Magdalena Blažević / Gli scomparsi

Magdalena Blažević / Gli scomparsi

di Riccardo Cenci

“Preparatevi, il tempo sta per scadere. Il silenzio e la lentezza dureranno ancora per poco”. L’eclissi del periodo estivo coincide con l’esordio dell’orrore, mentre “il cielo si dissolve nelle prime scintille e nell’odore della polvere da sparo”. In tarda estate è il potente esordio romanzesco di Magdalena Blažević, critica letteraria che già nel panorama narrativo si era imposta con alcuni racconti di rilievo. Le sue pagine si animano di impressioni sensoriali e atmosferiche. La memoria tiene insieme la fragile trama narrativa. I ricordi balenano intensi, come dettagli illuminati per un istante dal sole attraverso le foglie e poi di nuovo celati. Giochi di fanciulli dalla durata effimera, bambole rinchiuse in una scatola per non vedere più la luce.

La quotidianità della vita di campagna prefigura la violenza della guerra. L’odore del sangue e del fango impregna l’aria mentre le galline vengono macellate. Suini nati morti vengono gettati in una fossa, mentre sciami di corvi e di mosconi infestano l’aria. Il fratello di Ivana, la protagonista, porta a spalla un fucile ad aria compressa che anticipa quelli reali e ben più perigliosi che a breve sconvolgeranno quelle terre. Gazze mettono in scena “uno spettacolo nero”, mentre “l’aria rimbomba e il bosco si oscura”. Come nelle fiabe, la foresta è buia e minacciosa, albergo di inconsci timori. La paura percorre gli animi come un vento furioso. Nella casa giace abbandonata una fisarmonica, che nessuno è in grado di suonare. Paesaggi impregnati di gelo e di morte, nei quali il più lieve rumore echeggia furente. Le finestre delle case in rovina appaiono come orribili occhi cavati.

Blažević, come Virginia Woolf in time passes, riesce a rendere il trascorrere del tempo, le piazze un tempo vive e ora deserte, i tetti piagati dalla pioggia e dalla neve, sotto i quali non vi è più riparo, le stanze vuote percorse da topi e da insetti, le mura aggredite da muschi e umidità. Il libro è dedicato agli abitanti del villaggio croato di Kiseljak, massacrati il 16 agosto del 1993 dalle forze bosniache. Un episodio poco noto dalle nostre parti, come altri che vengono posti all’attenzione solo ora, a così grande distanza di tempo, a dimostrazione di come ogni conflitto porti con sé strascichi infiniti e devastazioni morali enormi. “Quando quella casa sarà crollata, con le mura divorate dal vento e dall’umidità, scomparirà anche l’ultima prova che il villaggio un tempo aveva un aspetto completamente diverso. Che sapeva di polline di sambuco e dell’acqua del ruscello”. Gli odori e i sapori di un tempo si estinguono, inevitabilmente. Fotografie sbiadite simboleggiano la necessità di ricordare, prima che l’oblio renda tutto illeggibile. “Come fa il mondo a essere ancora lo stesso?”, si domanda l’autrice. Dopo tanto orrore il normale corso dell’esistenza appare sfigurato, per sempre. Le scarpe da ginnastica di Ivana restano appoggiate al muro; nessuno le indosserà più. Un telefono squilla invano nel vuoto popolato solo dalla morte.

QUI l’articolo originale: https://www.pulplibri.it/magdalena-blazevic-gli-scomparsi/

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David Wojnarowicz tra i libri del mese – settembre 2025 di «The Vision»

David Wojnarowicz tra i libri del mese – settembre 2025 di «The Vision»

Da un saggio che analizza la nuova creator economy al memoir dell’artista statunitense David Wojnarowicz, tra fotografia e AIDS, passando per riflessioni sull’accostamento della fisica quantistica alle filosofie orientali, su come indagare la vita sottomarina ci aiuti a capire cosa significhi “vivere” e sull’Italia oltre l’immagine dell’overtourism, ecco cosa abbiamo letto a settembre 2025.

Sul filo della Lama di David Wojnarowicz (Miraggi edizioni)

“Vivere ai margini dei margini”. È così che David Wojnarowicz, artista, scrittore, fotografo e attivista statunitense morto nel 1992 a 37 anni, avrebbe descritto la sua vita. Ed è proprio in quei margini che si muove Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione, il suo memoir finalmente tradotto anche in Italia. Un testo che non è un libro ordinario, né per forma né per contenuto: è una testimonianza carnale, rabbiosa, spesso lirica, della vita ai margini, della solitudine, dell’identità queer vissuta in un contesto ostile, della crisi dell’AIDS negli anni Ottanta e dell’arte come strumento di sopravvivenza e resistenza. Wojnarowicz scrive alternando frammenti autobiografici, riflessioni politiche, visioni oniriche, sogni e incubi urbani in una struttura spezzata, non lineare, che rifiuta le forme canoniche del memoir. La disintegrazione del titolo è non solo fisica – legata alla malattia, alla perdita, all’emarginazione – ma anche narrativa: ogni tentativo di comporre una linearità viene distrutto dall’urgenza di dire, di denunciare, di ricordare. Anche la sua arte è così. Lavora con ogni mezzo: pittura, fotografia, collage, video, scrittura. Il suo immaginario è fatto di simboli ricorrenti – il volto di Rimbaud usato come maschera, uomini con la testa di toro, cartine geografiche, animali, simboli religiosi, corpi spezzati, immagini pornografiche – sempre intrecciati con riflessioni feroci su sessualità, identità, religione, capitalismo, morte.

Wojnarowicz racconta l’infanzia segnata da abusi in famiglia, la vita da sex worker adolescente, le prime esperienze sessuali vissute in un’America che criminalizza il desiderio omosessuale, le morti degli amici, la presenza costante dell’AIDS come spettro e come condanna. Non cerca né pietà né espiazione: scrivere per lui è un atto di militanza e insieme di disperata affermazione di sé. Eppure dentro questa ferita che è esistere pulsa una forma di amore profondo, per la vita, per la bellezza, per chi non ha voce. Dopo aver scoperto di essere sieropositivo, trasforma il corpo malato in uno strumento di denuncia. Attacca frontalmente l’omofobia istituzionalizzata, il silenzio del governo Reagan, la complicità della Chiesa e delle case farmaceutiche. Usa l’arte come forma di lotta, con performance e opere che gridano indignazione, pietà, furia. Il suo diario personale, infatti, si fa eco di urgenze ed esigenze collettive, in cui l’arte, soprattutto, non è solo denuncia ma anche cura, alleanza, gesto di connessione, tentativo disperato ma tenace di spezzare l’isolamento del singolo. “Trasformare il privato in qualcosa di pubblico è un’azione che ha ripercussioni enormi nel mondo preconfezionato”, diceva. E aveva ragione, lo è ancora oggi.

QUI l’articolo originale: https://thevision.com/cultura/consigli-libri-settembre-2025/

«L’affaccio su un infinito fuori», recensione di «Sul filo della lama» su labottegadelgiallo.com

«L’affaccio su un infinito fuori», recensione di «Sul filo della lama» su labottegadelgiallo.com

di CAROLA ALLEMANDI

Credo che per molti la fotografia abbia un significato sotterraneo, potremmo dire inconscio: cercarsi sapendo già di non potersi trovare da nessuna parte. In altri termini, attraverso la fotografia riconoscere quella parte di sé che sappiamo essere intoccabile, diciamo anche inavvicinabile. Attrezzarsi con la propria macchina fotografica, innestare l’obiettivo, è anche rendersi conto di tutto quanto la legge dell’ottica, per quanto sofisticata, non riuscirà mai a raggiungere: e lì forse saperci.

Ogni obiettivo fotografico, come l’occhio umano, oltre un certo limite non può vedere, né mettere bene a fuoco. Per quanto aiuti ad arrivare dove la vista non può, a ingrandire quel che vedremmo troppo piccolo e indistinto, nel troppo vicino o nel tanto lontano, esistono ostacoli strutturali coi quali dover fare i conti. Per questo motivo è bene prendere coscienza fin dal principio di ciò che sappiamo già essere l’impossibile fotografico, ovvero guardarci davvero.

L’artista David Wojnarowicz scriveva nel suo libro-testamento “Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione” (edito recentemente da Miraggi Edizioni nella traduzione di Chiara Correndo) pressappoco che l’immagine che si forma nel centimetro tra il nostro pollice e l’indice guardando l’orizzonte (il lontanissimo) ha la stessa intensità di quella che vediamo di fronte a noi; il gioco delle distanze nella vista si annulla o comunque ci si può giocare, e questo la fotografia lo sa da sempre. Quando scegliamo la distanza da cui inquadrare, l’ottica attraverso cui guardare il mondo, e le porzioni che ci basterà che ci mostri per poter formulare il nostro messaggio, sappiamo che non potrà essere detto tutto, mostrato tutto e quindi noi saremo solo in parte rappresentati da quello che emergerà nell’immagine. Proprio perché la fotografia si misura nella distanza che crea tra l’occhio e il soggetto, ci dice anche il proprio opposto, tutto ciò a cui non potrà mai giungere.

Forse è qui che va individuato lo specifico della fotografia: non tanto nella sua resa formale, ma nelle possibilità del suo vedere; se ogni altra arte ci chiede ciò che possiamo vedere da soli, la fotografia ci chiede cosa ancora non vediamo in tutto ciò che l’ottica ci offre e ci rende d’un colpo vicino e raggiungibile nei suoi minimi dettagli. Yves Bonnefoy, in “Poesia e fotografia” (Obarrao Edizioni, 2014) si rivolgeva al concetto del caso, dicendo che la fotografia ci mostra la casualità con cui gli elementi del reale si dispongono (le forme dei ciottoli, le pieghe dei tessuti), senza che si possa attuare alcun controllo volontario o cosciente sulla forma che assumono; in effetti la mano del pittore è possibile che sia tentata di aggiustare o dire la propria su come le cose si presentano. Ma la fotografia ha a che fare con la visione ed è lì che va cercato il suo minimo comune multiplo, ovvero nella frustrazione che ci fa attrezzati scrutatori di fenomeni che non possono toccarci, tantomeno rivelarci a noi stessi. Forse.

Ancora Bonnefoy vedeva nella fotografia l’affaccio su un infinito fuori, e proprio in questo suo tenderci costantemente all’esterno, sull’infinito esterno visibile, raggiungibile coi sensi e con l’ottica, la fotografia (nonché il fotografo) consuma il proprio nodo irrisolvibile: quello che la vuole cacciatrice ma spesso senza vera preda; osservatrice distratta di mondi che se anche ci somigliano raramente ci corrispondono. Quando molti ritrattisti (o fotografi in generale) dichiarano di vedere sé stessi nei volti che immortalano, è bene pensare invece quanto resti fuori, lontanissimo; ben più nascosto di quanto possa essere racchiuso tra l’indice e il pollice.

QUI l’articolo originale: https://www.labottegadelgiallo.com/recensioni/leditoriale-della-domenica-17/

Corpo a corpo con David Wojnarowicz. Intervista a Chiara Correndo

Corpo a corpo con David Wojnarowicz. Intervista a Chiara Correndo

di Carola Allemandi

Pubblicata da Miraggi Edizioni è arrivata per la prima volta in Italia Close to the Knives: A Memoir of Disintegration (Sul filo della lama: Memorie della disintegrazione), l’incendiaria raccolta di scritti autobiografici dell’artista e attivista statunitense David Wojnarowicz (1954-1992) tradotta da Chiara Correndo e con una postfazione di Jonathan Bazzi. 

David Wojnarowicz si dedicò alla lotta per i diritti delle persone malate di Aids spaziando tra più mezzi di espressione, dalla prosa sperimentale alla pittura, dal video alla fotografia. Morì trentasettenne a causa del virus, dopo aver perso negli anni molti dei propri amici per lo stesso motivo. Sopravvissuto a un padre violento e alla vita di strada come sex worker, divenne conosciuto nella scena artistica newyorkese downtown. 

Ho voluto incontrare Chiara Correndo, traduttrice del libro, ricercatrice e portavoce dell’opera di David Wojnarowicz in Italia, per farle alcune domande su David e il suo modo di rapportarsi all’immagine, tema su cui torna a più riprese lungo tutto il corso della sua scrittura. 

Come ti sei imbattuta in David Wojnarowicz, innanzitutto? 

Per caso. Cinque anni fa, al Torino Film Festival, ero andata a vedere la proiezione di un regista argentino. A un certo punto, nel film, il protagonista prende un libro da uno scaffale e ne legge una citazione così bella che ho voluto subito cercare di chi fosse. Era David Wojnarowicz. Avevo visto che non esisteva una traduzione in italiano di questo libro e così mi sono attivata. 

QUI l’intervista integrale: https://www.snaporaz.online/corpo-a-corpo-con-david-wojnarowicz-intervista-a-chiara-correndo/
(contenuto in abbonamento)

La traduttrice Chiara Correndo a Fahrenheit su Rai Radio 3 con «Sul filo della lama»

La traduttrice Chiara Correndo a Fahrenheit su Rai Radio 3 con «Sul filo della lama»

Nell’episodio del 21 luglio 2025, la redazione di Fahrenheit ha invitato la traduttrice Chiara Correndo a parlare di sul filo della lama di David Wojnarowicz.

[dal min. 58’30”]

La fame degli affamati

Alle 15.00 Università telematica: cosa c’è oltre le schermo. Ne parliamo con Paolo Maria Ferri, insegna Tecnologie della Formazione all’università Bicocca di Milano | Alle 15.30 La fame degli affamati. Con Youssef Hassan Holgado, giornalista di Il Domani, si occupa di Medio Oriente e questioni sociali, e con Andrea Segrè, insegna Politica agraria internazionale all’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, fondatore di Last Minute Market | Alle 16.00 in studio a Torino: David Wojnarowicz, Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione, Miraggi Edizioni; con Chiara Correndo, traduttrice del libro, e con lo scrittore Jonathan Bazzi |Alle 16.30 Fahre Pace: All’università La Sapienza di Roma il Dottorato di interesse nazionale in “Peace Studies”, coordinato da Alessandro Saggioro, insegna Storia delle religioni alla Sapienza. Album del pomeriggio: Daughter “Music from Before the Storm”, 2017

David Wojnarowicz / Un roadtrip nella polvere dell’American Dream

David Wojnarowicz / Un roadtrip nella polvere dell’American Dream

di Roberta Cospito

Sul filo della lama, pubblicato per la prima volta nel 1991, è un libro bello e terribile. L’autore David Wojnarowicz – artista e attivista omosessuale per i diritti delle persone con Hiv/Aids –, è morto nel 1992 a New York per complicazioni correlate all’Aids a soli 37 anni: in quel periodo quasi nulla si sapeva di questo virus, compreso il modo di curarsi.

Nato nel 1954 a Red Bank (New Jersey), figlio di un marinaio violento e alcolizzato, David trascorse un’infanzia fatta di abusi ed espedienti, prostituendosi per pochi dollari fin dalla giovane età. È verso la fine degli anni Settanta che riesce ad affrancarsi dalla strada avvicinandosi prima alla scrittura e poi al mondo delle attività visive. La sua opera spazia dalla scrittura, alla scultura, alle installazioni e tutte le sue creazioni hanno come filo conduttore la solitudine, la diversità, una forte denuncia sociale e la difficoltà di vivere in una società antagonista.

Anche Sul filo della lama – una raccolta di saggi, un memoir disintegrato in mille frammenti, capitoli, ricordi – è un testo che denuncia la violenza, dà voce agli emarginati e alle minoranze, e mette in evidenza le colpe della politica, dei media e delle organizzazioni religiose americane. Nonostante il doloroso disfacimento del suo corpo e la sofferenza della sua cerchia di amici che, lentamente, uno per uno, muoiono decimati dal virus, il j’accuse dell’autore è energico e potente: lancia strali contro l’amministrazione Reagan che ha cercato in tutti i modi di relegare ai margini dello spazio pubblico ed estetico le persone con sindrome da Hiv/Aids e le soggettività queer. Wojnarowicz condanna apertamente chi detiene il potere perché totalmente disinteressato alle persone di cui, invece, dovrebbe occuparsi e perché tratta le minoranze come “piattelli a una gara di tiro”, potere rappresentato da gente che, per esempio, mentre si preoccupa di eliminare in Costarica alcuni giornalisti impegnati a portare alla luce la verità sull’importazione di cocaina da parte del governo e sull’utilizzo dei profitti derivanti dal narcotraffico per finanziare i contras, si presenta in uno studio televisivo o nel giardino della Casa Bianca o dal palco di una convention, parlando ipocritamente di gloriosi progetti umani che avrebbe in serbo per la società americana, se solo fosse eletto Presidente degli Stati Uniti.

Istituzioni indifferenti che invece di investire nella Sanità per garantire cure a tutti mettendo a disposizione strutture adeguate a chi contrae questa terribile malattia o in generale a tutela delle fasce più vulnerabili, alimentano lo stigma nei confronti di chi è colpito dall’Aids e la disinformazione in materia di salute sessuale. Le risorse destinate a contrastare la diffusione del virus sono il minimo indispensabile per far bella figura sui giornali e “pararsi il culo” mentre le persone, pur di salvarsi la vita, sono disposte ad assumere sostanze chimiche per il giardinaggio o a farsi inoculare un vaccino a base di escrementi umani.

Anche il Vaticano e la Chiesa cattolica non escono indenni dall’accusa di Wojnarowicz poiché hanno ignorato le evidenze scientifiche che dimostrano come i preservativi in lattice, se correttamente usati, possano prevenire la trasmissione dell’Hiv e di altre malattie; non solo da parte loro non c’è stata una corretta informazione per prevenire la diffusione del virus, ma sono state fatte affermazioni “preistoriche” secondo le quali gli unici modi per prevenire l’Aids sarebbero stati morigeratezza e astinenza, per cui a coloro che ignoravano gli insegnamenti della Chiesa cattolica e contraevano la malattia non restava altro da fare che incolpare sé stessi.

L’autore si rivolge anche contro la stampa per non avere dato conto alla società dell’ampiezza dell’epidemia, poiché da un lato chi controlla l’informazione porta avanti il suo programma conservatore con un’accurata selezione di quali notizie diffondere, e dall’altro considera le persone aggredite da questo virus come sacrificabili. L’America è descritta come una nazione di zombie dove ci sono tante tribù: “alcune si occupano di decerebrare le persone sostenendo il governo nel suo lavoro quotidiano, vendono alle masse mucchi di carne marcia, come una storia corrotta e falsa e un futuro corrotto e falso, e nonostante quella carne puzzi di decomposizione e pus e sangue questa particolare tribù celebra queste esalazioni nauseabonde come se fossero virtù costruite su gloriosi slanci”. Leggiamo anche una sorta di resoconto dei lunghi vagabondaggi in automobile di Wojnarowicz, con accurate descrizioni di paesaggi americani, riflessioni su architettura e arte, storie strazianti di amici e amanti che muoiono di una morte lenta e feroce, leggiamo di furtivi incontri clandestini con estranei in servizi igienici, cabine per camion, squallide stanze d’albergo, magazzini fatiscenti, automobili. Non mancano di conseguenza passaggi a contenuto sessuale, con descrizioni alquanto esplicite e crude; non sono, però, racconti gratuiti, scritti per scandalizzare o eccitare il lettore, ma hanno la funzione di liberare la sessualità in tutte le sue forme, normalizzare aspetti naturali come il sesso e il corpo, sottolineando il fatto che ancora oggi questi aspetti sono considerati un tabù, qualcosa da regolamentare e da nascondere se, in qualche modo, non conformi o sgraditi alla morale borghese.

Troviamo tutto questo e molto altro nel libro, e quello che più colpisce è l’attualità del pensiero dell’autore: dopo oltre trent’anni le critiche al Sistema sono assolutamente replicabili alla situazione attuale. Sul filo della lama è un manifesto contro il consumismo di cui ancora siamo imbevuti; contro il silenzio e l’indifferenza della politica, della stampa e della società borghese, completamente disinteressati alle minoranze o alle problematiche dei soggetti fragili; contro l’ormai consolidata abitudine a colpevolizzare le vittime, il fenomeno oggi definito victim blaming cui spesso si fa cenno in casi di violenza ai danni delle donne.

Questo manifesto torna alla luce in un momento in cui è necessario far sentire voci, se non di ribellione, almeno di critica. Non solo, ha anche il merito di riportare a galla la questione della tossicodipendenza, piaga sociale di cui si parla sempre troppo poco rispetto alla vastità del problema, esteso sia in termini di spettro di sostanze che circolano sia per numero di generazioni coinvolte. In ultimo, va riconosciuta a Wojnarowicz la grande capacità di riuscire ad alternare descrizioni molto crude e violente a immagini di grande poesia come, per esempio, la magia evocatagli da una nuca intravista in metropolitana o come quando, nella parte finale del libro, chiude numerosi paragrafi con la frase: “Cercate il profumo dei fiori finché siete in tempo”.

QUI l’articolo originale: https://www.pulplibri.it/david-wojnarowicz-un-roadtrip-nella-polvere-dellamerican-dream/

Un’esistenza sul filo del rasoio – Recensione a «Sul filo della lama» di David Wojnarowicz su «Huffington Post»

Un’esistenza sul filo del rasoio – Recensione a «Sul filo della lama» di David Wojnarowicz su «Huffington Post»

di Marilù Oliva

Sul filo della lama” è una raccolta di testi autobiografici, un memoir irriverente, crudo, cinico ma verissimo in cui l’artista David Wojnarowicz si consegna al destinatario senza mezzi termini, palesando quello che Jonathan Bazzi definisce il suo “cuore scorticato”

“Al tramonto le auto sembravano tanti acquari su ruote: sguardi anfibi di sconosciuti compressi dietro ai finestrini. Imponenti edifici di granito con finestrelle screziate da luci fluorescenti, forme grigie indistinte nei vicoli fradici, merda e spazzatura rotolano nel vento vicino ai tombini intasati, spruzzi di luce al neon rossa e verde scivolano sull’asfalto bagnato. Un barbone emaciato con piedi nudi e lividi – un tempo anche lui è stato bambino di qualcuno – si è intrufolato nel vecchio scatolone di un frigorifero nascosto tra le erbacce di un parcheggio vuoto”:

David Wojnarowicz è stato un artista poliedrico nato nel 1954 e vissuto solo 37 anni (è morto per una complicanza dovuta all’Aids). Scrittore, osservatore acuto del mondo, fotografo, performer, visual artist e attivista, è ora stato portato nelle librerie italiane grazie all’editore resistente e indipendente Miraggi Edizioni, con un libro tradotto da Chiara Correndo e post-fatto da Jonathan Bazzi: “Sul filo della lama”, con sottotitolo eloquente di dostoevskijana memoria: “Memorie della disintegrazione”.

Si tratta di una raccolta di testi autobiografici, un memoir irriverente, crudo, cinico ma verissimo in cui lui si consegna al destinatario senza mezzi termini, palesando quello che Bazzi definisce il suo “cuore scorticato”. Ci mostra la barbarie dei bassifondi, l’altra faccia di una società, quella a stelle e strisce, spesso troppe volte ovattata e ridipinta attraverso film a lieto fine, lustrini e splendori. Qui non c’è la famiglia felice (la sua men che meno, visto che durante l’infanzia fu vittima di abusi da parte del padre, che poi si eclissò), non ci sono storie d’amore melense, ma incontri fugaci e talvolta violenti, scene hot dove il piacere diviene lenitivo della disperazione più profonda, rivendicazioni precise, all’inseguimento di un diritto che si fa sempre più flebile:

“Alcuni mesi fa lessi sui giornali che la Corte Suprema aveva emesso una sentenza secondo la quale gli omosessuali in America non hanno diritti costituzionalmente garantiti contro la violazione della loro privacy da parte del governo. Nel testo si leggeva che l’omosessualità in America è da sempre condannata e che solo eterosessuali, coppie sposate o famiglie possono godere di questi diritti”.

C’è l’Aids, malattia che allora concedeva poche speranze, ci sono le cure, gli amici che scompaiono, le conversazioni, i dubbi, l’ineluttabilità di una vita intensa ed effimera quale fu la sua, divorata fino all’ultimo respiro. Poi ci sono risse, malintesi, meravigliosi scorci urbani psichedelici, accuse coraggiose senza remore di esiti legali (scoprirete, ad esempio, che il cardinale O’Connor è il più grande bugiardo del mondo in fatto di preservativi e sesso protetto e che molti rappresentanti del governo Bush sono pericolosi omofobi). Non mancano le analisi concenti, le speculazioni filosofiche, le bugie e i controsensi smascherati della vita, sui quali, però, non ci si interroga con domande infruttuose, piuttosto la denuncia diviene il canto di un cigno per una nuova consapevolezza che ci porti verso una società più giusta.

Il tutto riportato con un linguaggio feroce e sublime, inseguendo la poesia anche di fronte alla parte più infima dell’esistenza e proponendo talvolta il simbolo dentro un flusso sempre lucido di pensieri, come ipostasi di più alti significati:

“Se si riuscisse a sopportare la luce, ci si accorgerebbe di un cuore centrale con appendici di piovra. Tentacoli come vermi lunghissimi palpitano di pulsazioni stroboscopiche nella bruma bluastra che essuda dal centro. Il centro non è esattamente percepibile con la vista, è più una sensazione: il pingue meccanismo della civiltà, la distruzione totale e programmata del mondo così come lo conosciamo, le svastiche ambulanti che latrano parole di morte quasi fumettistiche”.

QUI l’articolo originale: https://www.huffingtonpost.it/blog/2025/06/03/news/unesistenza_sul_filo_del_rasoio-19340259/?fbclid=IwY2xjawKr76JleHRuA2FlbQIxMQABHlJBok372EpNTxRnSOWZxxAjOuJfOgEqSlqoTKEwsi92dbhaLzAdZXvlcznL_aem_anNQtvKWiEuUa589AYaCsQ