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Pellicani – il protagonista – è una maschera, quella del chiacchierone vacuo, vile e profittatore, perfetta per questa allegoria grottesca e asciutta, a tratti persino lugubremente comica, dei “tempi che corrono” o che correranno in un futuro non troppo lontano.
Il giovane Pellicani è un chiacchierone. Si presenta una sera – una sera tardi – nella casa del padre, casa dalla quale si era allontanato – dopo aver sottratto certi risparmi da un certo cassetto – vent’anni prima. L’immobile, un condominio di sei, sette piani, è disastrato. Ma la scritta «Pellicani» sul campanello dell’ultimo piano c’è ancora; e la porta è appena accostata. Il giovane Pellicani – un completo grigio un po’ sdrucito, una valigetta ventiquattrore portata solo per darsi un tono – vuole fermarsi una notte e via, andare altrove: ha degli affari in Cina, sostiene. Il padre avrà dimenticato i fatti di vent’anni prima, lo accoglierà volentieri. Tuttavia nell’appartamento il giovane Pellicani trova solo un vecchio. Somigliante un po’, questo è vero, soprattutto nel naso, a Pellicani padre. Ma un vecchio, insomma! Va bene che sono passati vent’anni… Parla, parla, il giovane Pellicani, raccontando tutto ciò che fa, tutto ciò che vede, l’appartamento, la biancheria stesa in una stanza, la donna che tutti i giorni viene a cucinare il minestrone al vecchio; parla, parla, il giovane Pellicani, e noi lettori siamo presi in questa sua infernale chiacchiera, nel suo ostinato non credere a ciò che vede, nel suo ipotizzare, reinventare, spiegare, trasfigurare la banale realtà che gli si presenta davanti: finché ci arrendiamo, smettiamo di farci domande, non ci interessa più se il vecchio nella casa sia o non sia Pellicani padre, se l’uomo nello specchio sia il vero Pellicani giovane o un impostore: ci interessa solo abbandonarci al fervore di questa inesauribile chiacchiera. Rare volte la lettura di un romanzo dà tanto piacere per la scrittura in sé; e rare volte tanta ricchezza narrativa viene con tanta disinvoltura stipata in un solo romanzo, in un solo appartamento, quasi in una sola stanza. [dalla Prefazione di Giulio Mozzi]
Sergio La Chiusa è nato a Cerda (PA) nel 1968 e vive a Milano. Ha pubblicato i libri di poesia “I sepolti” (LietoColle, 2005, Finalista Premio Montano 2006) e “Il superfluo” (E-dizioni Biagio Cepollaro, 2005). Suoi testi (poesie, prose di viaggio, estratti di romanzi) sono presenti su riviste e blog culturali, tra cui: “L’Indice”, “Nazione Indiana”, “Le parole e le cose”, “Il primo amore”, “L’Ulisse”. Ha partecipato a pubbliche letture e iniziative culturali, tra cui “RicercaBO”. Ha scritto i romanzi “Il cimitero delle macchine” e “Il dormitorio di Sequals”, dei quali sono apparsi alcuni brani su “Nazione Indiana” e “Le parole e le cose”, e “I Pellicani”, pubblicato da Miraggi Edizioni nel 2020. “I Pellicani” è stato finalista alla XXXII edizione del Premio Italo Calvino, dove gli è stata attribuita la “Menzione Speciale Treccani 2019” per l’originalità linguistica e la creatività espressiva.
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