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DI SANGUE E DI FERRO – intervista a Luca Quarin di Iuri Lombardi su YAWP

DI SANGUE E DI FERRO – intervista a Luca Quarin di Iuri Lombardi su YAWP

Luca Quarin, Di sangue e di ferro, l’interrogatore della storia

Sono i fatti a nascondere la verità storica e forse, senza tanti preamboli, possiamo affermare che la verità sta ai margini dove il messaggero addetto al racconto e all’epica racconta ciò che non è narrabile. Lo scrittore dice infatti la verità mentendo, attraverso l’uso della menzogna.

A parlarci di questo, in piena libertà, è Luca Quarin, autore friulano, da sempre narratore di verità scomode che molto chiaro ha il ruolo dello scrittore: il privilegiato della narrazione.

L’occasione dell’intervista che segue, che vuole essere una conversazione senza pretese tra di noi, è motivo di poter discutere del suo ultimo romanzo Di sangue e di ferro (Miraggi Edizioni, 2020) https://www.miraggiedizioni.it/prodotto/di-ferro-e-di-sangue/, una storia particolare sul destino della nostra Italia, un viaggio tra i misteri, su ciò che non si può dire o semplicemente riferire.

Luca che da sempre si occupa come narratore di questo, già conosciuto come scrittore di racconti e al pubblico con il suo precedente romanzo Il battito oscuro del mondo ( Autori Riuniti, 2017), e attraverso le pagine della sua ultima fatica letteraria si incorona lui stesso mediante la tecnica della finta-fiction.

Il narratore di fatto facendo narrazione, sviluppando una certa epica nei fatti che racconta, diventa un cronista estraneo alla storia e adottando un comportamento distaccato in lei si immedesima, si inabissa come in un oceano.

Che cosa è la letteratura? Cosa la storia? L’interrogativo forse non trova risposta. E allora forse possiamo solo soffermarci a fare supposizioni, a teorizzare sull’impossibile come Quarin ci suggerisce.

Intervista a cura di Iuri Lombardi

YAWP: “Di Sangue e di Ferro è un romanzo sulla storia nera d’Italia, in particolare vista dal Friuli, apparentemente una terra di confine, ricca di storia, linguisticamente interessante ma che pare nascondere qualcosa. Ci potresti raccontare come nasce questa idea e soprattutto quale è stato il ruolo del Friuli nella storia d’Italia?”

LUCA QUARIN : “Per quanto riguarda il Friuli direi che è proprio il termine confine ad averne scandito la sua storia e anche la mia storia, il suo essere al margine delle vicende storiche e il mio essere al margine di quello che accadeva nel mondo. Essere al margine è sempre una condizione privilegiata, vuoi perché nessuno si interessa a te e sei libero di percorrere le strade che ti interessano, vuoi perché puoi osservare le cose da lontano, vuoi perché gli eventi attraversano i margini ma non si fermano mai sui margini, finiscono sempre per svolgersi altrove, vuoi perché hai l’impressione di dover colmare la distanza che ti separa dal cuore della Storia e di conseguenza ti muovi continuamente, oscillando al di qua e al di la del confine, come il protagonista del mio romanzo rispetto alle vicende del suo passato o come il Quarin che scrive rispetto al Quarin che viene scritto”.

YAWP: “Un altro interessante aspetto che emerge dal tuo romanzo è che i fatti nascondono la verità. Intendo non la verità spicciola, ma la grande verità, il segreto della storia, la dinamica che si cela dietro a certi eventi, e questo porta a formulare un nuovo romanzo, o meglio un inedito, per certi versi, genere, quello della finta fiction. Qual è quindi l’esigenza di uno scrittore: ricostruire i fatti – sapendo di mentire- o dire la verità?”

L.Q: “Manganelli sosteneva che non ci fosse altra possibilità di dire la verità se non attraverso l’uso della menzogna. Auden invece faceva un discorso diverso e diceva che ci sono due momenti in cui l’autore dialoga con il proprio libro. Mentre lo sta scrivendo, lo scrittore interroga il suo progetto come la madre interroga il bambino che cresce nella sua pancia. Si domanda e gli domanda come sarà, che cosa gli piacerebbe diventare, che cosa faranno insieme. Il libro e il bambino sono pura possibilità, pura ipotesi. Né uno né l’altro posseggono una risposta. Quando ha finito di scrivere il romanzo, l’autore può continuare questo dialogo soltanto con sé stesso. Il libro ormai è nelle mani del lettore, non risponde più a lui, come il bambino è nelle mani del mondo e non risponde più alla madre (le madri ci mettono un po’ a comprenderlo e spesso anche gli scrittori ci mettono un po’ a comprenderlo). Lo scrittore, se è onesto, deve chiedersi che cosa ha fatto bene e che cosa ha fatto male, che cosa potrebbe migliorare in futuro, che cosa ha imparato scrivendo quel libro, come si colloca quel lavoro all’interno della sua opera e che rapporto ha con quello che lo precede e con quello che lo segue. Deve prendere le distanze. Deve allontanarsi. Si tratta, con tutta evidenza, dell’esatto contrario di quanto avviene nel mio romanzo. Qui la scrittura e la riflessione sulla scrittura si intersecano e si sostituiscono (come il vero Quarin e il finto Quarin, come la verità e la finzione in generale), oppure si escludono, dipende dal punto di vista, comunque sempre coesistono, in una forma che è tipicamente modernista ma anche postmoderna. Il romanzo scompare parlando di sé stesso e lascia spazio al vero protagonista della scrittura, che è sempre il silenzio”.

YAWP: “A questo punto ti chiedo: ma la storia esiste oppure è solo un’invenzione degli storici?”

L.Q: “Ho l’impressione che la Storia sia una necessità umana di dare ordine e soprattutto significato alle macerie che i fatti lasciano sempre alle loro spalle. Dunque la Storia senza dubbio esiste come necessità ed esiste come pratica, anche quotidiana. Si tratta di una pratica laboriosa, molto artigianale, per cucire insieme i fatti all’interno di un sistema semantico che comunemente chiamiamo struttura narrativa, che è l’unico modo che conosciamo per continuare ad attraversare le ombre che formano la realtà. Un filo di Arianna che apparentemente ci impedisce di perderci nel nulla ma che probabilmente ci trattiene all’interno del labirinto da cui cerchiamo continuamente di evadere”.

YAWP: “La mia sensazione, leggendo il tuo romanzo, è che la storia può esistere solo attraverso un discorso di avanzamento dell’epica; voglio dire dal momento che faccio epica probabilmente faccio la storia. Ma se così fosse quale è il senso del divenire?”

L.Q: “Ho dei dubbi sull’idea di progresso illimitato nata con l’illuminismo e diventata il dogma del capitalismo neoliberista. Non vorrei che anche il divenire finisse per sottostare all’effetto Flynn, secondo cui i figli devono essere sempre più intelligenti dei genitori, altrimenti sono destinati a soccombere. Nelle ultime pagine del romanzo ho ripreso il ragionamento che Borges fa sull’idea della storia di Cervantes, attraverso il personaggio di Pierre Menard, usando le medesime parole del grande autore spagnolo, il padre assoluto del romanzo. Stando a Cervantes la storia è uno strumento per interpretare la realtà, stando a Borges la storia è uno strumento per riprodurre la realtà”.

YAWP: “D’altronde gli storici nascondono la verità e forse gli unici a svelarla, potenziali messaggeri, sono gli scrittori e il popolo che è costretto a subire certi eventi ma che essendo folla non riesce a spiegarli. Gli storici hanno nascosto per lungo tempo la questione della P2 in Italia, i depistaggi di certe trame occulte, per non dire atlantiche, a cominciare da quella fantomatica (e mi scuso se sembro poco patriottico in questo) unità della nazione dove la questione del brigantaggio non viene citata per ragioni politiche (una guerra civile di tanti morti e che la letteratura ne ha parlato attraverso Alianello, Nigro ecc..). Ora i fatti vengono nascosti, secondo te, per ragioni politiche o perché il fatto di per sé nasconde segreti?”

L.Q: “I fatti mi sembrano sempre inspiegabili. Sono come la carcassa di un animale abbandonato sul bordo della strada. Non si sa chi o che cosa lo abbia ucciso né per quale ragione. E così ognuno è libero di cibarsene come preferisce. Ecco, in questo naturale cibarsi dei fatti ci stanno le manipolazioni della politica, quelle della storia, quelle dei media, quelle delle persone comuni. Ognuno ha bisogno di una storia che sia coerente con la sua cultura e ognuno costruisce la propria storia a partire da un brandello della carcassa, strappandolo dal corpo degli eventi e innestandolo nel corpo del racconto. Dunque, con il trascorrere del tempo, la carcassa si dissolve sempre di più fino a scomparire, lasciando dietro di sé soltanto un alone iridescente che è quello della memoria”.

YAWP: “In Italia chi fa letteratura e non prodotti editoriali rimane al margine, costretto quindi a rivolgersi a un gruppo, a una élite e il tuo romanzo è alta letteratura. Ma questo decadimento culturale- quasi da basso impero, da storia quasi da non raccontare– come cantavano alcuni versi di De André, a cosa è dovuto?

L.Q: “Mi sembra una questione che ha molto a che fare con l’evaporazione delle élite, che è un punto cieco del nuovo millennio ma direi che è anche un punto cieco della cultura illuminista. Questo scollamento tra élite e popolo ha trasformato probabilmente le élite in una oligarchia molto ristretta e il popolo in una massa silenziosa e omogenea. Il romanzo mi sembra sia rimasto stritolato in questa disinter-mediazione, passando da strumento per comprendere la realtà a strumento per sostituire la realtà. Uno vale uno. Lo scrittore non può più mettersi in mezzo tra il lettore e la realtà, deve soltanto riprodurla attraverso una storia. Di conseguenza è terminata l’epoca del modernismo e delle avanguardie e si è restaurato il romanzo ottocentesco, quel viaggio dell’eroe di Vogler che è diventata l’ossatura delle “storie” tanto amate dalla grande editoria”.

YAWP: “Gli editori sono al servizio delle lobby e loro stessi – parlo della grande editoria- sono il potere, ma non credi che a questi detentori del potere manchi un coraggio culturale?”

L.Q: “Il coraggio manca sempre, purtroppo. Manca nella società, manca nel mercato, manca nelle relazioni umane. Il coraggio ha a che fare con il nuovo, con ciò che ancora non esiste, con ciò che si trova nell’oscurità e potrebbe uscire dal buio avventandosi su di noi. Tieni conto che il tempo di big data, il nostro tempo, è il tempo della reiterazione, dove i dati del passato servono per costruire le forme del futuro, un futuro analogo al passato ma con un’altra pelle. Anche l’editoria partecipa a questo grande spettacolo consolatorio, facendo un enorme sforzo per realizzare abiti nuovi sopra corpi che invece sono vecchi, incapaci di tramontare. Detto questo, direi che si tratta anche di valutare quale sistema narrativo debba utilizzare il romanzo contemporaneo per assemblare le informazioni in un flusso logico che rappresenti l’esperienza e allo stesso tempo la superi, costruendo un ponte tra quello che è stato e quello che sarà. Ne sapeva qualcosa Proust che ha sempre posto l’accento sui tempi verbali, utilizzando il passato prossimo per confinare il tempo perduto in un spazio lontano ma al tempo stesso accessibile, un’idea brillante per includere sia il trascorrere del tempo che il suo essere perpetuo”.

YAWP: “Tu vieni da una terra particolare, una volta, sino a pochi decenni fa era considerata il meridione del nord; una regione storica che dalla Carnia scende al mare, divisa da un fiume, il Tagliamento, e che ha partorito grandi geni come Pasolini, Sgorlon, in Friuli nasce la Gladio; ci parli di questo evento storico?”

L.Q: “Gladio è stata un’organizzazione segreta nata negli anni cinquanta, su sollecitazione della Cia e dei servizi segreti delle nazioni atlantiche, per contrastare una possibile invasione nell’Europa occidentale da parte dell’Unione Sovietica e dei Paesi aderenti al Patto di Varsavia. La sua esistenza è rimasta segreta fino al 1984 quando Vincenzo Vinciguerra, nell’ambito delle rivelazioni sulla strage di Peteano, ha svelato per la prima volta il ruolo di questa organizzazione e i suoi meccanismi di funzionamento. Senza entrare nei dettagli di una vicenda di enorme interesse che suggerisco a tutti quanti di approfondire, direi che la storia di Gladio e la storia del Friuli si sono talmente intrecciate nel dopoguerra, proprio per il discorso sul confine che facevamo prima, da dover essere sempre raccontate insieme. Nel mio romanzo i personaggi si muovono proprio su quel palcoscenico, ovviamente in una dimensione finzionale e non giornalistica, per raccontare un frammento di quella vicenda”.

YAWP: “Alla fine si potrebbe dire ancora cose, fare nomi che non faccio, nascondo la verità come puoi intuire. Tuttavia, che differenza fa tra la narrazione e la descrizione?”

L.Q: “Ho l’impressione che la “descrizione” abbia ancora a che fare con il Novecento e continui nel tentativo di guardare da fuori la realtà, cercando di raccontarla, mentre la “narrazione” mi pare più incardinata nel presente, anche in virtù del ritorno della scrittura attraverso i media, e dunque sia un po’ più indistinguibile dalla realtà, visto che contribuisce a generarla. Ecco, questa impossibilità di separare la realtà dall’immaginazione che l’ha generata mi pare una interessante forma di verità”.

YAWP: “Quali sono i tuoi progetti futuri?”

L.Q: “Mi mancano pochi capitoli per terminare una storia ambientata di nuovo negli Stati Uniti, come il mio romanzo d’esordio, che racconta di un guru della robotica che nel 2011 scompare improvvisamente insieme alla sua famiglia e di una capanna che nel 2013 viene risparmiata da un enorme incendio che devasta lo Stanislaus National Park. La storia si conclude nel Pando, detto anche “gigante tremante”, l’organismo vivente più grande e più antico del mondo, che si trova nella foresta nazionale di Fishlake, in Utah. Il protagonista è un giovanissimo giornalista italiano, Ferrante Savorgnano, che inseguendo un’adorabile attivista della Rainforest Alliance, cerca di fare luce su entrambi i misteri”.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.barbaricoyawp.com/post/intervista-luca-guarin-di-sangue-e-di-ferro-l-interrogatore-della-storia

IL CRINALE DEL TEMPO – recensione di Davide Morresi su Read and Play

IL CRINALE DEL TEMPO – recensione di Davide Morresi su Read and Play

Cos’è Il crinale del tempo?
È un romanzo, sì, ma breve.
È un’autobiografia, perché la storia narra – anche – di episodi reali vissuti in prima persona dall’autore.
È un racconto, perché nel libro c’è quel “Tutto a ferragosto” che ha il sapore di narrativa veloce, che solo apparentemente è distante dal resto della trama.
E poi è quello spazio temporale che l’autore percorre per tornare nel passato, alla sua infanzia, a quegli eventi traumatici, per affidarli alla penna di uno scrittore alter ego, protagonista di questo libro, e lasciarli così liberi di volare via. 

Nell’incipit troviamo il match tra Muhammad Ali e Foreman. Un incontro che, si scoprirà lungo la narrazione, ha un valore altamente simbolico. In un’intervista, Vittorio Graziosi spiega: “Ho voluto usare questa storia come incipit perché sia metafora del coraggio. L’idea di base è che nella vita ci vuole coraggio non solo per vincere un conflitto, ma anche per iniziare ad affrontarlo”. Ed ecco palesato il leitmotiv di questo libro tanto avaro di pagine (sono 115) quanto generoso di, appunto, coraggio.

Nella stessa intervista, che potete vedere qui, Graziosi dice anche: “Per portare i lettori nel mio crinale del tempo avevo bisogno del coraggio di raccontare questa storia, dopo aver avuto il coraggio di superarla. E dall’incipit affiora perfettamente questo coraggio attraverso la vittoria di Muhammad Alì. Tra l’altro si tratta di un evento avvenuto nel 1974, come quello che racconto”.
1974, anno in cui lo scrittore protagonista ritorna attraverso il crinale del tempo dopo aver visto il manifesto funebre dell’uomo che qualche pagina più avanti verrà chiamato “il mostro”. Il manifesto spinge Francesco, questo il nome dello scrittore protagonista del romanzo, a sedersi alla scrivania per fissare la propria storia, questa storia, ora accettata, metabolizzata, superata, con un gesto tanto potente quanto simbolico, quello della scrittura: usare le parole, il nero sul bianco, per edificare pagine che volino libere verso chiunque voglia leggerle, come a eliminare del tutto un morbo esterno. Come se fa una terapia contro un virus. A tale proposito, Graziosi aggiunge: “Se questo libro fosse una medicina, sarebbe un antinfiammatorio, preferibilmente naturale. Una medicina indispensabile”.

Una storia di violenza nella quale Francesco si trova coinvolto in un modo così naturale da sembrare quasi un gioco, fino a quando comprende, ancora bambino, di essere vittima di un abuso. 
La trama copre un arco di numerosi anni: Francesco bambino che vive con i nonni, Francesco che si trasferisce in Austria dove i genitori si trovano per lavoro; Francesco che torna in Italia con la famiglia. E la vita che cambia e ogni volta si adatta al nuovo, senza trovare punti fermi, fino ad arrivare all’abuso psicologico e fisico subito insieme al fratello, per poi ritrovarsi adulto, quando va a trovare lo zio, in un ultimo gesto di addio, nella tomba dove è sepolto.

Poi, trasferito in Austria, non avevo più terra da esplorare, nessuna scorreria su quei prati lisci come biliardi e il cielo tra l’azzurro e il grigio che soggiogava ogni cosa. Disciplina e ordine intorno a me e nella famiglia. Tutto sotto controllo con questa religione che invadeva ogni aspetto della vita. Una rete invisibile che invadeva l’estro e ogni pensiero maturato con l’esperienza personale.
Alla fine, per la mancanza di una vita veramente vissuta, anche uno zio così particolare non faceva suonare in noi nessun campanello d’allarme. Ci permetteva voli di fantasia e complicità, andava bene, pur di viverla la vita.
Così quando mio fratello se lo vedeva fuori dalla scuola con la sua giacca scura, in fondo era contento. Nel fracasso della massa di ragazzini pronti a muoversi per uscire, lo aspettava a braccia conserte vestito dei suoi abiti antichi e dello stesso identico tenue sorriso. 

Il percorso interiore di Francesco è intriso di delicatezza, come a comunicare che, con il coraggio, anche l’evento più distruttivo può essere quietato. C’è una positività diffusa che trasforma la violenza ricevuta in un fatto che, una volta rielaborato, lascia liberi al futuro.

È emblematico come il nome del protagonista venga svelato solamente a fine romanzo, quando il crinale del tempo ha fatto il suo dovere, la tempesta è cessata, l’uomo adulto ha ora una sua personalità forte e ha dimostrato il proprio valore, riprendendosi la vita con integrità e determinazione. Palesare il nome solo a trauma superato è una raffinatezza che Vittorio Graziosi usa per sottolineare come tutto il libro sia il viaggio del protagonista verso il recupero di una serenità rubata e di un’identità minata. 


In Read and Play trovi anche le recensioni con soundtrack di questi libri autobiografici:
– Febbre di Jonathan Bazzi
– Bianco di Breat Easton Ellis
– Svegliami a mezzanotte di Fuani Marino


Particolarità

Tra le altre, ho notato queste tre caratteristiche narrative che ritengo degne di essere sottolineate:

  1. il protagonista scrive in prima persona: è uno scrittore che narra la propria storia, spinto dalla necessità profonda di liberare i ricordi. Si presenta forte il tema della scrittura salvifica, terapeutica, affidata a un alter ego, tecnica narrativa non nuova, ma che qui si presenta con rara e piacevole naturalezza;
  2. accanto al plot principale, c’è una seconda storia: quella che lo scrittore scrive in terza persona, narrando le vicende di Ahmed e Anna, che si associa a quella autobiografica e la intervalla. Lo scrittore ha bisogno di riprendere fiato nei momenti in cui la prima storia tocca punti sensibili del proprio animo;
  3. la scrittura è ricercata, il lessico e la sintassi sono studiati con accuratezza, nulla è casuale. La prosa lirica e delicata trasmette una sensazione positiva nonostante il tema affrontato sia molto forte e per nulla tranquillizzante, a rimarcare come attraverso il coraggio si possono superare anche le situazioni più difficili. 

La soundtrack

Ascolta la colonna sonora: Il crinale del tempo – Vittorio Graziosi

Come il crinale del tempo percorre tutta la narrazione, così anche i riferimenti musicali sono funzionali al viaggio nella memoria. Si va dalle sigle delle trasmissioni televisive degli anni Sessanta a Scende la pioggia di Gianni Morandi che accompagna il ritorno in Italia dall’Austria, passando per Tipitipiti di Orietta Berti e per un motivo suonato da un artista di strada su un “vecchio pianoforte verticale tutto rigato”.
Tutti i brani si riferiscono a citazioni e riferimenti musicali contenuti nel testo.

  1. Canzonissima sigla 
  2. Rischiatutto sigla
  3. Reine de musette – Yvette Horner
  4. Scende la pioggia – Gianni Morandi
  5. Quella carezza della sera – I Bandiera Gialla
  6. Tipitipiti – Orietta Berti
  7. Astro del ciel – Coro
  8. Danza lucumi (piano) – Bebo Valdés

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

L’AMORE PUZZA D’ODIO – recensione di Valeria Zangaro su Rivista Blam!

L’AMORE PUZZA D’ODIO – recensione di Valeria Zangaro su Rivista Blam!

L’amore puzza d’odio: il tempo di una storia d’amore scandito da stagioni e poesie

In quest’opera Massimiliano Boschini ci racconta, con un linguaggio tagliente e disincantato, una storia d’amore vista con gli occhi di un uomo. Lo fa in una maniera originale, avvalendosi di 52 componimenti poetici suddivisi, a loro volta, nelle quattro stagioni dell’anno, che sono poi anche le stagioni dell’amore.

L’amore puzza d’odio: la trama del libro di Massimiliano Boschini

Una sera lui, con una Ceres in mano, conosce lei:

Ti vidi tirartela solo un pochino
tra amiche con lacca e senz’acca

Sono sguardi ammiccanti, quelli che si scambiano, tipici degli inizi, di quando l’uomo e la donna mettono in scena la classica danza del corteggiamento, di lei che sta sulle sue e aspetta che lui faccia il primo passo. E poi quel momento arriva:

mia Cenerentola,
ti tolsi una scarpa
chiedendoti un numero

È chiaro ormai che i due si piacciono. È arrivata l’ora di scambiarsi il numero di telefono per fissare poi il primo appuntamento cui precede il rito preparatorio di lui:

lavato e stirato
mutande Uomo e Arbre Magique

e pronto per
un incontro galante, meglio se osè
arriva il primo bacio, il primo
parabrezza appannato
sipario del nostro amore

Sopraggiungono le farfalle nello stomaco e le scritte sulla spiaggia. Nasce una relazione, i due si sposano, la loro vita è scandita dalle domeniche passate all’Ikea e dai pomeriggi sul divano. Eppure poco alla volta s’insinua nella coppia l’incomprensione e la stanchezza della routine. Persino dirsi “ti amo” è una frase stanca, che ha la stessa passione di una madre che ti chiede “Tutto bene a scuola oggi?”. L’amore si frantuma, la coppia si separa, subentrano dapprima la rabbia, poi la nostalgia, e infine l’odio, fino alla morte di qualsiasi sentimento.

Lungo tutta l’opera di Boschini, Vincenzo Denti – pittore e artista, nonché docente presso il Liceo Artistico G. Romano di Mantova – ci delizia con le sue divertenti illustrazioni, o suggestioni, come le definisce lui…

PER LEGGERE L’ARTICOLO COMPLETO: https://www.rivistablam.it/libri/recensioni/lamore-puzza-dodio-il-tempo-di-una-storia-damore-scandito-da-stagioni-e-poesie-recensione-libro/

QUANDO I PADRI CAMMINAVANO NEL VUOTO – recensione di Anna Vallerugo su Satisfiction

QUANDO I PADRI CAMMINAVANO NEL VUOTO – recensione di Anna Vallerugo su Satisfiction

È la storia di un padre lontano dall’essere perfetto e che porta invece con sé una discreta summa di manchevolezze: latinista responsabile della realizzazione di convegni attesi e partecipati ma avversati dal piccolo politico di turno, fragile, inattuale insegnante promotore di scelte incomprese dai suoi studenti, il principale protagonista di Quando i padri camminavano nel vuoto è un uomo che negli anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale gode di locale, limitatissima fama.

Gode anche però delle grazie di Ava, giovane donna di servizio che fa girare teste a uomini di ogni età, con cui usciva dalla sua cupezza, dalla sua infelicità sfilacciata.

Innamorato a suo modo pure della moglie, il professore cerca di mantenere salda la rotta della sua numerosa famiglia salvandosi la faccia agli occhi del mondo e a quelli straordinariamente attenti, indagatori, del figlio bambino, colui che narra la sua vicenda (e così facendo anche la propria) e che per lui tesserà un elogio di pietas e tenerezza che stupisce e commuove.

Lo sguardo del figlio nel farsi uomo coglie appieno lo smarrimento della generazione appena dopo il secondo conflitto bellico, quella con in mano le possibilità di un futuro da costruire ab ovo talvolta sprecate: un senso di spaesamento, sconfitta ineradicabile, sensazione di assenza di definizione di ruolo – tragicamente attuali – che chi narra già da bambino fiuta feroce.

Ogni tanto mi prendeva la voglia di non lottare più. Ascoltavo i grandi parlare. Dicevano sempre che il destino era così e così, che era scritto nel Grande Rotolo. Ogni tanto facevo il tifo per mio padre. Speravo che tenesse duro, che il destino in piena non se lo portasse via. Mi sembrava che a volte non avesse più voglia di lottare per uscire dalla corrente, ma che lottava invece per rimanerci a tutti i costi. Una grande nuotata collettiva, verso la foce del fiume. Mi immaginavo dove portasse il fiume. Il destino era questo fiume in cui ti immergevi e poi ti piaceva farti portare via, era bellissimo e irresistibile. Anch’io avrei voluto, purché con mio padre. Ma mio padre non si decideva, avrebbe voluto uscire dal fiume e restarci dentro contemporaneamente. Faceva un mucchio di cose strambe, che erano contemporaneamente di due segni opposti. Le faceva non solo per il suo dolore congenito, ma anche perché un pezzo della sua natura era anarchica. Ma contemporaneamente perché la sua natura non era abbastanza anarchica. Allora era fuori dalle righe sia quando faceva l’anarchico, sia quando non lo faceva.

Quando i padri camminavano nel vuoto, segnalato al Premio Calvino dal comitato di lettura con un altro titolo, I vivi e i morti, ora giustamente riproposto nell’accurata edizione di Miraggi, Collana Scafiblù, è un romanzo di sconfitta e resistenza, battute d’arresto, cadute, scelte esistenziali e sentimentali che si ripeteranno a specchio, nonostante tutto, anche nelle generazioni a venire, quelle che vivranno in periodi di maggiore saldezza.

Piergianni Curti, laureato in fisica, specializzato in didattica della matematica, dal nome al contrario proprio come il protagonista del romanzo, traccia con grande efficacia la storia di un padre naturale e di altri padri che il figlio-voce narrante ricerca per suo puntello, per non camminare nel vuoto, appunto:padriputativi, figure genitoriali di passaggio, che entrano ed escono – molto ben definiti caratterialmente – per mille ragioni dalla vita di questa famiglia raccontata con ironia.

Un’ironia efficace e benigna, il tratto più significativo di quest’opera, che è romanzo di formazione ma soprattutto di individuazione e tessitura coesa di frammenti, da cui usciranno infine non una, ma due figure difficili da dimenticare, poetiche, piene d’amore.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

LA LEGGENDA DEL RE EREMITA – recensione di Francesco Forestiero su Sul Romanzo

LA LEGGENDA DEL RE EREMITA – recensione di Francesco Forestiero su Sul Romanzo

Niente è come appare. Questa è la costante che regola il romanzo di Cetta De Luca La leggenda del Re Eremita. Un libro che si legge in poche ore, ricco di personaggi ben costruiti e carico di immagini poco definite. Istantanee di una realtà che (ancora e purtroppo), ahimè, ci appartiene. Una tangibilità che si confonde con la menzogna e la scarsa cultura, vittima di retaggi sbagliati e credenze tramandate per paura. Ma procediamo per gradi…

La storia si sviluppa in un piccolo paesino calabrese, Sant’Eustachio Belvedere, un villaggio fatto di case scrostate e magazzini rivestiti dal marrone dei forati, un borgo in cui gli abitanti convivono con le fogne a cielo aperto e dedicandosi principalmente al lavoro nei campi.

È in questo scenario che tre ragazze, tre giovani donne, si trovano ad avere a che fare con un personaggio misterioso e ancestrale, il Re Eremita, una figura leggendaria e conosciuta da tutti ma che nessuno (forse) ha mai incontrato. Un mito che si serve di un emissario particolare: Giuseppe Esposito, ultimo boss di una ‘ndrina locale e unico intermediario tra i paesani e, appunto, l’imperscrutabile Re. Ed è proprio a lui, a Giuseppe, che i cittadini affidano ogni anno delle ragazzine affinché possa condurle nelle mani dell’Eremita e fare in modo che il piccolo Comune non crolli sotto il peso della povertà, e della paura. Ma la verità è un’altra. È ben diversa. E a scoprirla saranno Irene, Cristina e Isabella, aiutate da una suora, che le guiderà attraverso gli inganni e i ricordi sfocati di un mondo racchiuso nella menzogna. Una serie di stradine ricoperte di polvere e rassegnazione. Omertà e sottomissione.

Il testo scritto da Cetta De Luca e pubblicato da Miraggi Edizioni si compone di appena 120 pagine, compresa la prefazione di Giorgia Lepore e i ringraziamenti dell’autrice. È un volumetto che si legge, quindi, in poche ore, grazie anche allo stile sobrio e senza troppi fronzoli della stessa autrice; un modo di scrivere semplice, impreziosito da frasi ben costruite e parole selezionate con cura.

La leggenda del Re Eremita nel cuore della Calabria

La prima impressione che ho avuto, iniziando la lettura di questo libro, è quasi quella di trovarmi di fronte a un romanzo di formazione. All’inizio infatti vi è la presentazione, scritta in prima persona, delle tre giovani ragazze protagoniste della storia. Ciascuna di loro, in altre parole, “racconta” parte della sua infanzia e mostra al lettore vari scorci della propria vita. Un espediente, questo, che l’autrice sfrutta sapientemente non solo per presentare i personaggi e la loro crescita, ma anche per descrivere l’ambientazione: non a caso, tra i ricordi delle giovani, il piccolo paesino in cui si svolge la vicenda viene rappresentato con una buona quantità di particolari.

Narrativamente parlando, però, credo che, se da un lato tutto questo possa considerarsi una buona soluzione per la presentazione dei personaggi e di Sant’Eustachio Belvedere, dall’altro temo che possa creare confusione nel lettore. Per due ragioni. La prima riguarda la scelta di porre all’inizio del libro il percorso che le tre ragazze compiono. Mi sarei aspettato, visto il genere e la tematica, di essere catapultato all’interno della storia, o al massimo di trovare la presentazione della nemesi. Ma sono anche convinto, bisogna ammetterlo, che la volontà dell’autrice di porre in questo punto iniziale del libro la “formazione” non sia del tutto sbagliata: a molti potrebbe piacere conoscere sin da subito il carattere delle tre protagoniste, per meglio immedesimarsi nei fatti che arriveranno nei capitoli successivi.

La seconda ragione che mi lascia perplesso è la scelta dell’Io narrante che, nei primi tre capitoli, cambia per ben tre volte: prima Irene, poi Cristina e infine Isabella. Nonostante il titolo dei capitoli corrisponda al nome delle ragazze, ho avvertito una sorta di sensazione strana nel dover “mutare” il punto di vista in maniera così repentina; considerando anche il fatto che in seguito vi è un ulteriore cambio, visto che chi narra il tutto è in realtà la suora che aiuta le protagoniste a scoprire la verità.

La leggenda del Re Eremita nel cuore della Calabria

Un punto a favore è senza dubbio l’atmosfera che De Luca è stata capace di creare: un’aria quasi surreale, rarefatta, ma fortemente intrisa dal carattere crudo della criminalità organizzata calabrese. Un miscuglio di sensazioni che favoriscono la lettura e descrivono egregiamente delle percezioni ancora radicate in alcune zone del Belpaese.

Degna di nota è poi la costruzione del personaggio di suor Maria, la monaca che aiuta le ragazze a scoprire la verità sul Re Eremita. Un personaggio particolare, ricco di molteplici sfaccettature, che l’autrice svela a poco a poco, pagina dopo pagina, rendendolo interessante e unico agli occhi del lettore. Interprete di un’evoluzione legata a un passato anch’esso misterioso.

A parte le scelte legate alla presentazione dei personaggi descritte in precedenza, mi sento di dire che la bravura di Cetta De Luca, ne La leggenda del Re Eremita, è stata soprattutto quella di aver saputo “mischiare le carte”. È stata brava nel fondere tra loro una leggenda derivante dalla Magna Grecia (quella del Re Eremita), una serie di personaggi ben costruiti e l’aspra realtà della criminalità organizzata.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

http://www.sulromanzo.it/blog/la-leggenda-del-re-eremita-nel-cuore-della-calabria

BOLAÑO SELVAGGIO – recensione di Davide Barilli sulla Gazzetta di Parma

BOLAÑO SELVAGGIO – recensione di Davide Barilli sulla Gazzetta di Parma

Bolaño selvaggio e il suo labirinto

Su certi autori, attraverso lenti procedimenti, si formano aureole di mitologia. Inizialmente accade per cortocircuito. Un titolo azzeccato. Una contingenza temporale. Ma poi subentra il passaparola fra i lettori, con la voglia di ricostruire, libro dopo libro, l’architettura totalizzante. Cosa che riguarda, fra i più recenti, Roberto Bolaño. Scrittore cileno cosmopolita, eppure radicato in un Sudamerica antico e violento di cui ha raccontato misfatti e solitudini, Bolaño è autore di culto di cui, in questi ultimi anni, sono stati pubblicati valanghe di libri. Il suo esaltante iter postumo (è morto a soli cinquant’anni) non è prodotto di un’operazione editoriale. Ma di un talento capace di attrarre il consenso di chi ama la letteratura vissuta in toto. Destino dei sognatori e dei costruttori di mondi. Bolaño non spiega, racconta. Un universo, il suo, che da Cile e Messico si espande all’Europa. Esule solitario e narratore incontinente, ha costruito trame autobiografiche che si rincorrono tra gioventù, bar, circoli artistici, avanguardie e fallimenti, biografie strambe e disperate, in una sorta di sconfinato labirinto di parole.

Recentemente l’editore Miraggi di Torino ha pubblicato – con la traduzione di Marino Magliani e Giovanni Agnoloni – un monumento postumo, strumento indispensabile per gli amanti di Bolaño. Operazione congrua e coraggiosa, proporre in Italia una serie di studi di matrice ispanica come quelli raccolti in «Bolaño selvaggio» (pag. 427, 24 euro), spaccato di una letteratura sudamericana impura, imbevuta di radici europee (come non pensare a certo Perec?). Perfetta radiografia di un anti-maestro, di un inventore di mondi che si inabissano, tra tunnel narrativi e fantasmi apocalittici, affrescando quello che inoppugnabilmente Alessandro Raveggi ha definito, nella prefazione, come un irripetibile «realismo confidenziale».

DI SANGUE E DI FERRO – recensioni su Premio Letterario Giovanni Comisso

DI SANGUE E DI FERRO – recensioni su Premio Letterario Giovanni Comisso

Nel 1972 esplode una bomba a Peteano, vicino a Gorizia, uccidendo tre carabinieri. Gli inquirenti sospettano alcuni militanti di Lotta Continua. Due di loro, un ragazzo e una ragazza che frequentano la facoltà di sociologia a Trento, finiscono con l’automobile nel lago di Levico, cercando di sfuggire all’arresto. Il figlio di tre anni rimane orfano. Alcuni mesi dopo vengono arrestati sei balordi goriziani che non c’entrano nulla con l’attentato. Poi vengono scarcerati. Per dieci anni le indagini brancolano nel buio, depistate dagli inquirenti che le conducono.
Che ruolo hanno avuto i genitori del piccolo? E i nonni che si sono presi cura di lui? Sono stati vittime o sono stati colpevoli?
Il velo comincia a sollevarsi nel 1986, quando Vincenzo Vinciguerra racconta al giudice Felice Casson i retroscena dell’attentato e le trame più oscure della destra eversiva degli anni settanta. Ma purtroppo non basta. Il mistero della morte dei due ragazzi non riesce a squarciarsi.
Un romanzo sulle oscurità della Storia e sull’impossibilità di ricucire il presente con il passato, anche per quanto riguarda le vicende personali. Una storia che accende la luce sulle mille menzogne che formano la nostra identità, su tutto quello che abbiamo bisogno di raccontarci e di farci raccontare per proteggerci dalla forza travolgente della realtà.

Viviana Di Domenico

Il secondo romanzo di luca Quarin, Di sangue e di ferro, Miraggi scafiblu Edizioni, non può deludere le aspettative di chi ha amato il suo esordio letterario, avvenuto tre anni fa con Il battito oscuro del mondo, Autori Riuniti, Edizioni. Con questo libro l’autore riprende e ricuce alcune tematiche e riflessioni di fondo che apparivano nel suo precedente romanzo. Penso in particolare alla dicotomia tra la razionalità e l’impulso di morte (un’oscura volontà di potenza?) che accompagna il dispiegamento sia individuale sia storico dell’Occidente. Il protagonista della vicenda è Andrea Ferro, un cinquantenne precario che si arrangia facendo l’assistente universitario a contratto ed eseguendo cover di cantanti country americani in improbabili locali torinesi. Lo spartiacque, quella frattura che inevitabilmente incrina l’esistenza adolescenziale di Ferro è rappresentata dall’improvviso aggravarsi delle condizioni di sua nonna Antonia. Il protagonista del romanzo torna a Udine, sua terra di origine, per occuparsi della donna che lo ha allevato. Attraverso le sue confessioni e reticenze, grazie anche agli enigmatici interventi di altre figure emblematiche, Ferro ricostruisce alcuni tasselli mancanti del suo passato, laddove la storia individuale finisce per coincidere con le pagine più oscure della storia d’Italia nell’epoca del terrorismo rosso e nero. Che cosa lega la morte dei genitori di Ferro, avvenuta in seguito a un misterioso incidente stradale, alla strage di Peteano? Che ruolo hanno avuto i nonni, in quanto esponenti dell’estrema destra cittadina, nelle vicende di quegli anni? Perché il protagonista viene perseguitato da un misterioso autore che aspira a pubblicare per la casa editrice con cui collabora? E che fine ha fatto Silvia, l’eterna fidanzata di Ferro, che spesso lo abbandona e ama sparire nel nulla?
Di Sangue e di ferro e un’opera che già dal titolo fa presagire il carattere dicotomico che soggiace alla sua elaborazione. Per cercare di comprendere la direzione verso cui muove la sua esistenza, il protagonista deve riuscire a comprendere la differenza tra realtà e verità; tra i fatti intesi come narrazione deformata dai sentimenti della memoria e i dati oggettivi che la storia dispone sul grande tavolo dell’interpretazione intersoggettiva. Che rapporto c’è fra la storia individuale e la storia di una nazione? È possibile decodificare la misteriosa e oscura volontà che muove il divenire dell’uomo e dei popoli? Si possono ancora scrivere romanzi onesti in cui non si raccontano solo i fatti riconfigurati da una memoria fallace, ma in cui sia possibile illuminare la forza cieca che guida da sempre le contraddizioni dell’Occidente?
A voi la risposta. Non dovete far altro che tuffarvi nella lettura di questo romanzo sublime, anche grazie all’eleganza di uno stile ipnotico e travolgente.

Laura Scaramozzino

“Una cosa è tua quando sai cos’è, e sai cos’è quando la racconti a qualcuno.”
Quanto influscono le narrazioni sulla costruzione dei nostri ricordi, del nostro passato e della nostra identità?
Quanto influsce la narrazione sulla costruzione dei ricordi, del passato e della identità di un personaggio di un romanzo?
Chi racconta, quanta e quale verità consegna al suo interlocutore?
E questa verità quanto aderisce alla realtà?
Andrea Ferro, protagonista di questo romanzo, si trova a camminare tra le strade del suo passato, di un passato che non ha mai conosciuto fino in fondo e da cui è fuggito prima che le domande diventassero insopportabili. Ferro è cresciuto con le risposte che ha deciso di farsi bastare, su quelle risposte ha dato direzione alla sua vita e alla sua identità.
L’aggravamento delle condizioni di salute della nonna lo riporta a Udine, dove le domande si risvegliano e dove iniziano ad arrivare risposte diverse e da più direzioni.
Andrea cerca di unire i puntini e di dare un contorno definito al suo passato attraverso i racconti delle persone che ritrova a Udine, ma fino alla fine gli sfugge la dimensione di quella verità che sta cercando.
La storia della famiglia di Andrea, la storia di un attentato per cui non sono mai stati trovati i veri colpevoli, la storia del nostro paese dagli anni ’70 ad oggi, tutte queste storie sono appunto “storie”, narrazioni, sono lo specchio deformante della realtà che restituisce verità possibili, tante quante sono le narrazioni possibili.
La riflessione è densa, i rimandi letterari e filosofici sono tanti, e ricercati, ma il romanzo riesce con un ottimo ritmo a far convergere i fili verso il loro finale, verso l’origine del racconto.
In fondo le storie e la Storia, sono racconti, come i romanzi, e non è detto che realtà e verità coincidano.

Giorgia Gatti

Di sangue e di ferro è un romanzo che usa ripetutamente la myse en abyme, talvolta anche come coupe de théâtre, per accendere la miccia narrativa che fa detonatore alle altre storie, circuitando il lettore dal particolare all’universale e viceversa. Questa modalità permette all’autore di ragionare sul senso della Storia e delle storie e davvero non mancano i riferimenti, sempre appropriati, alla riflessione e rilettura politica che prende il via a partire da un tragico evento concreto: la strage di Peteano. Però il romanzo batte più strade, oltre a quella maestra. E, per altre vie, non secondarie, ci porta all’interno delle sue fondamenta. Mi spiego: Quarin srotola le pieghe della narrazione, ci fa entrare nel meccanismo – quasi una nouvelle vague della scrittura – del romanzo in sé e per sé, facendo la spola tra realtà e finzione in un continuo gioco di specchi. Orbene, sappiamo che i protagonisti dei romanzi, per quanto autobiografici, vivono all’interno del romanzo. Quarin sfida la legge della gravità narrativa e li sposta al di là della scena in cui vivono. L’effetto è singolare. Ma più che l’effetto, è senz’altro la inequivocabile dichiarazione d’amore che Quarin fa alla letteratura quella che infine trionfa, sul sangue e su ferro.

Barbara Codogno

“Ricordava davvero qualcosa?” si chiede il protagonista di questo romanzo. Andrea Ferro è un uomo sfocato la cui vita procede su piani paralleli. Andrea Ferro è ricercatore universitario sotto il giogo del professore ordinario, è lettore presso la casa editrice Editori Riuniti, suona in un Pub, fa da balia all’ex fidanzata, ma Ferro ha, soprattutto, un passato. La storia di Andrea Ferro si mescola con la Storia d’Italia. Il romanzo raccoglie testimonianze storiche sulla lotta tra destra e sinistra, tra Lotta Continua, le Brigate Rosse, Gladio, l’eversione nera e l’epoca dei depistaggi, senza dimenticare gli spettri della Decima Flottiglia Mas. Quello di Luca Quarin è un romanzo che si autoalimenta a mano a mano che procediamo con la lettura. È una camminata nelle terre dell’autofiction, ma allo stesso tempo sembra quasi prenderne le distanze, come se l’autofiction fosse una scappatoia o, più semplicemente un mezzo d’indagine che non può dare i risultati desiderati. Questo è un libro che pone molte domande. Alcune delle quali spettano al lettore. Ad esempio, il quesito più intrigante che ci si possa fare dopo aver letto “di sangue e di ferro” ha a che fare con la veridicità delle fonti riportate. Non possiamo essere certi che tutto ciò che è stato citato sotto forma di contributo storico corrisponda al vero. Possiamo essere sicuri però che tutto ciò che è inserito in questo romanzo ha l’unico scopo di rispondere alla domanda iniziale “Ricordava davvero qualcosa?”

Gianluigi Bodi

Cos’è di sangue e di ferro di Luca Quarin? Autofiction come strumento per diffidare della grande Storia, e affermare che è “vera” solo la sua narrazione? Un romanzo sul romanzo, volto a saggiarne la tenuta delle regole nel postmoderno? Una contaminazione di generi letterari disseminata di interrogativi filosofici? Tanti sono i piani di lettura di questo romanzo. Che però resta solido nel suo ancoraggio contenutistico: scandagliare l’eversione nera in uno dei suoi più inquietanti episodi, la strage di Peteano (31 maggio 1972). Ferro, il protagonista, si interroga sulle responsabilità di suoi familiari nell’intreccio perverso fra apparati dello Stato, logge massoniche, organizzazioni neofasciste che hanno depistato per anni le indagini, imboccando la “pista rossa” nel tentativo di saldare l’autobomba di Peteano all’omicidio Calabresi (17 maggio). Sono i miasmi di questa putrida storia che avvolgono i protagonisti del romanzo, è inseguendo la sua trama che l’autofiction rimane tesa nello sforzo di avvicinarsi a una verità. Una verità che brucia, forse non risana, forse non esiste neppure, forse è solo l’eliminazione di qualche errore. Tuttavia la sua ricerca consente al narratore di prolungare la vita indagando i misteri della Storia attraverso le storie dei protagonisti, grandi e piccoli, con uno stile che si fa solido, teso, scevro da compiacimenti estetizzanti. Ferro e i suoi congiunti vengono strappati alla Storia che sospinge ai margini del nulla le piccole storie come la sua. Quella Storia che assegna alle piccole storie la sorte di essere narrate, mai di narrare. Una storia che Ferro vuole dimenticare, perché “dimenticare è la nostra unica libertà” [pag.151]. Ma dimenticare non per rimuovere il passato oscuro: dimenticare come fanno le esistenze fortificate, come fa la natura “che ricomincia a ogni istante i misteri dei suoi parti infaticabili” (Balzac). In questo senso “di sangue e di ferro” prolunga la vita del lettore. E in questo senso si può dire che “lo scrittore è il profeta che guarda al passato”.

Marco Quarin

Il romanzo di Luca Quarin e’ come una matrioska che cela al suo interno almeno altri due romanzi ed altrettanti coprotagonisti: Andrea Ferro orfano cresciuto dai nonni legati a movimenti eversivi della destra, Luca Quarin scrittore in cerca di riconoscimento e Vincenzo Vinciguerra autore della strage di Peteano tutti indissolubilmente legati tra loro.
Niente e’ pero’ come sembra a prima vista e bisogna arrivare alla fine della narrazione per toccare con mano tutti i depistaggi subiti dall’inchiesta sul fatto di sangue e nel contempo dalla memoria su ciò che ricordiamo e su come ricordiamo.
Un romanzo molto profondo da leggere con attenzione per i quesiti che inevitabilmente ognuno di noi si pone.

Gabrielle Regini

Un consiglio di lettura intenso, che non consente tregua allo sguardo del lettore. Nel 1972 esplode una bomba a Peteano, vicino a Gorizia, uccidendo tre carabinieri.
Depistaggi, indagini, memoria con cui fare i conti. Un romanzo sulle oscurità della Storia e sull’impossibilità di ricucire il presente con il passato, anche per quanto riguarda le vicende personali.

Natalia Ceravolo

Un libro poderoso, di grande qualità letteraria.
Un romanzo matrioska, di quelli che al loro interno contengono altre storie in un intreccio stretto e inaspettato.
La prosa è notevole specie nelle parti dedicate al protagonista Andrea, giovane insegnante che accorre non appena riceve la chiamata da un’infermiera, che avvisa che la nonna si sta aggravando.
Quarin è un autore straordinario, che lascia senza fiato.
Nonostante io prediliga le scritture asciutte devo dire che questo è un romanzo che ti cattura e che regala delle pagine indimenticabili.
Quarin non dà tregua al lettore, lo trascina dentro la vicenda, fa capire che si tratta di una storia vera, fa saltare i confini fra fiction e autofiction.
La cronaca racconta cne nel 1972 esplode una bomba a Peteano, vicino a Gorizia, uccidendo tre carabinieri.
Depistaggi, indagini, memoria con cui fare i conti. Quarin scrive un romanzo sulle oscurità della storia e sull’impossibilità di ricucire il presente con il passato, la vicenda personale è impastata di sangue e di ferro. La verità è un puzzle da ricostruire con fatica e a caro prezzo.

Francesca Maccani

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.premiocomisso.it/recensioni-di-di-sangue-e-di-ferro-di-luca-quarin/?fbclid=IwAR1pRNuHYpVB2Fx_ak2gSMr9r2SC6wIWTyrucBDjgLRGFN50Bu93NXqSkdY

E DENTRO LUCCICA – intervista a Giulia Fuso a cura di Antonio Esposito su Rivista Grado Zero

E DENTRO LUCCICA – intervista a Giulia Fuso a cura di Antonio Esposito su Rivista Grado Zero

In questi giorni ho avuto modo di scambiare due chiacchiere con Giulia Fuso, attenta lettrice e autrice di due volumi di poesia, pubblicati per Eretica edizioni e Miraggi edizioni.

Giulia, presentiamoci. Nelle prime pagine del tuo Tu che dismetti mai le cose Jaime Andrés De Castro dichiara che per conoscere bene un poeta non basta leggerne l’opera, ma che bisogna provare a conoscere la persona che sta dietro le parole scritte. Però, ammettiamolo, non a tutti è data questa possibilità, quindi ti chiedo di mettere da subito le cose in chiaro: chi è l’“io” che appare nei tuoi versi? chi il “tu” a cui ti rivolgi? E come possono le parole annullare la possibile distanza tra autore e lettore?

Le parole non annullano in alcun modo la distanza autore lettore, distanza che a mio avviso è necessaria a volte. Perché dovremmo volerla annullare? La mia esperienza poetica è singolare così come lo è la tua. Capire le parole non è capirsi, né tanto meno entrare in sintonia. Al limite arricchirsi aggiungendo contenuto, cosa che ricerco spesso nelle letture che faccio. Da questo punto di vista non risulta necessario nemmeno spiegare il mio “io” e il mio “tu” che sono solo veicoli e hanno spazio marginale. Quello della poesia aperta è un discorso lunghissimo, ma resto convinta del fatto che spiegare non sia necessario, a volte auspicabile, altre decisamente superfluo.

Per questa chiacchierata ho letto entrambe le tue raccolte: E dentro luccica (Miraggi, 2017) e Tu che dismetti mai le cose (Eretica, 2018). In entrambi i casi l’approccio è stato quello del curioso, rimasto però, folgorato dall’immediatezza dei versi, dalle immagini nitide evocate e dalla loro composizione. Oltre ciò mi ritrovo, a malincuore, a dover confessare di non essere un buon lettore di poesie. Le poche volte che mi capita attingo a quella classica e mi oriento male in quella contemporanea – pur vivendo e godendo d’improvvise scoperte. Mi sapresti dire, secondo te, come può orientarsi nel maremagnum editoriale chi non frequenta questa forma? Quali sono le riviste, gli autori e gli editori di riferimento per chi come te pratica poesia oggi?

Qualche giorno fa parlavo con un amico che mi diceva intendere la poesia come una grande baraonda, ecco questo può essere un buon punto di partenza. Parlare di poesia è complesso e io non me ne sento mai in grado perché quando c’è vastità è necessario conoscere e conoscere è sempre fin troppo relativo per i miei gusti. Il mondo social ci ha sicuramente aperto una bella porta, in fondo si tratta di una vetrina a cui tutti accedono. Il rischio ovviamente è di ritrovarsi e leggere di tutto, dove non c’è un “criterio di ammissione” passami il termine, alcune volte viene a mancare la qualità. Questo però è un discorso semplicistico che non mi va di far mio più di tanto perché credo anche che la maggiore quantità di porte aperte diano maggiori scenari da analizzare e del buono si trova sempre. Conoscere così è una bella onda di ritorno.
Si può dire che per chi non ha mai frequentato il meremagnum della poesia sia necessario perdersi per entrare? Io non mi ricordo come ci sono arrivata, non parlerei certo di formazione scolastica però. Credo di aver iniziato ad appassionarmi per caso, comprando un paio di libri che ora non comprerei mai per esempio, ma tutto serve. Impossibile non nominare la Bianca Einaudi se si parla di poesia, a cui si aggiungono case editrici come Nottetempo e Marcos Y Marcos se parliamo di nomi più noti. Eretica, Pietre vive, Interlinea, Interno Poesia, Aguaplano sono altri nomi che mi vengono in mente e da cui attingo spesso.
Vittorio Lingiardi, Dario Bellezza, Giovanni Gandini, Mario Benedetti e Ivano Ferrari sono nomi che mi sento di fare, potresti iniziare da qui ma sono un puntino di partenza piccolo e questo è da intendere. Poi i classici si sa, vanno letti. (Sono un po’ provocatoria).

Nella tua scrittura c’è un rapporto diretto con la realtà: i gesti, gli oggetti, le sensazioni, le emozioni, attingono alla vita di tutti i giorni. E lo fanno in maniera diretta. Alessandra Piccoli ha parlato di “poesie take-away”. Tu come definiresti la tua produzione? C’è una linea di discendenza in cui provi a collocarti? Quali sono i tuoi riferimenti culturali?

Non mi colloco, non riesco ancora. Trovo tutto fin troppo nebuloso quindi evito di star qui a parlare del nulla. Il riuscire a definire la mia produzione è un passo che spero di riuscire a far presto, ma ora non è una necessità.

Nel tuo vocabolario interiore, quale definizione c’è alla voce “quotidianità”?

Per me quotidianità è confidenza. Sono una persona che adopera le mani e che crede fermamente che la misura delle quotidianità sia data dalla confidenza che si riesce a raggiungere con quello che si fa e forse con quello che si è. Il conoscersi è una scala a salire, ma approcciare con noi stessi è ancora l’unico modo che abbiamo per trovare equilibrio. Faccio meditazione e la trovo necessaria per riuscire ad andare avanti.

La tua ultima raccolta poetica risale a due anni fa, eppure chi ti segue sui social sa che stai continuando a scrivere: dove ti stanno portando i nuovi componimenti, hai un altro libro in cantiere?

I due libri che ho pubblicato sono usciti a distanza ravvicinata, ad un anno l’uno dall’altro. Non è stata una scelta, non la definirei tale. Credo piuttosto di averne avuto la necessità perché al tempo andavo veloce.  Non ho mai presentato i miei libri, né il primo né il secondo, non ne ho mai parlato davanti a un gruppo di persone e mi risulta tutt’ora difficile farlo. Quello che mi sono riproposta prima di pubblicare un altro libro è di conoscere meglio me stessa e superare alcuni punti cruciali che mi impediscono di essere come vorrei. Nessun segreto quindi, voglio solo imparare a conoscermi prima che lo facciano gli altri in modo da sentirmi completa.
Sì, c’è un file pronto da essere letto, ci sono tante parole che per il momento però restano dove sono.  Credo che sia un lavoro diverso, spero sia anticamera di una crescita ormai necessaria.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.rivistagradozero.com/2020/06/02/intervista-i-versi-del-quotidiano-di-giulia-fuso/amp/

SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI vincitore del Premio Più a Sud di Tunisi 2020

SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI vincitore del Premio Più a Sud di Tunisi 2020

Angelo Orlando Meloni s’impone nella categoria “Calcio e narrativa”

Anche la XV edizione del Premio Nazionale “Più a Sud di Tunisi”, in programma a Portopalo dal 21 al 23 agosto 2020, conferma il binomio tra calcio e letteratura, potenziato a partire dal 2017 dall’appuntamento con l’Osvaldo Soriano Futbol Fest, curato da firme prestigiose del giornalismo e della letteratura legata al futbol.

Angelo Orlando Meloni, autore del libro “Santi poeti e commissari tecnici” (Miraggi Edizioni), si è aggiudicato il riconoscimento nella categoria “Calcio e Narrativa”. Il libro, uscito l’anno scorso, ha raccolto ottime recensioni.

“Il libro di Meloni è l’occasione, – ha scritto Leonardo Lodato sul quotidiano La Sicilia – un’altra ancora, per parlare di calcio, per smontarne determinate trame e trascorrere, magari, una domenica con tra le mani un buon libro. Con buona pace dei nostalgici di Tutto il calcio minuto per minuto”. Il sito letterario Culturificio ha definito il libro di Meloni “un feroce pugno nello stomaco, dove gli ultimi resteranno ultimi, senza possibilità di rivalsa o di rivincita, perché gli uomini, gli unici a poter cambiare e scardinare alcuni corrotti meccanismi sociali, non lo permetteranno mai”. Racconti di calcio e società, passioni e identità. Un corpus di storie con denominatore comune il football, dissacrato dall’autore con grandi dosi di leggerezza e ironia.

Tante piccole storie: il bomber alcolizzato, l’arbitro integerrimo giunto all’ultima tappa della sua carriera e costretto a fare i conti col suo passato, il giovane campione che non riesce a rapportarsi con la follia dei genitori degli altri ragazzi. Pagine in cui la sfera di cuoio s’interseca con gli amori finiti e sfuggenti, mancati o mancanti. Elegia del calcio di provincia che corre il rischio di finire nel fango del dio pallone.

Una narrazione, quella di Angelo Orlando Meloni, che bussa alle porte del cuore, arrivando nella parte che custodisce l’arcadia della nostra esistenza, miscelando tutto con un sorriso soave e leggiadro.

L’edizione 2020 del Premio Più a Sud di Tunisi, uno degli appuntamenti culturali di maggior prestigio tra quelli organizzati in provincia di Siracusa, avrà il patrocinio del Comune di Portopalo.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.gazzettadelmediterraneo.it/portopalo-angelo-orlando-meloni-vincitori-del-premio-piu-sud-tunisi/

GRAND HOTEL – recensione di Andrea Cabassi su Giudittalegge

GRAND HOTEL – recensione di Andrea Cabassi su Giudittalegge

L’anima e l’esattezza delle nuvole

Grand-Hotel-cover

“Sull’Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro a un massimo incombente sulla Russia, e non mostrava per il momento alcuna tendenza a schivarlo spostandosi verso nord. Le isoterme e le isòtere si comportavano a dovere. La temperatura dell’aria era in rapporto normale con la temperatura media annua, con la temperatura del mese più caldo come con quella del mese più freddo, e con l’oscillazione mensile aperiodica. Il sorgere e il tramontare del sole e della luna, le fasi della luna, di Venere, dell’anello di Saturno e molti altri importanti fenomeni si succedevano conforme alle previsioni degli annuari astronomici. Il vapore acqueo nell’aria aveva la tensione massima, e l’umidità atmosferica era scarsa. Insomma, con una frase che quantunque un po’ antiquata riassume benissimo i fatti: era una bella giornata d’agosto dell’anno 1913”.

Questo il noto incipit de “L’uomo senza qualità” di Robert Musil (Einaudi 1996. Trad. it.   Anita Rho, Gabriella Benedetti e Laura Castoldi). In questo incipit così preciso e puntuale possiamo  cogliere in filigrana quello che sarà uno dei temi fondamentali dell’opera di Musil: il rapporto tra anima e esattezza. E, a proposito di questo tema, Musil stesso afferma:

“Ogni cosa ha mille lati, ogni lato ha cento rapporti, e a ciascuno di essi sono legati sentimenti diversi. Il cervello umano ha poi fortunatamente diviso le cose, ma le cose hanno diviso il cuore umano” (Op. Cit. Pag. 87).

Come conciliare l’anima con l’esattezza, la poesia con le scienze rigorose, l’umanesimo con la scienza? Può essere conciliabile un ossimoro? Non sarà forse la meteorologia che riuscirà a risolvere la questione? Interrogativi che si sono affollati nelle ma mente alla lettura dell’originale e bel libro di Jaroslav Rudis “Grand Hotel. Un romanzo fra le nuvole”, ottimamente tradotto da Yvonne Raymann e pubblicato da Miraggi nell’ottobre 2019 nella collana dedicata alla letteratura ceca NovàVlna.  Il romanzo era uscito nella Repubblica Ceca nel 2006. Va dato grande  merito a Miraggi di aver dato la possibilità di conoscere questo piccolo gioiello ai lettori italiani. 

Ma chi è Jaroslav Rudis? E’ nato a Turnov nella Repubblica Ceca, distretto di Liberec  nei Sudeti tedeschi. E’ scrittore, drammaturgo, sceneggiatore, musicista. Ha scritto romanzi, racconti e, insieme al musicista e performer Jaromìr 99, ha dato vita a una popolare trilogia di fumetti, Alois Nebel; ha, inoltre, fondato il gruppo musicale Kafka Band. Scrive sia in ceco sia in tedesco. Ha ricevuto numerosi premi. Nel 2018, alla Fiera del libro di Lipsia, ha ricevuto il Premio delle Case Editrici con la seguente motivazione. “Con ironia e sensibilità per le piccole preoccupazioni quotidiane della gente Jaroslav Rudis ci restituisce una società composta di personaggi eccentrici, spesso vittime di aneddoti tragicomici. Così sono i suoi libri: divertenti, critici, politici, poetici, in poche parole un rock’n’ roll letterario”.

A questo punto il lettore si domanderà cosa c’entri l’incipit di Musil con Rudis. Lo vedremo, ma prima la trama in breve: Fleischmann, di cui si conoscerà il nome di battesimo solo nelle ultime pagine del romanzo, è un giovane trentenne eccentrico, spostato e che ha la passione per la meteorologia. Va periodicamente da una dottoressa per parlare dei suoi problemi. E’ stato rocambolescamente adottato da un lontano cugino, Jégr, dopo che i suoi hanno avuto un grave incidente in auto dove lui era uno dei passeggeri. A causa dell’incidente ha avuto un ricovero in una struttura per “svitati” dove ha sviluppato una sindrome post-traumatica da stress accompagnata da istinti suicidi, insicurezze, malinconie, desiderio di solitudine e difficoltà con le donne. Fleischmann è, come si diceva più sopra, un appassionato di meteorologia. Ascolta le previsioni del tempo quotidianamente, osserva il cielo e le nuvole dal suo osservatorio privilegiato: l’Hotel che si erge verso il cielo in cui lui vive e lavora. Vi vive e lavora insieme al cugino che lo adottato con cui parla di donne e calcio e dal quale viene ritenuto un giovane con molte difficoltà, anche di comprensione. Viene ritenuto incapace di avere relazioni con le donne e incapace di praticare qualsiasi attività sportiva. Quasi l’intero romanzo si svolge nel Grandhotel di Liberec, città della Repubblica Ceca, capoluogo della regione omonima, collocata nei Sudeti tedeschi. E’ lì che Fleischmann incontra lo stravagante Franz, forse un nostalgico del nazismo, incontra Ciuffo ex compagno di scuola, Zuzana,  la cameriera Ilja, una ragazza snella e dai capelli corti che sarà decisiva per lo sviluppo della storia.  Sarà nel Grandhotel che l’anelito di libertà di Fleischmann si farà sempre più forte fino alla conclusione finale che lascio al lettore il piacere di scoprire. Tutti i personaggi del romanzo sono  strambi, fuori dagli schemi, indimenticabili. Anche se richiamano alla memoria alcuni personaggi dei racconti e romanzi di Hrabal, questi personaggi  sono assolutamente originali. Su di essi Rudis ha fatto un lavoro di scavo psicologico molto approfondito.

Si diceva di Musil, della sua ricerca di conciliare anima e esattezza. Fleischmann cerca di farlo  utilizzando la meteorologia, il che rimanda all’incipit de “L’uomo senza qualità”, e una vera e propria fenomenologia delle nuvole:

“L’uragano è un ciclone tropicale. Un vortice di bassa pressione. Venti devastanti. In Giappone lo chiamano tifone. In Australia, invece, willy-willy. Nei Caraibi, uragano. Per formarsi ha bisogno di tre elementi: il calore dell’acqua, aria umida e venti equatoriali convergenti. Ma magari è sufficiente che da qualche parte una mosca batta le ali. O una farfalla. O una zanzara. Oppure che qualcuno saluti con la mano per la strada. Sarà per questo che non saluto mai così, per non provocare una catastrofe con il movimento della mia mano.

Un uragano è una gigantesca lavatrice dell’aria, un’aspirapolvere così potente che forse a volte potrebbe servire a ognuno di noi. Un uragano, però, è forse anch’esso uno stato dell’anima, lo stato dell’anima del clima” (Pag. 16).

E le nuvole assumono anche un aspetto poetico:

“All’inizio di ogni storia e di ogni film c’è il cielo azzurro, l’avete mai notato? Poi, ad un tratto, da chissà dove spuntano le nuvole. Io lo so da dove giungono. Ho fiuto per le nuvole” (Pag.21).

Le nuvole, che possono darci indicazioni precise sul tempo atmosferico, che sono poetiche, possono dare la tranquillità. Fleischmann ricorda i tempi della scuola e quel giorno in cui i suoi compagni di scuola lo legarono ad un albero:

“Ero sul punto di crollare, ma dominai la situazione, come si suol dire. Guardai le nuvole che scorrevano basse sopra la via. Le nuvole che portavano la pioggia del Mare del Nord e a un tratto capii. Intendo dire che capii tutto delle nuvole e anche di me stesso. Mi tranquillizzai. Sapevo che presto  sarebbe cominciato  a  piovere e i ragazzi sarebbero corsi a casa” (Pag. 24-25).

Le nuvole sono indispensabili pre prevedere il tempo, sono poetiche, tranquillizzano e salvano, ma hanno anche un aspetto metafisico:

“Le nuvole mi tranquillizzavano. Le nuvole mi avevano insegnato a perdonare. Le nuvole che stavano lì prima di me, prima di voi, prima dell’hotel a punta sulla nostra collina, prima dei comunisti, prima dei nazisti, prima dei calciatori e dei giocatori di hockey, prima dei ferrovieri, dei dottori e dei becchini, prima dei cantanti. delle attrici e dei robot, prima di tutta la nostra storia. Le nuvole che saranno lì anche quando finirà la storia. E finirà. Lo hanno detto alla televisione” (Pag.26).

 Fleischmann non è mai diventato meteorologo ma:

“Le nuvole però non mi hanno lasciato. Ricordo tutti gli eventi in base alle nuvole, in base al clima, perché dal clima dipende proprio tutto. E quindi registro tutto quanto. La temperatura. La pressione atmosferica.  La direzione e la forza del vento. Le forme e i tipi di nuvole. Le precipitazioni. Proprio tutto ciò che è importante se si vuole conoscere il clima, se si vuole capire da che parte va il mondo. Sulle pareti della mia stanza c’è un enorme grafico, delle linee azzurre, nere e rosse, degli appunti. Questo è il mio mondo. Il mio diario. La mia tabella di marcia” (Pag. 31).

Al lettore può venire il dubbio che il tempo atmosferico sia un surrogato, sia qualcosa che riempie i vuoti dell’anima di Fleischmann. Il lettore condivide  con la dottoressa di Fleischmann questo dubbio:

“La dottoressa dice che tutte le mie nuvole, i venti, le nevi, le piogge, i cicloni, le mappe e i grafici suppliscono a qualcosa di molto più importante, a qualcosa che desidero nel profondo del mio personale infinito, ma che forse non conosco neppure. O che forse conosco già. Ma ho paura di farlo” (Pag.89).

Questo è un aspetto molto importante sul quale tornerò dopo. Qui mi preme sottolineare come nel romanzo sia presente anche la Storia, anche la politica. Ci troviamo davanti alla dimensione politica quando Fleischmann evoca il padre e il  nonno, quando ci narra di quello strambo personaggio che è Franz, che forse è stato nazista, che si è dato la missione – quasi come in un film-  di spargere le ceneri di amici morti nelle loro case d’origine a Liberec.

Liberec è nei Sudeti tedeschi. Dopo l’invasione nazista della Cecoslovacchia quella zona divenne una Gau, unità amministrativa della Germania nazista, e Liberec, che assunse il nome di Reincheberg, ne divenne il capoluogo. Quando la Germania nazista venne sconfitta, il Territorio dei Sudeti venne restituito alla Cecoslovacchia e i tedeschi espulsi. Oggi gli ex territori di lingua tedesca dei Sudeti fanno parte della Repubblica Ceca. Il capoluogo è tornato a chiamarsi Liberec. Nel libro sono adombrati vari riferimenti a queste vicende e non solo quando Fleischmann si associa a Franz nelle sue avventure picaresche e deliranti. Spesso Rudis fornisce il significato in tedesco e in ceco di un nome, sottolinea che in quella zona si parlano il tedesco e il ceco. Un esempio, fra i tanti,  quando Fleischmann parla della cameriera Zuzana:

“Il suo cognome è SladkàDolce in tedesco si dice suss o zuckrigSuss wie Honig vuol dire dolce come il miele dolce riposo si dice eine susse Rast. Ve lo dico perché i nomi non mentono e Zuzana sembra fatta di zucchero, Ma ve lo dico anche perché la nostra è una città ceco-tedesca. O tedesco-ceca, Per questo traduco sempre tutto” (Pag. 90).    

Per quanto concerne il padre, Fleischmann paragona le riunioni a cui partecipava (ma anche su questo punto Rudis riserverà sorprese al lettore) alla sua passione per il tempo atmosferico:

“Spesso prima delle riunioni si chiudeva in bagno dove c’era uno specchio grande. La mamma diceva che davanti allo specchio provava i discorsi, ma secondo me chiacchierava normalmente tra sé e sé, come capita a tutti quando si è soli, anche a me.

Può darsi che la solitudine sia l’unica qualità che ho ereditato da lui. Sempre che la solitudine possa essere una qualità, ma io penso di sì, anche la mia dottoressa si limita a scuotere la testa: non ci vedo niente di male se a qualcuno nella vita bastano le riunioni. A me basta il tempo atmosferico. Alla fin fine anche il tempo atmosferico è simile a una riunione, a volte tranquillo, a volte burrascoso, e una riunione importante è un incessante incontro di nuvole, lampi, pioggia, venti, pressioni, temperature, tutto ciò che influenza, rovina e salva la vita. La vostra e la mia” (Pag. 35-36).

Per quanto concerne il nonno, Fleischmann racconta alla dottoressa che il 21 agosto 1968, giorno dell’invasione russa della Cecoslovacchia, il nonno e la nonna erano andati a vedere i carri armati “con le righe bianche”. Il nonno aveva acceso una sigaretta “Partyzàn” e minacciato i carri armati a pugni chiuso e aveva ridotto in pezzi il suo libretto Rosso. Mentre la nonna lo portava via lui era scivolato ed era finito sotto un carro armato. Racconta  ancora Fleischmann alla dottoressa:

“Raccontai alla mia dottoressa  che mio papà mi aveva vietato di parlare di carri armati a strisce, di libretti rossi fatti a pezzi e del nonno, che era arrabbiato con la mamma e con la nonna per avermelo raccontato e che in ogni caso era stato un errore del nonno, mettersi davanti ai carri armati, non sarebbe venuto in mente a nessuna persona normale, le raccontai che il nonno non era affatto un partigiano sebbene fumasse le Partyzàn, era un provocatore e un sabotatore, e da quello non prende il nome nessuna sigaretta perché i sabotatori non sono mai molto popolari” (Pag. 129-30).

Dai brani riportati più sopra si può ben capire come siano molto presenti a Jaroslav Rudis le tematiche riguardanti i Sudeti e quelle concernenti la Primavera di Praga e la normalizzazione. Un contesto da non dimenticare mentre si legge.

Si diceva più sopra che le nuvole hanno un significato metaforico. C’è uno slittamento progressivo di senso: le nuvole sono poesia, sono l’esattezza con cui si può prevedere il tempo, sono la metafisica perché esse erano prima di noi, infine diventano la metafora della libertà. Le nuvole sono la leggerezza, la navigazione verso l’Altrove, rappresentano il superamento di ogni confine. E questo è molto importante perché una delle difficoltà di Fleischmann, forse la più grande, è quella di non riuscire a superare il confine, un confine il cui passaggio sembra interdetto, malgrado l’aiuto della dottoressa che lo accompagna fino la cartello che indica la fine della città:

“Ma all’improvviso cambiò tutto, ci avvicinammo al cartello che indicava la fine della nostra città e l’inizio del mondo e cominciò a palpitarmi il cuore, mi si strinse la gola e sulla lingua avvertii il gusto piccante del mio personale infinito, tutte le mie paure. Cominciai a sudare e a soffocare e dovetti uscire perché, mi era chiaro che se l’avessi oltrepassato non sarei più tornato indietro. Mi sarei perso. Sarei morto.

Il conducente lo fece appena in tempo. Aprì le porte, io saltai fuori e mi buttai sulla strada proprio sotto al cartello con la scritta barrata della nostra città, i passeggeri uscirono in massa, si chinarono verso di me, volevano prendersi un pezzo della mia paura, come in modo indolore ne strappano ogni giorno dagli incidenti alla televisione, ma la dottoressa li tranquillizzò, disse loro che non stavo morendo, che era tutto a posto, che non mi era successo niente, che avevo avuto solo un attacco di panico, una normalissima crisi d’ansia e niente di più, ma come me, anche lei sapeva bene che non si trattava solo di questo, che era molto di più” (Pag. 162).

E’ molto di più perché si tratta di emancipazione e di libertà. Ce la farà Fleischmann, dopo questa esperienza, a superare quella linea di confine che gli sembra interdetta? Riuscirà a essere come le nuvole, a essere come il vento?

A conclusione mi si conceda un ricordo personale. Anni fa ero in vacanza con alcuni amici in quella che era ancora la Cecoslovacchia. Uno di loro mi confidò che aveva avuto, in alcuni momenti della nostra permanenza là, dei veri e propri attacchi di claustrofobia. Aggiunse che, a suo avviso, uno dei grossi problemi dell’Europa Centrale era che non c’era il mare che l’avrebbe ossigenata come avrebbe ossigenato lui. Che se ci fosse stato il mare l’ anelito alla libertà di quei popoli sarebbe stato molto più grande.

E il ricordo personale si mischia, oggi, a quello che la dottoressa dice a Fleischmann:

“(La dottoressa) dice che il nostro popolo non fa male a nessuno, ma che in fin dei conti non ci importa se qualcuno fa del male a noi. La mia dottoressa pensa che a noi manchi il mare e l’aria fresca. Oppure delle vere montagne con dei bei panorami. Che noi siamo bloccati in una conca, dove di noi si possono vedere solo i capelli. E che per questo siamo un popolo così introverso. E chiuso in stesso. E angosciato” (Pag. 158).

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

BOLAÑO SELVAGGIO – recensione di Marco Archetti su Il Foglio

BOLAÑO SELVAGGIO – recensione di Marco Archetti su Il Foglio

Gli scrittori latinoamericani tirano fuori il peggio di noi

“Bolaño selvaggio” è un libro che fa bene a Bolaño e benissimo ai bolañisti, cioè a tutti noi. E che andrebbe letto da cima a fondo a cominciare dal fondo

Confesso, ho sempre fatto fatica con Roberto Bolaño. Il che non significa che io non abbia letto Roberto Bolaño, perché, giuro, l’ho letto. Ho letto numerosi romanzi di Roberto Bolaño, direi almeno cinque – verità che, non fosse tale, confesso che occulterei senza pensarci un attimo, negando fino alla morte e resistendo eroicamente alle inquisizioni sopraccigliari delle frotte dei bolañisti, i quali sono una setta di adepti che ti sbirciano in tralice mentre parli fino a indurti al balbettio (quando parlate con un bolañista fissatevi su un dettaglio del volto a caso e concentratevi su quello, solo così potrete sostenere il suo sguardo non sostenendolo) e ti sbirciano per vedere se hai detto la verità, sospettando che non l’hai detta, tu Roberto Bolaño l’hai letto poco, pochissimo, e ovviamente male. Come tutte le sette, sono pericolose e assassine, il che getta una luce di amara verità non solo sui bolañisti ma anche su tutti gli altri: sui cortazariani, i dostoevskiani, i pasolinisti, i thomasbernhardiani, i franzeniani, insomma, su chi siamo tutti noi, nessuno escluso, quando amiamo un autore. Siamo dei granitici detentori di culto, degli officianti permanenti, dei teppisti che si contengono per un pelo, degli stalinisti, dei mezzi mostri con l’alibi intero della passione, come se la passione sia mai riuscita ad affrancare qualcuno dalla propria condizione di aguzzino, macché, non c’è un solo caso al mondo, anzi, è vero il contrario, l’ha semmai nutrita e incrudelita, la passione, quella condizione di omicida con l’alibi profondo.

Io – sia chiaro – non sono da meno, e faccio parte di questa famiglia di fanatici feroci che suppongono il proprio gusto il più giusto possibile: quando sono io il portatore di un’inamovibile convinzione letteraria sono sempre nella verità, mentre i portatori di culti diversi erodono il mio terreno esclusivo, quindi mi urtano, mi ostacolano, mi innervosiscono con la loro ottusità. E quanto insistono! Tra l’altro è dalla mia vita cubana in poi che noto come, quando in ballo ci sono i latinoamericani (come se “scrittore latinoamericano” significasse davvero qualcosa), il culto prenda pieghe ancor più aggressive e l’amore assuma assurdi significati travalicanti. Quello che accade è che “scrittore latinoamericano” diventa automaticamente condizione morale e non solo estetica. E lo diventa al punto che criticare la qualità letteraria delle pagine di uno scrittore latinoamericano scarso ma di culto è pericolosissimo, è una spericolata attività portatrice di penose conseguenze, alimentate da sospetti di insensibilità politica del criticante, e di squallido cinismo occidentalista antindigenista (l’accusa non viene aggiornata dal 1967). Perché gli scrittori latinoamericani tirano fuori il peggio di noi? Perché, in nome di ciò che non esiste, ci assembriamo in contese ringhiose su un terreno ridicolo, in una notte in cui tutte le vacche sono nere, trascinandoci – nolenti – fin nel cuore delle selve amazzoniche, sospinti da una rossa brezza esoterico-allegorica?

Bolaño selvaggio” (miraggi edizioni, 436 pp., € 24 euro) è un libro splendido, pubblicato da un editore tra i più ammirevoli in circolazione. Un libro che fa bene a Bolaño e benissimo ai bolañisti, cioè a tutti noi. E che andrebbe letto da cima a fondo a cominciare dal fondo, cioè da un rimasuglio di intervista ad oggi inedita in cui Bolaño risponde come spesso amava, con sferzante sarcasmo – il che è rivelatore perché la maggior parte degli scrittori che amano senza ironia Bolaño non hanno nemmeno un centesimo del suo sarcasmo e del suo disinteresse verso ciò che era conveniente dire, chi ha dei dubbi si rilegga la conferenza “Siviglia mi uccide” e avrà di che deludersi, in termini di secca sconfessione di militanze presunte.

Ma è leggendo “Bolaño epidemia” di Jorge Volpi che sopraggiunge l’epifania. Non solo perché epidemia è ormai la nostra parola chiave, ma perché, attraverso un gioco metabolañista, Volpi sveste Bolaño, sveste i bolañisti e la propria generazione di tutto il bolañismo deteriore, di tutto il bolañismo orfico, e consegna un saggio acuto, divertente e intelligentissimo sul Bolaño originario. E ci parla dell’utilità di non essere maniacali e settari quando si ama uno scrittore, perché poi si finisce a non capirlo. E a chi, in quel congresso di Siviglia, chiese che consiglio avrebbe dato a un giovane scrittore, Roberto Bolaño rispose: “Vi raccomando di vivere. E di essere felici.” La risposta meno bolañista possibile. La più bella. Quella fu l’ultima apparizione pubblica dello scrittore. Morì a Barcellona di lì a pochi mesi.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.ilfoglio.it/una-fogliata-di-libri/2020/05/24/news/gli-scrittori-latinoamericani-tirano-fuori-il-peggio-di-noi-318821/

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Geraldine Meyer su L’Ottavo

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Geraldine Meyer su L’Ottavo

La vita moltiplicata. Perché una vita non basta

Dieci racconti, dieci personaggi, dieci storie. In bilico tra realtà, sogno, inconscio. Questo è La vita moltiplicata di Simone Ghelli, pubblicato da Miraggi Edizioni. Un libro che suggerisce una riflessione a partire dal titolo in cui La vita e non Le vite sembra indicare una sottile linea rossa che fa da cifra di lettura e scrittura. Quasi ci fosse un legame tra le storie raccontate, talmente forte da diventare un unico canovaccio, un unico percorso. Seppure complesso e sfumato, come appunto la vita.

I dieci racconti, come i dieci protagonisti ci appaiono tutti alla disperata ricerca di una via di fuga. Dal presente, da un attuale che più che creare disagio sembra, semplicemente, non bastare a contenere tutto ciò di cui si compone un’esistenza. Ogni cosa in bilico tra passato e futuro, a sostenere un presente che fugge, che stritola, che inchioda, che imprigiona.

E allora la vita moltiplicata diventa, per ciascuno dei protagonisti, una sorta di riscatto, di resa, di sogno, di ricerca estrema di ciò che c’è di più estremo: l’identità. Ma anche la realtà. La domanda che ci arriva, in sottofondo, dalla lettura di ciascuno di questi racconti, potrebbe proprio essere questa: cos’è la realtà? Quella che viviamo e dentro la quale ci muoviamo, costretti dalle convenzioni, dai sottili equilibri (anche psichici) che costituiscono l’impalcatura di una costruzione fragile? Oppure la realtà è quella che ci costruiamo nei sogni, nell’immaginazione e nell’immaginario refrattario alle regole?

Simone Ghelli (Foto da giacomoverri.wordpress.com)

Ghelli è scrittore dalle potenti letture e questi racconti restituiscono quello che deve essere stato (e che presumibilmente ancora è) il suo percorso di lettore. E forse, azzardiamo, anche il suo percorso di “consumatore” di cinema. Perché c’è molto di cinematografico in queste pagine. Non nel ritmo, non nella dinamica ma, certo, nell’uso forte delle immagini. Sì, perché i protagonisti di queste storie noi lettori ci troviamo a seguirli quasi come su uno schermo. Che è quello che costituisce un confine fisico in cui le cose più interessanti avvengono oltre esso, oltre quello spazio, dove apparentemente non si vede più nulla ma dove succede tutto. Tutto quello che sappiamo immaginare.

Che è un po’ quello che avviene nella vita dei vari protagonisti dei racconti, ciascuno dei quali viene dal lettore salutato sulla soglia di qualcosa. Perché ciascun racconto si conclude senza finire. In un moltiplicarsi di ipotesi, di sviluppi, di proseguimenti.

La vita moltiplicata è un atto d’amore, soprattutto, verso la letteratura e la scrittura, verso il loro potere di scrivere ciò che ancora non esiste e che non è mai esistito ma che, proprio per questo, è tutto ciò che davvero, forse, possiamo chiamare realtà.

Un libro molto più complesso di quanto possa apparire ad una prima lettura, sorretto da una scrittura la cui semplicità si avverte essere frutto di un lungo lavorio. Che è esattamente il contrario dello spontaneismo. Non vi è nulla di spontaneo in questi racconti. Semmai qualcosa quasi di automatico, come se l’autore si fosse lasciato andare ad un flusso incontenibile, come se si fosse messo accanto ai suoi personaggi, ascoltandoli, come uno psicoanalista con i suoi pazienti. Solo che qui non c’è nessun paziente perché il disagio o l’incapacità di farsi bastare la vita che manifestano i personaggi non è patologico, anzi. È la più vitale delle rivolte a tutto ciò che vuole ridurre la vita a qualcosa di razionale e senza sfumature e stonature.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.lottavo.it/2020/06/la-vita-moltiplicata-perche-una-vita-non-basta/