Chissà com’era vivere come Boris Vian. Essere Boris Vian, scrivere romanzi, racconti, poesie, testi teatrali, tradurre autori come Chandler e Strindberg, e soprattutto suonare la tromba, nonostante il fiato e il cuore non andassero troppo d’accordo. Era tutta una musica, la sua vita, sicuramente jazz, quello che suonavano nei locali di Saint-Germain-des-Prés negli anni Cinquanta. Una musica che è durata poco, però, trentanove anni, il tempo di laurearsi in ingegneria, diventare amico di Queneau e nemico di Sartre (Jean Sol Partre ne La schiuma dei giorni), sposarsi due volte, frequentare Duke Ellington, Miles Davis, Orson Welles, pubblicare romanzi con uno pseudonimo, inventare cose come la ruota elastica e immaginarne altre come il piano cocktail, un pianoforte in grado di fare cocktail a seconda dei tasti suonati.
Dopo una vita passata a rincorrere il suo destino, a cercarsi sempre in nuove vite, post mortem, finalmente, è arrivata la fortuna che avrebbe sempre meritato, i suoi libri sono stati tradotti, le sue canzoni hanno cominciato a girare, a essere raccolte nei vinili e nei cd, alcuni cantanti, da Gainsbourg a Tenco, si sono ispirati a lui, e registi come Michel Gondry hanno pensato che le sue storie fossero perfette per diventare film. Recentemente, marcos y marcos, che ha avuto il merito di riportare Vian in Italia, ha ripubblicato il suo romanzo E tutti i mostri saranno uccisi (traduzione di Giulia Colace, pp. 224, 17 euro), uno di quei romanzi definiti “thriller hardboiled”, mentre per Miraggi Edizioni è uscita una bellissima biografia scritta da Giangilberto Monti, intitolata Boris Vian. Il principe di Saint-Germain-des-Prés (pp. 192, 16 euro).
Nel romanzo, pubblicato nel 1948 con lo pseudonimo di Vernon Sullivan (Vernon per Paul Vernon, Sullivan per il fumettista australiano PatSullivan e il compositore americano Joe Sullivan), il protagonista si chiama Rock, un nome che ci offre già un’idea di quello che ci aspetta, un romanzo musicale, come tutti i romanzi di Vian, che si potrebbe raccontare con una battuta di uno dei personaggi grotteschi che ci capitano sotto gli occhi: “Le parole sono completamente inutili in circostanze così strane”.
Rock è alto, bello, pieno di ragazze che vorrebbero fare l’amore con lui, ma ha promesso a se stesso che rimarrà vergine fino al giorno in cui compirà vent’anni. Viene drogato, rapito e portato nella clinica di un certo dottor Schutz per farlo accoppiare con una ragazza “di una bellezza sorprendente, un po’ troppo perfetta”, e intanto allo ZootySlammer, nel locale di Lem Hamilton che Rock frequenta spesso, viene trovato un cadavere.
Leggere contemporaneamente un romanzo e la biografia di chi l’ha scritto potrebbe confondere un po’ le idee, ma poi no, piano piano le schiarisce, e conferma il fatto che tutto quello che uno scrive, in fondo, è sempre autobiografico. Monti si fa contagiare da Vian e procede per lampi, immagini, pellegrinaggi, dialoghi surreali con ex mogli intenerite dai ricordi e dal tempo che passa. Ogni capitolo della sua biografia, che è una biografia musicale, si chiude con una canzone scritta da Boris Vian. Da Che snob (“che snob, son snob, è l’unico difetto che ho”) al Valzer del sole (“Che sole in strada che c’è, io amo quel sole ma la gente no”), da Berrò (“Berrò, sistematicamente, mi scorderò gli amanti di mia moglie”) alla famosissima Il disertore (“La legge violerò, lo dica ai suoi gendarmi, così potran spararmi, di armi non ne ho”).
Scopriamo che nel 1937, nonostante i suoi problemi cardiaci, Vian scelse di suonare la tromba; che nel salotto di casa sua ci fu una lite tra Camus e Merleau-Ponty e che la sua prima moglie Michelle una notte aveva preparato le patatine fritte per Duke Ellington; che era stato Queneau a convincere Gallimard a pubblicare il primo romanzo di Boris; che sempre Queneau l’aveva fatto entrare nel giro dei patafisici, dove Vian una volta aveva anche scritto un’opera musicale sul codice della strada; che ci metteva pochissimo a scrivere, ma prima doveva immaginare tutto dall’inizio alla fine; che Vian era appassionato di auto d’epoca e la prima macchina con cui scorrazzava per tutta la città era una Bmw sei cilindri; che Sartre aveva una storia con la sua prima moglie e lui lo vedeva come un padre che l’aveva tradito.
Nella lettura di entrambi, del romanzo e della biografia, si ritrovano la dolcezza di Vian, il suo sguardo folle, a tratti infantile, mille personaggi che somigliano ad altri già incontrati prima, mille strade, possibilità, e il lettore, come Rock, come Vian, in fondo non ha paura di percorrerle tutte. E alla fine ci sembra quasi di aver bevuto il cocktail di cui avevamo bisogno.
Una bellissima serata, a Sarnico, per la presentazione del nuovo libro di Enrico de Tavonatti, edito da Miraggi Edizioni. Racconti molesti e piccoli aneddoti emersi nella conversazione dell’autore con Giangilberto Monti. La splendida sala della Pinacoteca Gianni Bellini, incapace di contenere i tanti appassionati accorsi ad ascoltare de Tavonatti, tra sentimenti forti, passioni travolgenti, e smarrimenti personali. Tra ironia ed erotismo selvaggio. Riviviamo quei momenti attraverso il servizio che Bergamo Tv ha dedicato a Sarnico e alla serata.
In una miscela narrativa giornalistica e radiofonica il cantautore, comico e scrittore rivitalizza uno dei geni più antitradizionalisti e anarcoidi della Francia del secondo dopo guerra.
Boris Vian. Il principe delle notti di Saint-Germain-des-Prés (Miraggi edizioni, 2018) è l’ultimo romanzo di Giangilberto Monti, cantautore italiano e poliedrico artista milanese: dalle recitazioni con Dario Fo e Franca Rame alle collaborazioni con i comici di Zelig, passando per le incisioni discografiche (Opinioni da clown – 2015 Egea/Warner) e concludendo una vasta attività con molti romanzi concentrati sulla storia della musica. D’altronde una passione centrale lui ce l’ha: la canzone francese del secondo dopo guerra, ovvero gli chansonnier parigini. Così come conserva perfettamente intatta da quel 1995 (Boris Vian-Le Canzoni – Marcos y Marcos edizioni) la sua ossessione: Boris Vian. Per l’appunto. Ma chi era Boris Vian?
Come ammette nelle ultime righe del libro lo stesso Giangilberto, Boris Vian è uno dei più grandi talenti artistici incompresi o stroncati dalla critica letteraria e musicale transalpina.
Questo libro si carica sulle spalle l’enfasi di una passione energica per far riscoprire e per riattualizzare la figura di questo scrittore e cantautore parigino (Saint-Germain-des Prés è un quartiere della capitale) che stravolse le radici culturali della Francia novecentesca.
Copertina, quarta di copertina, impaginazione e testo scritto. Formalmente siamo davanti a un libro, ma in realtà siamo di fronte a un genere ibrido, originale e multidimensionale. Ispirato un po’ alle prestigiose firme della biografia latina (il pathos di Tito Livio e la profondità psicologica di Tacito), un po’ alla tecnica cinematografica di Orson Welles (alcuni aneddoti narrati dai conoscenti di Boris Vian ricordano le interviste sul miliardario Charles Forster Kane di Quarto Potere) e in parte all’intervista giornalistica odierna (più quella da rotocalco che di stampo politico), Boris Vian. Il principe delle notti di Saint-Germain-dés-Pres è in tutto e per tutto un radiodramma (Non saprei… forse un radiodramma, così lo etichetta lo stesso giornalista reporter che indaga sul passato del poeta francese). Non sembra di leggere un libro, ma la partitura scritta di un programma radiofonico e in particolare un approfondimento culturale notturno. Fra interviste spezzate, dettagliati atti cronachistici (del narratore onnisciente in terza persona) e la presenza di testi originali e tradotti della canzone francese si crea una miscela narrativa ibrida e travolgente.
Giangilberto Monti presenta in toto il suo artista: i romanzi flop e quelli più conosciuti (su tutti L’Écume des Jours,1947); i testi teatrali sarcastici meno noti e il capolavoro Les bâtisseurs d’empire; le traduzioni dei romanzi inglesi; le sue poesie musicali e quelle più liriche; i racconti e i saggi sulla musica moderna; infine più di metà libro dedicato alla canzone antimilitarista e anticonformista sviluppata dal jazz francese in fusione con lo swing e il primo rock ’n’ roll.
Non bastano queste poche righe per disegnare l’immagine di un artista eclettico, anarcoide, pazzoide e dinamico, che rappresentava la briosità creativa dei jazzisti degli anni Cinquanta (quelli il cui background culturale era di essere stati degli zazou durante la seconda guerra mondiale) con i loro ritmi swing, jazz, animati e strampalati. Il fascino narrativo di questo libro è soprattutto nella prima parte, quando Boris Vian diventa a Parigi l’icona di un musicista, letterato e poeta (apprezzato e lodato da Jacques Prevert) capace di vivere fra il suo matrimonio, le belle donne, la musica nei locali e le nottate a base di alcol fino all’alba. Il perfetto ritratto di un moderno simbolista o surrealista e se il paragone non è dileggiante un archetipo di quello che diventeranno Jim Morrison, Janis Joplin e Jimmy Hendrix due decenni dopo.
Sono i ricordi agrodolci delle battute piccanti dell’ex moglie Michelle Leglise o le risposte seccanti delle collaboratrici passate della casa musicale del produttore Jacques Canetti a creare un quadro stratificato e pulsante: le notti passate alla macchina da scrivere; i litigi con gli editori; le polemiche dissennate fra artisti e imprenditori musicali; le feste e le esibizioni canore. Non solo del protagonista, ma di tutti gli amici e i colleghi che hanno creato il mito degli chansonnier e della loro vita artisticamente spumeggiante.
Nel corso del romanzo o meglio docu-romanzo, talvolta, può capitare che il dilungarsi su esordi amatoriali o gestazioni narrative/teatrali di secondo piano avviluppi il lettore in una noiosa “storiografia”, perfino pedante, ma il tono serioso, documentaristico e imparziale del giornalista che vaga per le rue parigine spesso cela l’animo da appassionato di Giangilberto Monti. La tecnica narrativa (l’uso in particolare della terza persona) non nasconde l’attrazione artistica smisurata dello scrittore. Lo si percepisce nel recupero dei giudizi positivi riportati su Boris Vian e nella conclusione appena velata che riconosce ben più di un merito alla sua figura musicale e letteraria.
Il libro è ben suddiviso in sequenze tematiche definite, ovvero per ogni genere ci sono uno o più capitoli, accompagnati da parti di interviste, ricordi vissuti e documentazioni biografiche. È questa una struttura narrativa che fa da contraltare a un difficile controllo della materia. Infatti spesso le alternanze fra interviste, narrazione e attualità (l’iter di ricerca del giornalista protagonista) non sono ben chiare e distinte, così come può un po’ confondere il bombardamento di informazioni sulle numerosissime figure attive del periodo in cui visse Boris Vian.
Alla fine da questa combinazione di generi emerge una scrittura lucida, ma non razionale, dettagliata, quasi chirurgica a tratti, che dà parola alle emozioni attraverso gli intervistati.
Pur senza le tecniche di sovraimpressione cinematografica, Giangilberto Monti con la sua scrittura riattualizza un mito internazionale (dice bene quando in fase conclusiva si afferma che Boris Vian non è a oggi molto conosciuto in Italia), a darne un’immagine simpatica e sfaccettata e infine a evidenziare la grandezza culturale, musicale, artistica e umana di un genio assoluto della scrittura provocatoria, esorbitante, parodica, umoristica e dissacrante.
Come il jazz anche questo romanzo è in grado di restare in uno stato melodico piano, lento e cadenzato e a un tratto di modificare il ritmo con un tempo di scrittura frenetico e saltellante.
Non si può non confrontare la personalità di Boris Vian con quella del cantautore italiano e nel dinamismo culturale di cui è protagonista quest’ultimo nei nostri decenni forse si lascia intravedere il desiderio di assomigliare alla personalità creativa dello chansonnier parigino.
Boris Vian. Il principe delle notti di Saint-Germain-des-Prés è l’apice di una costante e lodevole indagine e documentazione da parte del cantautore italiano. Personalità come quelle di Vian stregano, affascinano e non possono passare sotto traccia nella storia della cultura novecentesca. Se le scuole con i loro programmi troppo standardizzati non sono in grado di farlo, è una gran fortuna che ci siano scrittori odierni che si dispensino in questa attività di recupero del passato meno recente.
P.S.: è consigliabile accompagnare la lettura di questo libro con un ascolto coinvolto dei testi musicali proposti e adattati da Giangilberto Monti, perché solo in questo modo si coglie la parola geniale, intellettualmente ironica e musicalmente jazz di Boris Vian.
Da quando Boris Vian si affaccia sul mercato dell’arte, il suo nome o i suoi tanti pseudonimi, firmano canzoni, traduzioni, romanzi, poesie, testi teatrali, racconti, articoli e critiche musicali, collane discografiche, pièce da cabaret, esibizioni jazzose, serate patafisiche, nottate da chansonnier o performance culturali. Non c’è artista del Novecento che sia riuscito a contaminare così tanti generi in una sola vita, come fece il principe di Saint-Germain, e ad avere così tante pubblicazioni postume, anche perché critici ed editori faticavano a riconoscergli potenzialità commerciali, nonostante gli attestati di fiducia e le proverbiali pacche sulla spalla.
Boris Vian. Il principe delle notti di Saint-Germain-des-Prés di GiangilbertoMonti (Miraggi Edizioni) è un originale, divertente e malinconico docu-romanzo dedicato a una delle figure più appassionanti e non etichettabili dell’arte del secolo scorso. Un improbabile giornalista svizzero si reca a Parigi per intervistare i sopravvissuti dell’epoca degli zazou del Quartier Latin che abbiano avuto rapporti con Boris Vian. Le parti dirette (le interviste a Michelle Léglise, prima moglie di Vian, fino a coinvolgere bibliotecari, custodi, archivisti) danno il La per quelle indirette (la vita di Boris Vian, dal jazz agli ultimi incontri con gli amici del Collège de ‘Pataphysique, passando per i romanzi americani sotto pseudonimo e le centinaia di brani musicali firmati).
Il resoconto che ne scaturisce è frizzante ed energico. Un ritratto di un genio senza limiti, violento, crudele, rivoluzionario e dotato di un’innata tenerezza (basti pensare al romanzo L’écume des jours o al testo di A l’ecole de l’amour, uno dei 484 brani firmati da Vian). Del resto l’autore nell’universo-mare di Boris ci naviga perfettamente da anni: Giangilberto Monti è cantautore, traduttore, ricercatore dotato di un formidabile intuito, votato per le sinergie con la musicalità linguistica e sonora di Boris Vian tanto da diventarne il maggior interprete italiano e non solo. Entrambi, tra l’altro, sono ingegneri.
Giangilberto Monti è uno dei massimi conoscitori di Boris Vian. Con il suo nuovo lavoro – Boris Vian, il Principe delle notti di Saint-Germain-des-Prés – ha scelto la via del docu-romanzo per raccontare un artista unico (scrittore, poeta, autore di canzoni, musicista: ma soprattutto un genio di un’epoca irripetibile) che ancora oggi rappresenta un punto di riferimento per molti.
Monti, perché oggi Vian è ancora così importante?
«Per la contaminazione tra le arti, la capacità di anticipare la realtà, la lucidità intellettuale. E la grande sperimentazione linguistica».
Qual è stato il tuo primo incontro con Vian?
«Erano i primi anni Novanta. Mi trovavo a casa di Riccardo Pifferi – autore e regista – con il quale stavo scrivendo uno spettacolo. A un certo punto mi ha consigliato di leggere Textes et chansons, un tascabile antologico di Vian. Da lì ho iniziato a interessarmi ai suoi lavori e mi sono reso conto di quanto la mia carriera fosse affine alla sua».
A quali conclusioni sei giunto?
«Intanto che lui è molto più bravo di me… (risata). Diciamo che è diventato una sorta di alter ego intellettuale. Le sue idee sulla musica, sulla politica, sull’arte in genere, sono quelle che ho sempre avuto io. Una specie di specchio. Ma molto più bravo di me…».
Se dovessi indicare a chi non lo conosce come accostarsi a Vian, cosa suggeriresti?
«I romanzi La schiuma dei giorni e Sputerò sulle vostre tombe. E poi ascoltare del jazz. E non avere preconcetti, essere politicamente scorretti. Come diceva Jobs, essere molto affamati».
Vian era affetto da una cardiopatia congenita: sapeva che la sua vita era a tempo. Pensi che questo abbia inciso nel suo inesauribile attivismo?
«Quando hai la percezione della malattia e che il tuo tempo è molto importante, cerchi di riempirlo in tutti i modi possibili perché ogni minuto è prezioso».
Artista ma anche dirigente del reparto discografico jazzistico della Philips: come vivono queste due anime in Vian?
«Un artista vero delega molto difficilmente. Michelangelo trattava personalmente col Papa la propria paga quando gli chiedeva di finire il Giudizio universale. Ma credo sia normale, perché si vuole avere il controllo totale: un artista desidera che appaia esattamente quello che lui ha pensato di far arrivare».
Boris Vian è anche al centro di un tuo spettacolo…
«Sì, riprendo canzoni che ho tradotto e registrato e racconto la sua vita in uno spettacolo di narrazione musicale».
Operazione che stai portando avanti anche con le canzoni di Dario Fo: un libro, pubblicato l’anno scorso, e un disco, che uscirà a marzo.
«E’ la mia cifra stilistica. Sul Dizionario della canzone italiana diretto da Renzo Arbore e edito dalla Curcio, alla voce Monti Giangilberto si legge: Non è mai diventato famoso per la sua scelta di sperimentare continuamente generi e stili musicali e in questo rispecchia la sua generazione, quella cresciuta artisticamente negli anni Settanta. La mia è una concezione totalizzante dello spettacolo: la performance è un evento unico, che mescola tutto. Una sorta di comunicazione incrociata: contaminata, come si usa dire adesso. Ma noi lo facevamo già quarant’anni fa…».
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