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RUR – recensione di Gianfranco Franchi su Mangialibri

RUR – recensione di Gianfranco Franchi su Mangialibri

Futuro prossimo. Fabbrica Rossum’s Universal Robots. È giorno di presentazioni, si annunciano nuove invenzioni rivoluzionarie. Il direttore Domin domanda e si domanda: “Qual è, secondo voi, l’operaio migliore? Quello affidabile? Onesto? Niente affatto. Il più economico. Quello con minori bisogni. Il robot”. E cosa sono questi nuovi “robot”? Sono uomini senz’anima: uomini artificiali, meccanicamente perfetti. L’uomo è un “prodotto imperfetto”, forse perché Dio non era tecnologicamente così evoluto; i robot, invece, hanno un altro equilibrio. Sono parecchio più performanti. Stacco. Cocktail post presentazione. Ordini già in arrivo da mezza Europa. Helena Glory si presenta al direttore, con un biglietto di suo padre, il presidente Glory. Vorrebbe tanto poter vedere (in via eccezionale, si capisce) le segrete stanze della fabbrica. È figlia di un presidente: può entrare. Il direttore Domin promette che le mostrerà tutto: ecco le vasche (ciascuna contiene materiale per mille robot), ecco la storia della scoperta. Nel 1920, diverso tempo prima, il vecchio Rossum era sbarcato su quest’isola per studiare la fauna marina; voleva riprodurre, tramite sintesi chimica, la materia vivente detta protoplasma, finché non aveva scoperto un’altra sostanza che si comportava proprio come la materia vivente ma aveva una diversa composizione chimica. Ciò succedeva circa 12 anni più tardi, nel 1932. Quella scoperta era, concretamente e tecnicamente, un grumo di gelatina apparentemente senza senso. Rossum poteva, a quel punto, dare vita a qualunque genere di creatura, con quel grumo: aveva invece deciso di ricreare l’uomo. “Ma voi li fate davvero gli uomini?”, domanda lady Glory. “Più o meno”. Il vecchio Rossum era ateo, era materialista: pensava di poter spodestare Dio e ricreare ex novo un uomo, fino all’ultima ghiandola. Poi era arrivato suo nipote e gli aveva detto che era ridicolo impiegare addirittura dieci anni per replicare un uomo, serviva essere più veloci di madre natura. Quel giovane rappresentava la nuova epoca, davvero! Aveva capito che un bravo ingegnere poteva migliorare l’essere umano, perfezionandolo qua e là; cavando via qualche ghiandola, l’appendice, le tonsille, tutta una serie di cose inutili. Tipo i sentimenti, per capirci. “L’uomo ha bisogno di fare tante cose inutili”, spiega il direttore. “Fare passeggiate, suonare il violino, provare gioia. Sono cose inutili quando c’è da fare calcoli, tessere stoffe, lavorare…Vede, a un motore non servono ornamenti. E produrre robot è come produrre motori”. E così, il giovane Rossum aveva buttato via l’uomo per creare un uomo nuovo, chiamato robot: un operaio prodigioso dalla memoria eccezionale. Oppure una cameriera, una commessa, una dattilografa. Indifferente che fosse maschio o femmina. Il robot non aveva comunque passione e non aveva sentimento. “I robot sono più perfetti della natura ma non possono inventare niente di nuovo. Potrebbero benissimo insegnare all’Università”. Ogni giorno vengono prodotti quindicimila nuovi robot. I più longevi durano anche vent’anni. Poi si deteriorano e vanno rottamati come si deve. Non serve farsi scrupolo: non sono attaccati alla vita, non ne hanno motivo. Non provano più emozioni. Non vengono dotati di anima perché non è nell’interesse della fabbrica. Costerebbe troppo a livello di produzione…

1920. Nella distopia R.U.R. Rossum’s Universal Robots, opera di Karel Čapek, viene coniato il termine “robot”: viene dalla parola ceca “robota”, diventerà qualcosa di estremamente comune. L’invenzione della parola “robot” si deve al fratello di Čapek, Josef, pittore; Karel aveva pensato a un più didascalico “labor”. Questa la vulgata. 2020. Cento anni più tardi, Kateřina Čupová pubblica questa graphic novel, per la Argo di Praga. Secondo Luca Castelli del «Corriere della Sera», “di luce e colori abbondano le tavole della Čupová, che con l’autore dell’opera condivide la nazionalità, le iniziali e l’età in fase di creazione (è nata a Ostrava trent’anni fa). Il suo tratto elegante, gentile, quasi giocoso, discendente dalla tradizione dei cartoni animati dell’Est Europa, aiuta ad alleggerire una trama che spesso lambisce scenari cupi alla Metropolis di Fritz Lang (film che risentì parecchio dell’influenza di R.U.R.)”. A dar retta a Maurizio Di Fazio de «la Repubblica», si tratta di una “rivisitazione assolutamente originale ma rispettosa della pietra miliare. Il suo stile e la sua matita, rimandanti all’universo del cartone animato, affondano le radici in decenni di premiata animazione ceca”. Nella postfazione, il professor Alessandro Catalano puntualmente osserva che durante questi cento anni, a partire dall’invenzione di Čapek, “il robot, multiforme alter ego dell’uomo, sua copia infedele, spesso aggressiva, ha subito mutamenti sostanziali”: tanto che, paradossalmente, oggi è più famosa la parola “robot” che l’opera sua matrice, R.U.R. Rossum’s Universal Robots. “I robot hanno infatti da subito iniziato a vivere di vita propria, fino alla definitiva identificazione con l’essere artificiale antropomorfo di tipo meccanico, dominante a partire dalla fine degli anni Venti e infine istituzionalizzata da Isaac Asimov e dalle grandi saghe cinematografiche”. In R.U.R. Invece il robot è un essere umano “dalle ridotte esigenze e dalla maggiore efficienza lavorativa”. Cosa che, politicamente e simbolicamente, in genere, ha ben diverso peso e ben diversa consistenza. Direi che la distopia del notevole Karel Čapek (Malé Svatoňovice, 1890 – Praga, 1938) aveva parecchi elementi di visionaria critica ai totalitarismi figli del socialismo: i suoi “roboti” sembrano quei cittadini-sudditi cinesi della nostra epoca, estranei a qualunque forma di protesta e di ribellione, vuoti e obbedienti e quando serve aggressivi e famelici, come formichine. I robot di Čapek conosceranno una sorte differente da quella che avevano previsto i loro progettisti, in fabbrica: speriamo che sia così per gli “inconsapevoli automi” derivati e originati dai dispotismi asiatici e dai totalitarismi di nuova generazione. L’opera è stata pubblicata dalla Miraggi di Alessandro De Vito & c. nella nuova e promettentissima collana MiraggInk, con il contributo del Ministero della Repubblica Ceca. Siamo dalle parti di quei fumetti che scintilleranno di grazia e di intelligenza per diverse generazioni, nelle vostre biblioteche. Compratelo e fatelo leggere ai vostri bambini e ai vostri ragazzi, spiegate loro che i totalitarismi non sono un gioco e che l’anima e i sentimenti sono tutto quel che abbiamo. Chiudiamo con qualche cenno biobibliografico. Karel Čapek, giornalista, drammaturgo e narratore, è stato uno dei maggiori scrittori cechi del Novecento. Nelle sue opere antesignane e visionarie ha trattato temi delicati e oggi decisivi come l’intelligenza artificiale, le epidemie, l’energia atomica. Kateřina Čupová da Ostrava, Cechia, classe 1992, animatrice e fumettista, si è laureata presso il prestigioso Dipartimento di Animazione all’Università Tomáš Baťa di Zlín. A dar retta agli amici della Miraggi, “il suo stile accattivante e simile a un cartone animato è fermamente radicato in decenni di apprezzata animazione ceca”. Vediamo di apprezzarla a dovere anche quaggiù in Italia!

QUI l’articolo originale:

https://www.mangialibri.com/rur-rossums-universal-robots

Mona – recensione di Alessandra Fontana su La lettrice controcorrente

Mona – recensione di Alessandra Fontana su La lettrice controcorrente

La trama

La peculiare, profondissima, forma d’amore tra Mona, infermiera in un ospedale travolto dalla guerra, e Adam, il giovane soldato che arriva dal fronte con una grave ferita alla gamba, fa qui da collan…

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 – Struggente –

Mona di Bianca Bellovà è stata una scoperta bellissima. Su consiglio di Angelo Di Liberto (fondatore di Billy il vizio di leggere- il gruppo Facebook) acquistai Il lago di Bellovà che è rimasto nella pila dei libri in attesa.

Ho acquistato Mona allo stand di Miraggi al BookPride di Milano, Fabio Mendolicchio mi aveva detto: “Molla tutto quello che hai e comincia Mona, non c’è libro più adatto di questi tempi”. E devo dire che non si è sbagliato.

Mona - Bianca Bellova - Miraggi edizioni

Mona è la commovente (e cruda) storia di un’infermiera in tempo di guerra. Mona è un racconto pieno di orrore, bellezza e dolore, Mona è un romanzo che contiene moltissimi temi e pochissime parole.

Mi è piaciuta parecchio la scrittura di Bellovà: precisa, intensa, apparentemente scarna perché è potente, scorrevole e ammaliante. Ora sì che non vedo l’ora di leggere anche il resto.

Ma torniamo alla nostra storia dai contorni temporali e geografici indefiniti. Bellovà racconta l’orrore della guerra e no, non c’è bisogno di avere le coordinate geografiche per immedesimarsi. Gli occhi di Mona diventano i nostri: ovunque si posino non facciamo altro che vedere sangue, sentire urla… i medicinali scarseggiano, l’odore della morte è così forte che stordisce.

«Nessuno vuole morire» sussurra Mona. «Si sforzano tutti di vivere, di sopravvivere. Si aggrappano tutti alla vita, anche quelli a cui resta solo mezzo cervello e senza una gamba. Nessuno vuole morire».

Mona con i dolori alle ossa, piegata dalla stanchezza, stufa dei soprusi dentro e fuori dall’ospedale, incrocia gli occhi di Adam, soldato che ha appena perso la gamba.

Comincia così una narrazione alternata tra presente e passato. Della nostra infermiera cominciamo a conoscere l’infanzia, traumatica e ingiusta.  Ripercorriamo le bugie, i drammi, la solitudine che hanno cambiato per sempre Mona. La guardiamo diventare adolescente e poi diventare moglie e madre. Errori, rimpianti conditi da apatia e nervosismo. Quanto avrei voluto abbracciare questa bambina costretta a dormire con la luce di notte per non rivivere l’incubo della prigionia.

Ed eccola lì, tra quattro pareti non murate. La stanza – ma poteva chiamarsi stanza? – era completamente buia, senza finestre. Alzandosi in piedi Mona toccava con la testa la botola da cui una volta al giorno riceveva una ciotola di riso e consegnava il recipiente con gli escrementi

Mona - Bianca Bellova - Miraggi edizioni

Ma la storia di Adam non è più facile: i primi amori, le amicizie, quella spensieratezza destinata a non durare  per l’arrivo della guerra. Che cos’hanno in comune Mona e Adam? La dignità. Mentre il mondo fuori viene inghiottito dalla violenza, quella della Guerra, quella dell’oppressione nei confronti delle donne, ecco che loro due conservano la forza dei principi. Fedeli a sé stessi daranno vita un legame in grado di superare ogni orrore.

Bellovà con poche ma precise pennellate ci trascina in una storia che dimostra non solo l’insensatezza della guerra, ma anche la violenza di cui siamo capaci in quanto esseri umani.

Esistono molti tipi di umiliazione, Mona ne conosce a migliaia, per sentito dire e per esperienza diretta. Gli uomini che incrociandola per strada fanno schioccare la lingua. L’impiegato della banca che ticchetta impaziente con la matita sullo sportello, senza prendersi la briga di aprir bocca, quando Mona si attarda troppo a cercare un documento. Gli inopportuni palpeggiamenti sull’autobus. Gli infiniti parlottii, essere chiamata puttana quando esce con la testa scoperta.

Se da una parte siamo invasi da amarezza, sdegno e disgusto, dall’altra Bellovà è in grado di commuoverci, regalando un finale delicato e inaspettato.Uccidi il gallo che in eterno scaccia la notte,Uccidi il gallo che chiama il giorno:dondoliamoci sulle onde del buiofino all’orlo dell’eternità.

Mona è…

Struggente. Ho amato tutto di questo romanzo ma non ho dato cinque stelle perché avrei voluto durasse di più. Ho bisogno di stare ancora in compagnia di Mona e Adam.

In queste settimane sono molte le persone che mi hanno detto di non riuscire a leggere per via del conflitto tra Russia e Ucraina. Comprendo perfettamente, ricordo anche che durante le quarantene molte persone non riuscivano a dedicarsi ai libri. Eppure oggi vi consiglio spassionatamente questo libro perché certo non distrae ma colpisce e ci costringe a calarci in una realtà vicina e spaventosa con un trasporto emotivo che forse prima non avremmo avuto.

Mona per reggersi in piedi beve molta acqua e tè verde. Questa è una guerra, le ripete l’inconscio fino alla nausea, la guerra e così, li porteranno qui finché laggiù ci sarà ancora qualcuno, in prima linea, nelle trincee, tra i fili spinati… Non ha idea di come sia davvero il fronte, le fotografie delle battaglie sono sottoposte a censura e chiedere ai moribondi le sembra senza senso.
Il letto di Adam è per lei l’unico rifugio dall’incessante flusso di uomini sofferenti.

QUI l’articolo originale:

I Tedeschi – recensione di Cristina Mosca su Amantideilibri.it

I Tedeschi – recensione di Cristina Mosca su Amantideilibri.it

“I Tedeschi” è un libro meraviglioso. Scritto nel 2012 da Jakuba Katalpa e tradotto da Alessandro De Vito, è stato pubblicato nel 2019 da Miraggi nella collana “NováVlna” dedicata alla letteratura ceca. L’autrice è classe 1979 e con questo romanzo ha ricevuto tantissimi riscontri di pubblico e di concorsi letterari del suo Paese. Costa 24 euro e se vi sembrano tanti sappiate che ne vale molti di più.

Trama

Dopo la morte di suo padre, la protagonista cerca di ricostruire il passato di sua nonna biologica. Cosa l’ha spinta ad abbandonare suo figlio a Praga e tornare in Germania, cercando poi di coltivare un rapporto inviando caramelle per anni?

Si trova costretta a vagare in un presente senza memoria. Mentre la voce narrante si dà da fare per archivi, parrocchie e biblioteche, assistiamo allo scorrere della storia di Klara, in terza persona, in un periodo in cui la Cecoslovacchia era sotto il protettorato del Reich. Cosa è significato essere tedeschi “veri” in un posto in cui essere tedeschi era obbligatorio? Trovarsi a fare da spia e da collante nello stesso momento? Cosa è significato essere sole?

Recensione

Se non fosse stato per il gruppo di lettura della libreria “On the road” non avrei mai, mai preso in considerazione di leggere un’autrice ceca. La letteratura dell’Est per me ha un fascino ai minimi termini, forse nullo. Parafrasando una citazione famosa: non leggo autori che non so pronunciare.

“I Tedeschi” è tante cose. È la nostalgia, la rabbia, la malinconia. È l’impotenza, il segreto, la libertà.

“A volte sognavamo che un giorno la nonna avrebbe ripreso piena coscienza, guarita e con una memoria perfetta, e ci avrebbe raccontato tutto quello che volevamo sapere. Non ci passava neanche per la testa che i suoi segreti li avrebbe voluti preservare, che avrebbe potuto rannicchiarsi intorno a essi, circondarli con le braccia e non lasciarci passare; che non avrebbe voluto condividere.

Con un retrogusto amaro, sentivamo che la sua appartenenza alla nostra famiglia ci desse il diritto di insinuarci nel suo passato”https://dfb2d31e33a485bd6ae456cdb62e9790.safeframe.googlesyndication.com/safeframe/1-0-38/html/container.html

Ne “I Tedeschi” il tempo si spalanca. Ogni persona è un incrocio di storie: la propria, la Storia e quella di Klara. È una narrativa per ingrandimenti, che può disorientare. Soprattutto nella seconda metà, il lettore può chiedersi se una certa digressione è veramente necessaria, se non sarebbe meglio procedere con l’azione. Inoltre non tutti i dialoghi sono cristallini, non si capisce sempre chi parla a chi.

“Mi ha colpita un dolore risalente a quasi sessant’anni fa, e stavolta non è il solo dolore di mio padre, tante volte declamato e sofferto con una certa solennità, è qualcosa di ancora diverso a rodermi dentro, un’incertezza e una pena, scoprire che tra verità e menzogna c’è un confine così labile che lo si può rimuovere con un semplice gesto della mano, con un battito di ciglia”.https://dfb2d31e33a485bd6ae456cdb62e9790.safeframe.googlesyndication.com/safeframe/1-0-38/html/container.html

Ma la verità è che anche le digressioni sono ricche di azione, e lo stile della Katalpa è così coinvolgente che queste piccole perplessità si trasformano in sabbia, non contano più nulla. Resta la grandezza di un romanzo profondo, ricco, carico di saggezza e rassegnazione.

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Romanzo senti/mentale – recensione di Mina Patrizia Paciello su Mangialibri

Romanzo senti/mentale – recensione di Mina Patrizia Paciello su Mangialibri

Eda è ad una festa di cinquecento persone quando d’un tratto si sente chiamare. Un uomo è caduto giù dalle scale ed è morto. Da uno squarcio invisibile del suo corpo sta sgorgando del sangue che si sparge sul parquet. Alcuni invitati non si sono accorti di nulla e continuano a ballare il valzer ma, all’arrivo del medico, si accalcano tutti intorno all’uomo. Era un venditore che proveniva dalla Moravia del Nord e aveva alzato un po’ troppo il gomito. Bisognerà avvisare la moglie prima che la notizia faccia il giro dei giornali e la responsabile della comunicazione decide che sarà proprio Eda ad andare a comunicarglielo. Lui prova a immaginare come reagirà la donna alla notizia e gli torna in mente l’altra volta che ha dovuto portare la notizia della morte di Eliska a sua madre… Nina è tornata nella sua casa d’infanzia per il funerale della mamma. Il signor Antos del piano di sopra suona ancora come quindici anni prima il suo clarinetto. Nina pensa che qualcuno dovrebbe dirglielo che non ha fatto progressi e che la solita routine (tre composizioni, rimozione dell’ancia, pulizia del clarinetto, tossetta e cena) è sempre più insopportabile. Gli armadi sono stracolmi di vestiti che come i copriletti, le lenzuola e le tende sono coperti di larve di tarma. Fa un gran freddo, c’è odore di chiuso e di piscio di gatto e prima di buttare via ogni cosa lei si fa prendere dai ricordi in quella casa con i genitori e la sorella Eliska, con la quale è sempre stata in competizione. In mezzo a loro tante figure ma due di loro, Eliska e il padre di Eda, decisamente disturbanti…

La vicenda si svolge nell’arco di 24 ore. Due persone – Eda e Nina – alternano la loro voce ad ogni paragrafo. Lui è messaggero di brutte notizie, lei deve mettere ordine in un’eredità. Sono uniti nel passato da memorie di esperienze condivise che però ognuno interpreta a modo suo. Un racconto che diventa il mezzo per scendere nel loro personale inferno, l’inferno dei segreti di famiglia che porta con sé la perdita dell’innocenza, nella vita di chi è cresciuto alla fine del regime cecoslovacco. Un’intersezione di voci su una struttura narrativa che si regge in equilibro perfetto. Libro d’esordio di Bianca Bellová, ma sua terza opera uscita in Italia, Romanzo senti/mentale rivela già l’impronta di una delle voci più interessanti del panorama letterario ceco. Nel romanzo si scoprono i temi cari alla scrittrice: infanzia perduta, condizione femminile, legami familiari, solo per citarne alcuni che sono tenuti insieme dalla sua scrittura con una maestria ben riconoscibile. Una voce potente in un gran bel racconto.

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Romanzo senti/mentale – recensione di Lia Amen su Una banda di cefali

Romanzo senti/mentale – recensione di Lia Amen su Una banda di cefali

Anche se solo inconsciamente, ho sempre saputo che sarebbe finita così. Dopo tutti gli anni di “non toccare quella tazza!”, “meglio lasciarla sullo scaffale”, “è l’ultimo ricordo di Eliška”, “questa non la diamo nemmeno agli ospiti”, era chiaro che prima o poi si sarebbe rotta. Ora giace qui davanti a me, raro design degli anni Settanta con un astratto disegno a fiori arancione, spaccata in mille pezzi, alcuni ancora oscillano sul pavimento con aria di sfida, sembrano ammiccarmi in modo ambiguo: “Tanto lo sapevamo che sarebbe finita così”.

Che rumore fa una tazza che, cadendo, si infrange in mille pezzi? La traccia fragile di un passato che non può tornare ma che non possiamo nemmeno cancellare. Si moltiplica, divenendo altro da sé, ma conserva la complessità della sua natura. Si sgretola, fino ad assumere una forma multisfaccettata della sua primordiale realtà, si riduce in una miriade di frammenti, che confondono la vista e trasfigurano l’idea dell’oggetto. Sono così, a volte, i rapporti umani e quelli che dovrebbero circonfondere l’individuo, per garantirgli la sicurezza affettiva utile ad affrontare il mondo di fuori, che inizia al di là del rifugio che ci accoglie quando giungiamo al mondo. La penna di Bianca Bellová, autrice ceca di origini bulgare apprezzata sia nel suo Paese che all’estero, si è  mostrata da sempre assai abile nei rapporti già guasti all’origine, nella funesta interferenza della famiglia nelle dinamiche relazionali, nella sua intrusione rovinosa nell’età dell’innocenza, nella sua azione distruttiva di qualsiasi confortante idea di “passato”. L’autrice ha guadagnato importanti riconoscimenti (Premio Unione Europea per la Letteratura e Magnesia Litera) e ha raggiunto un pubblico più ampio nel 2016, con la pubblicazione del romanzo Jezero, che la casa editrice Miraggi ha pubblicato con la traduzione di Laura Angeloni (Il lago 2018), consentendo ai lettori italiani di conoscere una delle voci più affermate della letteratura ceca contemporanea. Ad approfondire questa preziosa conoscenza, si sono aggiunte le pubblicazioni del romanzo Mona (2020) e, in ultimo, di Romanzo senti/mentale che, anche se apparso a ottobre 2021 nella sua prima traduzione all’estero, rappresenta l’esordio della Bellová. Questi titoli, insieme a quelli di altri scrittori (drammaturghi, sceneggiatori, contemporanei e non) vanno a nutrire una collana interessante e necessaria che gli editori di Miraggi hanno intitolato “Nova Vlna”, a ricordare il movimento cinematografico cecoslovacco degli anni ’60 del Novecento.

Romanzo senti/mentale (Senti/mentální román 2009) contiene già quegli argomenti che l’autrice approfondirà nei lavori successivi in maniera più matura, ma anche più misurata. Perciò, la lettura del romanzo d’esordio, oltre che per la storia in sé e per la particolare struttura che lo sostiene, risulta interessante per scorgervi tutto il coraggio e la spregiudicatezza che vengono espressi mediante un realismo che non cede a esitazioni neanche di fronte a scene particolarmente violente e scabrose, e che potranno risultare inattese se confrontate alla delicatezza espressa altrove.

Al centro del romanzo e della ricerca portata avanti dalla scrittrice vi sono i rapporti difficili o irrisolti, in particolare quelli familiari, che inducono i protagonisti a intraprendere un viaggio – talvolta anche propriamente fisico – sui luoghi d’infanzia, attraverso i ricordi di un’epoca non sempre idealizzata, nel tentativo di afferrare il senso di una perdita o di colmare un vuoto, o di giungere a una qualche possibilità di comunicazione che però difficilmente avviene.

Eda è investito suo malgrado del ruolo di angelo della morte: durante una festa aziendale un uomo ubriaco precipita da una grande scalinata e rimane a terra senza vita: l’espressione sorpresa, gli occhi sbarrati, la camicia dello smoking immacolata e una macchia di sangue che si allarga sul parquet. Tra i cinquecento presenti, lui viene incaricato di raggiungere la vedova dello sconosciuto e di darle la tragica notizia. Lo attende un lungo viaggio, attraverso una notte fredda e piovosa, in compagnia di sonno e stanchezza e di una serie di ricordi che emergono da un passato tormentoso.

Nina torna nella casa di famiglia che non abita più da quindici anni. La casa è piena dell’assenza della madre – della cui morte dovrà farsi messaggera fino al padre ormai ricoverato e assente a se stesso – e soprattutto è piena dell’assenza della sorella Eliška, presenza ingombrante nella sua infanzia, nella sua adolescenza e nella sua memoria. Nel tentativo di liberare la casa dai ricordi, tra oggetti guasti, oggetti intoccabili e altri dimenticati, si solleva un’intera vita come un’ombra, a proseguire la sua opera di tormento. Le vite di Eda e Nina si intrecciano nel nome di Eliška.

Gli occhi del lettore scorrono, riga dopo riga, pagina dopo pagina, sulle esistenze di Eda e Nina e sulle loro voci, che si alternano regolarmente, includendo altri personaggi e ampliando lo spettro dell’incomunicabilità. Dalle pagine si scende nelle profondità dei loro segreti e dei sensi di colpa inconfessabili, nei dubbi perpetui. Man mano che riaffiorano i ricordi, per il tonfo di un oggetto che cade, per l’improvviso addensarsi del cielo, per una voce che spezza, riemergono anche paure, incertezze, gelosie laceranti, scene traumatiche e indelebili, vuoti che riempiono gli animi a distanza di tempo, che i chilometri e gli anni non hanno saputo annientare del tutto. Il peso del lutto, che mentre schiaccia i protagonisti sembra conferire loro allo stesso tempo l’impulso ad alzarsi e a scrollarsi di dosso il passato, è raccontato da Bianca Bellová attraverso un ritmo estremamente calibrato, che ci conduce alla conclusione del racconto senza balzi improvvisi, nonostante la crescente drammaticità del filo narrativo. La dimensione familiare è una trappola da cui Eda e Nina non riescono a liberarsi.

La parola di Bianca Bellová si attacca alle cose come la polvere sugli oggetti vecchi tanto che riusciamo quasi a sentirne l’odore. E sui personaggi agisce come lo scandaglio negli abissi, cosicché questi sono d’un tratto davanti a noi, con tutte le debolezze degli esseri umani e con la loro precisa storia e la difficoltà che hanno a raccontarla. Loro sono davanti a noi e noi  siamo dentro di loro.
Forse il romanzo di Bianca Bellová non è “sentimentale” come suggerisce il titolo – che però già lancia un indizio con quel segno che divide: senti/mentale – ma la sua scrittura suscita forti emozioni e per questo non si lascia dimenticare.

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Il bruciacadaveri – recensione di Alessandra Fontana su La lettrice controcorrente

Il bruciacadaveri – recensione di Alessandra Fontana su La lettrice controcorrente

La trama

Praga, 1938-39. La storia del Novecento marcia a passo forzato verso uno dei suoi momenti più critici: il magniloquente Nuovo Ordine nazista, la guerra imminente, la “questione ebraica”, le persecuzioni pianificate, l’invasione dell’Europa. Chi è il signor Kopfrkingl, protagonista di questa storia nera praghese? Un tenero, sdolcinato padre di famiglia, impiegato al crematorio, un uomo che sorride sempre. Sì, in apparenza. Interiormente, invece, è una marionetta dall’animo monodimensionale, dalla volontà larvale, dalla morale astratta e limitata, che vede tutto e tutti come stereotipi. Un uomo intimamente servile per cui il bene è indifferentemente cura e sterminio, felicità e olocausto, la cui idea di paradiso in terra condanna gli altri all’inferno. Lo stile ossessivo e preciso di Fuks sottolinea perfettamente questo aspetto e gli è funzionale. Il bruciacadaveri procede come una partitura con il frequente contrappunto di ripetizioni di nomi e intere espressioni. Lo sguardo alienato e distorto del protagonista, con tracce di macabro divertimento, amalgama un testo di cui si può apprezzare la struttura profonda e la caleidoscopica creatività. Postfazione di Alessandro Catalano.

Attuale

Il bruciacadaveri  di Ladislav Fuks (Miraggi edizioni) è una lettura difficile da raccontare. Un racconto disturbante, dai contorni sfumati come in un sogno, o meglio, in incubo.

Ho comprato questo libro nel 2019 e ha atteso fino a poche settimane fa in libreria (fa parte della sfida dello scaffale strabordante) e sono contenta di averlo letto ma sono sincera: senza la postfazione a cura di Alessandro Catalano, non avrei mai colto la bellezza e la profondità del testo, che non è sempre di facile comprensione.

Il protagonista è Karel Kopfrkingl: odioso, repellente e contraddittorio. Non sopporterete quest’uomo e tutto quello che rappresenta.  Innamorato della moglie in maniera ossessiva, lavora in un crematorio. Ovviamente il suo non è un lavoro come gli altri ma una vera e propria missione.

Ossessionato dalla morte non fa altro che ricercarla tra gli articoli di giornale, tra gli sguardi nel mondo, tra le bare pronte ad essere bruciate. La polvere deve tornare polvere, questa è verità assoluta.

La sepoltura mediante cremazione è assolutamente sicura, e libera chiunque, in modo definitivo, dal timore di ritornare in vita.

Grottesco a ambiguo, si muove in un mondo in cui i personaggi sono trascurabili, quasi finti. Il bruciacadaveri  viene scritto (e letto) con gli occhi del protagonista: le ripetizioni, i rituali, la maniacalità, tutto contribuisce a costruire un quadro inquietante e grottesco.

Siamo a Praga a cavallo tra 1938 e il 39, noi leggiamo questo libro con il senno di poi. E la contraddizione di Karel è quella che ci stranisce. Marito premuroso ma ipocrita, continuerà a farsi visitare da un dottore per paura delle malattie veneree, è un fanatico travestito da mediocre. Un simbolo dell’orrore più buio della storia del Novecento.

La follia collettiva, l’indifferenza, la banalità del male… Il bruciacadaveri racchiude i grandi temi con cui molti scrittori si sono misurati, ma Fuks lo fa in maniera inedita, creativa, inquietante  sì, ma a tratti anche divertente.

Dopo cena il signor Kopfrkingl baciò la sua celeste e disse:

«Vieni, ineffabile, prima di spogliarci, prepariamo la stanza da bagno.»

E prese una sedia e andarono, la gatta li guardava.

«Fa caldo qui, » disse il signor Kopfrkingl nel bagno, e mise la sedia sotto il ventilatore, «forse ho esagerato con il riscaldamento. Accendi il ventilatore, cara.»

Quando Lakmé salì sulla sedia, il signor Kopfrkingl le accarezzò il polpaccio, le gettò il cappio al collo e con un tenero sorriso le disse:

«E se ti impiccassi, cara?»

Lei gli sorrise dall’alto, forse non aveva capito bene le sue parole, anche lui sorrise, calciò via la sedia ed ecco fatto.

Le cose si complicheranno quando l’antisemitismo entrerà nelle vite dei protagonisti del romanzo, tra promesse di promozione, scelte, dolori… e adesso sarei crudele io a raccontarvi di più.

Il bruciacadaveri è…

Attuale, in maniera sconcertante. C’è una frase che i personaggi ripetono spesso durante la lettura ed è questa:

La violenza non paga per nessuno. Con essa si può tirare avanti solo per un breve periodo, ma non si può scrivere la storia. Viviamo in un mondo civilizzato, in Europa, nel Ventesimo secolo.

Forse è anche quello che ci ripetiamo noi quando leggiamo alcune notizie sul giornale come i protagonisti de Il bruciacadaveri, forse è quello che speriamo quando il clima di odio intorno a noi si fa insopportabile, forse è la scusa per non intervenire quando vediamo la violenza.

Il bruciacadaveri è sicuramente un libro di grande spessore e sono contenta che Miraggi sia riuscita a ripubblicarlo. Un romanzo che dovrebbero leggere tutti, perché è facile dimenticare, difficile prendere una posizione diversa.

Sono sincera però, pensavo che avrei fatto meno fatica ad entrare nella storia e invece non riuscivo ad orientarmi, spesso perdevo il filo. Benedette siano le analisi degli esperti quando ci si trova di fronti a testi importanti.

Consigliato per chi vuole leggere qualcosa di diverso su un tema letto e riletto. Per chi è in cerca di una storia particolare, angosciante e stridente. Il ricordo del protagonista sorridente e malvagio non vi lascerà in pace molto presto.

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Il lago – recensione su Letture in viaggio

Il lago – recensione su Letture in viaggio

Boros, un villaggio affacciato su un lago inquinato e senza nome, si vive principalmente di pesca. Mani, il protagonista, abita con i nonni materni, non sa chi sia il padre e ricorda solo vagamente la madre. Ha tre anni quando lo incontriamo per la prima volta ed è un giovane uomo quando infine, dopo un lungo peregrinare attraverso esperienze difficili e toccanti, torna al paese d’origine.

La sua infanzia spensierata finisce quando anche la nonna lo lascia, costretta dalla comunità del villaggio, guidata dal presidente del kolchoz, a consegnarsi allo Spirito del Lago su una chiatta senza remi. Da quel momento gli eventi precipitano e lui deve provare a sopravvivere in ambienti sempre più tossici, aggrappandosi a pochi brevi momenti di felicità.

La storia di Nami è un racconto di formazione dal sapore universale, perché oltre a essere fuori dal tempo e dallo spazio, ricalca il mitico viaggio dell’eroe, un viaggio che l’autrice, Bianca Bellová, suddivide in quattro capitoli — Uovo, Larva, Crisalide, Imago —, affidando la narrazione in terza persona a una successione di episodi quasi sempre amari e dolorosi.

Il lago è l’altro grande protagonista del romanzo; uno specchio d’acqua inquinato, che gradualmente si ritira, le cui acque provocano eczemi e altri disturbi e il cui Spirito, secondo la gente del villaggio, deve essere nutrito affinché si pacifichi.

Ormai le barche sono così lontane dal molo originario che nella striscia tra il segno dell’alta marea e lo stesso molo i bambini hanno fatto un campo da calcio. È un po’ in pendenza, quindi ad ogni passaggio la palla rotola verso il lago. Dal campo si solleva la polvere e ogni tanto qualche gamba sprofonda nella crosta dura del sedimento. Il molo di cemento, coperto di alghe imputridite, emerge direttamente dalla sabbia incrostata e dal fango, sotto le bitte di ferro sono sparsi i rifiuti.

IL LAGO, BIANCA BELLOVÁ

Bellová non si spinge a fondo nell’analisi del protagonista e degli altri personaggi, né ci consegna un finale chiaro e rassicurante. Lascia a noi il compito di interpretare i sentimenti e le ragioni di Nami e dare un senso all’epilogo.

La scrittura è disadorna, caratterizzata da frasi brevi e dall’uso del presente, che accentua l’atemporalità del racconto e pungola l’interesse di chi legge. I principali temi affrontati da Bellová sono la ricerca dell’identità e il rapporto dell’uomo con la natura, una relazione da cui quest’ultima esce sconfitta, ma che ne Il Lago tenta di riprendersi quanto le viene tolto.

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L’ambientazione

“Su entrambi i lati della via polverosa che risale la collina sopra il porto sorgono le casupole dei pescatori, alla fine della via ci sono un chiosco con le aringhe e un altro con i semi di girasoli. D’estate arriva anche un venditore di zucchero filato che prende in affitto tutta la vecchia birreria in fondo alla strada. Sono case in muratura, solide, di solito a un piano solo, giusto un paio — compresa quella in cui Nami vive con la nonna — hanno due piani. La chiamano Via dei Pescatori e in sostanza è il cuore del paese.
A ovest della Via dei pescatori si trovano gli edifici adibiti a policlinico, casa della cultura, posta e scuola, e le case degli altri abitanti, costruite senza un chiaro progetto urbanistico. Non ci passano strade in mezzo, le costruzioni emergono dalla superficie in modo casuale, spesso a sorpresa. Ad est c’è il complesso residenziale per gli ingegneri russi, con la meravigliosa piazza e il monumento allo Statista, più oltre verso il bosco che indietreggia sempre più in favore delle case, si trova la caserma.”

IL LAGO, BIANCA BELLOVÁ

Nami cresce in un villaggio fittizio e in un periodo storico imprecisato (la mia testa l’ha collocato tra gli anni ‘80 e la fine degli anni ‘90). Sappiamo solo che il territorio è sottoposto al controllo dei russi e che il lago è inquinato e ospita un’isola dove sono stati condotti pericolosi esperimenti biologici.

Il pensiero va quindi al tristemente famoso lago d’Aral, situato tra Kazakistan e Uzbekistan. Sulla sua storia ti consiglio l’ascolto di Il lago che era, una delle puntate della seconda stagione di Cemento, il podcast di Eleonora Sacco e Angelo Zinna (fra i più interessanti in circolazione).

I luoghi del romanzo, desolanti quanto le vicende narrate, sono descritti dal punto di vista di Nami, che cambia con lui. Leggendo, li immaginavo poveri e spogli, fatti di terra e cemento, circondati da una natura maltrattata e matrigna. Compare anche una città, quella dove il protagonista inizia il viaggio alla ricerca di se stesso (e della madre).

Se dovesse descrivere la città, Nami non saprebbe da dove iniziare. I palazzi sono così alti che Nami tende istintivamente a farsi piccolo e i suoi occhi cercano di continuo l’orizzonte. L’aria è piena di clacson che strombazzano, di marmitte che scoppiettano e grida. Una donna rimprovera ad alta voce un bambino che piange. Si sente odore di escrementi, ma anche di profumi dolci e di grasso di frittura. In aria svolazzano fogli sporchi e polvere. Le persone hanno un aspetto un po’ diverso: gli occhi sono più luccicanti, luminosi, e si muovono più velocemente. Anche i cani vagabondi sembra vadano più in fretta. I muri sono coperti di vari strati di manifesti colorati. In basso si staccano, raccogliendo la polvere nell’aria.

IL LAGO, BIANCA BELLOVÁ

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Te lo consiglio se

Capisco bene cosa intendeva Laura Angeloni, la traduttrice, quando ha scritto “Nami è così, te ne innamori ancora prima di conoscere la sua storia“. Anche io mi sono affezionata a Nami fin dalle prime pagine. Credo abbia colpito (e affondato, aggiungerei) quel lato di me che desidera proteggere, aiutare e guidare e si riconosce nel viaggio dell’eroe. Te lo consiglio se sei pronta/o a immergerti in un mondo spesso brutale, cupo e incolore, dove la tenerezza e la speranza sono merci rare.

Il lago è il quarto libro della scrittrice ceca Bianca Bellová. In Italia è stato pubblicato nel 2018 da Miraggi Edizioni. Ha vinto due premi: il Premio Unione Europea per la Letteratura e il Premio Magnesia Litera. Per approfondirne la conoscenza, ti suggerisco la lettura dell’intervista di Martina Mecco di Est/ranei all’autrice.

QUI l’articolo originale:

Romanzo senti/mentale – recensione di Maria Caterina Prezioso su Satisfiction

Romanzo senti/mentale – recensione di Maria Caterina Prezioso su Satisfiction

Tuffarsi nel mondo di Bianca Bellová è una esperienza sensoriale a suo modo unica. Classe 1970, la scrittrice è una delle voci femminili più significative della Repubblica Ceca.

Grazie a Miraggi edizioni, nella collana diretta da Alessandro De Vito, arriva al lettore italiano questa narrazione assordante. Perché, se si potesse paragonare a un elemento, la scrittura della Bellová è acqua. Acqua di lago, pioggia incessante, non fa differenza, basta saper ascoltare e si sente il rumore dell’acqua.

È il suo romanzo di esordio Romanzo senti/mentale, che Miraggi pubblica dopo averci fatto conoscere di lei i successi internazionali Il lago e Mona. Eppure la scrittura già forte e distinta ne è la voce.

Ebbene, tuffandosi in questi abissi incontriamo Eda e Nina, le voci narranti di Eliška: di Nina la sorella, di Eda l’amore. In realtà sono tutti affascinati da Eliška e lo siamo anche noi dal primo istante, dalla sua prima entrata in scena. Nonostante siano trascorsi quindici anni da quando Eliška si è chiusa il sipario alle spalle, nessuno pare averla dimenticata anzi, il passare del tempo fa di lei ancora di più un personaggio centrale della vita e nella vita degli altri.

Estremamente interessante è il gioco di alternare le due voci nel corso della narrazione, che pare svolgersi nell’arco di un giorno, forse due. In parallelo siamo scaraventati indietro nel tempo quando, ancora bambini, Eda, Eliška e Nina si sono incontrati per non lasciarsi mai più.

Ancora più potenti sono poi le figure genitoriali in particolare modo i padri. Forse non è un caso che la Bellová dedichi il romanzo al papà.

Nella finzione il padre di Nina e Eliška è cosparso da una luce che “è come attraversata da una specie di nebbia”, un padre lontano con la testa altrove. Il padre di Eda invece “è un personaggio di un certo calibro. Non ho solo ricordi brutti di lui”. Un padre fisico, fin troppo, con la sua percezione rocciosa che diventa violenza sulla donna. Ambedue, per motivi diversi, diversissimi, incapaci di amare la voce femminile che ne è la compagna.

Il presente si fa ricordo. Eda e Nina hanno in comune un passato che diventa, per una strana casualità, di nuovo presente. Finalmente insieme, di nuovo. Un nuovo dove forse potrebbe trovare spazio non solo il ricordo di Eliška, ma anche la possibilità di ricominciare, di crescere e diventare davvero adulti. Oppure no. Perché né Eda né Nina hanno previsto una variante che manda all’aria tutte le possibilità: “il senso di colpa”.

Come scrive Angelo Di Liberto nella prefazione: “non si può scappare dalla volontà della colpa, ha memoria antica, si può solo desiderare di dormire per dimenticare”.

Ci sono i diari di Eliška che Nina cerca, ci sono gli sguardi del non detto, c’è l’arte e la capacità dell’arte di ri-generarsi e poi c’è quello sguardo “accompagnato da un sorriso di labbra e occhi, e poi gli occhi si abbassano. E poi la colpa. Dall’alba dei secoli quello è lo sguardo che si riserva agli amanti”.

Romanzo senti/mentale che sentimentale non è, lascia il segno e il rumore dell’acqua si fa più forte nonostante tutto.

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Il lago – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Il lago – recensione su Progetto Repubblica Ceca

“NováVlna” è una nuova collana italiana di letteratura ceca, il cui nome è ispirato alla “Nouvelle vague” cinematografica ceca ai tempi della Primavera di Praga. I primi due libri pubblicati nella collana sono stati: “Volevo uccidere J.-L Godard”, di Jan Němec, e “Il Lago” di Bianca Bellová. “Il lago” è un vero e proprio capolavoro che fa da cornice alle vicende di Nami, il protagonista: un bambino che non ha nulla e che, diventando uomo, deve trovare la propria strada nel mondo. La storia è ambientata in un villaggio di un paese dell’ex blocco sovietico; un villaggio che vive di pesca, ma all’improvviso i pesci muoiono, il lago si riduce e i pescatori e la gente del luogo soccombono. Il lago d’Aral, che è facile riconoscere nel racconto, non viene però mai menzionato lasciando così il lettore nel dubbio su dove la storia sia veramente ambientata. Nami, una volta rimasto solo, partirà per la capitale dove farà i lavori più disparati e andrà incontro alle bestialità umane legate alla metropoli e al progresso. Poi tornerà a casa perché, forse, per poter trovare bisogna sempre tornare anche indietro.

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Il bruciacadaveri – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Il bruciacadaveri – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Una nuova edizione di un classico. Questa storia è ambientata in uno dei periodi più tragici del Novecento, quello dominato dal nazismo con la guerra imminente, la “questione ebraica”, le persecuzioni pianificate e l’invasione dell’Europa. Il protagonista, il signor Kopfkringl, è un tenero e sdolcinato padre di famiglia, un uomo che sorride sempre. Tutto ciò, però, solo in apparenza, perché interiormente è invece una marionetta dall’animo monodimensionale, dalla morale astratta e limitata, che vede tutto e tutti in modo stereotipato. Un uomo intimamente servile per cui il bene è indifferentemente cura e sterminio, felicità e olocausto, la cui idea di paradiso in terra condanna gli altri all’inferno.Forse ha un senso ulteriore riproporre oggi questa figura di “volenteroso carnefice”, che accoglie in sé gli ordini con leggerezza e conseguenze paradossali. Sebbene alcuni fantasmi sembrino appartenere solo al passato, sappiamo che nulla può essere dato per scontato, che l’angusto abisso del signor Kopfrkingl non si è richiuso per sempre con la fine delle ideologie, e che far finta di niente potrebbe farci precipitarci nuovamente in esso.

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Chiedi a papà – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Chiedi a papà – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Esce la traduzione italiana del libro “Chiedi a papà” di Jan Balabán. Dal titolo traspare un’amara ironia perché “chiedere a papà come siano andate realmente le cose non è più possibile”. Dopo la morte del medico Jan Nedoma, letteralmente tradotto “senza casa”, i figli Hans, Emil e Katerina insieme alla madre devono far fronte non solo al lutto, ma anche alle accuse inflitte di presunta complicità con le autorità comuniste e di corruzione mosse contro il padre da quello che un tempo era il suo migliore amico. “Chiedi a papà” è un libro che affronta temi sul senso, sulla qualità e sul percorso della vita umana, sui rapporti familiari, sulla malattia e sulla morte, ma anche su quello che si incontra dopo. Balabán riesce a descrivere in modo estremamente preciso l’aspetto tragico del destino individuale che inevitabilmente tende al suo punto finale. L’autore si pone diverse domande: non è forse vero che è dalla nascita che si comincia a morire? Chi siamo e che cosa facciamo nel frattempo?

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Grand Hotel – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Grand Hotel – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Vincitore nel 2007 del premio letterario ceco Magnesia Litera, “Grand Hotel. Romanzo sopra le nuvole” racconta la vicenda surreale di un ragazzo stritolato dalle difficoltà di una vita a ostacoli, ma che sa comprendere le nuvole, le alte e le basse pressioni e i misteri dei venti. Fleischman, il personaggio principale è un trentenne solitario, rimasto orfano da ragazzino. La sua vita è un fallimento. Non è mai riuscito in nulla. Non ha mai neppure lasciato la sua città, Liberec, nei Sudeti, al confine ceco-tedesco. La sua vita è un diagramma in cui annota il tempo atmosferico e lo scorrere del tempo. Fleischman, che non conosce nemmeno il suo nome proprio, è il tuttofare del Grand hotel di Ještěd, l’avveniristico e gigantesco hotel a forma di astronave che sovrasta la città. In questo luogo, sospeso tra la terra e il cielo, si rende conto che troverà una via d’uscita dalla sua città e dalla sua stessa vita solo attraverso le nuvole, ma nei suoi piani irrompe la cameriera Ilja, che un giorno arriva come un’apparizione alla reception dell’hotel.

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