave, allora, si può sorridere sull’ossimoro “grosso editore” laddove si parla di poesia(97), piuttosto che meditare sul fatto che in Val Crodino non ci sono «automobili di cilindrata superiore ai milletré (in un’enclave dove poetesse come Mariangela Gualtieri e Livia Candiani venivano invitate quasi ogni anno dalla Mary, “Quattroruote” coi suoi interessantissimi test prestazionali vendeva un paio di copie a far bello)» (132); ci si commuove al ricordo di Pierluigi Cappello (221), o riflettere sul fatto che a Jack per stare meglio basta «girare per la cucina in mise anni cinquanta, sentirsi sandropenna, lui e la sua cheta follia…» (87); infine, e per certi versi soprattutto, si conviene sulla lucida analisi riservata al sistema editoriale: «Il poeta, come il romanziere, fa di tutto per creare il personaggio, per fare in modo che l’extra-libro traini il libro…» (257).

Il circuito letterario premia gli autori permeabili alle logiche della rete, i personaggi televisivi, il chiacchiericcio dei media, l’intrattenimento fine a se stesso, l’Assunzione del nulla. A richiamare il titolo, questo sabato del villaggio globale si merita un calcio nel didietro, che Poloni assesta con felice vigore. A simmetrica chiusa, la poesia s’incarna nella Roxanne dei Police citata in esergo: la giovane prostituta può scegliere di non vendere il proprio corpo perché ha finalmente incontrato qualcuno che la ama davvero.

QUI l’articolo originale:

I Pellicani – recensione di Raffaella Romano su Mangialibri

I Pellicani – recensione di Raffaella Romano su Mangialibri

La sua intenzione non è quella di stabilirsi, di “installarsi” a casa del padre; sta solamente passando per quelle zone -per impegni di lavoro, naturalmente- e sarebbe poco cortese non andare a trovarlo; giusto una visita di cortesia, per educazione. Al massimo potrebbe fermarsi per una notte, certo non di più. Alla fine, si tratta sempre di suo padre. Chissà che faccia farà, pensa Pellicani figlio, dopo vent’anni di assenza. Sarà stupito, sorpreso di vederlo in quel suo completo grigio con la valigetta ben salda in mano. “Affari, un’impresa import-export” gli spiegherà, ponendo ben in mostra la valigetta, mentre il padre si adopererà per mettere a suo agio il figlio, rispettabile uomo in carriera. Certo, il vestito non è perfettamente stirato, appena un po’ sgualcito -ma sono gli effetti dei continui viaggi di lavoro, le trasferte, i voli. Ed è vero, la valigetta contiene solo qualche oggetto di cancelleria di cui Pellicani figlio si è appropriato prima di andarsene dalla sua occupazione precedente e, che altro? Ah sì, una mutanda pulita come ricambio, che non si sa mai. Il palazzo non è, però, come se lo ricordava. Tutta la via, in realtà, si mostra come un cumulo di macerie e pilastri e tubi ed il caseggiato nel quale viveva Pellicani da giovane si staglia come unico edificio sopravvissuto, quasi vergognosamente, tra i resti di altre costruzioni. Pellicani figlio entra nel caseggiato attraverso il portone d’entrata tenuto aperto da un mattone e imbocca le scale…

Partiamo dai fatti: il romanzo in questione è stato finalista alla XXXII edizione del Premio Italo Calvino e in questa occasione ha avuto la Menzione Speciale Treccani: in effetti, l’elemento che forse maggiormente caratterizza e conquista di questo romanzo è l’utilizzo della lingua, puntuale e affascinante. La scrittura è davvero equilibrata, sapiente e il lettore si sente rassicurato, guidato dall’autore cui si affida pienamente: tale precisione e armonia cozzano irrimediabilmente con la storia raccontata, che narra di decadenza sociale, personale, fisica. Il tema centrale è il rapporto fra padre e figlio (o, per la precisione, fra Pellicani figlio e quello che si presume essere suo padre) che implica il conoscersi e il riconoscersi, comprende la necessità di fare i conti con il ciclo della vita, la necessità di dialogo e l’incomunicabilità fra diverse generazioni o ruoli sociali. Mentre i personaggi – limitati, essenziali – sembrano non riuscire a instaurare una comunicazione alla pari, gli oggetti attorno a loro hanno una potenza espressiva e iconica sorprendente (la valigetta, la carne Simmenthal, i fumetti e i giocattoli). Pur svolgendosi effettivamente e quasi completamente entro quattro pareti, il romanzo parla di una realtà (e follia) attualissima e universale, incrociando sensi di colpa e voglia di riscatto, malattia fisica e squilibrio mentale, disagio sociale subito e incapacità di adattarsi alle norme imposte. Un romanzo consigliatissimo.

QUI l’articolo originale:

https://www.mangialibri.com/i-pellicani

I Pellicani – Daniela Morandi intervista Sergio La Chiusa sul Corriere della Sera

I Pellicani – Daniela Morandi intervista Sergio La Chiusa sul Corriere della Sera

Padri tormentati dai figli, tra immaginazione e realtà

La scrittura è fitta. Trascina il lettore in una spirale ossessiva, a tratti claustrofobica. «I Pellicani, cronaca di un’emancipazione» di Sergio La Chiusa si consuma all’interno di un edificio decadente e disabitato. O meglio, un residente c’è: Pellicani padre, anche se l’io narrante del figlio, in visita dopo vent’anni d’assenza, ha qualche dubbio sulla reale paternità. Unica somiglianza? Un naso ingombrante. In un continuo rimando tra realtà, finzione, aspettative, vecchiaia e giovinezza, si assiste all’immobilismo di un giovane uomo alle prese con temi sociali ed esistenziali. Lo scrittore, tra i finalisti del Premio Bergamo, ne parlerà oggi alle 17 sui canali social della manifestazione, intervistato da Maria Tosca Finazzi.

Come nasce il titolo?

«Pellicani è il cognome dei protagonisti, richiama il loro naso ingombrante e ironicamente anche la simbologia cristiana del pellicano: il padre che si sacrifica per i figli, mentre nel romanzo un ipotetico padre è tormentato da un ipotetico figlio».

Il sottotitolo «cronaca di un’emancipazione» è più ironico che reale.

«Sì, gioca con il sentimento del contrario che anima il romanzo. Non si tratta di una cronaca, ma di una continua interpretazione tendenziosa e contraddittoria. Poi le emancipazioni sono parodie di un’emancipazione: il giovane vive confinato nella trappola della propria mente, il vecchio nella trappola del proprio corpo, entrambi nella trappola dell’immobile».

Nel testo si relaziona molto con gli oggetti, valigetta, pantofole, peluche, Pinocchio, mollette… Perché?

«Gli oggetti affollano il romanzo supplendo alla povertà di personaggi. Sono usati come protesi del corpo, simboli, sintomi, indizi e agenti provocatori. Formano una specie d’inconscio fisico e si presentano allo sguardo paranoico di Pellicani come maschere dietro le quali si nasconde qualcosa di minaccioso, enigmatico, ostile. Anche se il rapporto che egli v’instaura ha spesso esiti comici, risultano perturbanti e possono essere visti come fili di un’immensa ragnatela tesa intorno alle nostre esistenze dalla società dei consumi».

L’io narrante afferma che «l’ozio è la forma assoluta della ribellione», «il nullafacente il vero sovversivo dei tempi moderni». Lo crede anche lei?

«No. L’io narrante è un portatore di conflitti, contraddizioni, ambiguità. Non il portavoce dell’autore. In taluni casi però la diserzione, non l’ozio, è la sola forma possibile di ribellione».

Nel romanzo il protagonista afferma che l’inclinazione a scomparire è una prerogativa degli asociali. Lei è sociale o asociale con la tendenza a scomparire nei suoi libri?

«Mi ritengo un essere sociale. Scrivere però è intimamente contraddittorio: un lavoro di solitudine e tuttavia rivolto idealmente a una folla ignota d’individui, sconosciuti gli uni agli altri, distanti nello spazio e nel tempo».

Si ritrova una continua relazione tra realtà e finzione.

«Uno dei temi del libro è il rapporto tra immaginazione e realtà, tra la fabbricazione di un mondo fittizio e la miseria del reale e della nuda vita, con i suoi limiti biologici, e il vecchio, con le sue esigenze di semplice sopravvivenza, rappresenta per il giovane uno specchio deformante che produce ossessioni».

La storia è ambientata in un caseggiato disabitato e decadente. È reale o il labirinto della mente?

«È un caseggiato reale, ma anche metafora d’una società in rovina e soprattutto labirinto mentale, intrico di stanze, scale e corridoi immateriali nel quale si consuma il confronto tra vecchiaia e giovinezza».

QUI l’articolo originale:

Donne di mafia – Michele Lipori intervista Liliana Madeo su Confronti

Donne di mafia – Michele Lipori intervista Liliana Madeo su Confronti

Donne di mafia. La decostruzione di uno stereotipo

Il libro Donne di mafia aiuta a smontare un cliché delle donne che partecipano in diverso modo all’universo mafioso.

L’identikit delle donne di mafia lo fanno gli uomini, e quindi il cliché si fa portatore della visione che la mafia ha delle donne. In questa visione, la donna serve per fare i figli, per creare la famiglia e la continuità, e soprattutto per mantenere i contatti tra la famiglia di sangue e il clan. Questo però a patto che la donna non sappia niente di quello che riguarda il mondo della mafia, perché non ci si fida di lei. Si pensa infatti che la donna a causa della sua l’emotività possa essere portata a tradire. Ma come vivono le donne questo ruolo? Molti dei rapporti d’amore con gli uomini mafiosi nascono in età giovanile, sia da donne che vengono da famiglie mafiose, sia che vengono da fuori.

Nel primo caso queste donne non trovano niente di strano, perché rivedono quello che hanno visto fare in casa, il modo in cui venivano considerate le loro madri e tutte le donne della famiglia. Le donne che invece entrano in questo tipo di famiglie senza avere idea di quello che troveranno vanno a delineare lo scenario più complicato, perché alcune si adattano e vanno avanti in nome dell’amore, e altre che invece no. Per esempio la moglie di Buscetta, Maria Cristina de Almeida Guimarães, pur non condividendo e non partecipando a progetti mafiosi, non rinnega l’uomo e il padre dei suoi figli. Tuttavia sarà il trade unions con Falcone, verso il cambiamento di Buscetta e il suo diventare collaboratore.

Per esempio Rita Simoncini, la moglie di Francesco Marino Mannoia, il “chimico” della mafia, si innamora da giovanissima e rimane sempre al suo fianco, anche quando viene arrestato e inizia a collaborare. Falcone ha detto che grazie a lei ha capito come le donne possono vedere la mafia, come luogo chiuso, oscuro, di preclusione e di silenzio, e come la radiosità e la voglia di vivere di queste donne si vada a scontrare con questa realtà. Il mondo delle donne di mafia è estremamente variegato. Ci sono donne come la moglie di Leonardo Messina, che veniva da una famiglia mafiosa, e che non prende bene la decisione del marito di arrendersi, e altre come la compagna di Gaspare Mutolo, che accetta la decisione del marito di collaborare come una decisione giusta, solo perché viene da lui. Oppure Margherita Gangemi, la donna di Antonino Calderone, che pur non facendo parte di questo mondo, invita il marito a fuggire all’estero per non mettere a rischio i loro figli e lo aiuta nei suoi spostamenti, fino a che non viene arrestato e decide di parlare.

Poi ci sono casi, come quello della moglie di Stefano Bontade, che afferma di essere orgogliosa di essere stata sposata con un grande uomo e decide di non raccontare niente. Un altro è quello della moglie di Michele Greco, chiamato “il papa”, una donna colta e una musicista, che mostrando la sua casa piena di libri ai giornalisti, chiedeva loro come potesse appartenere a un mostro. 

L’immagine delle donne di mafia è vittima di uno stereotipo. 

Si tratta certamente di stereotipi. Ci sono uomini di mafia che usano le donne come oggetti, usate per sfogare gli istinti più brutali, e altri che si affidano completamente alle loro mogli, come il caso di Giacoma Filippello, moglie di Natale Lala, che decanta una vita meravigliosa e grandi imprese, e rimane al suo fianco fino a che non viene ucciso. Quando questo accade inizia a parlare per vendetta ed entra nel servizio di protezione. Poi ci sono alcune donne che subiscono e tacciono per amore dei figli, sia per tenerli fuori da determinate situazioni, sia perché pensano ai vantaggi che traggono dal denaro, dal potere e dalla visibilità. Quando negli anni ’80 scatta il maxi processo, molti uomini di mafia chiedono il consenso delle loro donne prima di collaborare, e loro gli si rivoltano contro. Quindi anche le donne hanno il loro potere nella famiglia mafiosa.

Non è chiaro se le donne nella famiglia mafiosa siano più vittime o carnefici, perché è tutto molto più sfumato di così.

È chiaro che le donne che racconto sono una minoranza. Il vantaggio che hanno è la ricchezza, infatti una volta all’interno dei programmi di protezione si lamentano delle case dove vengono collocate. È un mondo che scompare, quindi tutto dipende dalla consapevolezza personale. Per esempio una grande differenza la fa lo studio. Poi ci sono storie tragiche come quella della mamma di Giuseppe Impastato, che quando scopre di far parte di una famiglia mafiosa inizia a ribellarsi mettendosi contro il padre. Questa donna si trova così divisa tra il figlio e il marito, che poi viene ammazzato proprio perché il fatto che il figlio fosse contro la mafia lo aveva messo in cattiva luce.

Questa immagine della donna cristallizzata in una figura che esegue senza parlare, faceva parte della cultura dell’ambiente mafioso, ma anche della cultura dell’antimafia. Basti pensare al fatto che nel maxi processo gli imputati sono 474 mentre le donne imputate sono solo 4 e per reati non molto gravi. La mafia era un problema che riguardava gli uomini e anche la magistratura non aveva capito l’importanza delle donne, fino a che Falcone e Borsellino non hanno fatto luce sul vero ruolo che le donne avevano all’interno della mafia, ben diverso da quello che la tradizione aveva raccontato.

QUI l’articolo originale:

I Pellicani – recensione di Giorgia Gatti su Premio Comisso

I Pellicani – recensione di Giorgia Gatti su Premio Comisso

Pellicani figlio si presenta dopo 20 anni alla porta del padre. Non si vedono da quel giorno in cui lui se n’è andato sottraendo al genitore i risparmi che erano in casa.Pellicani arriva e trova un caseggiato disabitato e in rovina, l’unico appartamento ancora abitato sembra essere proprio quello di suo padre, ma al suo interno non trova il genitore, ma un vecchio paralitico, immobilizzato a letto e assistito quotidianamente da una donna, che ogni mattina lo nutre, si occupa della sua igiene e del lavaggio della biancheria.Fin qui tutto normale, tutto plausibile, tutto verosimile, vero?E invece no, non è così. Pellicani figlio racconta in prima persona ogni suo movimento e ogni suo pensiero, ed è così che ci accorgiamo che siamo all’interno di una mente allucinata, che siamo nella mente di un Don Chisciotte al contrario.Un eroico renitente, che con fierezza critica e si sottrae alla società, che non riconosce il padre in quel vecchio paralitico, che vede in ogni gesto umano, in ogni oggetto inanimato intorno a lui, un qualche messaggio diretto a lui, un giudizio, un rimprovero, che lui, da renitente, rifiuta.L’allucinazione è la realtà in cui Pellicani si muove, portando i suoi gesti al grottesco e crudele, verso se stesso e verso il padre, in nome di quel rifiuto della società che lo anima.È un romanzo esilerante, eppure scioccante e doloroso. Sergio La Chiusa è geniale e senza remore varca i limiti del verosimile e del moralmente accettabile, con una capacità narrativa e di pensiero che generano nel lettore un’empatia disturbante.

QUI l’articolo originale:

I Pellicani – recensione di Giuseppe Di Matteo su Pane e scorpioni

I Pellicani – recensione di Giuseppe Di Matteo su Pane e scorpioni

Stando agli ultimi dati dell’AIE (associazione Italiana Editori), i libri pubblicati nel 2019 sono stati più di 78mila. Una giungla di carta all’interno della quale ci si orienta a fatica. Anche perché i colossi dell’editoria (e non solo) strizzano sempre meno l’occhio alla letteratura e preferiscono affidarsi ai prodotti editoriali, possibilmente partoriti dal personaggio di turno, la cui durata nel tempo, a dispetto del clamore socialmediatico che sono soliti suscitare, è paragonabile a un battito di ciglia.

Insomma, non è facile scovare qualcosa di interessante. Ecco perché vale la pena parlare de I Pellicani – Cronaca di un’emancipazione di Sergio La Chiusa, edito da Miraggi (186 pag., 17 euro). Un romanzo sorprendente e gustosissimo, che prevede molteplici livelli di lettura ed è intriso di quello spessore letterario che è lecito attendersi da uno scrittore. E La Chiusa lo è, non c’è dubbio: la sua parola è levigata e venata di elegante umorismo. Elementi peraltro propizi al suggestivo teatro dei paradossi da lui allestito, che rifugge da qualsiasi pretesa di linearità. A cominciare dai Pellicani, che non hanno niente a che vedere con i volatili che tutti conosciamo. Qui abbiamo invece a che fare con due uomini misteriosi (padre e figlio? forse sì, forse no, ma poco importa), che, dopo vent’anni e vecchie ruggini, si ritrovano quasi magicamente in un tempo e in un luogo indefiniti. Uno, il Pellicani-giovane, ha le fattezze di un bizzarro figuro lontano parente dei dannati di Dostoevskij; l’altro, il Pellicani-anziano, è un ottantenne paralitico bisognoso di cure che si trascina stancamente al pari del vecchio stabile in cui abita e che lo ha incatenato a una triste solitudine.

L’incontro tra i due è il detonatore di una commedia dell’assurdo sapientemente congegnata dai pensieri ad alta voce del Pellicani-giovane, che si diverte con la realtà come Vitangelo Moscarda in Uno, nessuno e centomila di Pirandello fa con il suo io: scompone, ricompone, trasfigura ciò che vede, quasi travolge il lettore con il suo torrenziale flusso di coscienza. E noi non possiamo far altro che star dietro ai suoi soliloqui tragicomici, ma senza illuderci di trovare le giuste corrispondenze tra ciò che è e ciò che appare. Perfino l’evidente asimmetria tra i due personaggi (l’invadenza del Pellicani-giovane fa da contraltare alla remissività del Pellicani-vecchio) si risolve lentamente in un enigmatico gioco di specchi, che si nutre di visioni degne di Sorrentino e lascia intravedere una bizzarra crociata in nome dell’emancipazione di entrambi.

Eppure, mentre ondeggiamo tra sogno e realtà, ci risulta difficile prendere le parti dell’uno o dell’altro. Forse perché i Pellicani sono solo due simpatici inetti a vivere che non si vergognano della loro condizione. O forse perché la stanza in cui si consuma tutta la storia è il palcoscenico con cui, volenti o nolenti, tutti noi dovremo prima o poi fare i conti per sbarazzarci delle nostre paure più profonde.

Il romanzo, finalista alla XXXII edizione del Premio Italo Calvino, è un bijou anche dal punto di vista tecnico, tanto da meritare la “Menzione Speciale Treccani 2019” per l’originalità linguistica e la creatività espressiva. Quello di La Chiusa, infatti, è un esempio ben riuscito di prosa poetica, che mette in vetrina un linguaggio curato nei minimi dettagli e assai distante dalle banalizzazioni con cui vengono imbanditi certi best sellers. Un piccolo poema sul senso della vita capace di trasformare l’apparente fuga dal mondo delle sue creature in un coraggioso atto di ribellione pirandelliana nei confronti della società e delle sue forme statiche.

Ma il lunghissimo monologo del giovane Pellicani, interrotto da scenografici squarci onirici e oscure presenze quasi kafkiane, è anche la cronaca di una convivenza mancata che prova disperatamente a ritrovarsi, anche se nel farlo è essa stessa una nuova impostura. Dieci e lode all’autore. Raramente infatti, per utilizzare le parole di Giulio Mozzi, “la lettura di un romanzo dà tanto piacere per la scrittura in sé”. Senza contare che qui, come del resto lo stesso critico suggerisce, c’è anche altro. Molto altro.

QUI l’articolo originale:

https://www.panescorpioni.it/referenze/77-i-pellicani-di-sergio-la-chiusa

Il bambino intermittente – recensione di Anna Cavestri su LoScrivodaMe

Il bambino intermittente – recensione di Anna Cavestri su LoScrivodaMe

Quando la potenza della scrittura e la fantasia si coniugano nascono questi gioielli.
Il libro inizia con una sorta di vademecum che è preambolo ai capitoli e un elenco di nomi -Cerca di ricordarti.

Conosciamo Berg che è un bambino che va alla scuola materna, non va affatto volentieri.
Lui non è un bambino e basta è: goffo, distratto, impreciso, stupido, bambino parentesi, maldestro incompreso, intermittente e ha tanti nomi tutti inventati così come inventata è la sorella con la quale discute come fosse sempre con lui, assumendo le forme di oggetti vari a lui preziosi, ed ha le sue “copertine “ come Linus ma non sono copertine.

“Ho tre anni e la vita sta diventando difficile……”

E a tre anni trova la radio noiosa e comincia il suo ritornello “ mamma, comprami GIRADICCHI! Io DICCHI…..”
Comincia da piccolo ad amare la musica che insieme alla fantasia e ai tratti della sua personalità non l’abbandoneranno mai.

E con questo bagaglio già così pieno fin da piccolo affronterà la vita, con delle difficoltà ogni volta diverse e uguali con cui fare i conti.
La madre insegnante, il padre con un maggiolino giallo a pois rosa.
I nonni di mare e quelli di città.
Con ognuno crea un rapporto unico, con qualcuno anche speciale e sarà la nonna di mare quella con la quale vivrà esperienze di complicità e amorevolezza e che lo porterà un giorno anche a crescere più in fretta e a scoprire l’inutilità del dolore.

Lo troviamo tra i ragazzi dell’orario alla scoperta di se e degli altri, a volte impacciato o timido, “la prima ombra di barba … la barba fu un piccolo trama “, a 16 anni Amanda “ era come arrivare impreparati ad una interrogazione”.

Con “ gli amici della panchina “ a parlare della passione comune: LA MUSICA , forse l’amore suo più grande, quello che non è mai svanito.
La musica diversa da quella che ascoltavano gli altri “stavo sviluppando una curiosità maniacale e bulimica “.
Sopra un treno per andare a pranzo dalla nonna di mare durante il periodo del servizio militare, vicino casa di nonna, che buttava la pasta quando vedeva il treno passare dal balcone.

E in crescendo a fare per un periodo il commesso in un negozio di dischi e poi in un’altra città e un’altro amore e…
Con salti temporali tra un capitolo e l’altro e tanti rimandi in cui la vita del bambino, ragazzo, adulto è un vortice che assorbe tra fantasia e realtà e tanta tanta umanità.

È un racconto ironico, pieno di tenerezza di malinconia di una vita unica e speciale che appassiona dalla prima pagina.

E non finisce con l’ultima pagina del libro ( pag 665), perché c’è una playlist di tre pagine da sentire

“ per chi ha paura della fine, del silenzio, ovvero l’inutilità del dolore ……………..Se vuoi farne parte ti serve un suono “.

Non è facile recensire questo libro perché c’è tanto da dire, può essere solo letto.
E merita di essere letto, si cresce insieme al bambino intermittente e a volte ci si scopre intermittenti , quasi come lui.

QUI l’articolo originale:

I Pellicani – recensione di Maria Laura Labriola su Cronache di Caserta

I Pellicani – recensione di Maria Laura Labriola su Cronache di Caserta

“I Pellicani”: romanzo allucinato e burlone

Chi sono i Pellicani? Sono realmente ciò che appaiono nelle prime pagine? Vi è una specie di burla e di ricerca d’identità all’inizio del romanzo di Sergio La Chiusa, “I Pellicani” edito da Miraggi edizioni. Un racconto che è arrivato finalista al 32° Premio Calvino con la Menzione Speciale Treccani. Alla maniera di Dino Buzzati, un giovane con la valigetta va a trovare un anziano paralitico in un palazzo fatiscente. Sulla carta, lui dovrebbe essere il giovane Pellicani, e l’anziano suo padre. Ma già dalle prime battute il vecchio non viene riconosciuto, se non che per il naso. “Che ci faceva un tale relitto in casa di mio padre? Come si permetteva di occupare il suo posto?“. Si presenta tutto come un equivoco al lettore, il quale non è certo più di nulla. Una storia vaga, priva di collocazione geografica, di limiti spazio-temporali. Non vi sono nomi propri e vi è un dialogo non dialogo, direi “muto” tra figlio e padre. Kafka e Landolfi vengono evocati in ogni dove con una scrittura allucinata e aliena. Un monologo che non finisce e che avvolge il lettore imbrigliandolo in un vortice di supposizioni, ripetizioni, ipotesi e convinzioni.

Un fiume di parole che denuncia un’inerzia dell’uomo moderno che anela a dominare gli esiti della civiltà. La Chiusa crea mondi inesplorati e al contempo riflessi nel presente, forse all’avanguardia rispetto al patrimonio letterale attuale. Abbiamo una certa etica del corpo che appare certamente al centro del romanzo. Non è solo uno, ma due di cui uno è in movimento e l’altro immobile rinchiusi dalle parole in uno spazio ristretto di un appartamento.

“I Pellicani appaiono come eredi di un teatro di Beckett”, ove personaggi sono costituiti di flussi torrenziali di parole e la cui vecchiaia perde il suo colore e la sua identità nell’infanzia e nel nulla. Tutto il romanzo è pervaso inoltre da un torpore, da una stanchezza fisica e mentale che non permette di raggiungere la verità più intima delle cose.

QUI l’articolo originale:

Il bambino intermittente – intervista a Luca Ragagnin di Lorenzo Germano sulla Gazzetta d’Alba

Il bambino intermittente – intervista a Luca Ragagnin di Lorenzo Germano sulla Gazzetta d’Alba

Il bambino di Ragagnin

Nel cortiletto della libreria Milton sono tornate a risuonare le voci dei libri grazie al coraggio di Carlo, Serena e della casa editrice Miraggi. È stato presentato Il bambino intermittente: diretta streaming e firma copie per i lettori di Luca Ragagnin, già candidato allo Strega 2019 con Pontescuro (proposto da Alessandro Barbero). Torinese, dotato di estro poliedrico, dopo aver esordito come poeta negli anni ’90 (vincendo il premio Montale) Ragagnin ha proseguito come autore di romanzi, racconti, testi teatrali e canzoni (anche per Mina, Antonello Venditti e Subsonica). Nella sua ultima opera ha racchiuso le memorie di una vita.

Com’è nato il romanzo?

«Quattro anni fa, mentre stavo scrivendo altre cose, ho sentito l’esigenza di raccontare un periodo abbastanza lungo della mia vita di Berg, personaggio che in qualche modo mi appartiene. Con molto pudore potremmo definirlo un romanzo di formazione: in fondo si segue la crescita di Berg, nome principale del protagonista che nel libro ne assume diversi altri. Una delle sue caratteristiche più importanti, comune a tutti i bambini, è una sorta di esubero di fantasia, per cui vive le sue esperienze e i fatti che gli capitano stravolgendoli. Di solito lo scarto che si crea tra la sua interpretazione e la realtà è buffo e divertente. Manterrà la caratteristica fino all’età adulta, producendo una serie di eventi agrodolci, che sono un po’ la mia cifra stilistica».

Chi è il bambino intermittente?

«L’intermittenza riguarda i pensieri di Berg sul mondo, le persone, i bambini che incontra all’asilo, poi a scuola, all’oratorio, poi anche nella vita adulta, durante il primo scontro-incontro con l’altro sesso, ma anche le problematiche sociali che gli si presentano quando è adolescente, dato che ci troviamo alla fine degli anni ’70. Nel romanzo si attraversano gli anni di piombo, delle droghe, fino ad arrivare alla data simbolica dell’11 settembre 2001, che rappresenta la morte dell’Occidente. Con questo disincanto e intermittenza, Berg vorrebbe agire, fare, collocarsi nel mondo, ma poi finisce spesso per fare l’opposto».

Con quale approccio hai ricostruito quel periodo?

«Ho cercato di ricordare il mio passaggio in quegli anni, Berg è un po’ un mio coetaneo (leggermente più giovane), è un bambino e poi un adolescente che ha pochi mezzi conoscitivi, come pochi ce n’erano in quegli anni. Non capisce, chiedi lumi a sua madre che è una professoressa e che ha a che fare anche con ragazzi problematici. In fondo i terroristi che incontra sono appena più grandi di lui, ma sono irraggiungibili per la sua comprensione. Neanche la madre ha delle risposte, cerca solo di approntare delle difese, mettendogli dei divieti minimi per evitare rischi (no treni, no mezzi pubblici, no manifestazioni)».

Il tuo romanzo precedente aveva un aspetto favolistico. Hai mantenuto anche qui quel tipo di narrazione?

«In questo libro lo scopo principale è preservare la memoria, per quanto aberrata dalle caratteristiche del personaggio che l’attraversa. In pandemia a malapena ricordiamo un mondo che è scomparso 15 mesi fa, immagina lo sforzo per ricostruire il mondo degli anni ’70 e ’80, anche nel modo di vivere la gioventù in una città industriale con pochi spazi».

Che rapporto hai con le Langhe e i suoi scrittori?

«Un rapporto stretto. Ci vengo spesso. Considero Milton di Carlo Borgogno una seconda casa. Con Enrico Remmert abbiamo scritto per Laterza L’acino fuggente, una scorribanda nei territori del vino tra cui soprattutto il Roero e la Langa. Gli scrittori come Pavese, Fenoglio, Lajolo li ho amati e li apprezzo molto, ma vorrei citare anche Marco Giacosa, che è originario di qui e ha appena pubblicato lo splendido Langhe inquiete».

QUI l’articolo originale:

Il bambino intermittente – intervista di Francesca Angeleri sul Corriere della Sera (Torino)

Il bambino intermittente – intervista di Francesca Angeleri sul Corriere della Sera (Torino)

Ragagnin: «La mia Torino degli anni 70 e 80, vista con occhi di bambino»

Ragagnin: «La mia Torino degli anni 70 e 80, vista con occhi di bambino»

Lo scrittore Luca Ragagnin da bambino

«Berg sono io? Ha delle parti di me, un po’ come sempre. Ci sono degli elementi del mio vissuto, sicuramente, e poi c’è l’innesto dell’invenzione». È la prima intervista di un Luca Ragagnin super eccitato per l’uscita dell’ultimo suo romanzo, Il bambino intermittente, il primo aprile in libreria con Miraggi. Quasi 700 pagine di una storia cui ha dedicato molto tempo (l’ha cominciato un anno dopo la morte della mamma nel 2014) e che non definisce «un romanzo di formazione, per pudore» ma che a conti fatti lo è. Berg è figlio unico di genitori separati, la mamma è professoressa e il papà lo porta in giro su un maggiolino giallo a pois rosa. Ha dei nonni fantastici e un’immaginazione che lo porta a essere sempre qualcuno di diverso. S’inventa una sorella immaginaria e con l’amico Paul vive le scorribande notturne ed esoteriche in una Torino tanto riconoscibile quanto mai pronunciata. Ci sono le bombe dei terroristi, l’oratorio, l’adolescenza, l’età adulta, Dio che cerca e perde in una mensa e tutte le sue epoche. Intermittenti, come quelle di ognuno di noi.

Il romanzo finisce l’11 settembre 2001. Come mai?
«È una data di stop. La storia è diacronica, ci sono salti temporali avanti e indietro, la memoria non è lineare e il romanzo vuole preservare quella che attraversa gli anni 70, gli 80, i 90. Anni particolari, per l’Italia e per Torino, visti con gli occhi di un bambino».

Com’era quella Torino?
«Ricordo l’eroina. I grandi corsi alberati, le panchine nei controviali con questi corpi che sembravano statue e la siringa piantata nel braccio. E il terrore che provavi quando stavi fermo alla fermata del pullman, le borse abbandonate sul treno. Un mondo di sensazioni che andavano preservate».

Come si scrive con lo sguardo di un bambino?
«Ho trovato la mia voce di allora. Mi sono cercato. È stato un lavoro di scavo capillare, soprattutto nel decennio dei 70. Ci sono i bambini, quelli ritrovati nelle fotografie in casa, andavamo all’oratorio che era uno spazio protetto mentre fuori scoppiavano le bombe. È stato commovente e feroce, perché è uno scavo nella terra dei morti, quel bimbo non c’è più».

Non è triste pensarla così?
«L’idea era tracciare una netta linea di demarcazione che mettesse al sicuro qualcosa che il tempo ha sgretolato. Come dire: “Eccoti qui, ti ho ricostruito e ti tengo al sicuro in cassaforte. E non ti guardo più”. C’erano cose sulle quali mi premeva scrivere un punto finale».

Come si sente ora?
«Come uno che è emerso da una lunghissima apnea senza bombole. Che guarda oltre quella linea di demarcazione e vede una vita intera. E passare dall’altro lato è bellissimo, ma oltre dove? Ho finito le mie indagini. L’orizzonte è nebuloso ma c’è un gigantesco cosmico tergicristallo».

Il Maggiolino a pois c’era davvero?
«Era giallo e i pois rosa erano dell’antiruggine. A sette anni mi vergognavo tantissimo, se ci ripenso adesso era una figata pazzesca».

L’amicizia è un tema forte.
«Quando ero un ragazzo in città non c’era niente da fare. Ci si ingegnava, si bighellonava inventandosi cose. Berg ha Paul (che è ispirato a Max Casacci, ndr) per condividere le scorribande notturne nei locali affossati nella nebbia. Ci sono personaggi che ricordano Mixo, Gigi Restagno…avventure in una città dormitorio alla ricerca anche di suggestioni esoteriche. Si intrippano di un bellissimo libro, Il mattino dei maghi, e cercano magie in giro per le strade».

Alla fine Berg si risolve?
«Riesce a ricomporre l’iridescenza che lo accompagna e a diventare adulto tenendo dentro la sua parte variopinta. Penso che faccia anche sorridere. È un bambino che con la sua forza incespica davanti al muro della realtà e le cose non tornano, ma trova il modo di armonizzarle».

C’è un personaggio secondario particolare, vero?
«È al Metropolitan, un posto che stava in via Gioberti. Si chiama Luca Ragagnin, beve e manda tutti a fanculo».

QUI l’articolo originale:

https://torino.corriere.it/cultura/21_marzo_28/ragagnin-la-mia-torino-anni-70-80-vista-occhi-bambino-04040ae4-8feb-11eb-bb16-68ed0eb2a8f6.shtml?fbclid=IwAR1Mn9RFWFss-wx1ABpYjCoALC3J-PwX-qzYhflPuQRxEodABaq7QxhkyAY