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Andy Bluvertigo e Lory Muratti – ospiti del podcast «Parole leggere in camper» su RaiPlaySound

Andy Bluvertigo e Lory Muratti – ospiti del podcast «Parole leggere in camper» su RaiPlaySound

A Monza, dentro un’ex fabbrica tessile oggi trasformata in studio d’arte e musica, Margherita parcheggia il camper per incontrare Andy dei Bluvertigo e lo scrittore e musicista Lory Muratti. Qui è nato L’ora delle distanze (Miraggi Edizioni), un romanzo psycho-fantasy illustrato dai quadri fluo di Andy, che diventa anche disco, performance e sogno condiviso. Si parla di sogni da salvare, colori che curano, sinestesia, identità artistiche e parole che diventano musica. E tra una flebo fluorescente e un killer del phon, si ascolta anche un’anteprima sonora dal vivo.

Malapace e Edipo a Berlino. Intervista a Francesca Veltri

Malapace e Edipo a Berlino. Intervista a Francesca Veltri

di Elisabetta Michielin

Un romanzo di idee di attualità stringente: Malapace (Miraggi edizioni, 2023) di Francesca Veltri. Tra la Prima guerra mondiale e gli ultimi giorni del regime di Vichy, il romanzo segue un gruppo di amici le cui vite s’intrecciano con le vicende più ampie della Francia di quegli anni. Dalla prigione alleata in cui si trova nel 1944, perché accusato di aver collaborato con il Ministero della Propaganda di Vichy, François – protagonista e voce narrante – ripercorre in flashback vent’anni di esperienze personali e collettive. La storia narra con dolorosa lucidità la decisione di assoluto pacifismo presa da François dopo la morte del padre al fronte nella I guerra mondiale, l’incontro con Martine – figlia di un maestro ebreo socialista –, il legame con Jean-Pierre e il sogno del comunismo, fino alle disillusioni del socialismo reale sovietico. François racconta la propria scelta consapevole ma alla fine sbagliata, l’adesione al Male nel tentativo di perseguire il Bene, mentre il volto di Antoine – recluso nella stessa prigione per crimini di guerra e amico d’infanzia diventato nazista convinto – diventa lo specchio crudele che gli rimanda l’eco di una colpa che partita da fronti opposti li ha portati allo stesso punto di arrivo.

Francesca Veltri (1976) si è diplomata in Studi Filosofici alla Scuola Normale Superiore di Pisa, ha studiato presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales e l’École Normale Supérieure di Parigi ed è docente presso l’Università della Calabria. Autrice di saggi, studiosa di Simone Weil, Malapace è il suo secondo romanzo.

Domanda. La pace e il pacifismo attraversano in questi tempi ogni dibattito e ogni posizione lacerando i partiti, le organizzazioni, le amicizie come non mai. Il tuo romanzo Malapace fin dal titolo va al cuore del problema…

Risposta. ‘Malapace’ è quella pace che diventa il suo contrario, ossia un oggetto di conflitto; a parte i fanatici della ‘guerra sola igiene del mondo’, è difatti quasi scontato essere a favore della pace. Ciò che invece non è scontato – soprattutto in alcuni periodi – è a favore di quale pace essere. I pacifisti europei che spinsero i loro governi, tra cui quello socialista di Léon Blum, a negare l’aiuto militare alla Repubblica spagnola attaccata dai franchisti, speravano di evitare in questo modo l’insorgere di una nuova guerra mondiale. Scelta che li separò da molti dei loro compagni, e che segnò l’inizio di una serie di dilemmi culminanti nei Patti di Monaco del 1938. Sembra strano dirlo ora, ma quando ho finito il romanzo era il 2019. Prima della pandemia, prima dell’invasione dell’Ucraina. Praticamente in un altro mondo. L’ultima volta in cui questioni simili erano arrivate a scuotere l’Europa era stato in Bosnia, negli anni Novanta. Per certi versi, mi rendo conto che proprio questo mi ha permesso di scrivere il romanzo. Se non l’avessi fatto allora, oggi sarei stata troppo coinvolta emotivamente per riuscirci. Avevo bisogno di guardare dall’esterno a quel dilemma, un dilemma tragico perché le ragioni messe in campo da un lato e dall’altro partivano paradossalmente da valori comuni, condivisi. Entrare in conflitto con chi la pensa all’opposto è naturale; farlo con chi è stato tuo compagno ed amico è molto più duro e doloroso. E, una volta che la lotta è finita, è più semplice confrontarsi con chi è stato a tutti gli effetti il nemico, che non con le persone un tempo amate e poi perdute, come accade al protagonista di Malapace.

D. Quando oggi si parla di pace e si elogia la diserzione si pensa per lo più alla Prima guerra mondiale, mentre la Seconda guerra anche per i più convinti pacifisti è invece letta all’insegna della resistenza che va da sé è armata. Il protagonista del tuo romanzo François, la cui intera vita ruota attorno alla scelta del pacifismo è stato storicamente una eccezione? 

R. No, non è stato un’eccezione. Come lui ce ne sono stati tanti, ed è proprio questo che mi ha colpito e mi ha fatto venire voglia di raccontarne la storia, che ho scoperto quasi per caso, mentre studiavo per la tesi di dottorato nelle biblioteche di Parigi. L’argomento della mia tesi era il rapporto tra la sinistra francese e l’Unione Sovietica tra gli anni Venti e Trenta. Al momento di predisporre le note biografiche, mi sorprese vedere come molti militanti comunisti o socialisti, nel dopoguerra, fossero stati condannati per aver collaborato con la Repubblica di Vichy. Avevo letto i loro articoli, i loro scambi epistolari, e sapevo che avevano dei valori opposti rispetto a quelli del nazismo; com’era stata possibile una cosa del genere? Sono arrivata così a immergermi nella profonda lacerazione del pacifismo francese, diviso tra chi collaborò con Pétain e chi si schierò con De Gaulle. Parliamo della generazione che aveva visto i propri padri morire nelle trincee della Grande Guerra o tornare sfigurati e invalidi, e per la quale non c’era male peggiore che tornare a combattere. Alcuni tuttavia fecero questa scelta, altri preferirono il compromesso con il nemico, nell’idea che ciò avrebbe preservato più vite umane. C’è anche chi, come Simone Weil, fu pacifista assoluta fino al 1939, per poi aderire al governo gollista in esilio a Londra, che combatteva insieme alle forze alleate.

D. “Il Satana del nostro tempo recita la parte dell’umanista e ha un unico desiderio: salvare il mondo.” Lo scrive I. B. Singer nella sua raccolta di saggi intitolata A che cosa serve la letteratura (Adelphi, 2024). Sei d’accordo?

R. Amo molto i romanzi di Singer, ma non avendo letto il saggio mi è difficile contestualizzare la frase. Se dovessi prenderla in senso del tutto astratto, mi verrebbe da dire che Satana, se esiste, compie il male convinto che sia appunto un male, mentre gli esseri umani generalmente commettono le azioni più atroci nell’idea che esse siano necessarie a un bene superiore, e questo non solo nel nostro tempo, ma da sempre. Che ciò nasconda spesso anche interessi personali è senz’altro vero, ma di fondo anche Hitler o Himmler probabilmente erano convinti di salvare il mondo. Alessandro Manzoni diceva che è più facile fermare l’arma di un nemico che il ferro di un chirurgo: quando gli esseri umani si vedono come chirurghi, è forse allora che sono più pericolosi.

D. Infatti, la cosa che più colpisce nel tuo romanzo è che i personaggi sono mossi dalle più sincere convinzioni e non da trasformismo o dall’interesse personale. Anche Antoine, il compagno di cella di François, nazista convinto e torturatore è onesto con se stesso in relazione alle proprie convinzioni e anzi mette François dolorosamente davanti all’ipocrisia delle sue scelte.

R. Vero. Volevo capire – non giustificare, ma piuttosto, spinozianamente, capire – il punto di vista ‘dell’altra parte’ quella di chi si era trovato a collaborare con i nazisti non perché era il minore dei mali, ma per una decisione ideologica precisa. Il confronto/scontro tra François e Antoine mette in scena due persone di cui una è lacerata dai dubbi, l’altra invece resta fanaticamente attaccata alle proprie convinzioni. Antoine – il nazista – non si pente di ciò che ha fatto, soffre solo per il fatto di essere stato sconfitto. François – il pacifista – rifiuta di trovarsi dalla stessa parte di qualcuno che aderisce a un ideale per lui abietto, eppure è proprio lì che le sue scelte lo hanno portato…

D. In Malapace l’amicizia mi pare molto più importante dell’amore, è così?

R. Direi che dipende dai personaggi. In generale, penso che l’amicizia possa avere un’intensità paragonabile all’amore, pur essendo un sentimento molto diverso. In particolare, il protagonista ha bisogno di sentirsi amato, che sia da un amico o da un amante, ma anche dai compagni di lotta, dalla sua famiglia, eppure li vede allontanarsi tutti, uno per uno, a causa di scelte che la sua morale lo spinge a fare, e che lo condurranno tragicamente a risultati opposti rispetto a quelli che avrebbe voluto ottenere. 

D. Al tuo protagonista non risparmi nulla, deve fare i conti anche con il privilegio che non è cosa che ci si scrolla di dosso con un puro atto di volontà… 

R. Questo è qualcosa che ho in comune con lui. Spesso mi sono percepita – ed effettivamente sono stata – privilegiata per il contesto in cui sono cresciuta, a livello materiale, culturale e anche morale; quindi capisco il senso di colpa che agita François per qualcosa che non ha commesso, ma che gli è toccato per sorte, e a cui cerca inutilmente di sottrarsi.

D. Malapace è un romanzo in cui la storia delle persone si confronta con la Storia eppure i personaggi non sono dei semplici ‘portatori’ di ideologie, ma, al contrario sono molto dolorosamente lacerati. E mi pare che tu da una parte con nettezza porti fino in fondo la critica alle ideologie e le scelte conseguenti ma dall’altra non infierisci sulle persone di per sé. 

R. Non potrei e non vorrei farlo. Per le mie convinzioni morali mi è facile condannare determinati atti e stigmatizzarli insieme alle terribili conseguenze che hanno avuto, ma resta il fatto che non posso sapere che scelte avrei fatto io, se mi fossi trovata nelle stesse condizioni dei personaggi. Non posso saperlo, anche se con il senno del poi è molto evidente quale fosse la parte giusta e quella sbagliata; posso solo augurarmi che avrei scelto l’una piuttosto che l’altra, ma non ne ho la certezza. C’è un’immagine che spesso mi torna in mente, la foto di una manifestazione nazista dove in mezzo a una folla di gente con il braccio alzato ce n’è uno solo che tiene le braccia strette al petto. Tutti noi oggi vorremmo essere stati quell’uno, ma chi può garantircelo?

D. Prima di Malapace hai pubblicato Edipo a Berlino (Divergenze, 2019) in cui il protagonista durante la notte dei cristalli nel 1938 a Berlino, uccide brutalmente un ebreo salvo scoprire poi di essere lui stesso di origine ebraica. Ce ne parli un po’? Perché questo titolo quando nel romanzo non c’è traccia del ‘complesso di Edipo’ freudiano che tutti conoscono?

R. Per fare una battuta, si potrebbe dire che la colpa è di Freud… la cui teoria sul complesso edipico è diventata assai più celebre della tragedia greca cui quel complesso si è ispirato. Nella tragedia di Sofocle, Edipo uccide suo padre e sposa sua madre perché non sa chi sia l’uno e chi sia l’altra; l’intera opera verte sul tema dell’inconsapevolezza umana, che può rivelarsi la peggiore delle maledizioni. Basta infatti che cambi la prospettiva, e le stesse azioni che avevano reso Edipo un uomo rispettato e addirittura un sovrano, lo trasformano in un paria, un reietto, agli occhi propri prima che degli altri. Questo è un po’ il nocciolo sia del mio primo romanzo, Edipo a Berlino, sia di Malapace; l’idea che le stesse azioni considerate giuste agli occhi di chi le ha commesse, possano per un gioco del destino venir percepite come sbagliate e riprovevoli. Edipo a Berlino non narra solo il trauma di scoprire un’identità diversa da quella che si era creduta la propria (grazie al sistema nazista di identificazione, furono in molti a ritrovarsi ebrei senza essersi mai considerati tali), ma anche il progressivo staccarsi da un sistema di norme e valori che gradualmente assumono un aspetto diverso, e addirittura opposto a quello che all’inizio gli era stato attribuito. Un dilemma simile lo vive François, che si ritrova a venir condannato come collaborazionista dei nazisti pur avendo sempre avversato quel tipo di ideologia.

D. Infine, hai una formazione filosofica e storica, sei una docente di sociologia perché hai deciso di scrivere romanzi?

R. Da sempre mi appassiona leggere saggi di storia o di filosofia e sociologia, e ne ho anche scritti, a partire da studi e ricerche; quando invece leggo o scrivo di narrativa, a incuriosirmi è un punto di vista più individualizzato, più interno alle persone che quelle storie e quelle società le hanno vissute. Un punto di vista più microscopico, forse, e anche più libero nell’analizzare le tante sfaccettature dell’esperienza umana.

QUI l’articolo originale: https://www.pulplibri.it/malapace-e-edipo-a-berlino-intervista-a-francesca-veltri/?fbclid=IwY2xjawJNI6FleHRuA2FlbQIxMQABHZbNMDP59CCQR15zuxrDsG8f6mo63Tjc5qrcTKfYXj7VmuALZayooMoOkQ_aem_IHlsF64qJ_QlSj3GgkRUuQ

Straordinarie avventure nella cucina balcanica – Eric Gobetti recensito su «L’Indipendente»

Straordinarie avventure nella cucina balcanica – Eric Gobetti recensito su «L’Indipendente»

di Raffaele Calvanese

I cevapčići sono delle polpette di carne tipiche della cucina balcanica caratterizzate da un sapore speziato e deciso, ideali anche per una grigliata!

Così recita uno dei più importanti siti di cucina quando parla del famoso piatto a base di carne tipico della penisola balcanica che è l’ambientazione sullo sfondo delle Straordinarie avventure del professor Toti nel mondo dei cevapčići, primo romanzo dello storico Eric Gobetti. Con il suo libro (edito da Miraggi) Gobetti ritorna nel territorio Jugoslavo, da sempre suo terreno d’elezione per la produzione saggistica (che gli ha causato anche strumentalizzazioni politiche), usando l’ espediente culinario.

I palinsesti televisivi sono ormai invasi dai programmi di cucina, e il protagonista del libro, il Professor Toti, borsista dell’Università di Camerino in “storia dell’alimentazione” viene incaricato da uno di questi programmi di realizzare uno speciale proprio sulla penisola balcanica. Comincia così, in modo quasi inaspettato, un road book che da Bari porta il nostro eroe a risalire tutta la costa Balcanica attraversando mille peripezie e dovendo fronteggiare continui cambi di programma sulla tabella di marcia per assecondare l’instabilità morfologica del territorio e le insidie logistiche proprie dei diversi luoghi che si dipanano dal Montenegro fino a Sarajevo.

La cucina, il cibo, le ricette sono un linguaggio che permette di svelare agli occhi del lettore le mille peculiarità storiche e sociali del territorio martoriato dalla guerra civile degli anni ’90. A quella guerra, chi è sopravvissuto, sovrappone pensieri, idee, rimpianti e antichi dolori. Uno su tutti è quello che vede il protagonista somigliare incredibilmente al Maresciallo Tito, non a caso in copertina troviamo un’immagine del maresciallo con tanto di cappello da Chef.

Il viaggio del professor Toti, si ammanta anche di mistero dal momento che un suo mentore lo incarica di svelare una volta per tutte la leggenda legata al più antico ricettario di cui la letteratura abbia memoria, risalente addirittura ai tempi della scoperta dell’America. Il suo autore, infatti, Solomon Amerovic, sarebbe uno dei componenti della storica spedizione poi riparato nei Balcani.

Come se non bastasse, nel libro di Gobetti, condensato nelle sue novanta pagine, troviamo anche una storia d’amore che lega il sessantenne protagonista a una donna di Sarajevo che durante la fase più acuta del conflitto in Jugoslavia era venuta in Italia a studiare. Alma, infatti, è presente quasi dalla prima pagina nella mente del protagonista che punta a Sarajevo prima di tutto per provare a riallacciare i rapporti con la donna di cui si era innamorato, e mai dichiarato, ai tempi dell’università negli anni ’90.

La scrittura di Gobetti trova i suoi momenti migliori negli spassosi dialoghi tra il protagonista e la vasta fauna di personaggi per lo più improbabili che si incontrano lungo la strada. Il ritorno a Sarajevo, tramite il grimaldello della tradizione culinaria, ci svela una società multiculturale, attraversata da vettori storici e religiosi che affondano le loro radici in secoli lontanissimi. Il sincretismo con l’impero Ottomano contrapposto alle forze centrifughe del centro Europa creano una società in continuo movimento. Non si può tentare di fotografare la penisola Balcanica senza rischiare di averne un’immagine mossa.

Gobetti, da profondo conoscitore della storia dei nostri vicini di casa, riesce tramite una storia piccola a restituirci un quadro molto preciso di cos’è l’Ex Jugoslavia di oggi. Ed è questo che fa la letteratura, entra nella storia con la esse maiuscola grazie a piccoli personaggi, fondamentali a comporre il quadro generale. Degna di nota è anche l’appendice finale con un piccolo ma nutrito ricettario di molte delle pietanze nominate nelle pagine del libro.

QUI l’articolo originale: https://www.lindiependente.it/straordinarie-avventure-cevapcici/

David Wojnarowicz, una lucida visionarietà – «Sul filo della lama» recensito dal «manifesto»

David Wojnarowicz, una lucida visionarietà – «Sul filo della lama» recensito dal «manifesto»

di Silvia Nugara

GEOGRAFIE «Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione», un memoir dell’artista e scrittore morto nel 1992 di Aids

Uscito per la prima volta negli Stati Uniti nel 1991 e ora edito in italiano con il titolo Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione, Close to the Knives di David Wojnarowicz (Miraggi editore, pp. 364, euro 24, traduzione e prefazione di Chiara Correndo, postfazione di Jonathan Bazzi) è un mémoir sui generis in cui l’artista nato a Red Bank (New Jersey) nel 1954 e morto di Aids nel 1992, a soli 37 anni, sperimenta diverse forme di scrittura: dall’introspezione diaristica al manifesto, dai frammenti onirici al reportage, dall’intervista all’invettiva politica. Come se si misurasse con le potenzialità creative di uno strumento, l’artista statunitense pratica i diversi registri della parola alla ricerca di una forma con cui dare un senso, quanto più possibile trasformativo, al proprio vissuto.

Cresciuto in una disperata marginalità, con un padre abusante morto suicida quando lui era bambino, Wojnarowicz è stata una delle figure più originali e radicali della scena del Lower East Side newyorkese degli anni Ottanta. Fotografo, pittore, scrittore, attivista e testimone dell’epidemia di Hiv, scrive a partire da un corpo attraversato da dolore e desiderio, con una lucida visionarietà che tenta di resistere alla violenza e all’annientamento. Si era formato da autodidatta nella New York post-punk, praticando varie discipline che gli avevano permesso di combinare fotografia, collage, pittura, stencil, musica e scrittura per dare forma a un’estetica del tutto personale, con immagini-simbolo come la casa in fiamme o quei bufali che franano giù da una scarpata scelti dagli U2 per la copertina del singolo One. Animatore di numerosi progetti collettivi, dal 1983 Wojnarowicz aveva contribuito a trasformare alcuni spazi abbandonati lungo il fiume Hudson, in particolare il Pier 34, in luoghi in cui oltre a fare sesso occasionale si produceva ed esponeva arte. Attivista vicino ad Actup negli anni dell’epidemia, utilizzò ogni mezzo per denunciare la repressione del dissenso arrivando perfino a farsi fotografare con le labbra cucite per manifestare contro l’equazione silenzio=morte.

LO SGUARDO DI OPERE come la serie Arthur Rimbaud in New York, si traduce nel testo in una lingua tenera eppure tagliente: «Vivevo per strada e vendevo il mio corpo a chiunque fosse interessato. Gironzolavo in un quartiere che era così affollato di barboni che non ricordo nemmeno come fosse l’architettura dei palazzi.

Io almeno potevo distendere le gambe e rimediare un tetto sopra la testa, mentre tutte queste persone per strada avevano raggiunto il punto in cui il loro corpo e la loro anima non interessavano a nessuno se non a loro stessi».

Wojnarowicz si osserva con un occhio «fuori di sé» e uno «dentro di sé»: la sua è una scissione percettiva spesso innescata dall’uso di sostanze che diventa però strategia esistenziale. Lo si percepisce per esempio nei vagabondaggi che intraprende nel deserto dell’Arizona alla ricerca di una distanza dalla metropoli dolente, abbandonandosi a derive allucinatorie che aprono squarci di tregua e di connessione con corpi e anime di passaggio.

Come per Burroughs, che nel saggio introduttivo la traduttrice cita come riferimento estetico-poetico del libro, la droga non è tanto una via di fuga dalla realtà, ma strategia di sopravvivenza e, ancora di più, viatico per forme più profonde di conoscenza. La prosa mai pietistica si fa strada dalla soglia del baratro in cui langue un’umanità che è derelitta non per destino ma come esito di meccanismi sociali scientemente discriminatori. Nei suoi «raggi X dall’inferno», Wojnarowicz denuncia gli Usa che chiama «nazione monotribale», governata da un’ideologia cannibale che annienta tutto ciò che è altro.

LE SUE IMMAGINI apocalittiche, con quei «mucchi di carne marcia» che costellano il paesaggio urbano, portano alla luce la violenza della politica e la corruzione del linguaggio televisivo («non sottovalutare la pericolosità del politico alto trenta centimetri»), la brutalità della Chiesa, il proliferare sistematico della paura e dello stigma: «Il nemico è ovunque: nel corpo, nella razza, nella classe, nel governo, nella cultura, nel sistema giudiziario, nei media». La scrittura immaginifica delle pagine più biografiche si fa asciutta e documentata nelle analisi sociali su cui incide la volontà di lasciare una traccia oltre la morte. La denuncia delle politiche governative colpevoli nei confronti delle persone affette da Hiv/Aids risuona attuale nonostante il virus oggi non si presenti più in forma pandemica nei paesi ad alto reddito. Però, i tagli inferti ultimamente dall’amministrazione Trump ai fondi federali per la ricerca biomedica con in più il congelamento del sostegno ad agenzie di cooperazione internazionale come Usaid (United States Agency for International Development) avranno conseguenze dure. I finanziamenti statunitensi rappresentano, infatti, una parte cospicua delle risorse che in oltre cinquanta paesi del mondo permettono la diffusione delle cure antiretrovirali e della profilassi pre-esposizione da Hiv (PrEP). L’Unaids, organismo delle Nazioni Unite per il contrasto all’Hiv, ha addirittura fatto sapere che al momento è compromesso il piano che ambiva a porre fine all’infezione da Hiv entro il 2050.

Nel suo studio appena uscito in Francia con il titolo Une histoire mondiale du sida. 1981 – 2025, Marion Aballéa aiuta a fare il punto della situazione e a comprendere le dinamiche culturali, sociali ed epidemiologiche che hanno caratterizzato dagli anni Ottanta ad oggi il fenomeno Aids. All’alba di una svolta epocale, la ricerca scientifica e la cura potrebbero subire una drammatica battuta di arresto. Ecco dunque che l’opera di figure come Wojnarowicz non permette solo di rendere patrimonio storico comune la memoria dei morti di Aids così come accade per i morti di guerre e altre catastrofi. Quell’esperienza è un monito per l’oggi: il morbo che ha annientato una generazione esiste ancora e le sue cause non possono essere ignorate fingendo che riguardino solo l’altro da sé.

ANCHE IN QUESTA prospettiva si può situare la mostra che il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato attualmente dedica a Peter Hujar Azioni e ritratti / viaggi in Italia a cura di Grace Deveney con Stefano Collicelli Cagol (fino all’11 maggio). Hujar (1934 – 1987) fu amante e mentore di Wojnarowicz (presente in mostra) e i suoi scatti restituiscono le relazioni con una certa scena artistica e intellettuale newyorkese (Merce Cunningham, John Cage, Susan Sontag) corpi in azione, retroscena di esibizioni teatrali o coreutiche, di spettacoli drag. La sezione italiana del percorso ritrae un’Italia misteriosa, teatro di volti, paesaggi e corpi animali in chiaroscuri accesi pronti a inghiottire la vita nelle tenebre.

Lo stesso Centro Pecci ospiterà dal 4 ottobre 2025 al 1 marzo 2026, la mostra Vivono. Arte e affetti, Hiv-Aids in Italia. 1982 – 1996, curata da Michele Bertolino. Un percorso tra opere visive, video, poesie, paesaggi sonori, materiali d’archivio e oggetti personali che ricostruisce una storia internazionale dell’arte italiana negli anni dell’epidemia attraverso figure come Nino Gennaro, Corrado Levi, Lovett/Codagnone, Ottavio Mai, Porpora Marcasciano, Francesco Torrini e Patrizia Vicinelli.

QUI l’articolo originale: https://ilmanifesto.it/david-wojnarowicz-una-lucida-visionarieta

Recensione alle «Straordinarie avventure del professor Toti nel mondo dei ćevapčići» di Eric Gobetti sul «Corriere del Ticino»

Recensione alle «Straordinarie avventure del professor Toti nel mondo dei ćevapčići» di Eric Gobetti sul «Corriere del Ticino»

di Sergio Roic

Lo storico italiano Eric Gobetti si è cimentato l’anno scorso con la narrativa scrivendo il gustoso libretto Le straordinarie avventure del professor Toti nel mondo dei ćevapčići per le edizioni Miraggi. Il professor Toti, un sessantenne ancora aitante, compie un viaggio da Bari nelle terre della ex Jugoslavia per interessamento del programma tv «Il mondo in cucina». Dovrà scovare e parlare di alcune ricette tipiche del Paese una volta unito e ora suddiviso in sette parti. Il prof Toti, un esperto di cucina e cibo, compie il suo faticoso viaggio dal Montenegro, dove approda, fino a Sarajevo, città in cui spera pure di trovare un celebre ricettario. Là lo attende anche l’ex fiamma Alma, una profuga bosniaca che aveva conosciuto molti anni prima in Italia. 

Allineati tutti gli ingredienti sul piatto, Gobetti ci presenta sia il cibo sia (velocemente) la storia recente della Jugoslavia. Il fatto curioso è che Toti assomiglia al maresciallo defunto e ciò provoca situazioni spassose ma anche incresciose. Passando da una mangiata all’altra, tutte condite da numerosi bicchieri di rakija, la forte grappa jugoslava, Toti saltabecca da una vecchina montenegrina che lo prende per un combattente della Seconda guerra mondiale agli ostili tifosi di una squadra di calcio di Mostar, fino a incontrare l’agognata Alma. Le elucubrazioni del professore sulla libertà lasciano adito a qualche perplessità, ma il suo talento per il quieto vivere e per la materialità delle cose permettono di completare il viaggio (senza ritorno) a mo’ di nostalgico rientro in una realtà che non c’è più e che al massimo può essere rintracciata nel bel mezzo di una scorpacciata di burek o baklava. In ogni caso, le ricette elencate sono interessanti e gustose e con una Kokta e un burek di carne nei dintorni il libro si digerisce bene.

Recensione dei «Vigliacchi» di Josef Škvorecký su UniversoLetterario.it

Recensione dei «Vigliacchi» di Josef Škvorecký su UniversoLetterario.it

Con I vigliacchi, edito in Italia da Miraggi EdizioniJosef Škvorecký ci regala un romanzo di formazione anomalo, che si muove tra il ritratto generazionale e la critica sociale, senza mai cedere alla retorica eroica. Pubblicato per la prima volta nel 1958 in Cecoslovacchia, il libro è ambientato negli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale e segue un gruppo di giovani della provincia ceca, appassionati di jazz e poco inclini ai grandi gesti patriottici.

Lontano dalle narrazioni classiche di resistenza e coraggio, Škvorecký tratteggia un’umanità sospesa tra il desiderio di libertà e la paura di esporsi. La sua scrittura, ironica e vivace, racconta le contraddizioni di una gioventù che sogna l’America ma vive sotto l’ombra della guerra, facendo del jazz non solo una passione musicale, ma un simbolo di ribellione e di un altrove sognato ma irraggiungibile.

Trama: un attimo prima della libertà

Il romanzo si svolge in una piccola città ceca nel maggio del 1945, proprio mentre le truppe naziste si stanno ritirando e l’arrivo delle forze sovietiche sembra imminente. Il protagonista, Danny Smiřický, è un giovane sassofonista che trascorre le giornate tra la musica, le fantasie amorose e le discussioni con i suoi amici, senza un vero impegno politico o militare.

Danny e il suo gruppo non sono eroi né resistenti, ma nemmeno collaborazionisti: sono semplicemente ragazzi che cercano di capire da che parte stare, mossi più dalla paura e dall’incertezza che da una reale convinzione ideologica. Il titolo stesso, I vigliacchi, suggerisce l’ambiguità di questi giovani che si trovano a vivere un momento storico cruciale senza avere il coraggio o la voglia di essere protagonisti.

Il romanzo si sviluppa come una serie di episodi che oscillano tra il comico e il tragico, mostrando l’assurdità della guerra e la difficoltà di prendere posizione in un mondo in cui le certezze si sgretolano di fronte agli eventi.

Un protagonista antieroico: Danny Smiřický

Danny è un personaggio che si distacca dai classici eroi della letteratura di guerra. Non ha il coraggio di unirsi alla resistenza, ma nemmeno la spietatezza di chi ha abbracciato il nazismo. È un giovane che vorrebbe solo suonare il jazz e conquistare le ragazze, ma che si trova invischiato in una realtà che non può ignorare.

Attraverso il suo sguardo, Škvorecký mostra l’ipocrisia della società dell’epoca. Mentre alcuni si affrettano a dichiararsi partigiani solo quando la vittoria è ormai certa, altri cercano di ripulire la propria immagine per sopravvivere al nuovo regime che sta arrivando.

La grandezza del romanzo sta proprio in questa assenza di giudizio morale. Škvorecký non condanna Danny e i suoi amici, ma li racconta per quello che sono: giovani confusi, pieni di paure e desideri, costretti a confrontarsi con una storia che non hanno scelto di vivere.

Il jazz come simbolo di libertà e disillusione

Uno degli elementi più affascinanti del romanzo è la centralità del jazz, che non è solo la passione di Danny, ma un vero e proprio simbolo della libertà sognata e mai raggiunta.

In una Cecoslovacchia ancora sotto il giogo nazista e presto destinata a cadere sotto il regime sovietico, il jazz rappresenta un anelito di evasione, un collegamento con l’America e con un mondo che sembra così lontano dalla realtà quotidiana. Tuttavia, proprio come Danny e i suoi amici, anche il jazz resta sospeso tra il desiderio e l’impossibilità di realizzarlo pienamente.

Škvorecký, che nella vita reale era un grande appassionato di musica, utilizza il jazz come filo conduttore per esprimere la frustrazione di una generazione privata della possibilità di sognare davvero. La musica diventa un linguaggio alternativo alla guerra e alla politica, un rifugio in cui cercare un’identità in un mondo che sembra non offrirne alcuna.

Stile e tono narrativo: ironia e disincanto

Uno degli elementi distintivi de I vigliacchi è il suo stile narrativo. Škvorecký adotta un tono ironico e a tratti dissacrante, che smonta la retorica eroica tipica delle narrazioni di guerra. Il suo sguardo è disincantato, capace di cogliere la comicità involontaria di certe situazioni senza mai perdere di vista il dramma sottostante.

Il linguaggio è scorrevole, colloquiale, quasi cinematografico. I dialoghi sono vivaci e realistici, e i pensieri di Danny, spesso contraddittori e confusi, contribuiscono a rendere il protagonista estremamente umano e credibile.

Nonostante l’ironia, però, il romanzo lascia addosso un senso di inquietudine e di malinconia. Il lettore sa che la storia non darà a Danny e ai suoi amici la possibilità di vivere la vita che desiderano. L’occupazione nazista sta per finire, ma presto arriverà un’altra oppressione, e i sogni di libertà resteranno, ancora una volta, irrealizzati.

Un romanzo scandaloso e attuale

Alla sua pubblicazione, I vigliacchi suscitò enorme scalpore in Cecoslovacchia. La critica ufficiale lo accusò di essere anti-patriottico e offensivo nei confronti della resistenza. In un’epoca in cui si cercava di costruire una memoria collettiva fondata su atti eroici e sacrifici gloriosi, il ritratto di giovani indecisi e spaventati apparve come una provocazione inaccettabile.

Oggi, però, il romanzo si rivela di straordinaria attualità. In un mondo in cui le guerre e le crisi politiche continuano a mettere le persone di fronte a scelte difficili, I vigliacchi ci ricorda che non tutti sono pronti a essere eroi, e che spesso la storia è fatta anche di esitazioni, paure e compromessi.

U classico del disincanto

In conclusione, con I vigliacchi Josef Škvorecký ci consegna un romanzo che sfida le narrazioni eroiche della storia, offrendo un ritratto sincerorealistico di una gioventù senza certezze. Grazie a uno stile ironico e coinvolgente, e a un protagonista tanto imperfetto quanto umano, il libro si impone come una lettura fondamentale per chiunque voglia comprendere il lato meno celebrato della guerra: quello di chi ha avuto paura, di chi ha esitato, di chi ha cercato di sopravvivere senza diventare un martire.

QUI l’articolo originale: https://universoletterario.it/i-vigliacchi-di-josef-skvorecky/

«Ogni cosa ha il suo tempo» di Petra Soukupová: quand’è l’ultima volta che siamo stati felici?

«Ogni cosa ha il suo tempo» di Petra Soukupová: quand’è l’ultima volta che siamo stati felici?

di Sara Concato

Una domanda che risuona nella testa dopo la lettura di un romanzo che penetra, come una sonda, lo spazio e il tempo di una famiglia come altre. Ogni cosa ha il suo tempo, di Petra Soukupová.

La prima cosa che salta all’occhio tenendo fra le mani questo libro è il titolo in lingua originaleche emerge da quello in italiano e il nome della traduttrice, Letizia Kostner, in copertina. È un segno di riconoscimento della casa editrice Miraggi in generale e in particolare della collana NováVlna, dedicata alla letteratura ceca.

In quarta di copertina appare un intero brano scritto in entrambe le lingue, riga per riga a ricordarci che l’autore di un libro tradotto non è mai uno solo. Ma forse ogni libro non ha mai solamente un autore.

La prima cosa che salta all’occhio tenendo fra le mani questo libro è il titolo in lingua originaleche emerge da quello in italiano e il nome della traduttrice, Letizia Kostner, in copertina. È un segno di riconoscimento della casa editrice Miraggi in generale e in particolare della collana NováVlna, dedicata alla letteratura ceca.

In quarta di copertina appare un intero brano scritto in entrambe le lingue, riga per riga a ricordarci che l’autore di un libro tradotto non è mai uno solo. Ma forse ogni libro non ha mai solamente un autore.

Difficilmente in famiglia si parla con chiarezza e sincerità. C’è una dinamica di aspettative e di sottintesi che spesso corre più veloce di noi. Ma a volte può capitare di essere ascoltati: “Tutto qui?” (p. 198) esclama Kája sorpreso di non ricevere punizioni dai genitori dopo aver detto loro che non vuole più nuotare. Mettersi nei panni dell’altro è un esercizio poco praticato, è un esercizio difficile. Più leggiamo e più ce ne accorgiamo. Passando da un punto di vista all’altro, entriamo nella mente dei personaggi e capiamo che non esiste un “cattivo” e “un buono”. 

Esistono relazioni e cambiamenti. Esistono egoismi, sussulti di un’io che si scontra col noi. Non è facile costruire una comunità, grande o piccola che sia. È facile che una comunità si disgreghi per far posto ad altre forme di esistenza. Richard pensa alla sua famiglia che “si regge solo per inerzia”, e si chiede: “se invece avessero ancora tutti la possibilità di avere qualcosa di meglio?” (p. 252). “Ormai è tutto una noia”, gli fa eco Alice, “non chiacchierano più di nulla, solo di questioni organizzative” (p. 272). Ma la rottura spaventa, la perdita dell’abitudine, la paura del nuovo. Alice è tormentata tra la noia e la rabbia, fra l’abitudine e il desiderio di vita. “Quasi tutta la giornata trascorre così, rabbia, tristezza, determinazione, rabbia, tristezza, lavoro, pranzo, nel pomeriggio porta di nuovo il cane a fare una passeggiata, senza nemmeno fingere di voler fare giusto due passi. Niente” (p. 275).

Nel susseguirsi dei capitoli, che aprono ogni volta il punto di vista di un personaggio diverso, entriamo nella quotidianità asfittica di una famiglia tradizionale, madre, padre, figlio e figlia, con cui intraprendiamo un viaggio lungo più di trecento pagine, percorriamo un pezzo della loro storia, una storia ordinaria, sviscerata nei minimi dettagli. È come una vivisezione, la dissezione di un corpo vivente per guardarne i meccanismi il più vicino possibile, accorgendoci che la chiave di tutto è sempre il mutamento, l’instabilità (necessaria) che comporta scomposizioni e ricomposizioni, respiri lunghi o tagli netti che permettono a un organismo di rigenerarsi.

In men che non si dica prende il ritmo che le è più congeniale” (p. 141). Fra scegliere un compromesso e seguire il proprio tempo ci si smarrisce spesso, e si resta in uno spazio indefinito in cui la coppia mal assorbe l’individuo, ne digerisce un po’ e un po’ lo perde. La tenerezza spontanea svanisce e un gesto o uno sguardo insolito provocano ansia, sospetto, perfino fastidio, più che piacere. L’abitudine viene a coronare il malassorbimento, ma le parti indigerite prima o poi tornano a galla. Conosciamo mai veramente chi abbiamo accanto?
Quand’è l’ultima volta che siamo stati felici?

QUI l’articolo originale: https://www.ghigliottina.info/2025/04/14/ogni-cosa-ha-il-suo-tempo-petra-soukupova/

Alessandro De Vito scrive dei «vigliacchi» di Josef Škvorecký su «tuttolibri»

Alessandro De Vito scrive dei «vigliacchi» di Josef Škvorecký su «tuttolibri»

I vigliacchi Josef Škvorecký è uno dei grandi classici della letteratura ceca. 

Siamo in Boemia agli sgoccioli della seconda guerra mondiale, e gli ultimi giorni, dal 4 all’11 maggio del 1945, sono altrettanti capitoli. La guerra, con le sue atrocità, resta costantemente sullo sfondo, ma è un romanzo in cui vengono celebrate la vita e la giovinezza. Protagonisti sono i ragazzi che suonano in un complesso jazz, stravedono per tutto ciò che è americano e inglese, e a modo loro sono già dei “ribelli” nel confronto del mondo degli adulti: costretti malvolentieri ad arruolarsi in un arrangiato esercito cecoslovacco basato, guardacaso, in una fabbrica di birra, tra ironia e sarcasmo, slanci ideali e comprensibile paura – i tedeschi sono in ritirata incalzati dai sovietici – i loro principali interessi restano la musica e le ragazze. E pensare al futuro, come fanno i giovani di ogni epoca, con atmosfere quasi da film che precorrono gli anni Sessanta.

Scritto nel 1948-49 da uno Škvorecký ventiquattrenne e pubblicato solo nel 1958, era arrivato una prima volta in Italia nel 1969 nella traduzione di Giuseppe Mariano per Rizzoli, condotta, all’epoca, sulla seconda edizione del romanzo (1964), una stesura in parte censurata e in parte riscritta dallo stesso autore perché ne fosse concessa la pubblicazione. Ora il romanzo si può di nuovo leggere integralmente e nella sua forma originaria e più viva.

I vigliacchi si distingue per una lingua e uno stile molto personali che alternano registri bassi e quotidiani a una struttura letteraria articolata. I dialoghi tra amici, diretti e cinematografici, sono pieni di gergo giovanile – non è facile mantenere quella freschezza e immediatezza a distanza di generazioni e di decenni senza indulgere alle mode passeggere del contemporaneo, e senza utilizzare espressioni che in italiano sono regionali. Invece le lunghe elucubrazioni, i sogni a occhi aperti e le riflessioni post-adolescenziali del protagonista Danny (alter ego dell’autore in molti suoi romanzi) sulle ragazze, sulla guerra, ma in fondo sempre sul senso della vita, spesso sono periodi talvolta più lunghi di una pagina. Solo la sapienza letteraria di un autore amante del jazz e del cinema consentono al lettore di non perdersi e percorrere le pagine una dopo l’altra con leggerezza e apparente semplicità.

In Škvorecký la vita, che sia amore o guerra, risuona con i contrappunti del jazz, dello scat, dell’improvvisazione studiata, del ritmo sincopato. E moltissimi sono i verbi che richiamano suoni e rumori, si “sente” la colonna sonora almeno quanto si “vedono” i personaggi: un film su carta. Ma del jazz e del cinema ci sono anche l’abbandono della ragione e della ragionevolezza per le ragioni del cuore, che sono quelle dell’essere giovani, da ragazzi e sempre.

 

David Wojnarowicz arriva in Italia con la prima traduzione di «Close to the Knives»

David Wojnarowicz arriva in Italia con la prima traduzione di «Close to the Knives»

di Lucio Vitagliano

L’incendiario memoir dell’artista e attivista newyorkese queer e HIV+

Incastonata tra le vie acciottolate del centro di Torino, Nora book è uno degli spazi LGBTQIA+ più
noti in città e venerdì scorso 28 marzo ha ospitato un evento importante non solo per il panorama
culturale italiano, ma anche per quello statunitense: la presentazione in anteprima del libro “Sul filo
della lama” (Close to the Knives) per Miraggi edizioni, la prima traduzione italiana dell’incendiario
memoir dell’artista e attivista newyorkese queer e HIV+ David Wojnarowicz.
L’interesse nei confronti della figura di questo artista non si è mai spento e, anzi, è cresciuto
esponenzialmente negli ultimi tempi, grazie anche ad una serie di mostre internazionali e documentari
incentrati sulla vita e la lotta di Wojnarowicz. Questa riscoperta si è accompagnata ad un nuovo
slancio scientifico e mediatico verso quella incredibile fucina culturale che è stata la scena artistica
avantgarde della Downtown New York e questo lo testimonia ad esempio la recente acquisizione da
parte della NYPL della collezione di Leonard Abram dell’East Village Eye, storica piattaforma che
ha documentato la vibrante vita dell’East Village dal 1979 al 1987.
Nonostante il vivace interesse a livello internazionale per il lavoro e l’arte di Wojnarowicz, la figura
dell’artista è relativamente poco conosciuta in Italia. Questo lavoro di traduzione, curato da Chiara
Correndo, ricercatrice e traduttrice, è quindi qualcosa di più di una semplice pubblicazione, poiché si
sta rapidamente configurando come l’occasione per far conoscere l’artista in Italia e aggregare
studiosi e studiose indipendenti che in Italia lavorano su di lui.
L’evento presso Nora book è stato il primo di una serie di appuntamenti nazionali dedicati alla
promozione del libro e della figura dell’autore: la traduttrice, in dialogo con il ricercatore e attivista
Cristian Lo Iacono, ha presentato ad un pubblico piuttosto folto i contorni dell’opera di Wojnarowicz,
i suoi simboli e il suo legame con la lotta di Act Up New York. Il grazioso dehors della libreria era
molto affollato, a conferma del grande interesse verso la pubblicazione e della curiosità da parte del
pubblico italiano di saperne di più.
Il libro verrà presentato l’11 aprile anche a Prato presso il Centro per l’arte contemporanea Luigi
Pecci, polo artistico e culturale fondamentale in Italia che ospita dal 14 dicembre 2024 all’11 maggio
2025 la mostra del fotografo statunitense Peter Hujar. L’esposizione, Peter Hujar: Azioni e ritratti /
viaggi in Italia, curata da Grace Deveney e Stefano Collicelli Cagol, ospita 20 scatti realizzati da
Hujar durante i suoi viaggi in Italia e una selezione di 39 immagini che immortalano i protagonisti
della vibrante scena della Downtown New York. Visto il rapporto di profondo affetto e amicizia che
legava i due artisti, si è dunque deciso di dare spazio alla presentazione del memoir nel quadro degli
eventi legati alla mostra. L’11 aprile, pertanto, la traduttrice sarà in dialogo con il critico teatrale
Enrico Pastore e con l’artivista Tony Allotta, attore e attivista del collettivo Conigli Bianchi che da
anni si occupa con passione di corretta divulgazione in materia di salute sessuale per combattere la
sierofobia e lo stigma che circonda le persone con HIV.

QUI l’articolo originale: https://lavocedinewyork.com/arts/cultura/2025/04/02/david-wojnarowicz-arriva-in-italia-con-la-prima-traduzione-diclose-to-the-knives/

Radka Denemarková: «Viviamo il tempo degli oligarchi narcisisti, che considerano il mondo un giocattolo privato» – intervista

Radka Denemarková: «Viviamo il tempo degli oligarchi narcisisti, che considerano il mondo un giocattolo privato» – intervista

di Alessandro Catalano, professore di Letteratura ceca presso l’Università di Padova e socio di Memorial Italia

La scrittrice ceca a Huffpost: «Noi che siamo nati nell’est capiamo molto meglio i segnali di una politica che rischia di diventare repressiva. Per me è sconvolgente che il pensiero totalitario sia ancora così attraente, ma è un modello tutto sommato semplice, basato su ordine e consumismo”… “Ha notato che una delle prime misure messe in atto da tutti i sistemi autoritari è quella di condizionare gli scrittori? Perché rappresentano lo specchio del potere. La censura è sempre tragica, ma è anche una buona notizia: significa che la voce della letteratura è ancora forte».

La scrittrice Radka Denemarková rappresenta una delle voci più originali e provocatorie della letteratura ceca, ha vinto numerosi premi ed è un’intellettuale con grande visibilità nell’ambiente culturale tedesco. In italiano sono stati tradotti i romanzi I soldi di Hitler, sul complesso processo di denazificazione seguito alla Seconda guerra mondiale dal punto di vista di una ragazza sia ebrea che tedesca (Keller 2012), e Contributo alla storia della gioia, sulla dilagante violazione del corpo femminile nella storia (Sovera 2018, entrambi tradotti da Angela Zavettieri). Poche settimane fa l’editore Miraggi ha pubblicato, nella brillante traduzione di Laura Angeloni, il monumentale romanzo Ore di piombo, che la scrittrice ha appena presentato a Torino, Parma e Firenze.

Da quando l’ho intervistata l’ultima volta per lo spazio di Memorial Italia sull’HuffPost, due anni e mezzo fa, sono successe molte cose. Vorrei affrontare con lei sia la ricezione del suo romanzo appena tradotto in italiano, Ore di piombo, sia la situazione politica internazionale. Partirei da quando è stata invitata a inaugurare il festival Pordenonelegge, dove ha dialogato con la scrittrice Silvia Avallone. In una sera caratterizzata da una bella partecipazione di un pubblico caloroso, non sono mancate le polemiche da parte del sindaco della città, Alessandro Ciriani, che ha usato parole forti: “Ho assistito a una serie di luoghi comuni triti e ritriti di un vecchio femminismo che non esiste più”. Perché le sue parole provocano spesso questo tipo di reazioni?

Credo che molti esponenti politici odierni non siano più abituati al fatto che gli scrittori violino lo spazio della politica, la percepiscono come un’invasione. Ma non dobbiamo dimenticare che gli scrittori si sono sempre espressi sul mondo, fornendo spesso una prospettiva nuova e diversa, e sono persuasa che dobbiamo continuare a difendere la nostra autonomia e a dire quello che pensiamo. La politica è in fondo solo un servizio, anche se molti credono di essere immuni dal controllo della società. Io sono una scrittrice e una cittadina, e il XX secolo ci ha insegnato che il diritto di criticare è importantissimo. Un diritto che da una parte fa paura, ma dall’altra costituisce la nostra grande forza. Ha notato che una delle prime misure messe in atto da tutti i sistemi autoritari è quella di condizionare gli scrittori? Perché rappresentano lo specchio del potere. La censura è sempre tragica, ma allo stesso tempo è anche una buona notizia: significa che la voce della letteratura è ancora forte. Ricordo bene l’appassionata reazione del pubblico a Pordenone. Ecco, quello che mi sta più a cuore è ricevere il sostegno di chi ascolta. Credo che sia oggi molto importante dare voce a chi non ha la possibilità di manifestare pubblicamente le proprie idee, a chi non può rischiare. E credo che di questo tipo di coraggio avremo sempre più bisogno. 

Lei ha più volte richiamato l’attenzione sul persistere di una cultura patriarcale anche in contesti dove stentiamo a riconoscerla, ad esempio tra i dissidenti. Quanto c’entra il fatto di essere donna?

Sì, naturalmente le cose non erano affatto diverse neanche nella dissidenza. Se pensiamo ai dissidenti in Cecoslovacchia, ci vengono in mente i nomi di Václav Havel, o di Milan Kundera, sempre di uomini si tratta. Anche se a nessuno piace sentirlo, il mondo odierno è dominato ancora da un pensiero patriarcale, solo gli uomini vengono presi sul serio. Se le stesse frasi le pronuncia una donna, hanno minor peso.

In questi giorni lei è in Italia per presentare il romanzo Ore di piombo, uscito in ceco nel 2018. In questi sei anni trascorsi, secondo lei è cambiato qualcosa di essenziale nel modo in cui possiamo leggere questo romanzo, in buona parte ambientato in Cina?

Quando il romanzo è uscito, poteva paradossalmente suonare come un avvertimento. Oggi invece alcuni degli argomenti affrontati sono realtà. Viene quindi spesso letto come un romanzo che contribuisce a svelare i meccanismi del nuovo potere. Il mio intento era quello di mettere in guardia contro un nuovo tipo di totalitarismo. Molti erano convinti che un’economia che funziona porta automaticamente al benessere. Ma quando il governo è monopartitico, l’economia non fa che rafforzarne il potere. Avendo trascorso molti mesi in Cina, ho constatato con orrore quanti europei hanno sostituito i nostri valori con il denaro, allineandosi cioè al modus operandi degli oligarchi di tutto il mondo. E non parlo solo di Trump e Putin, il discorso può essere esteso anche altrove, generando un sistema che sfugge a tutti gli strumenti di controllo della democrazia. 

In diversi punti del romanzo mi sembra anche di percepire una forte critica, o se preferisce, un avvertimento, nei confronti della tecnologia, o meglio del mondo virtuale.

Sì, volevo in effetti mostrare quanto la tecnologia sia ormai onnipresente nelle nostre vite, cosa di cui soltanto adesso cominciamo a renderci pienamente conto. In internet si sono ormai formati dei veri e propri Stati, che nessuno controlla: Facebook, Meta, perfino il loro nome cambia di continuo. Per non parlare del fenomeno dell’intelligenza artificiale, con tutti problemi connessi. Sono realtà che non possono rimanere senza una forma di controllo. Pensiamo per esempio alle fake news: sono ormai talmente diffuse, che per il cittadino medio è difficile orientarsi; inoltre, creano il sostrato ideale per insabbiamenti di vario tipo, distolgono l’attenzione dai temi davvero importanti. Chi fa circolare menzogne dovrebbe essere punito, come del resto in molti paesi già viene punita la negazione della Shoah. In questo momento storico è fondamentale riaffermare il concetto di responsabilità.

Che troppo spesso è invece dimenticato proprio dalle alte sfere della politica…

Il problema è che abbiamo a che fare con individui che avanzano la pretesa di influenzare la politica mondiale, pur non essendo mai stati eletti. E penso alle immagini della “incoronazione” di Trump: in prima fila non c’erano di sicuro premi Nobel e artisti, ma individui che non dovrebbero avere nulla a che fare con la politica, visto che manifestano un aperto e profondo fastidio nei confronti della democrazia e hanno costruito veri e propri imperi sul verticismo, sul dominio assoluto. La politica dovrebbe occuparsi di organizzare la società così da garantire il benessere dei cittadini. Noi purtroppo avvertiamo il pericolo solo quando vediamo i fucili, ma il modo in cui questi individui influenzano la struttura sociale è molto più pericoloso di un fucile. Dovrebbero essere controllati con la massima attenzione e invece sono loro a controllare noi.

Eppure, dovremmo avere imparato la lezione… 

Esatto, guardando al passato, rimaniamo sempre attoniti all’idea che una sola persona sia riuscita ad alterare così profondamente l’idea stessa di democrazia, ma quando una cosa analoga si verifica davanti ai nostri occhi, nemmeno ce ne accorgiamo. Il ruolo peggiore lo ricopre sempre la maggioranza silenziosa, spalleggiata da una lunga serie di utili idioti. In un mondo interconnesso come quello in cui viviamo, non c’è via di fuga. C’è un gruppo ristretto di persone — e parlo di tutti gli oligarchi che proliferano ovunque, tutti con la stessa forma di narcisismo — che sembra aver preso il mondo per una sorta di giocattolo privato e si sente padrone del destino di interi paesi, più o meno piccoli. Se anche i grandi paesi cominciano ad agire nello stesso modo, allora è facile che scoppi una guerra, di solito contro gli stati più deboli. E sono guerre che non riguardano solo i paesi aggrediti.

È quello che è successo in Ucraina, per esempio?

Direi di sì, Putin a mio avviso non odia soltanto l’Ucraina, ma l’idea delle tradizioni democratiche in sé. E la sua forza è amplificata dalla debolezza dell’Europa. Sono discorsi che richiederebbero lunghe e dettagliate disquisizioni, ma non vorrei che si pensasse a Ore di piombo come a un trattato politico. I livelli di lettura del romanzo sono molti e diversificati. 

Infatti, vorrei anche chiederle, a beneficio di chi non ha letto il romanzo, come si declina poi tutto questo sotto forma di opera narrativa.

Ore di piombo è un esperimento. Mi sono chiesta se fosse possibile rappresentare la complessità dell’epoca che stiamo vivendo attraverso una forma nuova. Io credo che solo il romanzo sia in grado di affrontare contemporaneamente un gran numero di aspetti diversi da diversi punti di vista. Come rappresentare, infatti, questo processo di disgregazione dei valori che coinvolge la società, la famiglia, l’individuo e, perché no, perfino l’anima? A differenza della storia, che fotografa e analizza gli avvenimenti, la letteratura può cogliere il mondo interiore dei personaggi e far emergere la percezione individuale della mentalità di un’epoca. La metafora dell’“ora di piombo” in quanto momento fatale nella vita dei personaggi, ma anche della società e persino dei paesi, funziona secondo me meglio di tanti saggi sull’argomento. Il mio è un romanzo a più voci, anche se ovviamente il lettore è spesso portato a identificarmi con il personaggio di Scrittrice. Ma lei non capisce il mondo che ha attorno spesso provoca con i suoi atti la rovina di chi la circonda, per esempio nel caso di Ragazza cinese. Ho poi voluto dilatare il tempo e lo spazio, contrapponendo all’incomprensibile agire umano il mondo animale, gli uccelli e due gatti, Arancio e Mansur. Soprattutto il primo, Arancio, è un gatto millenario, ha vissuto varie epoche e ha visto la storia ripetersi innumerevoli volte, dunque osserva tutto con indulgenza, con il suo caratteristico umorismo nero. Questa pluralità di prospettive sulla storia raccontata è una cosa che solo un romanzo è in grado di far emergere.

In Ore di piombo c’è poi un particolare lavoro sulla lingua…

La battaglia della vera letteratura, oggi, è combattuta con la lingua e per la lingua. Un romanzo scritto con una lingua debole, incerta, senza prese di posizione chiare, non è in grado di svelare alcunché sul mondo. Ogni mio libro ha una lingua e una forma diversa. È il mio tentativo di recuperare una lingua che abbia un significato reale, facendo sì che ognuno si assuma la responsabilità di ciò che afferma. Il lavoro sulla forma è complesso, i singoli capitoli del romanzo rappresentano dei mattoni con i quali ho edificato una cattedrale. Al tempo stesso ogni linea narrativa e ogni capitolo possono essere letti come storie a sé stanti. Ore di piombo rappresenta quindi un esperimento con la lingua e con la forma: mi piace ripetere che contiene in realtà cinque romanzi diversi, che può essere letto come un romanzo d’amore, un romanzo su un singolo personaggio, sulla Cina e sull’Europa, su cosa sta succedendo oggi alla famiglia e su cosa significa essere “non rieducabili”. 

Volevo in effetti chiederle cosa significa per lei l’espressione “non rieducabile”, utilizzata spesso nel romanzo ed estendibile a molti episodi tragici del passato, basti pensare a una “donna non rieducabile” come Anna Politkovskaja.

I “non rieducabili” sono quelli che un tempo chiamavamo dissidenti, ma oggi la parola “dissidente” non basta più. Le nuove forme di totalitarismo esercitano un controllo così capillare sul singolo, che per loro non è sufficiente chiudere in prigione chi non si conforma. Il “non rieducabile” va eliminato in tutto e per tutto. Per questo, oggi, è estremamente importante non arrendersi.

Perché ha deciso di ambientare il romanzo proprio in Cina?

La Cina rappresenta una grande novità, in quanto ha sviluppato una nuova forma di totalitarismo che riunisce in sé il peggio del capitalismo e il peggio del comunismo. Pensi solo al totale silenzio sugli oppositori concreti. A suo tempo, quando Havel, il più famoso dissidente cecoslovacco, veniva arrestato, ne parlavano i giornali e le televisioni di tutti i paesi occidentali, insorgevano tutti i governi occidentali… Oggi in Cina spariscono spesso persone che all’estero sono del tutto sconosciute, quindi chi se ne preoccupa? È una forma di totalitarismo molto più efficace, che controlla i cittadini in modo feroce.

Non trova a suo modo curioso che, parlando della Cina, si continui a usare la parola “comunismo”?

Sì, senz’altro. Se definiamo oggi la Cina “comunista”, qual è il significato di questa parola? Il potere è una questione che riguarda i più ricchi, ovvero i capitalisti della peggior specie. La parola comunismo è stata completamente svuotata del suo significato. In un momento in cui l’unico valore sembra quello del denaro, dobbiamo tornare al vero valore delle parole, a partire da: che cos’è l’uomo? 

La guerra in Ucraina ha cambiato qualcosa da questo punto di vista? 

La guerra in Ucraina ha fatto emergere altri problemi della nostra epoca. Solo adesso ci rendiamo conto, per esempio, di quanto siano efficaci le guerre ibride e di quante persone abbiano assorbito la propaganda russa. Secondo me, comunque, alla base di tutto c’è un rovesciamento dei valori che fa sì che la vittima venga trasformata in colpevole. È per questo che è così facile rovesciare l’idea di chi sia il vero aggressore. 

La Repubblica ceca che posizione ha assunto nei confronti della guerra in Ucraina? 

Per fortuna la nostra politica ha assunto una posizione chiara, anche perché a Praga è stato tutto percepito in relazione al 1968 e ai vent’anni successivi, lasciando scarso adito a dubbi. Vari paesi dell’ex Europa dell’Est hanno ancora una conoscenza profonda della mentalità della Russia, convinta che ciò che le è appartenuto un tempo, le appartenga ancora… Ora, però, vediamo anche che alcuni paesi sono tornati ad assorbire forme di propaganda esplicita, basta pensare all’Ungheria. Il sogno di Putin non è scomparso, del resto, e mentre osserviamo la reazione coraggiosa dell’Ucraina discutendo nei nostri salotti, intanto lì si combatte. Ora la situazione politica mondiale sta cambiando, l’atteggiamento degli Stati Uniti è naturalmente essenziale, il che dimostra tra l’altro che basta un singolo narcisista per trasformare radicalmente tutto. Trump è fatto della stessa pasta e sarebbe disposto a sacrificare anche l’Europa intera. La guerra ha svelato anche a quali pericoli potremmo andare incontro, quali ore di piombo ci attendono. Se tutto è incentrato solo sull’economia, ogni rivendicazione riguarderà cose concrete, come hanno dimostrato la discussione sulle terre rare e la mentalità delle tante imprese che hanno fatto di tutto per aggirare le sanzioni. Purtroppo, pochi comprendono l’essenza della questione: in ballo non c’è solo qualche chilometro di un territorio lontano, ma siamo di fronte a un’epoca di rottura, in cui lo svuotamento dell’individuo è cosa reale. Il numero dei caduti rende necessario, dopo tre anni, fare blocco attorno all’Ucraina, altrimenti sarà troppo tardi e seguiranno altri casi simili: Groenlandia, Canada, Taiwan, Gaza etc.

Se lei dovesse ridefinire l’Europa, nei cui confronti in passato è stata più volte critica, descriverne i confini e ridisegnare le etichette che si continuano a usare (Occidentale, Orientale…), come la descriverebbe oggi? 

Molti di questi termini hanno ancora senso perché riflettono un’eredità condivisa da diverse generazioni, ma oggi non mi pare abbiano più un valore reale. Solo un’Europa realmente attiva potrebbe funzionare, perché c’è un grande bisogno di ribadire i valori nei quali ci identifichiamo. Ma in vari paesi la situazione è palesemente problematica. I valori sono una cosa, l’eredità un’altra. Se pensiamo all’Est e all’Ovest di un tempo, all’eredità del nazismo prima e del comunismo poi, e confrontiamo tutto questo con i recenti risultati politici, capiamo bene che fare i conti con i totalitarismi è un processo molto complesso. Questo dovrebbe anche insegnarci a riflettere sul futuro, mentre purtroppo continuano a prevalere, da una parte, una sorta di arroganza dell’Ovest e, dall’altra, una specie di senso di inferiorità dell’Est. Sarebbe necessario superarle e invece abbiamo sottovalutato molte cose. Rispetto all’occidente, in cui si pensava che tutto si potesse risolvere con le sanzioni, noi che siamo nati nell’Est capiamo molto meglio i segnali di una politica che rischia di diventare repressiva. Per me, in quanto scrittrice, è sconvolgente che il pensiero totalitario sia ancora così attraente, ma è un modello tutto sommato semplice, basato su ordine e consumismo.

E cosa può fare oggi la letteratura?

Si è parlato tanto di crisi del libro e naturalmente ho percepito anch’io gli ultimi anni come una crisi senza precedenti. Ma poi mi sono resa conto di quanto io stessa senta il bisogno della letteratura. In epoche simili, quando è in agguato una crisi di tale portata, le persone riscoprono la propria natura animale e si sforzano di comprenderne la ragione. Ho l’impressione che in alcuni paesi questo si stia già verificando. Nel mondo arabo, ad esempio, i cittadini assediati trovano un momento di aggregazione proprio attorno alla letteratura, che funziona come una sorta di oasi. Può sembrare assurdo, ma non mi stupisce che in tempo di guerra la gente si incontrasse proprio per leggere poesie, per non cadere in depressione: per questo si scriveva anche nei campi di concentramento. Tutte le proprie energie venivano riversate in un’attività come la scrittura. Io non ho mai creduto al fatto che si legge sempre meno. In fondo, se guardiamo la storia, la lettura non è mai stata un’attività chissà quanto diffusa. La letteratura ha il potere di salvare le persone, così è stato anche in passato. Anche se si tratta degli ultimi sopravvissuti, di un piccolo gruppo, molto distante dalle grandi masse, è comunque importantissimo. Magari ora potremmo sembrare dei paladini delle cause perse, guidati da un idealismo inutile e fastidioso, ma facciamo comunque parte di una lunga catena. Anche in passato ci sono stati scrittori che hanno pagato: sono rimasti incompresi, si sono suicidati, hanno bruciato i loro manoscritti, sono morti. È quindi anche un modo per proseguire nella loro tradizione, nella tradizione della “vera letteratura”. 

Ho l’impressione che per lei abbia un significato particolare questa idea di “vera letteratura”?

Sì, per me c’è una differenza essenziale tra “scrivere” e fare vera letteratura. Esistono tanti tipi di scrittori, ma non tutti sono disposti a rischiare, a seguire sentieri che non sono stati ancora battuti. È anche un’attività difficile perché in un’opera letteraria deve funzionare tutto, la forma, la lingua, la storia. Se un autore mette tutto sé stesso in un romanzo, i lettori se ne accorgono. Se ad esempio ripensiamo a Gita, la protagonista dei Soldi di Hitler, e al tema della Shoah, quanti libri kitsch, sentimentali, pieni di cliché sono stati scritti sull’argomento… Invece, gli autori che hanno davvero saputo fare i conti con sé stessi, Primo Levi, Imre Kertézs, Paul Celan, Jean Améry, lo hanno pagato sulla loro pelle. Si tratta di qualcosa che non è facile da definire, ma che avverto in modo molto forte. Pensi solo a quanti libri hanno enorme successo e due anni dopo non li ricorda più nessuno. Poi, certo, scrivere è anche una forma di narcisismo. Io, che ho avuto seri problemi finanziari e ho cresciuto da sola i miei figli, ho temuto spesso di dover cambiare modo di scrivere per vendere più copie. Per fortuna poi le cose sono andate in modo diverso. 

A questo punto non posso fare a meno di chiederle cosa rende un romanzo durevole nel tempo?

Non è il tema che rende certi romanzi immortali, ma il fatto che riflettono un intero mondo.  Le faccio due esempi molto diversi tra loro. Anna Karenina può essere letta in tanti modi, come una storia d’amore, una storia sul senso della famiglia, sull’infedeltà etc., ma se volete cogliere l’essenza della mentalità della Russia del XIX secolo, lì dentro c’è tutto. E questa è una forza che può avere solo un romanzo. L’uomo senza qualità riflette l’atmosfera di disgregazione della monarchia asburgica, e per coglierla Musil ha lavorato molto con la forma. Ma scrivere così comporta dei rischi. In Ore di piombo ho lavorato profondamente sulla forma, è un romanzo con tendenze liriche, riflessioni storiche, elementi saggistici, dialoghi con Confucio e Havel. E tante altre cose. Volevo verificare se oggi è possibile costruire un romanzo in questo modo. Io scrivo ogni mio romanzo come se fosse l’ultimo. E ritengo che riflettere sulla propria epoca significhi anche riflettere in termini di eternità. Funzionerà? Non lo sa nessuno. Ma è necessario provarci.

Alla luce di tutta la nostra conversazione, mi viene in mente una domanda finale, forse paradossale. Ma lei si sente una scrittrice ceca?

Io sono allergica a queste etichette, la letteratura italiana, la letteratura ceca etc. Per me esiste solo la vera letteratura. E sono convinta che in futuro la vera letteratura avrà un significato ancora più ampio, perché saremo investiti da un’alluvione di testi che riscriveranno la storia. L’intelligenza artificiale diventerà un’arma potente in mano a molti dilettanti. Ma dobbiamo imparare a conviverci: alcuni ambiti ne riceveranno un grosso aiuto, ma il pericolo c’è e non si può negare. Molti non si limiteranno a creare brevi video molto efficaci, ma anche testi più articolati in cui la verità e le menzogne saranno mescolate con sapienza. Solo la letteratura è in grado di raccontare i destini individuali e a illuminare la realtà da una prospettiva diversa, e ne abbiamo bisogno perché è un processo liberatorio. La fantasia ci aiuta a sviluppare il pensiero critico, attraverso cui decodificare la realtà.

QUI l’articolo originale: https://www.huffingtonpost.it/guest/memorial-italia/2025/03/29/news/radka_denemarkova_e_il_tempo_degli_oligarchi_narcisisti_che_considerano_il_mondo_un_giocattolo_privato-18783761/

Josef Škvorecký / La rivoluzione dei codardi – su «PulpMagazine»

Josef Škvorecký / La rivoluzione dei codardi – su «PulpMagazine»

Recensione a I vigliacchi di Riccardo Cenci.

Nei Vigliacchi Josef Škvorecký distilla in otto giorni e in altrettanti capitoli quelle ore sature di potenziale drammatico delle quali parla Stefan Zweig in Momenti fatali, quel progressivo addensarsi di eventi gravidi di fato dopo i quali nulla sarà più come prima. L’azione, situata in una cittadina della Boemia, copre il periodo che va dal 4 all’11 maggio del 1945, durante il quale i nazisti presenti in Cecoslovacchia stanno per essere travolti dall’Armata Rossa. In questi scenari si muove Danny Smiřický, alter ego dell’autore stesso in numerose sue opere, personaggio irriverente e anticonformista, perennemente in bilico fra la noia esistenziale e il vitalismo irrefrenabile. Come Svejk ha la capacità di resistere all’orrore della guerra, facendosi beffe del male. Meno caricaturale e grottesco del buon soldato di Hasek, Danny può ricordare l’Holden di Salinger, e non è un caso considerando che Škvorecký era imbevuto di cultura angloamericana. L’individuazione di un linguaggio perfettamente funzionale alla narrazione è tratto comune. Salinger si esprime alla maniera degli adolescenti americani, con il loro slang e i loro manierismi. La lingua è il grimaldello che scardina l’ipocrisia della società del benessere. La medesima operazione viene messa in atto da Škvorecký, veicolando nel lettore uno straordinario senso di autenticità. La sua critica è rivolta all’ambiente piccolo borghese, che è riuscito a restare a galla persino durante l’occupazione nazista. Su tutto questo si innesta l’andamento musicale della struttura narrativa, la sua ispirazione jazzistica. Non a caso l’apertura e la chiusura del romanzo mostrano Danny impegnato con la sua band. Il jazz rappresenta la rottura con qualsiasi elemento stereotipato, l’aspirazione verso una libertà di espressione totale. Il sax tenore, con il suo chiaro simbolismo sessuale, invita allo sberleffo, all’eccitazione dionisiaca. Da questo punto di vista anche i pensieri di Danny, con il loro continuo oscillare da un estremo all’altro, forniscono l’impressione di una coscienza preda di una musica selvaggia, ancora non completamente formata, alla ricerca di una propria direzione.

Siamo indubbiamente di fronte a un romanzo di formazione. Un’immagine, un ricordo precipitano il protagonista in un caleidoscopio di riflessioni dalla sostanza onirica, perché “il sogno era nella mia natura da tempo immemorabile”. Significativamente ogni capitolo, eccetto l’ultimo, termina con il protagonista che si addormenta, consegnato all’oblio in un sonno senza sogni, oppure popolato di cose che, al risveglio, dimenticherà. L’amore per Irena diviene ossessione a causa del rifiuto della ragazza a concedersi. Un sentimento incerto e illusorio in quanto legato all’apparenza estetica. Fondamentale è vivere, anche se tutto quello che è bello rivela una natura effimera. Momentanee oasi di beatitudine sono garantite dalla musica, come quando Danny si ferma ad ascoltare un’orchestrina russa, con la vibrazione profonda della balalaika che ha del miracoloso. Il piacere sparisce, rapido come è venuto, perché «stavo male per l’impotenza dell’uomo e per un mondo dove tutto era organizzato così male che ogni meraviglia, se mai capita, la si può conoscere così di rado, oppure, una volta conosciuta, si finisce per perderla subito, restando disperati e tristi e con tanta voglia di morire».

Neppure la religione è di conforto. Il dubbio riguardo l’esistenza di Dio dà vita a elucubrazioni contrastanti. Il dramma si manifesta all’improvviso, in un gruppo di ebree appena uscite da un campo di concentramento, pallide come spettri, o in una ragazza tedesca convinta della superiorità della razza ariana fino al fanatismo.  Momenti cruciali nella storia europea vengono descritti in maniera peculiare, proprio perché filtrati attraverso lo sguardo disincantato e irriverente di Danny. «Qualche giorno di entusiasmo e poi di nuovo la stessa pappa, sempre uguale, appiccicosa e vischiosa». Un mondo è al tramonto, ma il nuovo appare ugualmente estraneo e ostile. Siamo distanti dalla mitizzazione di un’intera generazione operata ad esempio da Fenoglio nel Partigiano Johnny, dove la resistenza ha una forte motivazione esistenziale. Danny è un antieroe, distante da qualsiasi retorica ideologica e per questo inviso al regime comunista. I liberatori, dei quali non comprende la lingua, gli appaiono: “completamente diversi da me e incredibilmente estranei”. Sin dal titolo, ci troviamo in un sistema di valori totalmente contrario ai dettami del socialismo. L’eroismo di Danny è una posa, una finzione, come dimostra l’episodio della foto con il mitra usata unicamente come esca per le ragazze. Una strana sensazione di vuoto e di inutilità lo minaccia. “Tutti eravamo dei morti viventi”, dice. Con il suo anelito libertario e le sue contraddizioni insolubili, con il suo vitalismo e i suoi ripiegamenti malinconici, Danny è il simbolo dell’irrequieta indole giovanile, della ribellione desiderata e mai del tutto compiuta; in quanto testimone di un’età irripetibile, ci commuove con la sua profonda e imperfetta umanità.

Screenshot

QUI l’articolo originale: https://www.pulplibri.it/josef-skvorecky-la-rivoluzione-dei-codardi/?fbclid=IwY2xjawIrrYxleHRuA2FlbQIxMQABHdDOb23Z8q9RuW_5inelgI2g0tjwettc8sRpgpRp-IKMGDlNJ49uwD556A_aem_UtVdAjiy6wi_PZ-JbPJQOg

Recensione di «Non commettere infinito» di Nicola Neri su «D – Repubblica»

Recensione di «Non commettere infinito» di Nicola Neri su «D – Repubblica»

di Maurizio Fiorino

In corsa sull’autostrada, una telefonata dopo l’altra, per darsi un’ultima chance

“Mi faccia capire, sta fuggendo da qualcosa?”, chiede all’improvviso una delle tante voci senza volto presenti in questo libro e, quasi, verrebbe da dire che sta tutto qui, il senso di Non commettere infinito (Miraggi Edizioni), quarto romanzo di Nicola Neri. “Dalla realtà” è la risposta che arriva dall’altro capo del telefono. A rispondere è un uomo che guida come un forsennato nella notte ma sarebbe troppo semplice, finanche riduttivo, liquidare questa storia con l’aneddoto che sta alla base di ogni seduta psicoanalitica. Certo, fuggiamo tutti da qualcosa ma la fuga di Morelli – questo il nome del protagonista – descritta da Neri che, di professione, fa (anche) lo psicologo, è ovviamente un escamotage per celare intrecci e ossessioni. La storia è pressappoco questa: Morelli è un uomo di trentacinque anni e, nonostante amici, colleghi, donne, si sente infinitamente solo. “Sai dove conducono le bugie. Le bugie conducono a incidenti”, si dice a un certo punto. Guida su un’autostrada che sembra infinita e, nel tragitto, fa e riceve una telefonata dopo l’altra. Nelle conversazioni si perde e si ritrova, si confessa, si lascia andare a un flusso ininterrotto di pensieri. Vorrebbe solo schiantar-si, andare a fondo, “al centro della corrente che sembra sul punto di esplodere” ma, prima di farlo, vuole una chance, l’ultima, perché – parole sue – “poi non ce ne sono altre”.

Se la struttura della telefonata-ossessione ha tanti esempi celebri (uno su tutti il Cocteau de La voce umana), l’ambientazione, forse perché lo abbiamo da poco visto al cinema, sembra uscita da Una notte a New York, l’ultimo di Sean Penn e Dakota Johnson, girato interamente in un taxi notturno. “Ho passato tutto il pomeriggio sdraiato a letto. E perché? Il tempo. Ero sdraiato e davanti a me c’era un vecchio orologio a muro, con i secondi. O almeno, io pensavo che fossero secondi”, fa dire Neri al suo io narrante e, senza voler scomodare Proust (che, a proposito, all’improvviso appare in un personaggio, “la proustiana con la madre lontana”) e il suo concetto di tempo cronologico e lineare versus tempo interiore e oggettivo, leggendo Non commettere infinito e analizzandolo in un rapporto spazio-tempo, viene in mente il gioioso caos mentale di Zeno Cosini, soprattutto laddove il protagonista sembra rielaborare il suo passato relazionandolo alla guida tormentata della sua autovettura. Così il Morelli che, come dicevamo, crede di scappare dalla realtà, diventa una metafora del tempo che passa e noi lettori, in fondo, non possiamo fare altro che arrenderci e seguirlo nella sua spericolata avventura alla ricerca di se stesso.

Nicola Neri (classe 1992) ha una scrittura già affilata e chiara e in questo suo romanzo, a proposito di linguaggio, ha deciso di usare una lingua puramente visionaria e cinematografica, evidentemente l’unica possibile a rendere questa lunga seduta psicoanalitica “on the road” lucida e spigolosa. “Le emozioni. Da quando ricordo, io le vivo come… fossero entità esterne. Forze esterne che mi afferra-no”, dice il protagonista, a dimostrazione che il tema cardine del libro è semplicemente l’incomunicabilità con noi stessi e, ovvia conseguenza, con tutto ciò che definisce i nostri confini e che consideriamo il mondo esterno.