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SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI – recensione di Siby su Ze Buk

SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI – recensione di Siby su Ze Buk

Leggere che sport!

Quando entri in area nemmeno ci pensi che ci sono due compagni a pochi metri da te, tutti soli, pronti a fare un altro gol a porta vuota per merito tuo. É una specie di magia, dentro di te non è cambiato niente, sei sempre lo stesso, ma di fuori è diverso. Nessuno riesce a fermarti e tu adesso hai capito che devi andare fino in fondo.
Il portiere avversario è indeciso, esce dai pali ma esce male. Finti il passaggio al centro e lo fai accartocciare su se stesso e gli pieghi le gambe. Nessuno se lo aspettava che ti sarebbe venuta un’idea leggermente diversa. Non se lo aspettavano nemmeno in tribuna. Ma di questo non ti curi, perché sei tutto dentro i tuoi muscoli. Non sai come sia possibile, ma spari un missile all’incrocio dei pali e segni il primo gol della tua vita.

La recensione di Santi, poeti e commissari tecnici di Angelo Orlando Meloni

Durante il torneo calcistico la squadra famosa per essere la peggiore della provincia, quella che non vede un gol da anni, improvvisamente comincia a vincere.
Inspiegabilmente, senza ragione.
Merito della beata Serafina che predice addirittura il minuto esatto in cui avverrà l’azione decisiva per la vittoria.
C’è poi un ragazzino bravo, Garrincha lo chiama l’allenatore, ma non deve oscurare il figlio della famiglia più importante della città e quindi sta in panchina.
Un calciatore porta a compimento una vendetta che aspettava da anni contro un giocatore che ritiene colpevole della sua rovina e altre storie dove il calcio è sempre il protagonista che tira le fila dei personaggi di questo libro.

La mia opinione su Santi, poeti e commissari tecnici di Angelo Orlando Meloni

Santi, poeti e commissari tecnici è composto da sei racconti e non bisogna essere esperti di calcio per poterli apprezzare.

Il calcio è il simbolo sportivo di questo paese.
Persone che si passano la “fede calcistica” di padre in figlio, domeniche allo stadio, imprescindibili appuntamenti del calendario da non poter nemmeno lontanamente saltare e milioni di gadget con cui vestire i bimbi praticamente appena nati.
Ma il calcio merita tutto questa fede, passione, amore?
Secondo me no ma io non ne sono innamorata.

Lo amano tutti, invece, in questi racconti e l’amore è talmente assoluto che non finisce di fronte a nessuna difficoltà, intrallazzo o partita non giocata.
Il tifoso non vacilla mai, non demorde ma anzi si ammanta di una fede imperitura che lo scherma da qualsiasi bruttura investa il suo idolo.

In questi racconti troviamo tutto quello che riguarda il mondo del calcio, dalle scommesse alle partite truccate, dalle periferie dove si gioca per dare un senso ad una vita disgraziata fino allo stadio, quello vero e famoso, dove giocano gli quadroni.

Se amate il calcio sicuramente questo libro fa per voi ma anche se non lo amate troverete interessanti le strade scelte per raccontare uno sport molto, forse troppo, amato.
Buona lettura.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

CARA CATASTROFE – recensione di Michela Zanarella su Brainstorming Culturale

CARA CATASTROFE – recensione di Michela Zanarella su Brainstorming Culturale

La forza espressiva della poesia contro la violenza di genere

Un canto di recupero e ricostruzione di sé attraverso la poesia. L’amore malato, il dolore, la violenza e l’abbandono raccontati in versi con un linguaggio originale e potente

Felicia Buonomo nel suo lavoro da giornalista d’inchiesta racconta quotidianamente ciò che accade nel mondo: spesso sono storie dolorose, drammi umani, vere e proprie sciagure. Nella raccolta pubblicata da Miraggi Edizioni‘Cara catastrofe’, sceglie l’arte poetica per affrontare traumi emotivi legati all’Io, a quell’amore che declina in sofferenza, veemenza e distacco. Si entra nella realtà che appartiene a tante donne che vivono relazioni di dipendenza affettiva, amori malati che si concludono, il più delle volte, con un tragico epilogo.

Quando si vive nel tormento, quella situazione diventa familiare a tal punto che ci si culla dentro. Felicia Buonomo con quel dolore, di cui è testimone, dialoga: la “catastrofe” narrata diviene cara e il lettore diventa partecipe. È soltanto affrontandolo, guardandolo in faccia – il dolore –, che si può superare. Negarlo significherebbe smarrirsi in un vortice senza via d’uscita.

All’inizio di ogni legame con l’altro c’è l’incanto, il potere che l’amore produce quando emana la sua energia: “m’innamori/come il gelo sul lungolago di Mantova,/le luci dei lampioni di Milano,/le onde sul porto di Genova”. Qui la bellezza dei luoghi va a coincidere con l’armonia dei sentimenti: ne esce una sorta di geografia emotiva che, nella fluidità dei versi, rende il testo efficace e vibrante.

tormenti assumono le fattezze delle foglie, la sofferenza si poggia come una piuma: “Reggo le foglie dei miei tormenti/su cui ti adagi leggera”. Nella simbologia, le foglie richiamano il senso della fragilità dell’esistenza e indicano una ciclicità di morte, pur mantenendo un sottile filo di speranza. In questo caso è il verbo reggere a ricondurre alla resilienza di fronte alla frattura interiore.

Con una scrittura tagliente, incisiva, essenziale e chiara, Felicia Buonomo costruisce un’opera originale in cui la poesia è l’ancòra di salvezza, la luce in fondo al tunnel, la cura al male, che non è un male lontano da sé e dagli altri, ma concreto, plurale, condiviso. Pur toccando tematiche del mondo femminile, chiunque può riconoscersi al di là del genere, perché l’angoscia ha radice profonda e prima o poi tocca tutti.

Fa piuttosto male l’indifferenza di chi si volta dall’altra parte e non si sente direttamente coinvolto dalle situazioni. È così che le liriche si riempiono di corporalità: lividi; clavicole; braccia molli; occhi rossi; carne debole; pelle tumefatta. Ogni ferita è un colpo inferto all’umanità e la potenza dei versi è tale da diventare grido che vuole scuotere le coscienze.

L’autrice compie un carteggio con la catastrofe intima, si confronta con l’Io e la sua ombra: è un percorso corale, che abbraccia le molteplici voci di un universo femminile, il tormento viene percepito, superato e rielaborato con la forza espressiva. Ci si salva dall’inferno con la bellezza delle parole.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

CARA CATASTROFE – intervista a Felicia Buonomo di Ivana Margarese su Morel Voci dall’isola

CARA CATASTROFE – intervista a Felicia Buonomo di Ivana Margarese su Morel Voci dall’isola

Comincio col chiederti del titolo Cara catastrofe.

Prima di motivare la scelta, vorrei dire che Cara catastrofe è un titolo preso in prestito da un brano di Vasco Brondi, un musicista che amo molto. Abbiamo scelto questo titolo perché la raccolta narra, in versi, di una catastrofe emotiva, che – come di frequente accade – diventa cara, si abbraccia. Spesso, quando si vive il dolore, ci si culla in esso, ci diventa familiare. Ma non è solo questo: cara, perché è solo – io credo – attraversando la sofferenza che la si può superare. Negare il dolore non ci salverà da esso. Lo si deve guardare in faccia, farci i conti. A tal proposito, mi vengono in mente dei versi di Friedrich Hölderlin: «Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva».

Mi è molto piaciuto il riferimento a una geografia emozionale : “m’innamori come il gelo sul lungolago di Mantova, le luci dei lampioni di Milano, le onde sul porto di Genova e la strada oscura dei vicoli di Napoli”.

Come molte persone che fanno – o tentano – l’arte, sono “ossessionata” dalla bellezza. La cerco nelle parole, certo. E nei luoghi, che matericamente la rappresentano. E, mai rinuncio a cercarla nelle persone, che delle parole sono gli autori e dei luoghi gli abitanti. L’immagine utilizzata in questo componimento, tenta di racchiudere il percorso di questa mia ricerca. Metterla in apertura della raccolta, mi sembrava potesse rappresentare una sorta di dichiarazione d’intenti.

In una tua poesia parli dell’inciampare di fronte a chi si ama come se si fosse qualcuno che entra in scena senza avere provato la parte. Questo essere goffi e senza difese mi ha ricordato una poesia di Saffo in cui lei guarda la donna che ama del tutto sopraffatta, la lingua le si spezza, gli occhi non vedono, non sente ed è scossa da tremore.

Tutta la silloge è permeata da questo senso di inadeguatezza dell’io “narrante”.

Tanto nell’inconsapevolezza di ciò che verrà (incarnata nella prima sezione), quando si è scossi dal tremore delle emozioni. Quanto nel momento della presa di coscienza, che con forza cerco di rappresentare nel corpo centrale della raccolta, dove la voce diventa urlata, viscerale. Al centro c’è il tema amoroso, che diventa tuttavia un espediente per raccontare moti interiori, universi emotivi, di fronte a qualcosa che crediamo di non saper governare, che può essere l’amore, ma anche la violenza, o l’esperienza dell’abbandono. Tutte e tre in qualche modo sono esperienze “traumatiche”, capaci di segnare una frattura interiore, che – questo è il mio tentativo – attraverso il linguaggio poetico si tenta di sublimare.

In questa tua raccolta di poesie il legame diventa sottrazione, tormento, punizione, soffocamento. Vorrei un tuo pensiero sul complesso tema della violenza verso le donne.

Con il mio lavoro di giornalista mi sono occupata a più riprese di violenza sulle donne. Quella vissuta dalla “vicina di casa”, che troppo spesso ignoriamo. Ma anche affrontando fenomeni sconosciuti nella nostra cultura, quella occidentale, penso ad esempio alla pratica dei matrimoni forzati. Nella seconda sezione della raccolta, più che altrove, assumo dunque il ruolo di testimone. Raccogliendo alcune testimonianze (in alcuni casi dirette, altre per interposta persona), ho tentato di traslare in versi un certo universo di sofferenza declinata al femminile, per cercare di fare luce su dinamiche di violenza che esistono e che spesso sono macchiate dall’omertà, dal pudore e senso di vergogna della donna stessa, e – spiace dirlo – dai luoghi comuni. Si pensa alla donna che vive dinamiche di violenza domestica come a una donna fragile. La narrazione della violenza sulle donne dovrebbe cambiare: si dovrebbe parlare, invece, della forza di queste donne (e qui cito un’intervista che ho fatto a Lella Palladino, ex presidente della rete D.i.Re – donne in rete contro la violenza) di aver vissuto un tale dolore e della loro capacità di uscirne, di riprendere in mano la propria vita. La terza sezione della mia silloge, infatti, si concentra sull’esperienza dell’abbandono, che è anche un abbandono da qualcosa, per approdare finalmente a se stessi.

Vorrei una tua riflessione sulla parola vittima.

Credo ci siano due terreni di esplorazione teorica (e anche pratica) intorno alla terminologia che ruota interno alla parola “vittima”. Ci si può considerare vittima, e lo si può essere. In una dinamica di amore disfunzionale o violento, spesso la proporzione poggia su una parte che incolpa e nell’altra che si sente immotivatamente responsabile. Nel corpo centrale della raccolta, ho tentato di fare un lungo lavoro sul concetto di colpa. L’occasione per lavorare su questo concetto l’ho avuta ascoltando la storia di Celestine, una ragazza africana, vittima di matrimonio forzato. Ero in Benin per girare un video-reportage, Celestine è una delle tante donne vittime di questa pratica. Quando mi ha raccontato la parte più intima della sua storia, ovvero di aver concepito i suoi tre bambini con la forza, spesso combattendo per opporsi, stringeva tra le mani il crocifisso che aveva al collo; e senza remore mi ha confessato di sentirsi in colpa. Sentiva la colpa di essere vittima del suo carnefice. Ho capito che quando si raggiunge lo zenit della sofferenza si sente la necessità di trovare un colpevole e quanto sia facile trovarlo in se stessi. Ed è qui la disfunzione, la dismorfia dell’amore malato o imposto.

Hai una tua personale definizione di felicità?

La felicità è poter scegliere. Un’esistenza infelice è quella nella quale si è soggiogati; quando l’altro da sé diventa condizione di sé. Si può essere felici solo quando questa condizione di assoggettamento all’estraneo scompare. E lo dico in senso lato. Ho raccontato di pratiche di sfruttamento e schiavitù, qui è evidente incappare in questa sproporzione esistenziale. Ma capita anche in quella che viene definita una regolare vita comune. È frequente rinchiudersi nelle non scelte, credendo di non avere alternative e, ahimè, spesso non avendone.

Le tue poesie offrono uno scavo a tratti lacerante, fisico. Quando hai iniziato a scrivere poesie?

La lacerazione delle mie poesie rappresentano quella voce che spesso si preferisce chetare o è più saggio, per proteggersi, tacere. Volevo che fosse così, volevo che la voce fosse viscerale. È quello che cerco anche nella poesia che leggo e ho letto, penso a voci come quelle della Marina Cvetaeva, Nina Cassian, Alejandra Pizarnik. Ho iniziato a scrivere poesie in età adulta, intorno ai 25 anni. Sentivo la poesia il mio modo di espressione migliore, essendo principalmente, o quasi esclusivamente, lettrice di poesia. Perché mi consente di dire senza “spiegare”, lasciando il lettore libero di posizionarsi negli anfratti emotivi che reputa più confortevoli.

Volevo chiederti come stai vivendo in questo periodo di pandemia.

Vivo questa pandemia, dal punto di vista pratico, in maniera frenetica. Facendo la giornalista e vivendo in Lombardia, la regione più colpita dalla diffusione del Covid-19, ogni giorno testimonio l’emergenza sanitaria. Dal punto di vista emotivo in modo un po’ confuso. Forse per la prima volta da 15 anni a questa parte, da quando ho iniziato a fare la giornalista, non riesco ad avere uno sguardo di prospettiva, ho una capacità di interpretazione e critica della realtà sociale che definirei monca. Come tutti, probabilmente, navigo a vista. Rispetto le indicazioni e attendo che passi.

In conclusione ti domando, anche se come tutti noi al momento stai navigando a vista, a cosa stai lavorando e quali sono i tuoi progetti futuri.

Sto già lavorando alla mia nuova raccolta poetica, sono ancora in fase embrionale, ma la mia idea è quella di parlare di universi emotivi dando a questi una qualificazione soggettiva, inserendo nei versi “personaggi” che qualifichino il moto interiore che voglio esprimere. Ma è troppo presto per parlare della strutturazione del testo. Intanto scrivo e soprattutto leggo, perché come scriveva Borges: “io sono orgoglio delle pagine che ho letto”.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI – intervista di Adriano Pugno su Tropismi

SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI – intervista di Adriano Pugno su Tropismi

Il calcio è una cosa umana. Intervista ad Angelo Orlando Meloni

Intendiamoci subito: Santi, poeti e commissari tecnici, opera di Angelo Orlando Meloni pubblicata da Miraggi Edizioni, non è una raccolta di racconti a tema calcistico. Non solo, almeno. Perché a fatica troveremmo l’epica sportiva a cui siamo fin troppo abituati, il campione solo contro tutti, la forza del gruppo che riesce nell’impossibile, la redenzione attraverso il sacrificio sportivo.

Potremmo descrivere, con un certo grado di correttezza, Santi, poeti e commissari tecnici come l’affresco di una Sicilia ricca di storia e di storie. Un messaggio d’amore che non risparmia critiche alla presenza ingombrante di piccoli e grandi boss di provincia, tangenti, brutture industriali e architettoniche. Una prosa che rovescia gli stereotipi, che ci costringe a guardare a fondo nelle cose. Nel racconto L’aeroplano, per esempio, l’immagine dei ragazzini che giocano a calcio su strada, considerata ormai un emblema di purezza giovanile, diventa teatro di violenza e soperchierie. In questo teatro, il calcio viene vissuto come valvola di sfogo e denominatore comune.

Lo stile dell’autore diverte e provoca fitte al cuore, ci accompagna attraverso un piccolo mondo di giocatori bolliti, bluff conclamati, campioncini in erba senza possibilità, ci fa ridere per le loro disavventure per poi lasciarci a contemplare qualcosa di amaro, in eterno equilibrio tra incanto e disincanto.

La sensazione precisa era quella di un bluff, però il pensiero magicamente non riguardava nessuno. Lindo Martinez avrebbe segnato a valanga, Tito Recchia avrebbe vinto il Seminatore d’Oro, Siracusa avrebbe inglobato Catania, Palermo, Napoli, Roma, Torino e Milano,sarebbe partita in orbita e dall’alto del cielo stellato i tifosi avrebbero finalmente potuto pisciare sulla testa della gente, senza ritegno per nessuno,eccezion fatta per il papa, Maradona e forse Sofia Loren. “Precisi siamo”, sussurrò Fausto a Lino e a Gimmi, e quelle furono le uniche parole che pronunciò quel pomeriggio di luglio che c’era un caldo bestiale e tutti avevano lo stesso voglia di saltare e di cantare e nessuno di lavorare

Ho intervistato Angelo Orlando Meloni per parlare di sport e di vita, che sperro è quasi la stessa cosa. Lo ringrazio per la disponibilità:

Puoi raccontarci com’è nata questa opera, in che arco di tempo hai scritto i racconti?

La raccolta è nata in due momenti diversi. Uno dei racconti addirittura è il primo che ho scritto, un secolo fa, e tra l’altro era stato già pubblicato, ma la stesura era così ingenua che ci ho sofferto per anni. Così quando ho scritto gli altri testi che compongono il libro mi è sembrato fosse giunto il momento di rimettere a nuovo un paio di altre storie, più vecchie, ma sempre a tema calcistico. Non vorrei apparire presuntuoso, ma il libro mi sembra molto compatto e… no, non è nato in base a quelli che i poeti laureati all’università dell’autopubblicazione o della bolla social chiamano “urgenza espressiva a lungo repressa”. Il libro è nato perché è nato, cioè per un coacervo di cose che si mescolano fino a che questo stesso groviglio di amore per la lettura, nonché di sogni mostruosamente proibiti, vanità, ambizioni, passioni e idee mi ha portato ancora una volta a scrivere.

Angelo Orlando Meloni

Lo sport vive di un’epica tutta sua, che è quella con cui viene raccontato da cronisti, giornalisti, esperti. Nella tua opera questa epica viene meno: la demistifichi e la svuoti di significato, ci porti in un mondo grottesco che è molto lontano da quello che vediamo su Sky Sport o alla Domenica Sportiva. Potresti riassumere ai nostri lettori che tipo di calcio hai provato a raccontare?

Bella domanda, mi sa che hai centrato il punto. Senza nulla togliere alla professionalità dei giornalisti, dei telecronisti, tutta gente con una preparazione enorme, che sanno quello di cui stanno parlando, c’è però un tono di fondo, epicheggiante, che accomuna e livella quasi tutti i giornalisti e critici e rende ahimè a volte indigeribile il mondo del calcio, almeno per me. Non avete anche voi nostalgia della Gialappa’s band e di Mai dire goal? Il mondo del calcio si prende troppo sul serio, i tifosi già al mattino davanti al caffè si prendono troppo sul serio, gli ultrà poi sono di una serietà talmente seria che fa paura, sono in guerra con l’universo, anche se nessuno è in guerra con loro. È un mondo monolitico che secondo me ha bisogno di un po’ di autoironia. Ed è anche per questo che ho raccontato un calcio grottesco, se vogliamo, di sicuro lontano dall’epos e dalle agiografie a cui siamo abituati.

Non è semplice definire il tono di questa raccolta. Il comico e il tragico, l’incanto e il disincanto, sembrano uniti in uno strano gioco di specchi. Spesso, tra le maschere che conosciamo nella tua raccolta, mi è venuto in mente il concetto di carnevale come lo definiva Bachtin, una sorta di rovesciamento divertito e violento dell’ordine sociale. Lo sport viene spesso raccontato così, con la persona più umile e sfortunata che può diventare un grande campione. Nei tuoi racconti succede sempre o quasi sempre il contrario. Anche il calcio è un gioco di potere?

Il calcio è una cosa umana e quindi è anche un gioco di potere. Avere entrature funziona sempre a tutti i livelli in tutto il mondo in qualsiasi ambito del sapere o dell’agire umano. Non sto dicendo che è giusto, sto dicendo che negarlo equivale a negare la realtà. Circa il tono di questa raccolta, ho sempre in mente un romanzo, Comma 22 di Joseph Heller, libro bellissimo pervaso di umorismo demenziale, che si trasforma pian piano da rappresentazione comico-grottesca della guerra in vera e propria tragedia. Incanto e disincanto, comico e tragico, come dici tu, possono andare di pari passo, forse perché la nostra stessa esistenza in questo pianeta va avanti in questo modo.

Molti ci dicono che lo sport è una metafora della vita. Secondo te è così?

Ovviamente è una formula che è stata ripetuta talmente tante volte da aver perso qualunque significato. Da un altro lato, però, a furia di ripetere che il calcio è una metafora della vita abbiano creato una specie di incantesimo e quindi… sì, il calcio è la metafora della vita, qualunque cosa ciò significhi. Per esempio, se applicata all’Italia questa formula magica ci rende egregiamente l’idea d’una nazione popolata da sessanta milioni di persone, in cui però vince sempre e soltanto e solamente il padrone; e agli altri restano le briciole.

I tuoi sono racconti di finzione. Se dovessi raccontare una storia vera di sport, quale vorresti raccontare? E perché?

Mi piacerebbe prima o poi scrivere di pallacanestro, sport sublime, ma rimanendo in ambito calcistico è fin troppo facile rispondere alla tua domanda con un nome: Zdeněk Zeman. Un genio, un personaggio unico, una spanna al di sopra di tutti gli altri, lui sì mito vivente del calcio.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

CARA CATASTROFE – recensione di Loredana Cilento su Mille Splendidi libri e non solo

CARA CATASTROFE – recensione di Loredana Cilento su Mille Splendidi libri e non solo

Cara Catastrofe,
guardarti è come entrare in scena,
senza aver mai provato la parte.

Cara Catastrofe, la silloge poetica della giornalista Felicia Buonomo, Miraggi Edizioni 2020, si muove in una dimensione ricca di immagini e di assonanze. Sono soprattutto versi ispirati all’universo femminile, all’amore che sempre troppo spesso ne assume un altro volto, quello della violenza e degli abusi, dove la vita delle protagoniste procede per sottrazioni , dove l’amore  viene portato via dall’amore.

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Felicia sottolinea che molti spunti sono reali, “sottratti”se così vogliamo dire, alla vita, alle storie che ha vissuto come testimone trasferendo i fatti in versi.

Felicia ha tessuto con un grande afflato, armonizzando i vari fili delle storie incontrate e rendendo il lettore partecipe del dolore, della violenza e dei segni che un amore neutralizza l’amore.

E così si incartano le tristezze ordinate alfabeticamente…piegando le inquietudini.

Un amore che si insinua dentro per diventare figlia della paura.

Sono storie dolorose dove anche l’indifferenza ha la sua colpa, donne che vivono il supplizio all’interno delle pareti domestiche e dove le grida si soffocano nel dubbio della colpa, ci si domanda sempre se tutto questo male, la sua fonte mortale risieda dentro quei corpi martoriati dall’amore.

Ogni corpo ferito è il simbolo di un passato violento, di un presente agonizzante e di un futuro incerto.

Nel bene e nel male.
Finché morte – mia,
per mano tua – non ci separi.

I Versi di Felicia mi sono rimasti attaccati dentro, si sono insinuati sottopelle, hanno percorso ogni singolo tratto del mio corpo per arrivare nella parte più recondita della mia anima e sono implosi in un abbraccio catartico.

Valerio Di Benedetto nella sua postfazione a Cara catastrofe scrive:

“Lo amerete questo libro e a Felicia vorrete un bene smisurato, ne sono certo, perché lei è quell’eroe romantico che abbiamo sempre sognato di essere da bambini, una Lancillotto moderna che non ha paura di rompere gli equilibri, i silenzi, di gridare la verità.”

Ed è così…vi garantisco!

La poesia di Felicia è turbamento, è ossessione, è silenzio, è dolore, ma è soprattutto una voce, un grido sussurrato di speranza che purifica il tormento e il dolore.

Felicia Buonomo Dopo la laurea in Economia Internazionale, nel 2007 inizia la carriera giornalistica, occupandosi principalmente di diritti umani. Nel 2011 vince il “Premio Tv per il giornalismo investigativo Roberto Morrione – Premio Ilaria Alpi”, con l’inchiesta “Mani Pulite 2.0”. Alcuni dei suoi video-reportage esteri sono stati trasmessi da Rai 3 e RaiNews24. Successivamente pubblica il saggio “Pasolini profeta” (Mucchi Editore). Del 2020 è il libro “I bambini spaccapietre. L’infanzia negata in Benin” (Aut Aut Edizioni), diario di un reportage giornalistico sullo sfruttamento del lavoro minorile.

QUI L’ARTICOLO ORGINALE:

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Lara Santini su Read and Play

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Lara Santini su Read and Play

Quante volte abbiamo cercato di fuggire, scivolando tra le pagine per giungere laddove non saremmo mai riusciti ad arrivare da soli?
E quante altre abbiamo invece mendicato conforto, provando a cogliere gli scorci di una quotidianità troppo spesso data per scontato?

Il titolo di questa raccolta di racconti, pubblicata da Miraggi Edizioni a ottobre 2019, potrebbe apparire emblematico, ma smetterà di esserlo dopo poche pagine.
La vita moltiplicata è la storia di Livio, di Ascanio, di Marcello, e di tutti quelli che davanti a una vetrina hanno smesso di guardare solo il proprio riflesso.
Molteplici i protagonisti, molteplici le vicende, in equilibrio tra realtà e mondo onirico.

L’autore, Simone Ghelli, non è uno scrittore al suo esordio ma già autore di altre opere, come Non risponde mai nessuno, e racconti pubblicati su varie riviste letterarie, tra le quali Cadillac Magazine.
Se siete curiosi di saperne di più, troverete recensioni e altro alla pagina: https://genomis.wordpress.com/.

Con la sua scrittura, Simone Ghelli avvicina il lettore a piccoli passi per poi catturarlo completamente, attraverso un lessico fluido ed essenziale.

Nel suo racconto, chiaramente autobiografico, Grossi si dipinge come un grumo di rabbia e disperazione conficcato nella carne di una città ormai marcia. Non è l’unico, ne vede tanti intorno a sé, pronti a rivalersi sui vecchi, sui bambini, sui brutti, sui grassi, sui poveri di tasca e di spirito. Grossi si vede così perché sta diventando così; anzi, è già così. È il prodotto precotto di una società che li ha ingozzati di sogni, che li ha tirati su come polli da batteria per poi farli sedere a una tavola apparecchiata con gli avanzi. Grossi vede la sua vita come il resto di qualcos’altro e ogni giorno si sente come se avesse i postumi senza essersi preso una sbronza”.

Per la playlist ringraziamo l’autore, che ha accettato con grande disponibilità di crearla e condividerla con Read and play.
I brani sono quasi tutti strumentali: “Anche se non corrispondono esattamente ai racconti rispecchiano le atmosfere dilatate e oniriche”.

Ascolta la colonna sonora.

La soundtrack de “La vita moltiplicata” di Simone Ghelli
  1. Pavane pour une infante défunte – Maurice Ravel
  2. Claire de lune – Claude Debussy
  3. The girl with the sun in her head – Orbital
  4. Orion – Metallica
  5. Hunted by a freak – Mogwai
  6. Penguin Serenade – Giardini di Mirò
  7. Tatàna – Moltheni
  8. Glass museum – Tortoise
  9. Hoppìpolla – Sigur Ròs
  10. Autumn’s in the air – Mercury Rev

QUI L’ARTICOLO ORGINALE:

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Martino Ciano su Gli amanti dei libri

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Martino Ciano su Gli amanti dei libri

Dieci racconti costellati da personaggi “divisi in loro stessi”. Storie di anime scisse che vivono in piani diversi della coscienza. In poche parole, Simone Ghelli dà voce a una prolifica commedia umana in cui nessuno si accontenta della realtà e che, pertanto, trova il suo habitat al di là dell’oggettività.

C’è un tempo esterno e un tempo interno. La percezione dell’uno e dell’altro origina un discorso intimo. Infatti, l’irreversibilità delle ore mai coincide con la reversibilità dei ricordi e con il futuro-presente in cui dimorano speranze e desideri. Eppure, è qui che tocchiamo con mano il patire, ossia, il “sentirsi”, che non vuol dire a tutti i costi “appartenersi”, anzi, spesso crea la famigerata incomunicabilità che si instaura tra mondo e soggetto.

Chi sono quindi i personaggi dei racconti di Ghelli?

Sicuramente, sono personaggi che dialogano con il disagio, che vivono un presente che non  appartiene loro, che si difendono prendendo le distanze dal mondo pur attraversandolo con grande dignità. Eppure, nonostante i loro sentimenti contrastino con la realtà, essi cercano quel medium capace di instaurare un dialogo con la quotidianità. Insomma, per loro dar voce ai pensieri vuol dire moltiplicare i punti di vista attraverso cui valutare il Mondo. Le loro doglianze alimentano una rivolta solitaria che non esclude la Terra, ma ne allarga l’orizzonte.

È facile entrare nei pensieri di questi personaggi, Ghelli ha uno stile asciutto che prende per mano il lettore. Proprio il lettore è chiamato a seguire la trama, che non si sviluppa orizzontalmente, ma verticalmente. Si sale sempre di più fino a giungere alla sintesi perfetta, ossia, all’impatto con la quotidianità.

Cos’è la realtà secondo Ghelli?

Il mondo si addensa negli occhi di chi lo guarda, pertanto, non esiste l’oggettività, ma solo una intima decodificazione di tutto ciò che si percepisce. La realtà che lo scrittore ci pone davanti è quel gran spettacolo che ci coinvolge e che sa ingannarci. È quindi la soggettività il gran rifugio, una sorta di “camerino” in cui possiamo prendere fiato e ripetere il copione prima di tornare in scena. Fatto sta, che è difficile recitare una parte che non piace, ed è in quel momento che tutto diventa faticoso e farraginoso; anzi, impossibile da mascherare.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.gliamantideilibri.it/la-vita-moltiplicata-simone-ghelli/

CARA CATASTROFE. L’APOCATASTASI DELL’ANIMO, VERSI COME TESSITURA – recensione di Valeria Bianchi Mian su Oubliette Magazine

CARA CATASTROFE. L’APOCATASTASI DELL’ANIMO, VERSI COME TESSITURA – recensione di Valeria Bianchi Mian su Oubliette Magazine

“La dolcezza violenta di alcuni passaggi ti stordisce come un gancio di Muhammad Ali e tu vai a terra sfiancato senza capire se sei stato appena investito da un tir, o ti hanno solo confessato il più vero di tutti i segreti.”

Cara Catastrofe di Felicia Buonomo
Cara Catastrofe di Felicia Buonomo

Così nella postfazione al libro Valerio Di Benedetto accoglie “l’arduo compito di saper ascoltare, osservare ed essere grati“, e lascia che la silloge di Felicia Buonomo voli “nel firmamento senza l’aiuto di Pegaso” perché lo spirito nei suoi versi “la fa arrivare fino al sole, dove si scotta, si brucia, arde, ma non cade mai, perché non c’è cera a tenere insieme le sue piume, ma versi, immagini, coltellate a tradimento, speranza, umanità, in una sola parola: poesia.”

Rovina: è il sinonimo che mi viene in mente, parola allo specchio riflesso che si fa uguale e contraria all’amore ideale e, giocando ancora a immaginare, fa sì che l’affetto degli amanti diventi eromaSe la catastrofe della poetessa è l’amica interiore alla quale rivolgersi come in un diario, i relitti della storia sono narrazione, frammenti di una relazione. Ed ecco che il risultato è ‘uno fratto’ il bacio tra le macerie, arcano numero VI dei Tarocchi tra pietre ed edera, la coppia archetipica in nigredo nel dipinto di Burne-Jones “Love among the ruins”.

Storia di una co-dipendenza con ritorno a sé” potrebbe essere il sottotesto tesoro nascosto, ed è un racconto che apre i diari segreti di tanti esseri umani, trovando nessi e risonanze nel passato o nel presente degli affetti negati, sviliti, frustati a sangue. Chi non si è innamorata almeno una volta di un narcisista?

La storia di qualsiasi privata Catastrofe si fa universale quando l’annosa questione della sofferenza amorosa non può risolversi mutando aspetto e abito, attraversando il Romanticismo e il Decadentismo, ma trova nella psicoanalisi un salvagente tra le onde per poi lottare e urlare i diritti delle donne e giunge quasi indenne nel ‘qui e ora’ tra violenza domestica e femminicidio e si tuffa nel testo poetico a dire di avere ancora – nonostante tutto – un po’ paura. Nonostante tutto, si va avanti per tentativi ed errori. Verso ipotesi di comprensione e cambiamento.

Catastrofe, cara, dico io, accendi romantiche assonanze. Dona ai lettori risoluzioni drammaturgica (possibile!), il capovolgimento dal rosso al nero, parole vive che mi svelino come l’Appeso dei Tarocchi (carta numero XII) sia impegnato a trasmutarsi in Torre (il Trionfo numero XVI). Ed è una Torre che scoppia e sputa fiamme sopra il paesaggio noto, quella che la poetessa mi porge sopra il piatto d’argento del suo libro.

La poetessa e la sua anima gemella Catastrofe – ormai fattasi Persona sul palco della vita – procedono in carteggio univoco, traccia unidirezionale o ricamo monologo, coinvolte nello stesso sguardo omopsichico.

È incontro e resa dell’Io all’Ombra. Pensando al rapporto tra queste due istanze, non posso scacciare dalla mente la memoria di un’opera che ho amato tanto.

La prosa poetica che abita “La casa dell’incesto” emerge nel ricordo con passo d’acciaio e leggerezza di piume.

È il femminile simbolo dell’Altra-in-se-stessa tra le pagine di Anaïs Nin – seppur distante dal tema chiave del libro della Buonomo, basato su altre storie in altri Diari.

È una pennellata, forse, un tocco leggero di quella stessa casa animica che mi fa annodare il filo al femminile di tutte le epoche, che mi porta a ricongiungere i pezzi sparsi, a rimettere insieme frammenti di sé, voci e volti dell’interiorità.

È un’opera alchemica, indubbiamente. Vedo l’autrice e la sua Catastrofe come la poetessa e la sua Musa, coinquiline della stessa ispirazione.

“Cara Catastrofe,/ guardarti è come entrare in scena,/ senza aver mai provato la parte./ Improvviso, inciampo, goffamente mi rialzo./ E di nuovo inciampo./ Nei tuoi occhi, il mio sold out./ Non c’è spazio per replicare./ E io continuo a improvvisare.”

Felicia Buonomo
Felicia Buonomo

Per soccombere alla propria strada senza lasciarci la vita, l’unica reazione possibile sembra essere quella della poesia. ‘Fare anima’ – Hillman insegna – fare il verso nello spazio di accoglienza del disastro, consapevoli della co-dipendenza dal buio. La Catastrofe, a scavare nella terra nera della psiche, si rivela proiezione sull’Altro. Ed è un Altro-da-sé che si rivela adesso declinato al maschile: “spazio nella linea del mio sguardo,/ uno sguardo/ che aderisce al tuo passo spavaldo.”

L’amato ha le armi idonee per spalancare la porta della Catastrofe, è lui il portatore sano di rovina, è il Trickster, giocatore esperto del giogo che stringe la donna, macchina perfetta creata, sembrerebbe, per donare il male.

“[…] Strano meccanismo attiva il cuore:/ brilla negli occhi senza distinguere/ tra l’amore e il male./ Accorcia il tempo,/ come la fune che mi hai stretto al collo./ Ho sempre pensato che sarei morta di crepacuore./ Ora so che sarà per soffocamento.”

Catastrofe dunque è il segreto mercurio che lega i due nel rapporto stretto, nel laccio del Diavolo dei Tarocchi? Gli amanti tenuti saldamente nelle sue tenaglie sin dall’inizio.

“La mia vita” – scrive ancora la poetessa – “procede per sottrazione./ Coscienza di quella sottrazione uguale: votarsi al martirio.”

E ancora…

“Dormiamo insieme ogni notte/ ma è nella crepa che dovrai recuperarmi./ Fai piano, che anche la luce è dolore,/ dopo la culla di un buio così violento.”

La Catastrofe conduce il lettore al centro, là dove sta l’amore come dismorfia ed è l’amore indifferenziato tra L’Io e l’Altro il modus amandi perfetto per annullare L’Io. Si procede dal nero all’albedo immersi nella carne della violenza collettiva contro le donne, nella sottomissione, oltre la tirannia, raschiando il fondo della dipendenza affettiva conosciuta da migliaia di esseri umani tra Eros e Thanatos.

Come ho già scritto altrove: “La poetessa canta un canto universale, una musica di sfiducia che diventa possibilità di ricostruzione.”[1]

Sempre che sia il calvario a condurre alla resurrezione.

“Mi ricordi che anche il figlio di Dio/ è fatto di carne che sanguina e muore./ E che nessuno aspetterà, per me,/ il terzo giorno.”

E poi? Ancora. Oltre.

“Jessica dice che mi aiuterà/ e che non sono sola./ Quando vado a farle visita/ non la guardo mai negli occhi./ Ogni visita la concludo così:/ «Jessica, è colpa mia?».”

La poetica della cura, forse, ci potrà donare la risposta. Nel frattempo, Psiche procede sola, si riconosce individuo tra le proprie ferite, alla ricerca del Dio che si è allontanato.

QUI L’ARTICOLO ORGINALE:

https://oubliettemagazine.com/2020/04/27/cara-catastrofe-di-felicia-buonomo-lapocatastasi-dellanimo-versi-come-tessitura/

RESPIRA – recensione di Vincenzo Soddu su Libriedintorniblog

RESPIRA – recensione di Vincenzo Soddu su Libriedintorniblog

Roberto Saporito è un vero scrittore, di quelli che conoscono a tal punto la letteratura da costruire congegni perfetti e piacevoli.
Il suo nuovo lavoro s’intitola Respira, ed è uscito per Miraggi di Torino, Casa giovane e attenta alle novità, anche stridenti.
La trama, dunque.
11 Settembre 2001. Crolla la torre sud delle Twin Towers, e il protagonista, che sarebbe dovuto essere già lì al lavoro, come ogni giorno, e invece è ancora a letto reduce da una sbronza, decide di sparire.
Mercante d’arte stronzo e spietato. Meglio sparire, tagliarsi barba e lunghi capelli, salvare la vita a un energumeno e riordinarsi le idee: un nuovo passaporto falso fornito dal nuovo amico e intanto già compare nell’elenco ufficiale degli scomparsi.
Tre anni dopo lo ritroviamo in un bistrot di Saint-Rémy-de-Provence dove si gode finalmente la vita, grazie anche ai soldi fatti quando era uno stronzo manager della Grande Mela, finché… finché la vita chiede il conto, anche se la vita, quella vita, non è più la sua.
Rocco Balestrini, ex socio del capitale sottratto dal protagonista in quella mattina maledetta, ma per molti altri versi benedetta, l’osserva a due passi dal tavolino del suo rassicurante bistrot. E l’intreccio s’accende, d’improvviso, come nel miglior Saporito, lungo il solco leggero e raffinato della letteratura d’autore.
La fuga, stavolta obbligata, porta l’autore a nascondersi prima in una casa nelle Langhe, quindi in un altrettanto suggestivo rifugio nel Chianti assieme a un’affascinante puttana che tutto sembra fuorché una puttana, e poi ancora a Roma e poi a Venezia.
Mentre l’ex mercante d’arte scappa da un luogo all’altro viene spontaneo chiedersi se sia possibile sfuggire improvvisamente a un’esistenza prestigiosa ma frenetica che ti ha tolto quasi il gusto di vivere.
La risposta va cercata nelle pieghe di questo libro esile ma ricco di profonde suggestioni, e così la stessa chiave del libro, sempre vivo e piacevole, sta proprio nel titolo, nel tentativo continuo del protagonista di imparare a respirare davvero, nel tentativo di sottrarsi a uno stanco riflesso di sopravvivenza che è oggi comune un po’ a tutti noi.
Ci riuscirà? Questo, forse, non è giusto svelarlo, ma, forse l’autore ce ne dà una parziale idea in questa folgorante citazione: “Quando incontri solo persone nuove e mai persone
che hanno fatto parte della tua vita mentre questa cresceva di
giorno in giorno e di anno in anno, lo scorrere del tempo diventa un bugiardo difficile da sbugiardare, o più semplicemente un bugiardo che vuoi sbugiardare. Quando muori e rinasci
lo scorrere del tempo acquista un altro significato o forse perde
del tutto il suo vero significato, qualunque esso sia.
Quando muori e rinasci sei già più fortunato degli altri,
che quando muoiono, di solito, non rinascono…”
Un libro da leggere e meditare, di un autore in costante crescita. Di una splendida Casa editrice che ha appena compiuto dieci anni di vita.

QUI L’ARTICOLO ORGINALE:

CARA CATASTROFE – segnalazione di Antonio Spagnuolo su Poetrydream

CARA CATASTROFE – segnalazione di Antonio Spagnuolo su Poetrydream

“Esatta come il dolore dei pezzi
che perdo, sicura come le lacrime
che non comprendi. Non ho paura
di morire, lasciare questo corpo
soffrendo è il mio rifiuto. Se quel Dio
in cui credete fa la misericordia
che dite, anticipo i miei saluti.”
In chiusura di questa corposa raccolta ecco come la poetessa conclude il suo semplice sussurro. Un saluto delicato e nello stesso tempo dubbioso, per quella illusione che ogni essere umano traduce al redde rationem, possibilmente lontano dalla sofferenza ed illuminato da un tenue raggio che sfiora.
Allo stesso modo ella apre la silloge con parole dal tremore controllato, nell’incanto di suggestive variazioni tra il molo di Genova, il lungolago di Mantova, i lampioni di Milano, i vicoli di Napoli, posando il piede nelle ombre che circondano.
Ogni poesia ha il sapore della denuncia, per la “catastrofe” che continuamente aleggia tra i versi e sospinge a pensieri e ripensamenti variegati. Dall’attendere la burrasca nel tumulto del cielo, all’abbraccio “nella mia stanza di spine e petali rossi di te”, dal muro dove “inchiodare una farfalla”, alla evasione dal labirinto degli occhi, tutti passi che staccano l’armonia del dettato per affondare nelle incertezze che la realtà forgia a dispetto.
Lo “strano meccanismo che attiva il cuore” sarebbe allora il suggello che l’amore riesce a imprimere nella nostra palpitazione, e che accorcia i tempi come una corda che stringe intorno al collo, senza per altro soffocare, ma capace di avviare desideri.
Il brindisi ha tutte le angolature pungenti nella disperazione che annienta:
“Alza il bicchiere in brindisi anche per me.
Tu che sei così esperto nella pratica
dello stordimento da sostanza alcolica.
Brinda al Dio che tutto ti perdona.
Anche lo scempio a cui mi costringi,
mentre mi rinchiudi in questa stanza
sudicia, maleodorante, dove si consuma
lo stillicidio dei tuoi insulti.
Brinda al Dio tuo complice.
Che per tutto mi punisce.”

La “catastrofe” per la poetessa si annida in ogni angolo, il più remoto che sia, per avvinghiare e stordire senza pietà, dando una certa continuità alla diacronica vicenda della insofferenza umana, per ondulazione e duttilità degli stati emotivi.
Scrittura duttile, generosa, a tratti di polisemica significanza, educata ad un sussurro attivo, meditativo, liquido nelle espressioni e nelle figurazioni, che rivela un occhio attento a quel policromatico concerto di visioni ed emozioni che diventano schegge proiettate nella varietà degli imput.

SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI – recensione di Fabio D’Angelo su Una Banda di Cefali

SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI – recensione di Fabio D’Angelo su Una Banda di Cefali

Chiedi a Google

Google ci ha reso un popolo di tuttologi. Siamo esperti di qualunque cosa e in questi anni, a seconda degli eventi e delle emergenze, abbiamo dato sfoggio delle nostre conoscenze nel campo dell’ingegneria civile, delle manutenzioni di ponti, della sismologia, della geologia, della vulcanologia, di medicina. Ma non ci siamo fermati qui, perché abbiamo tenuto seminari seguitissimi su Facebook sulla gestione delle aziende e sulla politica estera. Abbiano spodestato dai fornelli chef stellati di fama internazionale e dimostrato una notevole conoscenza anche in ambito giuridico. Oggi siamo tutti importanti virologi. Ma prima che diventassimo onniscienti, siamo stati soprattutto grandi allenatori, esperti nella gestione delle nazionali di calcio e inventori di moduli di gioco innovativi. Per cui, per tornare all’epicentro del nostro sapere, è necessario leggere il simpatico e dissacrante libro di Angelo Orlando Meloni,  Santi, poeti e commissari tecnici (Miraggi Edizioni), una raccolta di racconti  sul calcio.

Santi, poeti e commissari tecnici

Il mondo pallonaro è stato sempre una grande metafora del Paese, una sorta di acceleratore sociale, capace di anticipare ed evidenziare i fenomeni, spingendoli fino al parossismo. Nei racconti di Meloni troviamo gran parte dei tarli su cui avvitiamo quotidianamente. Come nel primo racconto che dà il nome alla raccolta, Santi, poeti e commissari tecnici, in cui ad essere demolito è proprio il nostro sentirci tuttologi. La storia gira intorno a una rivalità calcistica cittadina. Un derby di Paese fra due squadre: Vezze sul mare, una società con l’invidiabile record di aver perso tutte le partite dal giorno della sua fondazione e Vezze Marina, che invece può vantare nella sua storia esperienze in serie superiori. Ma il calcio ci insegna che la palla è rotonda e questo perché  il dio del pallone, quando si annoia, tira fuori un grandissimo senso dell’umorismo. Esempi: la Grecia che vince gli Europei nel 2004, il Verona di Bagnoli e il Napoli di Maradona che vincono lo scudetto, il Porto di José Mourinho che vince la Champions, la Reggina di Mazzarri e la Longobardia di Oronzo Canà che raggiungono un’insperata salvezza. Ma questi sono solo alcuni casi, la lista dei miracoli calcistici è lunghissima. E il lettore di Santi, poeti e commissari tecnici potrà sicuramente aggiungere all’elenco anche lo strano caso di Vezze sul Mare, che annulla il gap con la rivale cittadina attraverso i miracolosi suggerimenti tattici della Santa patrona del Paese.

Meloni la tocca, per così dire, piano con il racconto Ode al perfetto imbecille. Una delle tante storie di emarginazione e nepotismo. Il malcostume italico ha come vittima un ragazzino fortissimo, un vero talento, che però viene lasciato sempre ai margini perché è figlio di una persona per così dire stramba, ma soprattutto perché deve lasciare il posto al figlio di un notabile del Paese. Meloni parla a modo suo, utilizzando sempre il registro dell’umorismo e del sarcasmo, anche della corruzione e delle scommesse che avvelenano il gioco, di vendetta e di carriere stroncate, del sogno dei tifosi che si alimenta con  il calciomercato e di calciatori tristi e alcolizzati sul viale del tramonto.

Siamo tutti Oronzo Canà

D’altronde, il calcio è l’esperanto del mondo, una lingua semplice e di facile apprendimento per tutti e Meloni la utilizza in Santi, poeti e commissari tecnici  per indagare e denunciare in modo impietoso un mondo che sembra non potersi reggere senza le ingiustizie e i compromessi. Il calcio quindi come grande metafora, per raccontare una società con poca morale che può far tranquillamente a meno degli eroi, che sono sempre giovani e belli. Dei calciatori no, perché possono essere anche brutti e perdenti. Un po’ come i teneri sconfitti raccontati Meloni.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.bandadicefali.it/2020/04/21/santi-poeti-e-commissari-tecnici/?fbclid=IwAR1SHV57dz0FhOSkT2-UpOQCDjS9mNoJLdjSTKroAAOrq0Lq70CIzL7NIoU