Una vita nell’armadio: la scelta di Hana per sopravvivere a se stessa
DIVENTARE INVISIBILI – La scrittrice ceca Tereza Semotamová ci offre una storia di rifugio e menzogne nella quale ognuno può ritrovare un periodo della propria esistenza. O del proprio vestiario
Per chi è pratico dei videogames vintage, Asteroids è stato un vero e proprio mentore: è stato – prima delle fiction – una interfaccia nella quale il giocatore può seguire un filo logico e razionale oppure, e qui vi è il gusto, premere il tasto hyperspace. Con questa funzione sapevi bene dove uscivi – quasi sempre una situazione di pericolo – ma accettavi il rischio di riapparire in un contesto ancora più drammatico di quello che abbandonavi. Hana, la protagonista del romanzo Nell’armadio della scrittrice ceca Teresa Semotamová (Miraggi Editore, traduzione di Alessandro De Vito), tenta qualcosa di analogo per fuggire dagli schemi precostituiti della società. Si muove come un Hobo, senza un faro ascoltando solo il suo cuore grondante di dolore: “L’amore è come scolpire qualcosa di meraviglioso nell’aria. Non fa che svanire ma noi siamo convinti che perduri e che lo veda anche l’altro. Come accade che due solitudini che si uniscono a volte formino una cosa viva e altre volte generano solo una specie di galera kafkiana?”. La storia è ambientata a Praga, città nella quale la protagonista rientra dall’estero: non ha una casa, non ha idea di come sbarcare il lunario e racconta bugie alla madre e alla sorella. Proprio quest’ultima, nell’atto di sbarazzarsi di un vecchio armadio, darà inizio all’iperbolica vicenda di Hana, capace di sistemare nel cortile della casa della sorella il prezioso nascondiglio per scappare da tutto e tutti.
“I’m not Here, This Isn’t Happening” cantava in un lamento malinconico Thom Yorke dei Radiohead, metafora dell’incapacità di sentirsi la persona giusta al posto giusto. Estraniarsi per sopravvivere, diventare invisibili per scelta, mentire per confondere, amare senza essere compresi, affogare la propria inadeguatezza alle regole sociali nell’alcool. “Uno spazio. Il mondo è tutto diviso a piccoli lotti. Ogni cosa appartiene a una persona diversa. Ognuno ha i suoi quattro metri quadrati, ma alcuni non fanno che vagare tra le proprietà altrui. Quanti spazi al mondo sono lasciati lì, non sfruttati, senza che nessuno li usi? Molti, di sicuro. Come faccio a trovarne uno piccolino per me? Un posticino nascosto, al riparo dal vento, dove poter stendere le gambe, farmi un tè e riposare in silenzio, come l’arrosto della domenica nella teglia. Quindi, per ora almeno c’è quell’armadio. E col tempo ci sarà anche la teglia. Ecco. Mi rianimo”.
In una recente intervista l’autrice ha dichiarato che desiderava descrivere l’agonia di quando non si è più in grado di dire agli altri che le cose non vanno bene e si inizia a mentire anche a se stessi. “Non ci sono più. No, sono nell’armadio. È notte. Anzi, è notte fonda e stringo la fiaschetta. Con le mani intirizzite e l’umore di quando si va in campeggio che stavolta però non finirà mai, perciò sarà difficile fare il conto alla rovescia dei giorni che mancano. Fisso il buio pesto e mi dico: Ehi razza di materia oscura, devo aspettare il tuo grande collasso o tornare a insinuarsi nel regno del sonno?”. Flashback continui su relazioni sentimentali con data di scadenza sorpassata si alternano a flussi di coscienza su ogni aspetto dell’umanità: “Gli adolescenti di solito hanno un periodo di ribellione in cui si allontanano dai genitori perché non li sopportano. Spesso quel periodo perdura. Essere sfuggenti con loro significa sfuggire a ciò che non sopportiamo di noi stessi, perché per due terzi siamo la copia di chi ci ha generato. Si tratta di venirci a patti, in qualche modo”. E la chiosa è per i loser: “Dicono che in ognuno di noi ci siano due lupi: uno buono e uno cattivo. E prevale quello che nutri di più. Quando la mente è completamente serena, allora quello che hai corrisponde a quello che vuoi. Se invece desideri una realtà diversa da quella che è, allora è come insegnare a un gatto ad abbaiare”.
Un armadio tutto per sé. Intervista a Tereza Semotamová, autrice de “Nell’armadio”
La casa editrice Miraggi Edizioni si riconferma il progetto editoriale più importante in Italia per la ricezione e la diffusione della letteratura ceca. Con Nell’armadio (Ve skříni) di Tereza Semotamová la collana Nová Vlna, interamente dedicata per l’appunto alla letteratura ceca, arriva a ben quindici titoli pubblicati negli ultimi tre anni. In particolare, si aggiunge un tassello alla scoperta della scena letteraria contemporanea di un paese particolarmente florido sotto questo aspetto. Il romanzo Nell’armadio, pubblicato in Repubblica Ceca nel 2014 e tradotto in italiano da Alessandro De Vito, è un’ulteriore conferma di questo aspetto, già evidenziato da altre grandi voci tradotte nella collana come quelle delle autrici Bianca Bellová, Tereza Boučková o Jakuba Katalpa.
Tra le tante necessità della letteratura contemporanea, una delle più complesse si prefigura nel tentativo di problematizzare la dimensione psicologica dell’individuo all’interno di un duplice rapporto, ovvero quello con la propria individualità e quello con la dimensione sociale esterna. Due entità che, in aggiunta, entrano spesso in conflitto tra di loro. Nel romanzo, narrato rigorosamente in prima persona, la protagonista si trova a dover scontrarsi con questa problematicità. In un mondo dove “la drammaturgia della vita segue una follia diabolica”(p. 21) e dove la propria individualità viene continuamente recisa, l’unico modo per sopravvivere sembra essere quello di trovare uno spazio, un luogo tutto per sé – usando un’espressione woolfiana particolarmente nota. O, volendo impiegare un riferimento presente anche nell’opera, si potrebbe citare la canzone di Karel Gott “Kdepak, ty ptáčku, hnízdo máš?” (Uccellino, dove ce l’hai il nido?).
Il romanzo presenta una trama tutt’altro che arzigogolata, dove gli avvenimenti che fanno da cornice ai pensieri e alle riflessioni della protagonista si distribuiscono in modo chiaro e lineare. Tuttavia, sono proprio quest’ultimi a conferire dinamismo all’opera. Volendo dunque attingere a questa “cornice”, occorre evidenziare quello che è l’avvenimento chiave del romanzo, ovvero quello da cui l’azione si evolve. Difatti, proprio nelle prime pagine viene focalizzata l’attenzione su un fatto tutt’altro che bizzarro, la necessità della sorella della protagonista di liberarsi di un vecchio armadio. Nel riflettere sui vari tentativi riguardo a come sbarazzarsi del vecchio armadio, improvvisamente questo diventa la chiave che potrebbe risolvere una difficile condizione esistenziale. L’armadio assume così un valore metaforico all’interno dell’opera in rappresentanza di uno “spazio altro”. Si osservi come viene descritto all’interno del romanzo:
“Uno spazio. Il mondo è tutto diviso a piccoli lotti. Ogni cosa appartiene a una persona diversa. Ognuno ha i suoi quattro metri quadrati, ma alcuni non fanno che vagare tra le proprietà altrui. Quanti spazi al mondo sono lasciati lì non sfruttati, senza che nessuno li usi? Molti, di sicuro. Come faccio a trovarne uno piccolino così per me? Un posticino nascosto, al riparo dal vento, dove poter stendere le gambe, farmi un tè e riposare in silenzio, come l’arrosto della domenica nella teglia. Quindi, per ora almeno c’è quell’armadio. E col tempo ci sarà anche la teglia. Ecco. Mi rianimo. All’improvviso comincia a scorrermi in corpo una calda energia vitale.” (p. 10)
A partire dalla decisione di vivere nell’armadio si dipana la vicenda narrata nel romanzo, che diventa luogo di un percorso esistenziale. Il piano dell’esistenza è, infatti, quello dominante. Per districarsi nella sua complessità l’autrice costruisce la sua prosa sulla base di una fitta rete dei riferimenti eterogenei. A questo proposito, una delle caratteristiche più interessanti della struttura del romanzo risiede nella sua intertestualità. La prosa dell’autrice procede inserendo citazioni tratte da diverse fonti, non solo letterarie ma anche, ad esempio, cinematografiche e musicali. Si trovano citati autori come il Kundera de L’insostenibile leggerezza dell’essere o il Dostoevskij de I demoni, ma anche lo slovacco Juraj Jakubisko, regista del celebre film Sedím na konári a je mi dobre (Sono seduto sul ramo e mi sento bene). Aderendo a una di quelle caratteristiche che vengono comunemente attribuite alla letteratura cosiddetta “postmoderna” – sebbene il concetto di postmodernismo sia particolarmente vago, specialmente se applicato a contesti come quello ceco – Semotamová inserisce la sua opera in un dialogo con la tradizione culturale, in primis letteraria, non solo ceca ma mondiale.
Concludendo questa breve presentazione, in modo tale da lasciar maggiore spazio alle parole dell’autrice che si è dimostrata disponibile nel rilasciare un’intervista, è necessario riconoscere come Nell’armadio si presenti in termini di un’opera profondamente attuale. Nel romanzo l’autrice presenta al lettore una condizione esistenziale quanto mai applicabile a diverse situazioni che affliggono gli individui all’interno dell’attuale conformazione sociale. A prendere parola è una voce narrante che esprime i suoi bisogni di trovare il proprio spazio, un “posticino nascosto” in cui poter costruire un equilibrio senza che questo venga minato dell’esterno. In questo senso l’armadio diventa il luogo in cui costruire una dimensione esistenziale in cui il mondo assume un ritmo diverso. Ne Nell’armadio si realizza una disamina della quotidianità quanto mai contemporanea.
Riportiamo qui di seguito l’intervista con l’autrice Tereza Semotamová che ringraziamo per la disponibilità nel rispondere ad alcune domande.
MM: Innanzitutto le vorrei chiedere come ha deciso di iniziare a scrivere romanzi. Se non sbaglio, ha studiato sceneggiatura e drammaturgia…
TS: Ho sempre scritto prosa. Sin da bambina finivo di scrivere dei libri che leggevo se, per esempio, non mi piaceva il finale. In Repubblica Ceca di fatto non si può studiare come scrivere in prosa, ho pensato che mi sarebbe potuto piacere studiare sceneggiatura e drammaturgia. Si è scoperto che molti cineasti in Repubblica Ceca sono anche registi e sento di non avere questo talento. Ho scritto diversi drammi radiofonici ma non sono mai stata soddisfatta di ciò che realizzavo. Questo è stato un grande incentivo per scrivere un romanzo. Ma, a dirla tutta, ho sempre voluto scrivere un romanzo. Almeno da quando, per la prima volta, ho letto Piccole donne di Louise M. Alcott.
MM: Nel suo romanzo c’è una forte intertestualità che il traduttore Alessandro De Vito ha saputo ben trattare con l’impiego di note esplicative che sono necessarie, in quanto alcuni riferimenti non sono comprensibili al lettore comune. Come spiegherebbe questo aspetto e, soprattutto, che ruolo gioca questa intertestualità nella stesura di un romanzo?
TS: Forse queste spiegazioni non turberanno il lettore italiano. Mi piacciono davvero molto. Per me l’intertestualità è una caratteristica naturale della letteratura. Molta di questa intertestualità non è riconoscibile… Non mi vergogno delle mie fonti. Ma va detto che l’originale non comprende spiegazioni o fonti, quindi potrebbe non essere così evidente quante ne ho “copiate”. Mi viene in mente che la letteratura è un grande acquario in cui è possibile immergersi, molto è già stato scritto e detto, quindi perché non usarlo. Sono una persona che sta continuando a scrivere qualcosa. Penso che il bello della letteratura risieda nel fatto che si possono seguire i pensieri di altri e coglierli a modo proprio.
MM: Da questo punto di vista, ci sono riferimenti letterari che preferisce? Mi spiego: ha qualche modello concreto?
TS: No. In questo sono molto democratica. Cito volentieri sia Platone che la stampa scandalistica. Nel mio caso si tratta di una visione bizzarra su qualcosa, di uno stile basso o strano.
MM: Le faccio una domanda che faccio sempre a tutti gli autori con cui parlo. Cosa ne pensa della scena letteraria ceca contemporanea? Glielo chiedo in quanto ritengo sia parecchio ricca ed eterogenea.
TS: Credo che ogni scena letteraria venga percepita da lontano come ricca ed eterogenea. E penso che nel caso di quella ceca sia proprio così. Negli ultimi anni, soprattutto, ci sono molte giovani autrici che non scrivono in modo mainstream. E, al tempo stesso, anche la scena poetica è parecchio dinamica. Penso che qui ognuno possa trovare il proprio posto. Tuttavia, mi mancano voci maschili che scrivano in modo intelligente di temi come il femminismo o la paternità. Leggerei volentieri qualcosa del genere.
MM: Durante la lettura mi è sembrato chiaro, mi dica se mi sbaglio, che lei abbia voluto descrivere la società contemporanea, anche il suo lato più oscuro. Pensa che possa essere una buona descrizione? La protagonista del suo romanzo si confronta con molte domande oggi importanti…
TS: Esatto. Al tempo stesso il libro si può leggere come un racconto intimo, non tutti possono vederci un aspetto sociale. Non volevo proprio descrivere la società contemporanea, non è proprio possibile, ma piuttosto raccontare la storia di una persona che nella società non si sente bene e che si sente tutt’altro che normale, ovvero di vivere da qualche parte a andare al lavoro da qualche parte, scappare dentro un armadio. Penso che a volte ognuno di noi senta questa voglia di nascondersi da qualche parte.
MM: Nel libro gioca un ruolo importante l’armadio come simbolo, che rappresenta la dimensione psicologica della protagonista… Potrebbe spiegarlo brevemente? Da dove proviene l’idea?
TS: L’idea, in realtà, è nata in modo banale. Mia sorella mi aveva chiesto se conoscevo qualcuno che avesse bisogno di un armadio. Ero in visita da lei e vivevo in Germania. La domanda nella mia testa era come sarebbe stato prenderle l’armadio, portarlo giù nel suo cortile e viverci. In un certo senso in quel momento avevo bisogno di scappare dalla situazione che stavo vivendo e mi era sembrata una buona soluzione. Alla fine l’ho fatto in un modo un po’ diverso. E, per il resto, questa dimensione psicologica è particolarmente esistenziale. La mia protagonista trova la forza di scappare da ciò che è estraneo, ma non trova la forza di continuare ad agire e così si nasconde nell’armadio. Solo che poi l’estate finisce e si chiude dentro. E con questo? Volevo scrivere di quest’agonia, di quando qualcuno sta davvero male, di quando non si è più in grado di dire agli altri quanto le ose vadano male e quindi si nasconde fingendo anche davanti a sé stessi che vada tutto bene. Ma non è così.
MM: Un’ultima domanda: ha intenzione di scrivere altri romanzi?
TS: Sì, certo. Ma forse non succederà. Non lo so proprio. Ho un bambino molto piccolo e posso scrivere davvero poco, il che mi dispiace perché penso che la maternità sia un tema molto ampio e mi piacerebbe parlarne, ma semplicemente non trovo abbastanza tempo ed energie. Chi ha letto Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf penso mi possa capire appieno.
Materia biologica, non metallo: una graphic novel ci riporta al 1920, anno di nascita dei cloni dell’uomo
I primi robot non erano esseri di metallo, non avevano bulloni né cuori artificiali. Erano come noi e ora un graphic novel li fa tornare alla loro origine. Rur Rossum’s Universal Robots (Miraggi editore) di Kateřina Čupová ci ricorda dopo 102 anni che quegli androidi in origine erano altro. Come un regista, Čupová rimette in scena l’omonimo dramma in tre atti (Marsilio) di Karel Capek che nel 1920 diede la fama a un termine fortunatissimo nella forma ma sfortunatissimo nella sostanza. È riuscito infatti a dominare l’immaginario collettivo fin da subito, è stato assimilato in quasi tutte le lingue e culture del mondo ma, come in ogni distopia che si rispetti, è sfuggito completamente al controllo del suo ideatore.
Nella mente di Capek i robot erano esseri creati in laboratorio a partire da materiale biologico, degli uomini artificiali privi di quei desideri, sensazioni ed emozioni che ci rendono deboli. La «colpa» dello slittamento verso l’uomo meccanico è dovuto a Metropolis (che è del 1927) ma un fil rouge è rimasto. Nel 1920 i robot erano pensati per diventare schiavi dell’uomo (robota in ceco sta per «lavoro faticoso, corvée, servitù») e liberarci dal lavoro proprio come oggi i loro pronipoti ci aiutano in fabbrica e in cucina, puliscono le nostre case e costruiscono le nostre cose.
Nelle matite di Čupová lo scontro uomo-macchina si trasferisce nei colori. Gli umani sono in tinte sgargianti e i cloni in un pallido e piatto blu (salvo poi ribaltarsi, ma non anticipiamo troppo). I loro occhi sono di un giallo intenso (come l’androide Data di Star Trek) ma per il resto gli schiavi ideati dallo scienziato visionario Rossum (che sta per «ragione») non mostrano differenze con i loro creatori. Čupová resiste alle sirene della trasposizione portando in un teatro di carta il testo originale con pochissime concessioni alla fantasia. Un ottimo modo per riscoprire una delle opere fondanti (e dimenticate) della fantascienza e riportarla al suo antico, biologicissimo, splendore.
«Il momento in cui le macchine (…) invadono, non senza traumi, l’uomo e la natura: all’orrido paesaggistico si aggiungono e si intrecciano gli orridi industriali e metropolitane e fabbriche con la tempesta gotica; l’acciaio degli ingranaggi con le braccia dell’operaio; (…) la proletarizzazione del lavoro con la serialità del gesto; lo sfruttamento con la bestialità; la concentrazione del capitale e del lavoro intellettuale con la privazione della volontà»… Probabilmente piacerà assai al sociologo e saggista Alberto Abruzzese, questo R.U.R.-Rossum’s Universal Robots di Katerina Cupová (Miraggi Edizioni, 280 pp. a colori, € 30). Modernissima trasposizione a fumetti del dramma fantascientifico scritta dal Ceco Karel Capek nel 1920 all’origine della definizione «robot», è una fantasmagoria di segni e colori che a ogni pagina sorprende, intriga e cattura. Raggiunta nella sua Zlín, la fumettista e cartoonist classe 1992 spiega con semplicità la scelta di tradurre a fumetti l’opera fondativa di tanta narrativa e cinema fantascientifico, da Lang a Asimov a Lucas: «R.U.R. è un’opera magnifica come ispirazione per una graphic novel: c’è l’isola esotica, la fabbrica per la produzione di persone artificiali… è densa di temi interessanti da disegnare».
MA SI TRATTA di un’essenzialità di facciata, plasticamente contraddetta da un segno ricco, stratificato e personale. «Il mio obiettivo principale era trasmettere in modo interessante l’opera teatrale, che per tutti i bambini della Repubblica Ceca rappresenta una lettura obbligatoria, di cui però non ricordano altro che la parola “robot”. Ho cercato di far appassionare il lettore all’argomento, in modo che magari poi vadano a cercarsi l’originale o leggano altre opere di Capek», spiega Cupová. Senza però dimenticare le infinite contaminazioni tra R.U.R. e le grandi firme del fumetto anglosassone e nipponico: «Penso che mi abbiano ispirato Amleto sul tetto di Will Eisner, o autori classici di manga come Osamu Tezuka e Ishinomori Shotaro». Al di là dell’effetto cinematografico mutuato dai Maestri e dell’astuzia molto cinematografica di distribuire dialoghi pensati per lo spazio ristretto di un palco in pagine di ampio respiro, nel fumetto di Katerina Cupová a strabiliare è lo straordinario talento infuso nella descrizione dei personaggi e degli ambienti. «Nel dramma originale, non viene specificato quando si svolge l’azione. Teniamo conto però che doveva essere una rappresentazione del futuro, e che negli Anni ’20 immaginavano il futuro in modo diverso da noi: questo è un aspetto che ho cercato di preservare ad esempio nel fatto che i personaggi usino ancora i telefoni col filo o i telegrammi».
UNA DISTOPIA tutta estetica, ambientata nel presente-passato alternativo in cui si disvela il conflitto tra umani e automi. Ma nonostante il secolo di riletture a cavallo tra media e linguaggi, più l’input originario di Capek, che li descrive come «indistinguibili dall’essere umano» i robot di Cupová risultano unici, funzionali e appaganti. «Avevo molte idee, tutte accomunate dalla volontà di rafforzare il messaggio dell’opera teatrale», svela l’autrice. «Alla fine ho scelto la più “semplice”, con robot come “persone artificiali” dall’aspetto uniforme e regolare». Mentre i personaggi umani del fumetto come Domin e Helena hanno personalità distinte, sottolinea l’autrice, «i robot sono tutti perfetti allo stesso modo. Inoltre, il loro sguardo è perennemente vacuo». Alta fedeltà anche nella narrazione, con minime concessioni nella trama e nei dialoghi rispetto alla pièce teatrale rappresentata per la prima volta nel gennaio del 1921 al Teatro Nazionale di Praga.
«IN REALTÀ PENSO di aver soprattutto tolto, altrimenti il fumetto avrebbe avuto molte più pagine. Dal punto di vista visivo, ho allungato il prologo. Nell’originale, l’intera introduzione si svolge nel corso di un’unica conversazione, in mezz’ora. Ho conservato i dialoghi, ma visivamente i personaggi si muovono per tutta la fabbrica, e alle loro spalle vediamo alternarsi le stagioni. Poi, nell’ultimo atto, ho tralasciato la maggior parte del lungo monologo e l’ho sostituito con immagini». E proprio le immagini dei robot più iconici di sempre chiudono il volume nella lunga e godibile postfazione firmata da Alessandro Catalano, professore associato di letteratura ceca presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari dell’Università di Padova. Contenuti extra dal fascino extraterrestre.
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Il termine robot deriva dalla parola ceca robota, che indica i lavori pesanti o forzati. Non tutti sapranno, però, che la parola assume il suo significato attuale nel 1920 grazie al dramma teatrale Rur: Rossumovi univerzální roboti, di Karel Čapek, dove per la prima volta è stata utilizzata per definire degli umanoidi artificiali. Oggi, la rivoluzionaria sceneggiatura di Čapek diventa una graphic novel illustrata con tratto appropriatamente retrò dalla disegnatrice ceca Kateřina Čupová. Scopriamo così, in veste inedita, cosa accada nella fabbrica fondata dal dottor Rossumovi, dove i lavoratori vengono “coltivati” in un brodo primordiale, e dove vengono piantati i semi per una ribellione che potrebbe costare cara al genere umano (Miraggi Edizioni, 280 pp).
Futuro prossimo. Fabbrica Rossum’s Universal Robots. È giorno di presentazioni, si annunciano nuove invenzioni rivoluzionarie. Il direttore Domin domanda e si domanda: “Qual è, secondo voi, l’operaio migliore? Quello affidabile? Onesto? Niente affatto. Il più economico. Quello con minori bisogni. Il robot”. E cosa sono questi nuovi “robot”? Sono uomini senz’anima: uomini artificiali, meccanicamente perfetti. L’uomo è un “prodotto imperfetto”, forse perché Dio non era tecnologicamente così evoluto; i robot, invece, hanno un altro equilibrio. Sono parecchio più performanti. Stacco. Cocktail post presentazione. Ordini già in arrivo da mezza Europa. Helena Glory si presenta al direttore, con un biglietto di suo padre, il presidente Glory. Vorrebbe tanto poter vedere (in via eccezionale, si capisce) le segrete stanze della fabbrica. È figlia di un presidente: può entrare. Il direttore Domin promette che le mostrerà tutto: ecco le vasche (ciascuna contiene materiale per mille robot), ecco la storia della scoperta. Nel 1920, diverso tempo prima, il vecchio Rossum era sbarcato su quest’isola per studiare la fauna marina; voleva riprodurre, tramite sintesi chimica, la materia vivente detta protoplasma, finché non aveva scoperto un’altra sostanza che si comportava proprio come la materia vivente ma aveva una diversa composizione chimica. Ciò succedeva circa 12 anni più tardi, nel 1932. Quella scoperta era, concretamente e tecnicamente, un grumo di gelatina apparentemente senza senso. Rossum poteva, a quel punto, dare vita a qualunque genere di creatura, con quel grumo: aveva invece deciso di ricreare l’uomo. “Ma voi li fate davvero gli uomini?”, domanda lady Glory. “Più o meno”. Il vecchio Rossum era ateo, era materialista: pensava di poter spodestare Dio e ricreare ex novo un uomo, fino all’ultima ghiandola. Poi era arrivato suo nipote e gli aveva detto che era ridicolo impiegare addirittura dieci anni per replicare un uomo, serviva essere più veloci di madre natura. Quel giovane rappresentava la nuova epoca, davvero! Aveva capito che un bravo ingegnere poteva migliorare l’essere umano, perfezionandolo qua e là; cavando via qualche ghiandola, l’appendice, le tonsille, tutta una serie di cose inutili. Tipo i sentimenti, per capirci. “L’uomo ha bisogno di fare tante cose inutili”, spiega il direttore. “Fare passeggiate, suonare il violino, provare gioia. Sono cose inutili quando c’è da fare calcoli, tessere stoffe, lavorare…Vede, a un motore non servono ornamenti. E produrre robot è come produrre motori”. E così, il giovane Rossum aveva buttato via l’uomo per creare un uomo nuovo, chiamato robot: un operaio prodigioso dalla memoria eccezionale. Oppure una cameriera, una commessa, una dattilografa. Indifferente che fosse maschio o femmina. Il robot non aveva comunque passione e non aveva sentimento. “I robot sono più perfetti della natura ma non possono inventare niente di nuovo. Potrebbero benissimo insegnare all’Università”. Ogni giorno vengono prodotti quindicimila nuovi robot. I più longevi durano anche vent’anni. Poi si deteriorano e vanno rottamati come si deve. Non serve farsi scrupolo: non sono attaccati alla vita, non ne hanno motivo. Non provano più emozioni. Non vengono dotati di anima perché non è nell’interesse della fabbrica. Costerebbe troppo a livello di produzione…
1920. Nella distopia R.U.R. Rossum’s Universal Robots, opera di Karel Čapek, viene coniato il termine “robot”: viene dalla parola ceca “robota”, diventerà qualcosa di estremamente comune. L’invenzione della parola “robot” si deve al fratello di Čapek, Josef, pittore; Karel aveva pensato a un più didascalico “labor”. Questa la vulgata. 2020. Cento anni più tardi, Kateřina Čupová pubblica questa graphic novel, per la Argo di Praga. Secondo Luca Castelli del «Corriere della Sera», “di luce e colori abbondano le tavole della Čupová, che con l’autore dell’opera condivide la nazionalità, le iniziali e l’età in fase di creazione (è nata a Ostrava trent’anni fa). Il suo tratto elegante, gentile, quasi giocoso, discendente dalla tradizione dei cartoni animati dell’Est Europa, aiuta ad alleggerire una trama che spesso lambisce scenari cupi alla Metropolis di Fritz Lang (film che risentì parecchio dell’influenza di R.U.R.)”. A dar retta a Maurizio Di Fazio de «la Repubblica», si tratta di una “rivisitazione assolutamente originale ma rispettosa della pietra miliare. Il suo stile e la sua matita, rimandanti all’universo del cartone animato, affondano le radici in decenni di premiata animazione ceca”. Nella postfazione, il professor Alessandro Catalano puntualmente osserva che durante questi cento anni, a partire dall’invenzione di Čapek, “il robot, multiforme alter ego dell’uomo, sua copia infedele, spesso aggressiva, ha subito mutamenti sostanziali”: tanto che, paradossalmente, oggi è più famosa la parola “robot” che l’opera sua matrice, R.U.R. Rossum’s Universal Robots. “I robot hanno infatti da subito iniziato a vivere di vita propria, fino alla definitiva identificazione con l’essere artificiale antropomorfo di tipo meccanico, dominante a partire dalla fine degli anni Venti e infine istituzionalizzata da Isaac Asimov e dalle grandi saghe cinematografiche”. In R.U.R. Invece il robot è un essere umano “dalle ridotte esigenze e dalla maggiore efficienza lavorativa”. Cosa che, politicamente e simbolicamente, in genere, ha ben diverso peso e ben diversa consistenza. Direi che la distopia del notevole Karel Čapek (Malé Svatoňovice, 1890 – Praga, 1938) aveva parecchi elementi di visionaria critica ai totalitarismi figli del socialismo: i suoi “roboti” sembrano quei cittadini-sudditi cinesi della nostra epoca, estranei a qualunque forma di protesta e di ribellione, vuoti e obbedienti e quando serve aggressivi e famelici, come formichine. I robot di Čapek conosceranno una sorte differente da quella che avevano previsto i loro progettisti, in fabbrica: speriamo che sia così per gli “inconsapevoli automi” derivati e originati dai dispotismi asiatici e dai totalitarismi di nuova generazione. L’opera è stata pubblicata dalla Miraggi di Alessandro De Vito & c. nella nuova e promettentissima collana MiraggInk, con il contributo del Ministero della Repubblica Ceca. Siamo dalle parti di quei fumetti che scintilleranno di grazia e di intelligenza per diverse generazioni, nelle vostre biblioteche. Compratelo e fatelo leggere ai vostri bambini e ai vostri ragazzi, spiegate loro che i totalitarismi non sono un gioco e che l’anima e i sentimenti sono tutto quel che abbiamo. Chiudiamo con qualche cenno biobibliografico. Karel Čapek, giornalista, drammaturgo e narratore, è stato uno dei maggiori scrittori cechi del Novecento. Nelle sue opere antesignane e visionarie ha trattato temi delicati e oggi decisivi come l’intelligenza artificiale, le epidemie, l’energia atomica. Kateřina Čupová da Ostrava, Cechia, classe 1992, animatrice e fumettista, si è laureata presso il prestigioso Dipartimento di Animazione all’Università Tomáš Baťa di Zlín. A dar retta agli amici della Miraggi, “il suo stile accattivante e simile a un cartone animato è fermamente radicato in decenni di apprezzata animazione ceca”. Vediamo di apprezzarla a dovere anche quaggiù in Italia!
La peculiare, profondissima, forma d’amore tra Mona, infermiera in un ospedale travolto dalla guerra, e Adam, il giovane soldato che arriva dal fronte con una grave ferita alla gamba, fa qui da collan…
Mona di Bianca Bellovà è stata una scoperta bellissima. Su consiglio di Angelo Di Liberto (fondatore di Billy il vizio di leggere- il gruppo Facebook) acquistai Il lago di Bellovà che è rimasto nella pila dei libri in attesa.
Ho acquistato Mona allo stand di Miraggi al BookPride di Milano, Fabio Mendolicchio mi aveva detto: “Molla tutto quello che hai e comincia Mona, non c’è libro più adatto di questi tempi”. E devo dire che non si è sbagliato.
Mona è la commovente (e cruda) storia di un’infermiera in tempo di guerra. Mona è un racconto pieno di orrore, bellezza e dolore, Mona è un romanzo che contiene moltissimi temi e pochissime parole.
Mi è piaciuta parecchio la scrittura di Bellovà: precisa, intensa, apparentemente scarna perché è potente, scorrevole e ammaliante. Ora sì che non vedo l’ora di leggere anche il resto.
Ma torniamo alla nostra storia dai contorni temporali e geografici indefiniti. Bellovà racconta l’orrore della guerra e no, non c’è bisogno di avere le coordinate geografiche per immedesimarsi. Gli occhi di Mona diventano i nostri: ovunque si posino non facciamo altro che vedere sangue, sentire urla… i medicinali scarseggiano, l’odore della morte è così forte che stordisce.
«Nessuno vuole morire» sussurra Mona. «Si sforzano tutti di vivere, di sopravvivere. Si aggrappano tutti alla vita, anche quelli a cui resta solo mezzo cervello e senza una gamba. Nessuno vuole morire».
Mona con i dolori alle ossa, piegata dalla stanchezza, stufa dei soprusi dentro e fuori dall’ospedale, incrocia gli occhi di Adam, soldato che ha appena perso la gamba.
Comincia così una narrazione alternata tra presente e passato. Della nostra infermiera cominciamo a conoscere l’infanzia, traumatica e ingiusta. Ripercorriamo le bugie, i drammi, la solitudine che hanno cambiato per sempre Mona. La guardiamo diventare adolescente e poi diventare moglie e madre. Errori, rimpianti conditi da apatia e nervosismo. Quanto avrei voluto abbracciare questa bambina costretta a dormire con la luce di notte per non rivivere l’incubo della prigionia.
Ed eccola lì, tra quattro pareti non murate. La stanza – ma poteva chiamarsi stanza? – era completamente buia, senza finestre. Alzandosi in piedi Mona toccava con la testa la botola da cui una volta al giorno riceveva una ciotola di riso e consegnava il recipiente con gli escrementi
Ma la storia di Adam non è più facile: i primi amori, le amicizie, quella spensieratezza destinata a non durare per l’arrivo della guerra. Che cos’hanno in comune Mona e Adam? La dignità. Mentre il mondo fuori viene inghiottito dalla violenza, quella della Guerra, quella dell’oppressione nei confronti delle donne, ecco che loro due conservano la forza dei principi. Fedeli a sé stessi daranno vita un legame in grado di superare ogni orrore.
Bellovà con poche ma precise pennellate ci trascina in una storia che dimostra non solo l’insensatezza della guerra, ma anche la violenza di cui siamo capaci in quanto esseri umani.
Esistono molti tipi di umiliazione, Mona ne conosce a migliaia, per sentito dire e per esperienza diretta. Gli uomini che incrociandola per strada fanno schioccare la lingua. L’impiegato della banca che ticchetta impaziente con la matita sullo sportello, senza prendersi la briga di aprir bocca, quando Mona si attarda troppo a cercare un documento. Gli inopportuni palpeggiamenti sull’autobus. Gli infiniti parlottii, essere chiamata puttana quando esce con la testa scoperta.
Se da una parte siamo invasi da amarezza, sdegno e disgusto, dall’altra Bellovà è in grado di commuoverci, regalando un finale delicato e inaspettato.Uccidi il gallo che in eterno scaccia la notte,Uccidi il gallo che chiama il giorno:dondoliamoci sulle onde del buiofino all’orlo dell’eternità.
Mona è…
Struggente. Ho amato tutto di questo romanzo ma non ho dato cinque stelle perché avrei voluto durasse di più. Ho bisogno di stare ancora in compagnia di Mona e Adam.
In queste settimane sono molte le persone che mi hanno detto di non riuscire a leggere per via del conflitto tra Russia e Ucraina. Comprendo perfettamente, ricordo anche che durante le quarantene molte persone non riuscivano a dedicarsi ai libri. Eppure oggi vi consiglio spassionatamente questo libro perché certo non distrae ma colpisce e ci costringe a calarci in una realtà vicina e spaventosa con un trasporto emotivo che forse prima non avremmo avuto.
Mona per reggersi in piedi beve molta acqua e tè verde. Questa è una guerra, le ripete l’inconscio fino alla nausea, la guerra e così, li porteranno qui finché laggiù ci sarà ancora qualcuno, in prima linea, nelle trincee, tra i fili spinati… Non ha idea di come sia davvero il fronte, le fotografie delle battaglie sono sottoposte a censura e chiedere ai moribondi le sembra senza senso. Il letto di Adam è per lei l’unico rifugio dall’incessante flusso di uomini sofferenti.
“I Tedeschi” è un libro meraviglioso. Scritto nel 2012 da Jakuba Katalpa e tradotto da Alessandro De Vito, è stato pubblicato nel 2019 da Miraggi nella collana “NováVlna” dedicata alla letteratura ceca. L’autrice è classe 1979 e con questo romanzo ha ricevuto tantissimi riscontri di pubblico e di concorsi letterari del suo Paese. Costa 24 euro e se vi sembrano tanti sappiate che ne vale molti di più.
Trama
Dopo la morte di suo padre, la protagonista cerca di ricostruire il passato di sua nonna biologica. Cosa l’ha spinta ad abbandonare suo figlio a Praga e tornare in Germania, cercando poi di coltivare un rapporto inviando caramelle per anni?
Si trova costretta a vagare in un presente senza memoria. Mentre la voce narrante si dà da fare per archivi, parrocchie e biblioteche, assistiamo allo scorrere della storia di Klara, in terza persona, in un periodo in cui la Cecoslovacchia era sotto il protettorato del Reich. Cosa è significato essere tedeschi “veri” in un posto in cui essere tedeschi era obbligatorio? Trovarsi a fare da spia e da collante nello stesso momento? Cosa è significato essere sole?
Recensione
Se non fosse stato per il gruppo di lettura della libreria “On the road” non avrei mai, mai preso in considerazione di leggere un’autrice ceca. La letteratura dell’Est per me ha un fascino ai minimi termini, forse nullo. Parafrasando una citazione famosa: non leggo autori che non so pronunciare.
“I Tedeschi” è tante cose. È la nostalgia, la rabbia, la malinconia. È l’impotenza, il segreto, la libertà.
“A volte sognavamo che un giorno la nonna avrebbe ripreso piena coscienza, guarita e con una memoria perfetta, e ci avrebbe raccontato tutto quello che volevamo sapere. Non ci passava neanche per la testa che i suoi segreti li avrebbe voluti preservare, che avrebbe potuto rannicchiarsi intorno a essi, circondarli con le braccia e non lasciarci passare; che non avrebbe voluto condividere.
Con un retrogusto amaro, sentivamo che la sua appartenenza alla nostra famiglia ci desse il diritto di insinuarci nel suo passato”https://dfb2d31e33a485bd6ae456cdb62e9790.safeframe.googlesyndication.com/safeframe/1-0-38/html/container.html
Ne “I Tedeschi” il tempo si spalanca. Ogni persona è un incrocio di storie: la propria, la Storia e quella di Klara. È una narrativa per ingrandimenti, che può disorientare. Soprattutto nella seconda metà, il lettore può chiedersi se una certa digressione è veramente necessaria, se non sarebbe meglio procedere con l’azione. Inoltre non tutti i dialoghi sono cristallini, non si capisce sempre chi parla a chi.
“Mi ha colpita un dolore risalente a quasi sessant’anni fa, e stavolta non è il solo dolore di mio padre, tante volte declamato e sofferto con una certa solennità, è qualcosa di ancora diverso a rodermi dentro, un’incertezza e una pena, scoprire che tra verità e menzogna c’è un confine così labile che lo si può rimuovere con un semplice gesto della mano, con un battito di ciglia”.https://dfb2d31e33a485bd6ae456cdb62e9790.safeframe.googlesyndication.com/safeframe/1-0-38/html/container.html
Ma la verità è che anche le digressioni sono ricche di azione, e lo stile della Katalpa è così coinvolgente che queste piccole perplessità si trasformano in sabbia, non contano più nulla. Resta la grandezza di un romanzo profondo, ricco, carico di saggezza e rassegnazione.
Eda è ad una festa di cinquecento persone quando d’un tratto si sente chiamare. Un uomo è caduto giù dalle scale ed è morto. Da uno squarcio invisibile del suo corpo sta sgorgando del sangue che si sparge sul parquet. Alcuni invitati non si sono accorti di nulla e continuano a ballare il valzer ma, all’arrivo del medico, si accalcano tutti intorno all’uomo. Era un venditore che proveniva dalla Moravia del Nord e aveva alzato un po’ troppo il gomito. Bisognerà avvisare la moglie prima che la notizia faccia il giro dei giornali e la responsabile della comunicazione decide che sarà proprio Eda ad andare a comunicarglielo. Lui prova a immaginare come reagirà la donna alla notizia e gli torna in mente l’altra volta che ha dovuto portare la notizia della morte di Eliska a sua madre… Nina è tornata nella sua casa d’infanzia per il funerale della mamma. Il signor Antos del piano di sopra suona ancora come quindici anni prima il suo clarinetto. Nina pensa che qualcuno dovrebbe dirglielo che non ha fatto progressi e che la solita routine (tre composizioni, rimozione dell’ancia, pulizia del clarinetto, tossetta e cena) è sempre più insopportabile. Gli armadi sono stracolmi di vestiti che come i copriletti, le lenzuola e le tende sono coperti di larve di tarma. Fa un gran freddo, c’è odore di chiuso e di piscio di gatto e prima di buttare via ogni cosa lei si fa prendere dai ricordi in quella casa con i genitori e la sorella Eliska, con la quale è sempre stata in competizione. In mezzo a loro tante figure ma due di loro, Eliska e il padre di Eda, decisamente disturbanti…
La vicenda si svolge nell’arco di 24 ore. Due persone – Eda e Nina – alternano la loro voce ad ogni paragrafo. Lui è messaggero di brutte notizie, lei deve mettere ordine in un’eredità. Sono uniti nel passato da memorie di esperienze condivise che però ognuno interpreta a modo suo. Un racconto che diventa il mezzo per scendere nel loro personale inferno, l’inferno dei segreti di famiglia che porta con sé la perdita dell’innocenza, nella vita di chi è cresciuto alla fine del regime cecoslovacco. Un’intersezione di voci su una struttura narrativa che si regge in equilibro perfetto. Libro d’esordio di Bianca Bellová, ma sua terza opera uscita in Italia, Romanzo senti/mentale rivela già l’impronta di una delle voci più interessanti del panorama letterario ceco. Nel romanzo si scoprono i temi cari alla scrittrice: infanzia perduta, condizione femminile, legami familiari, solo per citarne alcuni che sono tenuti insieme dalla sua scrittura con una maestria ben riconoscibile. Una voce potente in un gran bel racconto.
Anche se solo inconsciamente, ho sempre saputo che sarebbe finita così. Dopo tutti gli anni di “non toccare quella tazza!”, “meglio lasciarla sullo scaffale”, “è l’ultimo ricordo di Eliška”, “questa non la diamo nemmeno agli ospiti”, era chiaro che prima o poi si sarebbe rotta. Ora giace qui davanti a me, raro design degli anni Settanta con un astratto disegno a fiori arancione, spaccata in mille pezzi, alcuni ancora oscillano sul pavimento con aria di sfida, sembrano ammiccarmi in modo ambiguo: “Tanto lo sapevamo che sarebbe finita così”.
Che rumore fa una tazza che, cadendo, si infrange in mille pezzi? La traccia fragile di un passato che non può tornare ma che non possiamo nemmeno cancellare. Si moltiplica, divenendo altro da sé, ma conserva la complessità della sua natura. Si sgretola, fino ad assumere una forma multisfaccettata della sua primordiale realtà, si riduce in una miriade di frammenti, che confondono la vista e trasfigurano l’idea dell’oggetto. Sono così, a volte, i rapporti umani e quelli che dovrebbero circonfondere l’individuo, per garantirgli la sicurezza affettiva utile ad affrontare il mondo di fuori, che inizia al di là del rifugio che ci accoglie quando giungiamo al mondo. La penna di Bianca Bellová, autrice ceca di origini bulgare apprezzata sia nel suo Paese che all’estero, si è mostrata da sempre assai abile nei rapporti già guasti all’origine, nella funesta interferenza della famiglia nelle dinamiche relazionali, nella sua intrusione rovinosa nell’età dell’innocenza, nella sua azione distruttiva di qualsiasi confortante idea di “passato”. L’autrice ha guadagnato importanti riconoscimenti (Premio Unione Europea per la Letteratura e Magnesia Litera) e ha raggiunto un pubblico più ampio nel 2016, con la pubblicazione del romanzo Jezero, che la casa editrice Miraggi ha pubblicato con la traduzione di Laura Angeloni (Il lago 2018), consentendo ai lettori italiani di conoscere una delle voci più affermate della letteratura ceca contemporanea. Ad approfondire questa preziosa conoscenza, si sono aggiunte le pubblicazioni del romanzo Mona (2020) e, in ultimo, di Romanzo senti/mentale che, anche se apparso a ottobre 2021 nella sua prima traduzione all’estero, rappresenta l’esordio della Bellová. Questi titoli, insieme a quelli di altri scrittori (drammaturghi, sceneggiatori, contemporanei e non) vanno a nutrire una collana interessante e necessaria che gli editori di Miraggi hanno intitolato “Nova Vlna”, a ricordare il movimento cinematografico cecoslovacco degli anni ’60 del Novecento.
Romanzo senti/mentale (Senti/mentální román 2009) contiene già quegli argomenti che l’autrice approfondirà nei lavori successivi in maniera più matura, ma anche più misurata. Perciò, la lettura del romanzo d’esordio, oltre che per la storia in sé e per la particolare struttura che lo sostiene, risulta interessante per scorgervi tutto il coraggio e la spregiudicatezza che vengono espressi mediante un realismo che non cede a esitazioni neanche di fronte a scene particolarmente violente e scabrose, e che potranno risultare inattese se confrontate alla delicatezza espressa altrove.
Al centro del romanzo e della ricerca portata avanti dalla scrittrice vi sono i rapporti difficili o irrisolti, in particolare quelli familiari, che inducono i protagonisti a intraprendere un viaggio – talvolta anche propriamente fisico – sui luoghi d’infanzia, attraverso i ricordi di un’epoca non sempre idealizzata, nel tentativo di afferrare il senso di una perdita o di colmare un vuoto, o di giungere a una qualche possibilità di comunicazione che però difficilmente avviene.
Eda è investito suo malgrado del ruolo di angelo della morte: durante una festa aziendale un uomo ubriaco precipita da una grande scalinata e rimane a terra senza vita: l’espressione sorpresa, gli occhi sbarrati, la camicia dello smoking immacolata e una macchia di sangue che si allarga sul parquet. Tra i cinquecento presenti, lui viene incaricato di raggiungere la vedova dello sconosciuto e di darle la tragica notizia. Lo attende un lungo viaggio, attraverso una notte fredda e piovosa, in compagnia di sonno e stanchezza e di una serie di ricordi che emergono da un passato tormentoso.
Nina torna nella casa di famiglia che non abita più da quindici anni. La casa è piena dell’assenza della madre – della cui morte dovrà farsi messaggera fino al padre ormai ricoverato e assente a se stesso – e soprattutto è piena dell’assenza della sorella Eliška, presenza ingombrante nella sua infanzia, nella sua adolescenza e nella sua memoria. Nel tentativo di liberare la casa dai ricordi, tra oggetti guasti, oggetti intoccabili e altri dimenticati, si solleva un’intera vita come un’ombra, a proseguire la sua opera di tormento. Le vite di Eda e Nina si intrecciano nel nome di Eliška.
Gli occhi del lettore scorrono, riga dopo riga, pagina dopo pagina, sulle esistenze di Eda e Nina e sulle loro voci, che si alternano regolarmente, includendo altri personaggi e ampliando lo spettro dell’incomunicabilità. Dalle pagine si scende nelle profondità dei loro segreti e dei sensi di colpa inconfessabili, nei dubbi perpetui. Man mano che riaffiorano i ricordi, per il tonfo di un oggetto che cade, per l’improvviso addensarsi del cielo, per una voce che spezza, riemergono anche paure, incertezze, gelosie laceranti, scene traumatiche e indelebili, vuoti che riempiono gli animi a distanza di tempo, che i chilometri e gli anni non hanno saputo annientare del tutto. Il peso del lutto, che mentre schiaccia i protagonisti sembra conferire loro allo stesso tempo l’impulso ad alzarsi e a scrollarsi di dosso il passato, è raccontato da Bianca Bellová attraverso un ritmo estremamente calibrato, che ci conduce alla conclusione del racconto senza balzi improvvisi, nonostante la crescente drammaticità del filo narrativo. La dimensione familiare è una trappola da cui Eda e Nina non riescono a liberarsi.
La parola di Bianca Bellová si attacca alle cose come la polvere sugli oggetti vecchi tanto che riusciamo quasi a sentirne l’odore. E sui personaggi agisce come lo scandaglio negli abissi, cosicché questi sono d’un tratto davanti a noi, con tutte le debolezze degli esseri umani e con la loro precisa storia e la difficoltà che hanno a raccontarla. Loro sono davanti a noi e noi siamo dentro di loro. Forse il romanzo di Bianca Bellová non è “sentimentale” come suggerisce il titolo – che però già lancia un indizio con quel segno che divide: senti/mentale – ma la sua scrittura suscita forti emozioni e per questo non si lascia dimenticare.
Praga, 1938-39. La storia del Novecento marcia a passo forzato verso uno dei suoi momenti più critici: il magniloquente Nuovo Ordine nazista, la guerra imminente, la “questione ebraica”, le persecuzioni pianificate, l’invasione dell’Europa. Chi è il signor Kopfrkingl, protagonista di questa storia nera praghese? Un tenero, sdolcinato padre di famiglia, impiegato al crematorio, un uomo che sorride sempre. Sì, in apparenza. Interiormente, invece, è una marionetta dall’animo monodimensionale, dalla volontà larvale, dalla morale astratta e limitata, che vede tutto e tutti come stereotipi. Un uomo intimamente servile per cui il bene è indifferentemente cura e sterminio, felicità e olocausto, la cui idea di paradiso in terra condanna gli altri all’inferno. Lo stile ossessivo e preciso di Fuks sottolinea perfettamente questo aspetto e gli è funzionale. Il bruciacadaveri procede come una partitura con il frequente contrappunto di ripetizioni di nomi e intere espressioni. Lo sguardo alienato e distorto del protagonista, con tracce di macabro divertimento, amalgama un testo di cui si può apprezzare la struttura profonda e la caleidoscopica creatività. Postfazione di Alessandro Catalano.
Attuale
Il bruciacadaveri di Ladislav Fuks (Miraggi edizioni) è una lettura difficile da raccontare. Un racconto disturbante, dai contorni sfumati come in un sogno, o meglio, in incubo.
Ho comprato questo libro nel 2019 e ha atteso fino a poche settimane fa in libreria (fa parte della sfida dello scaffale strabordante) e sono contenta di averlo letto ma sono sincera: senza la postfazione a cura di Alessandro Catalano, non avrei mai colto la bellezza e la profondità del testo, che non è sempre di facile comprensione.
Il protagonista è Karel Kopfrkingl: odioso, repellente e contraddittorio. Non sopporterete quest’uomo e tutto quello che rappresenta. Innamorato della moglie in maniera ossessiva, lavora in un crematorio. Ovviamente il suo non è un lavoro come gli altri ma una vera e propria missione.
Ossessionato dalla morte non fa altro che ricercarla tra gli articoli di giornale, tra gli sguardi nel mondo, tra le bare pronte ad essere bruciate. La polvere deve tornare polvere, questa è verità assoluta.
La sepoltura mediante cremazione è assolutamente sicura, e libera chiunque, in modo definitivo, dal timore di ritornare in vita.
Grottesco a ambiguo, si muove in un mondo in cui i personaggi sono trascurabili, quasi finti. Il bruciacadaveri viene scritto (e letto) con gli occhi del protagonista: le ripetizioni, i rituali, la maniacalità, tutto contribuisce a costruire un quadro inquietante e grottesco.
Siamo a Praga a cavallo tra 1938 e il 39, noi leggiamo questo libro con il senno di poi. E la contraddizione di Karel è quella che ci stranisce. Marito premuroso ma ipocrita, continuerà a farsi visitare da un dottore per paura delle malattie veneree, è un fanatico travestito da mediocre. Un simbolo dell’orrore più buio della storia del Novecento.
La follia collettiva, l’indifferenza, la banalità del male… Il bruciacadaveri racchiude i grandi temi con cui molti scrittori si sono misurati, ma Fuks lo fa in maniera inedita, creativa, inquietante sì, ma a tratti anche divertente.
Dopo cena il signor Kopfrkingl baciò la sua celeste e disse:
«Vieni, ineffabile, prima di spogliarci, prepariamo la stanza da bagno.»
E prese una sedia e andarono, la gatta li guardava.
«Fa caldo qui, » disse il signor Kopfrkingl nel bagno, e mise la sedia sotto il ventilatore, «forse ho esagerato con il riscaldamento. Accendi il ventilatore, cara.»
Quando Lakmé salì sulla sedia, il signor Kopfrkingl le accarezzò il polpaccio, le gettò il cappio al collo e con un tenero sorriso le disse:
«E se ti impiccassi, cara?»
Lei gli sorrise dall’alto, forse non aveva capito bene le sue parole, anche lui sorrise, calciò via la sedia ed ecco fatto.
Le cose si complicheranno quando l’antisemitismo entrerà nelle vite dei protagonisti del romanzo, tra promesse di promozione, scelte, dolori… e adesso sarei crudele io a raccontarvi di più.
Il bruciacadaveri è…
Attuale, in maniera sconcertante. C’è una frase che i personaggi ripetono spesso durante la lettura ed è questa:
La violenza non paga per nessuno. Con essa si può tirare avanti solo per un breve periodo, ma non si può scrivere la storia. Viviamo in un mondo civilizzato, in Europa, nel Ventesimo secolo.
Forse è anche quello che ci ripetiamo noi quando leggiamo alcune notizie sul giornale come i protagonisti de Il bruciacadaveri, forse è quello che speriamo quando il clima di odio intorno a noi si fa insopportabile, forse è la scusa per non intervenire quando vediamo la violenza.
Il bruciacadaveri è sicuramente un libro di grande spessore e sono contenta che Miraggi sia riuscita a ripubblicarlo. Un romanzo che dovrebbero leggere tutti, perché è facile dimenticare, difficile prendere una posizione diversa.
Sono sincera però, pensavo che avrei fatto meno fatica ad entrare nella storia e invece non riuscivo ad orientarmi, spesso perdevo il filo. Benedette siano le analisi degli esperti quando ci si trova di fronti a testi importanti.
Consigliato per chi vuole leggere qualcosa di diverso su un tema letto e riletto. Per chi è in cerca di una storia particolare, angosciante e stridente. Il ricordo del protagonista sorridente e malvagio non vi lascerà in pace molto presto.
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