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PENULTIMI – recensione di Maria Anna Patti su Repubblica

PENULTIMI – recensione di Maria Anna Patti su Repubblica

Le poesie di Francesco Forlani, per Miraggi edizioni, parlano di un universo di abitanti silenziosi, tra strade deserte e lo sferragliare dei tram

La strada non è per persone sole, il cammino è sempre e comunque di tutti”.

Penultimi di Francesco Forlani, pubblicato da Miraggi in edizione bilingue, francese e italiano, è lo sguardo attento di un universo sommerso, abitante silenzioso e senza diritti.

“Basta davvero poca cosa, ma preziosa, al penultimo
Per sentirsi seppur minima parte, un pezzo di questo mondo
Così i tre boccioli di rosa, sulla piattaforma, in pieno inverno”.

Il verso è una brezza leggera, ritmata, incessante. Fa intravedere analogie per poi tornare al quotidiano scandito dallo sferragliare dei tram, da “ascensori non verticali ma obliqui”, da strade deserte. Le forme degli oggetti assumono contorni vaghi nel tentativo di esplorare il disagio sociale. Le panchine offrono riparo sostituendo gesti amorevoli che non arriveranno.

Francesco Forlani passa dalla poesia alla prosa mantenendo rigore narrativo. Non deraglia cercando l’aneddoto. La sua scrittura è affollata da volti e voci che dispendono i loro respiri in una nenia dolorosa. Figure che “a schiena dritta” provano a correre continuando ad immaginare un futuro. Esistenze rappresentate da coperte invecchiate, da sacchetti di plastica semi vuoti. Conoscono “la poetica della distanza”, ne sperimentano l’aspra dissonanza che arriva da case illuminate dove la luna ha lo sguardo benevolo.

Le immagini, in bianco e nero, si aprono lasciando spazio ad altre storie immaginate. I tratti decisi mostrano la notte dell’umanità, quella notte che non conoscerà l’alba se non sentiremo “rinascere dentro un soffio di vita nova, il gorgoglìo, la misura della forza”. Ritrovare le parole per urlare insieme: “vita, ehi vita mia, grazie”.

“Fino a quando ci saranno i penultimi questo vorrà dire che c’è ancora margine per l’umanità, che non siamo giunti alla fine del viaggio”.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.repubblica.it/robinson/2020/05/15/news/la_scelta_di_casalettori_penultimi-256647645/?fbclid=IwAR0K3HyHDwJ1shR4ruVydEBhTMJ02-BC5aCXo2h0Ep3bFOm02K2gfDO34yg

PENULTIMI – segnalazione di Giorgio Mecca sul Corriere di Torino

PENULTIMI – segnalazione di Giorgio Mecca sul Corriere di Torino

L’ode ai penultimi di Nesxt

La rassegna ai Docks introduce la poesia nella Settimana dell’arte in programma letture e performance, musica elettronica e proiezioni (29 ott. 2019)

«La poesia non solo non è morta, ma non fa morire. È una terapia d’urto». Francesco Forlani ha appena finito di scrivere la sua ultima raccolta di rime: «Penultimi» (Miraggi edizioni) e sarà uno degli ospiti d’onore della terza edizione di «Nexst», il festival di arte indipendente curato e organizzato da Olga Gambari e Annalisa Russo che da oggi fino a domenica invaderà la città con proiezioni, performance, esposizioni, video, musica elettronica. E poi tanti, tantissimi versi. Quest’anno infatti, la manifestazione avrà un focus dedicato alla poesia come pratica artistica contemporanea e laboratorio di ricerca. Ai Docks Dora di via Valorato 68, che in questi giorni si trasformeranno in una cittadella dell’arte con undici spazi aperti al pubblico, Forlani, che si definisce un artista «prepostumo», presenterà in anteprima il suo volume e la sua personale ode ai penultimi raccontando «l’ultimo avamposto della gentilezza umana: quella dei lavoratori che si ritrovano alle 5 di mattina dentro le carrozze della metro».

PENULTIMI. Le vite degli altri in un poetico blues – recensione di Giuseppe Marchetti su Gazzetta di Parma

PENULTIMI. Le vite degli altri in un poetico blues – recensione di Giuseppe Marchetti su Gazzetta di Parma

Biagio Cepollaro nella nota critica alla raccolta poetica di Francesco Forlani «Penultimi» edita da Miraggi, osserva che il mondo che emerge da queste pagine «non è più quello dell’alienazione operaia, ma quello dell’apartheid prodotta dalle nuove oligarchie finanziarie. La società tende a dividersi in caste non più in classi come nel Novecento. Le persone sempre in movimento pendolare restano immobili. L’Occidente sembra tutto retrodatato al vecchio regime, a prima della rivoluzione borghese. È un mondo neofeudale, appunto».

L’osservazione pertinentissima ci introduce alla lettura di questa poesia di efficacia illuminante e severa, tutta trattenuta sull’oggi, sui «penultimi» e il loro viaggio dentro una realtà che si manifesta nel grigiore delle somiglianze e nella rassegnata dimensione esistenziale di un giorno lunghissimo, quasi senz’alba e senza tramonto.

Forlani è uno scrittore che si getta anima e corpo sul paesaggio disadorno e infelice di quel presente che la poesia – ma anche il romanzo e le interpretazioni teatrali contemporanee – tende a considerare quale «preghiera dei penultimi, la trasparenza». Una trasparenza ossessiva a tratti, e a tratti invece dolce e magicamente corrosiva. Con le pagine dei suoi «Penultimi», Forlani traccia davvero l’arte di una sottile disperazione, cioè la sua condizione umana, il suo gesto, il suo guardarsi intorno, il suo procedere o sostare. Si ha l’impressione in certi momenti di scontrarsi con quella pungente situazione d’inciampo che il poeta narra così: «Non pensavo potessero le cose / essere penultime, possedere un tempo, / non la semplice durata proprio / l’estensione immisurabile di un corpo». Francesco Forlani scrive e insegna, c’è nella sua poesia questo doppio sentimento delle cose come lo ritrovi in certa poesia del Novecento, nella sua misura di «cosa», «persona», «voce» e luogo.

I temi, infatti, si rincorrono e descrivono «l’incessante ritmo delle correnti» che per tutto il secolo scorso hanno alimentato sia il gesto salvifico tentato dalla poesia, sia il suo abbandonarsi al fatalismo e alla crisi del mondo. «Penultimi» […] è poesia ora della natura, ora delle metafore più audaci, ora di una serena stagione che le immagini raccolte nel volume aiutano a concepire come quadri istantanei dei nostri desideri e delle solitudini che le condizionano.

Forlani, poeta traduttore, cabarettista, scrittore e «agitatore culturale» vive a Parigi e da Parigi, ancora centro di un mondo d’arte che non perde mai di attrazione e di fascino, manda il proprio messaggio in un intenso complesso poetico e narrativo che investe la memoria dell’oggi – con tenerezza e crudeltà – precisa Cepollaro, dove la sua tenerezza è intrisa di limpido lirismo e la sua crudeltà è in fondo una pietas, un amore si potrebbe dire, la vera onda della poesia che in lui si fonde dentro una umanità consapevole ed eticamente alta.

Ecco l’immagine perfetta, allora: «Ora colato dal marciapiede, / cascata di calore la coperta / in cerca di un corpo»; un corpo che custodisca in sé il calore e il sangue della parola che, da breve cronaca, diventa storia e destino di un’epoca, la nostra, così infelice e tuttavia così orgogliosa dei propri passi che in questa raccolta si esprimono letteralmente in doppia lingua, il francese di Christian Abel elegante e aderente al sentimento di Forlani, e il passo del nostro poeta cuore e mente di una metafora esaltante della vita che si offre quale esempio di una lunga e appassionata familiarità come nei versi indimenticabili della lirica 29: «Ed il voltarsi della faccia di mio padre / verso la mia, che da parte a parte scarta lo specchio / mi fa ricordare giovane lui e ora me più vecchio».

PENULTIMI – recensione di Felice Piemontese su Il Mattino

PENULTIMI – recensione di Felice Piemontese su Il Mattino

Campano per nascita e formazione, parigino per scelta, Francesco Forlani è scrittore eclettico, performer, traduttore, fondatore di riviste come «Sud», instancabile promotore di iniziative che gettino ponti tra culture diverse ma con molti punti in comune, quella italiana e quella francese.

E mentre sta per uscire in Francia un suo nuovo libro, intitolato Par-delà la forêt: Mon éducation nationale, in Italia pubblica, in edizione bilingue e con fotografie fatte da lui stesso (contaminare i linguaggi è una caratteristica del lavoro di Forlani) una sorprendente opera di poesia intitolata Penultimi (Miraggi edizioni, pagine 128, euro 13) che nasce da un’occasione autobiografica per acquisire valenze di grande significato.

Diventato professore di italiano nelle scuole francesi, Francesco Forlani è stato costretto a modificare sostanzialmente le sue abitudini. La scuola in cui insegnava era quasi in Normandia, e per quanto efficienti siano i trasporti francesi ci volevano un paio d’ore per arrivarci. Fine, quindi, delle frizzanti serate parigine, per uscire all’alba o in piena notte, prendere il metrò alla prima corsa e raggiungere la stazione Montparnasse, da dove partono i treni per l’Ovest. Un’occasione preziosa per scoprire una dimensione sconosciuta della città e, appunto, quelli che Forlani chiama empaticamente «i penultimi»: persone che dipendono dalla puntualità del treno, che se c’è qualche ritardo saranno «donne delle pulizie non presenti/ come da contratto negli uffici, manovali assenti dai cantieri,/ i professori dalle cattedre e impiegati dalla macchina/ che amministra il tempo degli uomini e delle donne».

Persone, insomma, chiamate a svolgere ruoli subalterni, obbligate a essere delle rotelle di ingranaggi che tendono sempre più a ignorare l’aspetto umano dell’organizzazione sociale, di quelle spietate macchine finalizzate esclusivamente al guadagno e al controllo in quel «capitalismo della sorveglianza» di cui parla la studiosa americana Shoshana Zuboff e che ha sconvolto anche la tradizionale divisione in classi.

Per «raccontare» i suoi penultimi, l’autore casertano ha scelto una lingua poetica colloquiale, quasi narrativa, che rinuncia all’enfasi lirica, privilegiando i toni bassi anche se non rinuncia a guizzi e accensioni, collocandosi in una posizione decisamente «altra» rispetto alla koinè dominante. Nella consapevolezza che le cose dicono sempre «più di quanto non si sia in grado di sentire veramente» e che si dovrebbe fare almeno il tentativo di riuscirci.

L’imperatore di Atlantide e Poesie dal campo di concentramento – recensione di Antonello Saiz su Satisfiction

L’imperatore di Atlantide e Poesie dal campo di concentramento – recensione di Antonello Saiz su Satisfiction

«Coltivare la Memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare». Così scrive la senatrice Liliana Segre, superstite dei campi di concentramento e in questa Cronaca dalla libreria non posso non ricordare una di quelle serate ai Diari più importanti e necessarie di altre.

Il 27 Gennaio, Giorno Della Memoria, abbiamo voluto presentare due libri tematici, editi dalla casa editrice torinese Miraggi, L’imperatore di Atlantide a cura di Enrico Pastore e Poesie dal campo di concentramento di Josef Čapek. Insieme a Fabio Mendolicchio, editor di Miraggi, e allo scrittore Enrico Pastore abbiamo ospitato anche il cantautore Daniele Goldoni che ci ha fatto ascoltare brani tratti dal disco Voci dal profondo inferno.

Si è partiti dal racconto de L’imperatore di Atlantide e dall’incredibile storia di un’opera d’arte unica, scritta e composta nel lager di Theresienstadt, nell’attuale Repubblica Ceca. Miraggi Edizioni ha pubblicato da pochi mesi questo libro prezioso, che presenta il testo dell’opera scritto dai due deportati, Ullmann e Kien, che collaborarono alla sua stesura nella seconda metà del 1943.

Il libro contiene l’originale in tedesco a fronte e offre, poi, la storia di Viktor Ullmann e Petr Kien attraverso la penna di Enrico Pastore, che illustra il contesto del ghetto di Terezín e analizza il valore artistico, sociale e di resistenza dell’opera, mentre a Marida Rizzuti, esperta musicologa, è affidata l’analisi della partitura musicale. 

L’opera di Ullmann e Kien è uno di quei raffinati capolavori dimenticati del secolo scorso, nato in uno dei più perversi campi nazisti. Tra il 1941 e il 1945, la città-fortezza di Terezín divenne un campo di smistamento per decine di migliaia di deportati verso Auschwitz. La particolarità di questo lager fu la decisione del Terzo Reich di utilizzarlo come strumento di propaganda, parlandone addirittura come del ghetto-paradiso. 

Nello spiazzo principale della cittadella venne, addirittura, eretto un palcoscenico, dove i prigionieri, al termine della giornata di lavoro, potevano dedicarsi in totale libertà alle loro attività artistiche. Molti musicisti vennero convogliati verso Terezín (dove venne addirittura girato un film-documentario dal titolo Il Führer dona una città agli ebrei, di evidente funzione propagandistica).

Grazie all’ingegno e alla passione degli artisti internati si poté ricominciare a scrivere musica, a eseguirla, magari con strumenti costruiti con materiali di recupero, e ad ascoltarla. Molti artisti non si rassegnano alla sorte di prigionieri deportati e si organizzano come possono dentro il campo per tentare di sopravvivere, ognuno con la propria arte, creando una vera e propria vita culturale all’interno di quell’inferno in terra. 

Il perverso e lucido disegno dei gerarchi nazisti, però, proprio a Theresienstadt si inceppa grazie al libero pensiero dell’arte, perché dando spazio alla creatività di quei prigionieri si finisce per celebrare la vita e non la morte. Le storie che animano quel luogo sono incredibili, nella loro agghiacciante crudezza, proprio come la storia del famoso pianista e compositore Victor Ullmann che, giunto nel lager, riesce a dar vita, in un luogo di morte, a una carcassa di pianoforte in un vagone ferroviario abbandonato, tanto da giungere a tenere un concerto nel campo, che sarà il primo di una lunga serie. Molti musicisti di solida carriera come Ullmann lavorarono intensamente nei tre anni di vita artistica del campo. 

Viktor Ullmann era sicuramente il più famoso di tutti: già allievo di Arnold Schönberg, Ullmann scrisse la sua opera più importante, L’imperatore di Atlantide, in cui (anche grazie al bel testo espressionista del giovane poeta Kien) riesce a denunciare l’assurda realtà del campo, della Germania e del mondo tutto. Due artisti molto diversi tra loro sia per formazione che per personalità: Viktor Ullmann è musicista, compositore, direttore d’orchestra e critico di notevole spessore, Petr Kien è un giovanissimo pittore e poeta. Uno è un artista maturo già allievo prediletto di Schönberg, di Haba e collaboratore di Zemlinsky, le cui composizioni, al momento del suo internamento a Terezín, hanno già ottenuto risonanza internazionale; l’altro è un giovane di 23 anni con un eccezionale talento ma appena uscito dall’Accademia di Belle Arti. Ciò che li lega è la profonda convinzione che l’arte sia una forma di contrasto alle forze distruttive della vita. Comporre, dipingere, scrivere sono una forma di lotta epica contro il male che assedia l’esistenza. 

Se Ullmann ritrova il senso del fare artistico proprio nel ghetto di Terezín dove «tutto ciò che ha un rapporto con le Muse contrasta così straordinariamente con quello che ci circonda», per Kien l’esperienza della prigionia è il primo banco di prova dove applicare la sua straordinaria attitudine alle arti. Ullmann, paradossalmente, ritrova la sua vena creativa proprio in quel campo di concentramento e nei due anni di permanenza compone più di venti opere (7 sonate per pianoforte, 1 quartetto, 1 sinfonia, svariati lieder, e 1 opera), più di quanto avesse scritto in precedenza. Le motivazioni di questa esplosione le fornisce lui stesso: «Devo sottolineare che Terezín è servita a stimolare, non a impedire, le mie attività musicali, che in nessun modo ci siamo seduti sulle sponde dei fiumi di Babilonia a piangere; che il nostro rispetto per l’Arte era commisurato alla nostra voglia di vivere. E io sono convinto che tutti coloro, nella vita come nell’arte, che lottano per imporre un ordine al Caos, saranno d’accordo con me».

Ullmann e Kein moriranno ad Auschwitz nell’ottobre del 1944. Eppure, sull’orlo dell’abisso, questi due autori trovarono la forza di cantare la vita e la morte ma soprattutto di sfidare Hitler e il nazismoDer Kaiser von Atlantis oder Die Tod-Verweigerung (L’imperatore di Atlantide ovvero Il rifiuto della morte) è un’opera lirica in un atto solo da cui trasudano ironia e leggerezza, in cui però sono anche iscritte le fondamenta dell’umano. Enrico Pastore ci ha spiegato che, sebbene si tennero delle prove a Terezín nel marzo del 1944 con il direttore d’orchestra Rafael Schächter, l’opera non venne mai rappresentata sul palcoscenico della Sokolhaus di Theresienstadt giacché la censura nazista ritenne che il personaggio principale, l’imperatore Overall (anglismo per Über Alles), fosse la satira di un sovrano totalitarista. Quest’opera, nata nel lager e che nel lager sembrava esser destinata alla sua prima rappresentazione, inizia ad essere studiata e provata, senza sosta.

Ma tutto questo termina il 14 ottobre 1944. Il giorno dopo, infatti, tutti gli artisti ricevono la convocazione per essere trasportati. All’alba del 16 ottobre del 1944 parte dal campo nazista di Theresienstadt alla volta di Auschwitz un unico convoglio ferroviario con 1500 deportati, quello che gli stessi nazisti definiscono un “carico speciale”; lo chiamano, infatti, il Künstlertransport, il treno degli artisti, perché costituito principalmente da poeti, musicisti, attori, pittori e scrittori rastrellati durante quattro anni a Praga e zone limitrofe e concentrati in un campo che, proprio per essere destinato a categorie “particolari” di deportati, aveva rappresentato una unicità nella moltitudine di lager del Terzo Reich. 

Un’intera generazione di artisti europei viene così sterminata nella camere a gas del campo di Auschwitz-Birkenau. A salire su quel treno sono i poeti, i musicisti, i pittori, gli attori che per quattro anni hanno vissuto in quel ghetto modello, e, dopo ventiquattro ore di viaggio in treno, le loro esistenze e il loro talento sono stati sterminati andando su per un camino. Tra gli uomini, le donne, i bambini spinti a forza su quel treno ci sono alcuni degli ingegni più vivi e brillanti del tempo: oltre a Ullmann e Kien ci sono compositori come Hans Krása, Pavel Haas e James Simon, direttori d’orchestra come Raphael Schächter, pianisti come Bernard Kaff e Carlo Taube, violisti come Viktor Kohn e tantissimi altri. Giovani uomini tra i venti e i quarant’anni che avrebbero potuto conquistare un ruolo di grande rilievo nella storia dell’arte del Novecento e che invece sono stati assassinati nel pieno delle loro capacità e del loro talento. 

Artisti che nonostante la mancanza di libertà, il freddo, la fame, la solitudine, le malattie, la privazione degli affetti non hanno mai potuto rinunciare all’unico strumento di salvezza rimasto nelle loro mani: la creazione.Per molti di loro, anzi, la vita del ghetto è stata, per quanto paradossale possa sembrare, una scuola d’arte.

Un altro contributo, per non perdere la Memoria, è stato fornito dalla lettura in libreria delle Poesie dal campo di concentramento di Josef Čapek, pittore, illustratore e poeta, fratello del più noto scrittore Karel.

Questo libro, con testo originale a fronte, è stato tradotto da Lara Fortunato, che ha scritto anche il testo introduttivo e la nota bibliografica.

Per via del suo orientamento politico venne arrestato nel 1939 e rinchiuso in un lager nazista e sarà qui che Josef Čapek si affiderà per la prima volta alla poesia. Durante la prigionia scrisse una raccolta di poesie, pubblicata postuma nel 1946. Prima che finisse la guerra, alcuni componimenti riuscirono a raggiungere Praga, per mano di studenti universitari che da Sachsenhausen nel 1943 fecero ritorno nella capitale boema. A questi si aggiunsero le copie delle poesie che alcuni detenuti vicini allo scrittore riportarono in patria dopo la guerra. Il 25 febbraio del 1945 Josef Čapek venne trasportato nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, dove morì, probabilmente a causa dell’epidemia di tifo che decimò i prigionieri rimasti nel lager, pochi giorni prima dell’arrivo delle truppe inglesi. Čapek scrisse la sua ultima poesia Prima del grande viaggio nel campo di concentramento di Sachsenhausen in prossimità dell’ultimo trasporto.

Prima del grande viaggio

Difficili momenti, giorni difficili,

non vi è scelta, decisione,

ultimi giorni scuri,

siete giorni di vita o di morte?

Indietro alla vita o nelle fauci della morte

– cosa vi sarà alla fine del viaggio?

A migliaia vanno, non sei solo…

Avrai, non avrai fortuna?

Sorto è il giorno del grande viaggio

– da tempo vi sei preparato:

messe di vita o di morte –

– tanto vai verso casa – tu torni a casa!

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

Miraggi appoggia le librerie indipendenti: Libreria Diari di Bordo. Prentazione L’imperatore di Atlantide e Poesie dal campo di concentramento

Miraggi appoggia le librerie indipendenti: Libreria Diari di Bordo. Prentazione L’imperatore di Atlantide e Poesie dal campo di concentramento

Un aiuto alle Librerie in difficoltà lo possono dare anche gli Autori e le Case Editrici con segnali forti: scegliendo una libreria piccola e poverella dove per presentare i loro libri. Ecco partiamo, oggi, con il ringraziare dunque Claudia Durastanti e Paolo Cioni e le case editrici La nave Di Teseo, Mattioli 1885 e Miraggi edizioni. Perché è grazie a loro che si è aperta una settimana di altissimo livello ai Diari. Da un paio di settimane si leggono commenti sgomenti circa la chiusura continua di librerie in Italia. Io ho pensato, ma se ognuno si impegnasse ad acquistare almeno un libro al mese in una libreria reale, meglio ancora se indipendente? E se gli scrittori che vendono e le case editrici scegliessero di fare gesti concreti verso librai e librerie in difficoltà? Cosa che è accaduta ai Diari, a partire da Martedì 21 gennaio in cui abbiamo ospitato la data finale del lungo Tour del libro, edito da La Nave di Teso, ” La Straniera” di Claudia Durastanti. Avevo seguito le tappe lucane di questo meraviglioso tour l’estate scorso e grazie alla Fondazione Leonardo Sinisgalli negli Orti di Merola a Montemurro avevo condotto con Giuditta Casale e Biagio Russo una serata molto piacevole e frizzante. Durante la serata di Martedì scorso, con una libreria piena fino all’inverosimile di gente, abbiamo ricordato molti aneddoti di quelle serate lucane estive. In un silenzio fatto di grande attenzione Claudia Durastanti, seduta sul mitico sgabello bianco, ha spiegato come si può raccontare una vita tracciando mappe del proprio vissuto ed esplorando i luoghi simbolici e geografici.

“La storia di una famiglia somiglia più a una cartina topografica che a un romanzo, e una biografia è la somma di tutte le ere geologiche che hai attraversato”. Come si racconta una vita se non esplorandone i luoghi simbolici e geografici, ricostruendo una mappa di sé e del mondo vissuto? Tra la Basilicata e Brooklyn, da Roma a Londra, dall’infanzia al futuro, il nuovo libro dell’autrice di “Cleopatra va in prigione” è un’avventura che unisce vecchie e nuove migrazioni. Figlia di due genitori sordi che al senso di isolamento oppongono un rapporto passionale e iroso, emigrata in un paesino lucano da New York ancora bambina per farvi ritorno periodicamente, la protagonista della Straniera vive un’infanzia febbrile, fragile eppure capace, come una pianta ostinata, di generare radici ovunque. La bambina divenuta adulta non smette di disegnare ancora nuove rotte migratorie: per studio, per emancipazione, per irrimediabile amore. Per intenzione o per destino, perlustra la memoria e ne asseconda gli smottamenti e le oscurità.
Non solo memoir, non solo romanzo, in questo libro dalla definizione mobile come un paesaggio e con un linguaggio così ampio da contenere la geografia e il tempo, Claudia Durastanti indaga il sentirsi sempre stranieri e ubiqui.
La straniera è il racconto di un’educazione sentimentale contemporanea, disorientata da un passato magnetico e incontenibile, dalla cognizione della diversità fisica e di distinzioni sociali irriducibili, e dimostra che la storia di una famiglia, delle sue voci e delle sue traiettorie, è prima di tutto una storia del corpo e delle parole, in cui, a un certo punto, misurare la distanza da casa diventa impossibile.

Claudia Durastanti è nata a Brooklyn nel 1984, scrittrice e traduttrice. Il suo romanzo d’esordio “Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra” (2010) ha vinto il Premio Mondello Giovani; nel 2013 ha pubblicato “A Chloe”, per le ragioni sbagliate, e nel 2016 “Cleopatra va in prigione”, in corso di traduzione in Inghilterra e in Israele. E’ stata Italian Fellow in Literature all’American Academy di Roma ed è tra i fondatori del Festival of Italian Literature in London. Collabora con “la Repubblica” e a lungo ha vissuto a Londra. Durante la serata ampio spazio è stato dato anche al libro edito da Minimum Fax nel 2016 dal titolo “Cleopatra va in prigione”. Un libro breve e intenso nelle sue 120 pagine: la trama, il linguaggio innovativo, una scrittura asciutta ed efficace e una periferia di Roma sconosciuta ai più. Non credo che avremmo la bellezza de “La Straniera” senza Cleopatra.

“Ogni giovedì Caterina va a trovare il suo ragazzo in prigione”. Questo è l’incipit. Caterina va a trovare Aurelio, il suo ragazzo, nel carcere di Rebibbia. Sono entrambi figli dell’estrema periferia romana, e in passato hanno provato a costruire un sogno insieme: gestire un night club. Ma le cose sono andate diversamente dai loro progetti e Caterina, ex ballerina di danza classica, si è ritrovata a lavorare come spogliarellista proprio nel locale di Aurelio. Adesso lui è in prigione, ed è convinto che lo abbiano incastrato. Come reagirebbe se sapesse che, una volta uscita di lì, la sua ragazza si infila tra le lenzuola del poliziotto che lo ha arrestato? Cleopatra va in prigione è un romanzo struggente, duro, pieno di colpi di scena, ambientato in una Roma molto più vasta e sconosciuta di ciò che si potrebbe immaginare. Claudia Durastanti scatta una fotografia vivida e accorata della periferia urbana, il vero luogo dove in questi anni nascono le storie, e soprattutto racconta chi, nonostante le delusioni e i sogni infranti, continua a vivere e ad amare.

Sabato 25 Gennaio è toccato a Paolo Cioni con il suo ultimo romanzo “La verità a pagina 31”, edito da Elliot.
Architetto di formazione Paolo Cioni ha tradotto romanzi di Aldous Huxley e Charles Webb, per anni ha diretto insieme a Benedetto Montefiori la rivista «Experience» e per Feltrinelli ha pubblicato il romanzo “Ovunque e al mio fianco” (2006) e, a distanza di dieci anni, sempre per Elliot, ha pubblicato “Il mio cane preferisce Tolstoj”. La penna tagliente di Gian Paolo Serino lo ha definito “Il Dave Eggers italiano” ma ha anche speso parole encomiabili per “La verità a pagina 31″, definendolo ” un romanzo solenne. Cioni nella sua delicatezza di sentimenti nella sua ritrosia ci incuriosisce sulla sua figura: è uno di quei rari scrittori che a lettura finita, vorresti cercare sull’elenco telefonico, o andare a citofonargli a casa”. Anche di Sabato, in una libreria piena in ogni ordine di posto, si è parlato di libri e letteratura e editoria. Cioni da editore e scrittore e traduttore lo ha fatto da una posizione privilegiata, avendo un orizzonte molto chiaro. Nella prima parte della serata ci si è soffermati sul suo ultimo elegante romanzo.

Una telefonata che arriva dal passato, un vecchio libro misterioso che parla di angeli e dell’idea, difficile da accettare, che ci siano persone che vegliano su altre: ecco cosa mette in moto una storia fatta di ricordi e di sogni infranti, di rimorsi e di amori smarriti, cercati, dimenticati e mai vissuti fino in fondo.È l’estate del 1993, Parma sembra una cartolina ingiallita. Ennio Fortis ha da poco compiuto trent’anni, lavora in una libreria e non ha una ragazza. Quella telefonata lo riporta indietro nel tempo, agli amici di gioventù, al Collettivo di cui ha fatto parte, alle riprese di un documentario dedicato alla via Emilia e mai finito e, soprattutto, a Raimondo. Raimondo il visionario, Raimondo che gli ha mostrato una strada e che gli ha tolto il sonno travolgendolo con le sue idee impalpabili e bellissime. È la sua voce che arriva dal passato, arrochita e stralunata, e che lo richiama in servizio, perché c’è un compito da svolgere: ritrovare Adele, la sua ex moglie fragile e silenziosa, tornata da chissà dove e che adesso vive da qualche parte in città. Ennio accetta e si mette in movimento, in un viaggio a ritroso che risveglia il suo amore segreto e mai sopito per quella donna, in cerca di una verità che prende forma pagina dopo pagina, come nei fotogrammi sbiaditi di un film dimenticato.
Un romanzo sull’amicizia e sull’amore, che a volte ci abbagliano al punto di farci smettere di vedere e di ascoltare, per cominciare finalmente a sentire

Ma Paolo Cioni, appunto, non è solo un fine narratore e un abile traduttore e dagli inizi degli anni 2000 è anche editor della storica casa editrice Mattioli 1885. Mattioli 1885 è una casa editrice editrice di Fidenza, attiva appunto dal 1885 nel settore della narrativa, della storia e della scienza. E’ proprio il 1885 l’anno di fondazione e la piccola azienda sorge come editore degli stabilimenti termali di Salsomaggiore e Tabiano Terme. Si specializza in ambito medico per divulgare scientificamente i benefici delle acque termali e in pieno stile liberty per promuovere le due località già al tempo molto frequentate. Dopo diverse vicissitudini, che corrono a cavallo tra il diciannovesimo e ventesimo secolo, negli anni ’90 la proprietà passa alla famiglia Cioni che rafforza l’editoria scientifica e specialistica in ambito medico. Agli inizi del nuovo millennio assume la presidenza Paolo Cioni e ai titoli scientifici vengono affiancate collane di saggistica e di narrativa, con una produzione media di circa 50 titoli per anno. Nella serata abbiamo parlato anche di titoli recenti e meno recenti della casa editrice.

Molto spazio, tra gli ultimi titoli, è stato dato a “La mia autografia” di Charlie Chaplin uscito per Mattioli 1885 Books il 21 Novembre scorso con traduzione di Vincenzo Mantovani e prefazione di Gian Paolo Serino. Una nuova completissima edizione, cartonata, che racconta tutto il mondo di Charlie Chaplin: “Volevo cambiare il mondo e l’ho fatto soltanto ridere”. Questo è stato il suo cruccio per tutta la vita. Non lo avevano capito, malgrado il successo. Lui che aveva fatto di tutto per conquistarlo. Lui che passava i Natale della sua infanzia nei più tristi degli orfanotrofi nella Londra più povera di fine Ottocento e morirà nel 1977 prima che potesse vedere l’alba del suo ultimo Natale.
Charles Chaplin (Londra, 1889 – Corsier-sur-Vevey, 1977), è stato un attore, regista, sceneggiatore, compositore e produttore britannico, autore di oltre novanta film e tra i più importanti e influenti cineasti del XX secolo. La sua rapida ascesa cominciò nel 1914 (quando con la Keystone esordì nel mondo del cinema con il corto “Per guadagnarsi la vita”), ma già nel 1919 fondò la United Artists Corporation. Il personaggio che gli diede fama universale, fu quello del ‘vagabondo’ (The Tramp in inglese; Charlot in italiano, francese e spagnolo): l’omino dalle raffinate maniere ma vestito di stracci, con baffetti, bombetta e bastone da passeggio in bambù. Chaplin fu una delle personalità più creative e influenti del cinema. La sua vita lavorativa nel campo dello spettacolo ha attraversato oltre 75 anni.

Scritte fra il 1959 e il 1963 queste pagine sono incredibilmente dense e sentite. Fluide e avvincenti come un romanzo, raccontano la storia di un uomo venuto dal nulla che inventò il cinema.
Qui ci sono gli indizi per scoprire il segreto di Chaplin e, allo stesso tempo, le storie e i pettegolezzi di un’epoca straordinaria, gli incontri con personaggi come Gandhi, Einstein, Roosevelt, Krusciov, Stravinskij, con le stelle del cinema e le bellezze di Hollywood. Ma è la magia di una narrazione lineare, sobria, mai compiaciuta, a fare di questo testo un’opera anche letteraria.

Ultimissimo titolo in ordine di tempo quello di uno scrittore che la casa editrice ha avuto il merito di tradurre e far conoscere già da alcuni anni, Andre Dubus. E’ uscito in questi giorni “Vasi rotti”, raccolta di 22 saggi scritti da Dubus tra il 1977 e il 1990, a distanza di dieci anni dalla raccolta “Non abitiamo più qui”, da cui fu tratto anche il fortunato film di John Curran, “I giochi dei grandi”, vincitore del Sundance Film Festival.
Frammenti incandescenti di vita privata a rivelare la forza spirituale e la prosa lirica che hanno fatto di Andre Dubus un autore il cui talento è ormai riconosciuto in tutto il mondo. Pagine di rara profondità che permettono al lettore di scoprire soprattutto il Dubus ‘uomo’, animato da una voce intensa, commovente, che si rivela anche in tutta la sua sofferenza, il suo dolore, le sue naturali fragilità.
Personale ma mai indulgente, sensibile ma mai sentimentale, Andre Dubus si racconta: la giovinezza cattolica nella Louisiana di cultura cajun, l’amore per il baseball, il terribile incidente che lo costringerà sulla sedia a rotelle, le fortune ma anche le incertezze e la precarietà di scrittore, l’amore.
Andre Dubus (1936-1999) è uno dei più raffinati narratori americani del Ventesimo secolo. Amico e allievo di Richard Yates e Kurt Vonnegut, celebrato da Stephen King, John Irving, Elmore Leonard, John Updike, Dubus è stato anche saggista, biografo e sceneggiatore, aggiudicandosi svariati premi letterari. Mattioli1885, che sta tentando di pubblicarne l’opera omnia, ha già tradotto: “Non abitiamo più qui”, “Voci dalla luna”, “Il padre d’inverno”, “Ballando a notte fonda”, “I tempi non sono mai così cattivi”, “Voli separati”, “Un’ultima inutile serata”, “Adulterio e altre scelte”.

Tra i meriti della casa editrice Mattioli anche l’aver scoperto tanti scrittori americani di cui l’Italia era orfana e tradotto quindi opere letterarie monumentali come il libro di Gina Berriault “Donne nei loro letti” pubblicato nella Collana Frontiere con postfazione di Nicola Manuppelli.
Gina Berriault (1926-1999) è autrice di quattro romanzi, tre raccolte di racconti e diverse sceneggiature. Il suo lavoro è stato ampiamente pubblicato da riviste quali Esquire, The Paris Review e Harper’s Bazaar. Nel 1996 un’antologia che riuniva anche i racconti qui presentati ha vinto il premio PEN / Faulkner, il National Book Critics Circle Award e il Bay Area Book Reviewers Award. Nel 1997 è stata scelta come vincitrice del Premio Rea per la Short Story. Questa è la prima traduzione in italiano.
Pubblicata per la prima volta nel 1996, quando l’autrice aveva settant’anni, “Women in Their Beds” è la raccolta finale di Gina Berriault. Il volume rappresentò una svolta per Berriault, portandole finalmente l’attenzione critica che meritava. Fu ampiamente elogiato dalla stampa e vinse numerosi prestigiosi premi letterari nazionali. Lynell George del Los Angeles Times Book Review scrisse: “Gina Berriault scrive dei letti che costruiamo e in cui poi siamo costretti a stenderci.”

La storia che dà il titolo alla raccolta è ambientata a San Francisco alla fine degli anni ’60 e descrive le esperienze di una giovane attrice, Angela Anson, che ha un lavoro come assistente sociale all’ospedale della contea. Qui svolge il compito di assegnare le pazienti del reparto femminile ad altri istituti, ma si oppone al suo ruolo di ingranaggio della burocrazia, identificandosi fortemente con le donne oppresse. Angela collega così i destini che le donne condividono, formando una teoria secondo cui le donne sono “inseparabili dai loro letti.” Donne nei loro letti ha una logica onirica che offusca i confini tra sé e gli altri, i fatti e i sentimenti, il dramma e la realtà. Ecco i punti di forza di Gina Berriault come scrittore: la precisa bellezza del suo linguaggio, i vividi confronti che disegna tra percezione e realtà, e l’enorme compassione con cui rappresenta i suoi personaggi.

Tra gli ultimi titoli di narrativa americana pubblicati da Mattioli 1885 è obbligatorio segnalare anche l’esordio di Reynolds Price con un romanzo memorabile “Una lunga vita felice” nella traduzione di Livio Crescenzi pubblicato nella Collana Frontiere.
Reynolds Price (1933-2011) è stato un romanziere, poeta, autore di racconti, drammaturgo, saggista. Nato a Macon, North Carolina, Reynolds si è laureato presso la Duke University di Durham, dove ha poi insegnato per oltre cinquant’anni. Nel 1962, Price ottenne un notevole riconoscimento in seguito alla pubblicazione del suo primo romanzo, “Una lunga vita felice”, che gli valse il William Faulkner Award. Nel 1986 ottenne il National Book Critics Award. Da tempo paralizzato dalla vita in giù, Price ha continuato a scrivere fino alla sua morte, nel gennaio del 2011.

Ambientato in una regione del profondo Sud degli Stati Uniti, dove il paesaggio è descritto con una precisione tale per cui strade, alberi e uccelli hanno la forza espressiva degli stessi personaggi, Una lunga vita felice è la storia dell’amore tormentato tra Rosacoke Mustian e Wesley Beavers – perché l’amore non è come la ragazza se l’immaginava né come l’intende Wesley. In un momento d’abbandono, Rosacoke compie un gesto che segna la fine di un’adolescenza prolungata, popolata di personaggi che rimangono scolpiti nella memoria del lettore.

Da poco è uscita per Mattioli 1885 nella Collana Frontiere la ristampa, dopo 10 anni, di un magnifico libro di Joe Cottonwood dal titolo “Le famose patate” nella traduzione di Francesco Franconeri.

Joe Cottonwood ha studiato alla Washington University di St. Louis. Con un passato da hippy e attivista contro la guerra in Vietnam, si è stabilito a La Honda, una piccola cittadina sulle Santa Cruz Mountains, dove scrive romanzi, poesie e libri per bambini. Erede della grande tradizione on the road americana, Joe Cottonwood è una delle voci più interessanti della nuova narrativa statunitense. “Famous Potatoes” è stato tradotto in sette lingue.

Reduce del Vietnam ed esperto di computer, Willy Middlebrook, alias Willy Crusoe, si ritrova coinvolto in un regolamento di conti e ingiustamente braccato dalla polizia: inizia così la sua corsa sfrenata sulle strade della grande America, dalle verdi montagne del West Virginia agli squallori di Philadelphia alla violenza di St. Louis, fino alle cime rocciose dell’Idaho. Incontrerà gente assurda e vera, persone che si nascondono come patate negli anfratti di una terra immensa, “sepolte lì dove i giornali e la televisione non le troveranno mai”. E cercando la via di casa, finirà per trovare se stesso.

Lunedi 27 Gennaio in occasione del Giorno della Memoria il cantautore Daniele Goldoni ha presentato in libreria alcuni brani dell’album “Voci dal profondo Inferno, storie e canti di deportati”.
Durante la serata è stato anche presentato un libro/saggio, “L’imperatore di Atlantide”, scritto intorno a un’opera composta nel campo di concentramento di Terezin. Il libro “L’imperatore di Atlantide”di Viktor Ullmann e Petr Kien, con un contributo di Marida Rizzuti, edito da Miraggi è a cura di Enrico Pastore e con la traduzione del libretto di Isabella Amico di Meane.
“Der Kaiser von Atlantis oder Die Tod-Verweigerung” (L’imperatore di Atlantide ovvero Il rifiuto della morte) è un’opera lirica in un atto di Viktor Ullmann su libretto di Peter Kien. Ullmann e Kien, internati nel ghetto di Theresienstadt (Terezín), collaborarono alla stesura dell’opera nella seconda metà del 1943. Sebbene si tennero delle prove a Terezín nel marzo del 1944 con il direttore d’orchestra Rafael Schächter, l’opera non venne mai rappresentata sul palcoscenico della Sokolhaus di Theresienstadt giacché la censura nazista ritenne che il personaggio principale, l’imperatore Overall (anglismo per Über Alles), fosse la satira di un sovrano totalitarista.

Un libricino su L’imperatore di Atlantide, opera di Viktor Ullmann e Petr Kien, composta tra il 1943/44 nel ghetto nazista di Theresienstadt. L’opera di Ullmann e Kien è uno dei capolavori dimenticati del secolo scorso, nato in uno dei più perversi campi nazisti. Soll’orlo dell’abisso questi due autori hanno trovato la forza di cantare la vita e la morte ma soprattutto di sfidare Hitler e il nazismo. L’incredibile storia di un’opera d’arte unica, scritta e composta nel lager di Theresienstadt.
Perché l’uomo ha in sé l’abominio, e la capacità di abbatterlo, anche per mezzo dell’arte. Questo volume, che presenta il testo dell’opera scritto dai due deportati con l’originale in tedesco a fronte, offre la storia di Ullmann e Kien attraverso la penna di Enrico Pastore, che illustra il contesto del ghetto di Terezín e analizza il valore artistico, sociale e di resistenza dell’opera, mentre a Marida Rizzuti, esperta musicologa, è affidata l’analisi della partitura musicale.
Questo volume, che presenta il testo dell’opera scritto dai due deportati con l’originale in tedesco a fronte, offre la storia di Ullmann e Kien attraverso la penna di Enrico Pastore, che illustra il contesto del ghetto di Terezín e analizza il valore artistico, sociale e di resistenza dell’opera, mentre a Marida Rizzuti, esperta musicologa, è affidata l’analisi della partitura musicale. La storia di un’opera artistica eccezionale per le circostanze in cui è stata creata, il Lager nazista, e ritrovata e riportata a nuova vita.La musica e il testo dell’Imperatore di Atlantide, opera lirica composta durante la prigionia nel ghetto di Terezín, risorgono dal fondo dell’abisso in cui furono creati e giungono fino a noi come altissima testimonianza della forza politica ed etica dell’arte.

E insieme all’Imperatore di Atlantide abbiamo ricordato un altro contributo per non perdere la Memoria. Le “Poesie dal campo di concentramento” di Josef ?apek, pittore, illustratore e poeta (nonché l’inventore della parola “robot”, fratello del più noto scrittore Karel). La traduzione è di Lara Fortunato, che ha scritto anche il testo introduttivo e la nota bibliografica. Capolavoro letterario di una memoria che non va dimenticata ma tenuta sempre viva e grazie alla traduzione di Lara Fortunato qui è contenuta l’anima di un grande poeta, custodita in un libro-scrigno con testo originale a fronte.

L’ascesa della Germania nazional-socialista non lo colse impreparato, il suo impegno civile contro il dilagare del fascismo si fece caricatura per le testate giornalistiche dell’epoca. Per via del suo orientamento politico venne arrestato nel 1939 e rinchiuso in un lager nazista. Sarà qui che Josef ?apek si affiderà per la prima volta alla poesia.
Prima che finisse la guerra, alcuni componimenti riuscirono a raggiungere Praga, per mano di studenti universitari che da Sachsenhausen nel 1943 fecero ritorno nella capitale boema. A questi si aggiunsero le copie delle poesie che alcuni detenuti vicini allo scrittore riportarono in patria dopo la guerra. Il 25 febbraio del 1945 Josef ?apek venne trasportato nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, dove morì, probabilmente a causa dell’epidemia di tifo che decimò i prigionieri rimasti nel lager, pochi giorni prima dell’arrivo delle truppe inglesi. ?apek scrisse la sua ultima poesia “Prima del grande viaggio” nel campo di concentramento di Sachsenhausen in prossimità dell’ultimo trasporto.

Chiudiamo con un un bellissimo libro dal titolo “Le età dei giochi” dello scrittore rumeno Claudiu Florian, il romanzo vincitore del European Union Prize for Literature nel 2016 e pubblicato da Voland nella bella traduzione di Mauro Barindi. Il romanzo è stato scritto originariamente in tedesco ma Mauro Barindi, traduttore editoriale dal romeno dal 2008, lo ha tradotto per Voland dalla lingua madre dell’Autore. L’edizione italiana di Voland ha in copertina un particolare di un famoso quadro del 1825 Ludwig Richter dal titolo Heimkehrender Harfner.
Claudiu M.Florian è nato nel 1969 nel distretto di Brason a Rupea in Transilvania. Dopo la laurea in Germanistica ha vissuto a Bucarest, Berna e Berlino dove oggi è il direttore dell’Istituto culturale romeno.

Un racconto corale e plurilingue, fatto di odori e sapori, principi azzurri, dittatori ed eroi. Siamo in Transilvania, nella prima metà degli anni ’70. La piccola comunità che vive nel villaggio ai piedi della fortezza medievale non lontano da Bra?ov è un crocevia di lingue e civiltà, antiche e moderne. Un bambino di sei anni vi trascorre l’infanzia insieme ai nonni. Curioso e ingenuo, tenta di capire quello che lo circonda a partire dalle parole, oggetti spesso strani e sfuggenti che in qualche modo danno forma alla realtà. Lo sguardo spensierato del bambino cerca e trova la vita segreta delle cose e attraverso la favola interpreta un tempo segnato da tragedie e lacerazioni.

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L’imperatore di Atlantide – recensione di Giovanna Triolo su ParmaReport

L’imperatore di Atlantide – recensione di Giovanna Triolo su ParmaReport

Tra gli scaffali della libreria Diari di Bordo

CONSIGLI DI LETTURA PER ADULTI E BAMBINI INSIEME AI LIBRAI ANTONELLO E ALICE

Un’opera lirica scritta nel campo di concentramento di Terenzin da due deportati, Viktor  Ullmann e Peter Kien, mai più tornati a casa. L’Imperatore di Atlantide, attraverso la penna di Enrico Pastore, offre il testo originale dell’opera, analizzata nel suo valore artistico e sociale.  E’ con questo libro che Antonello e Alice, librai dei Diari di Bordo, mi accolgono.

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PENULTIMI – recensione di Alida Airaghi su SoloLibri.net

PENULTIMI – recensione di Alida Airaghi su SoloLibri.net

Un libro composito, questo Penultimi di Francesco Forlani, fatto di versi stampati in tondo e in corsivo, di prosa e interstizi meditativi, di haiku; intervallato da fotografie scattate con il cellulare dallo stesso autore, presumibilmente dalla metropolitana (interrata e sopraelevata) che è l’ambiente da cui, su cui e per cui il testo è stato pensato e scritto.
“Pensato” come omaggio ai Penultimi, suoi inconsapevoli e meritevoli protagonisti: un omaggio malinconico, grato e rimordente. “Scritto” in un italiano colto, ma nello stesso tempo popolare, striato di francese e di napoletano: le tre lingue e le tre anime dell’autore.

Francesco Forlani è infatti nato a Caserta, si è laureato in filosofia a Napoli, ha insegnato a Torino, è emigrato a Parigi dove tuttora risiede, professore in una scuola della banlieue. Poeta, narratore, saggista, consulente editoriale, traduttore, redattore di blog letterari, vulcanico performer e cabarettista, in questo volume si è ritagliato un suo spazio di riflessione, amara e insieme indignata, sulle vite degli altri, sulla sua che li osserva, sul mondo in cui è inserito pur con dignitosa estraneità.
Da due anni si imbarca ogni mattina alle 5,40 sulla linea 6 della metro parigina, «nella tratta che da Nation va a Montparnasse» per raggiungere l’istituto in cui insegna: con lui una massa indistinta di persone, presenze assenti e intercambiabili: i penultimi, appunto, non proprio gli ultimi nella scala sociale. Un lavoro ce l’hanno e lo raggiungono all’alba di ogni giorno feriale, rassegnati a una routine malpagata, ripetitiva, spersonalizzante:

Se ne stanno seduti i penultimi / alle cinque e mezza del mattino / tutti occupati i sedili sulla banchina / prima che il primo treno del giorno / salpi e porti per mari di moquettes / e vetri negli uffici le donne delle pulizie / o gli operai giù in fabbrica, i travet per piani / senza più nulla chiedere né altro domandare.

Il poeta li osserva, nei copricapi di lana degli uomini, nei foulard delle donne, negli occhi socchiusi per il sonno interrotto e nelle labbra che si muovono in cantilene o preghiere: appartengono a razze e religioni diverse, sono esseri umani come lui, compagni di ventura e sventura, ma forse non altrettanto capaci di introspezione e di valutazione sul destino che altri hanno confezionato per loro:

E ce ne stiamo attaccati studenti ed operai / come le lancette / di un orologio che segni / l’esatta metà del giorno / (e della notte) / c’est l’heure! c’est l’heure!

La Parigi della democrazia e dell’insurrezione ‒ Liberté, Égalité, Fraternité ‒, si offre nel suo squallore quotidiano al giudizio sconfortato e agro dell’intellettuale, che sa comunque più e meglio dei suoi compagni di viaggio cercare scampo nella bellezza residua della luna seminascosta tra le nubi, del cielo ancora grigio, di una ragazza-runner ansante sul marciapiede, o nel profumo di colonia che improvviso invade lo scompartimento, riaccendendo memorie familiari. 
In una posizione di privilegio, l’autore possiede gli strumenti culturali per interrogarsi su cosa sia diventato il vivere in comunità, oggi, nelle metropoli di tutto il mondo, pagando uno scampolo di welfare con la mancanza di rapporti umani e di felicità individuale. Lo fa in uno degli inserti in prosa del libro («Quando è cominciato tutto questo? Quando è iniziato l’assedio che ci stringe in una morsa che rende irrespirabile l’aria del tempo e che strozza l’anima… »), rispondendosi da solo:

Ed è strano e insieme meraviglioso che proprio in quell’attimo di scoramento senti rinascere dentro un soffio di vita nova, il gorgoglìo, la misura della tua forza, sapere che più inespugnabile è il diritto meno la forza potrà e che basta il pensiero di queste cose e quelle a far sollevare lo sguardo, a osservare meglio di fuori sporgerti per scoprire che quelli che sembravano i tratti ingrugnati del nemico sono solo il riflesso del tuo stesso volto nell’acquitrino di cinta e che un solo rimedio al fronte interno vale a quel punto, liberare il portale, calare il ponte, issarsi a riveder le stelle e respirare forte e dire vita, ehi vita mia, urlare, grazie.

Grazie alla vita comunque, grazie ai penultimi,

sti pauvres christi, de christiani, au senso largo / car il y a aussi el muslim, le buddist lo istemmatore, / toti sti pasi, bon, stano toti amuchiati, entassés, / addunuchiate dans la grande salle des pas perdus

che chiedono poche cose alle cose,

a volte solo un segno, un cenno, / da parte a parte della vita », quando bastano «i tre boccioli di rosa sulla piattaforma, in pieno inverno / di piena neve, sussurrano courage, la primavera avanza.

QUI L’ARTICOLO ORGINALE: https://www.sololibri.net/Penultimi-Forlani.html?fbclid=IwAR36ebQRVln8cEMn7zqNVhspOVKVv_3gmYtmu-9NS9YaNUYguMrDJjqQBzE

L’IMPERATORE DI ATLANTIDE – recensione Salvatore Massimo Fazio su L’urlo

L’IMPERATORE DI ATLANTIDE – recensione Salvatore Massimo Fazio su L’urlo

“L’imperatore di Atlantide”: l’analisi di Enrico Pastore

Straordinaria ricostruzione del dietro le quinte dell’opera musicale concepita in un campo di sterminio morale

L’imperatore di Atlantide (Miraggi Edizioni, 2019), è una opera straordinariamente completa, che consegna al pubblico uno spaccato, non molto conosciuto, di un luogo-lager che i nazisti crearono per apparire innanzi alle delegazioni di due paesi del nord Europa, Danimarca e Svezia, e innanzi alle visite della Croce Rossa Internazionale, come gruppo ad hoc al fine di migliorare “quella razza” che tutti pensavano essere sterminata dagli stessi.

L’intento di Hitler, fu quello di far credere, riuscendoci, che i prigionieri ebrei dislocati a Terezín vivessero in ottime condizioni, al pari dei tedeschi medesimi che inneggiavano alla razza pura.

Null’altro che finzioni su finzioni, assurdità al limite dell’accettabile; ma tutto ciò accadde, e a renderlo noto furono le testimonianze e il capolavoro musicale scritto da Viktor Ullmann e Petr Kien, prigionieri a Terezín, città ghetto, dove tutto era credibilmente meraviglioso.

Chi ha dato tanta luce a questo superamento di Brecht, è lo scrittore, intellettuale e regista stresiano Enrico Pastore.

L’imperatore di Atlantide: folgorazione Pastore

La spettacolarizzazione esiste, ma troppe volte viene intesa come inutile interesse, come spocchiosità, come eccesso. Preparatevi al meglio ad incassare il gancio destro. Enrico Pastore, regista e intellettuale classe ’74, assieme ad un gruppo di compagni e colleghi universitari, durante un corso di Storia del teatro all’Università Ca’ Foscari di Venezia (i docenti non vanno citati perché sono la categoria che più detesto!, questa è mia, ma lo sapete già) che seguì nel 1995, conobbe “L’Imperatore Atlantide”. Fu folgorazione.

 

Mettere in scena L’imperatore di Atlantide?

L’idea prima fu quella di farci una tesi di laurea, tanto fu l’interesse dell’allora giovanissimo stresiano, che non andò mai in porto, e fu una fortuna il fallimento accademico, proprio perché non avremmo forse assistito a questo gran lavoro racchiuso in 200 pagine c.ca compreso di libretto, a fronte in lingua originale, dell’opera scritta da Viktor Ullmann e Petr Kien.

 

 

Cosa fa Enrico Pastore?

Enrico Pastore
Enrico Pastore

Semplicemente racconta i retroscena di dove si plasmerà la più importante opera del periodo nazista, scritta da due grandi artisti, che assieme ad altri conosceranno la fine e le camere a gas. Ma prima ancora, conosceranno invece l’assurdo teatrante brechtiano che era Hitler.

I prigionieri a Terezín scrivono L’imperatore di Atlantide

Terezín fu una città ghetto lager creata per far apparire che tutto andava bene alle istituzioni di controllo come la Croce Rossa. Lì c’erano scuole che i bimbi non potevano frequentare, perché ebrei, c’erano i parchi che gli ebrei non potevano calpestare, c’erano i bar dove il caffè non dovevano venderlo, perché il cliente era ebreo. Insomma, i nazisti con a capo Heichmann, cosa fecero? Si inventarono una città modello, dove la vita era dignitosa: finto; dove gli ebrei non erano abusati: finto; dove le premesse erano le migliori per far vivere e potenziare le bellezze degli ebrei: finto! Finto! Finto ! Finto! Tutto finto! Bastardi tedeschi!

L’ebreo Salvini?

Sembra una provocazione? Non lo è. Vi dico il perché. Nella città di Terezín, dove tutto era finto, anche l’operazione di abbellimento (la povertà era al limite del ridicolo per chi doveva culturalizzare la città), anche le più importanti messe in scena culturali, se non venivano cassati dai tedeschi, succedeva che li cassavano i medesimi ebrei: perché? Perché la paura dei tedeschi era troppa, nonostante si sapesse che tutto era fittizio, tant’è che “allora meglio tirar per le lunghe questa via nel paradossale mondo di Terezín”.

E che c’entra Salvini? Boh!

E che c’entra Salvini? Boh, mi è venuto in mente, perché ce l’ha con i tedeschi e ci scassa la minchia con la questione di star fuori dall’Europa. Che però, si legga tra le righe, la storia gli da ragione: i tedeschi sono sempre i tedeschi, i soliti tedeschi, cattivi, che mai un Salvini potrebbe emularli: stiano tranquilli gli immigrati pertanto. Ma gli immigrati sono tranquilli, chi non è tranquilla è la sinistra (PD: può chiamarsi sinistra? ‘nsomma!!!); e poi ci siamo tutti noi, perché paradosso dei paradossi, Salvini, risulta essere la consecutio temporum dell’anti germanicità messa in atto dagli ebrei! Stupore? Prendetevela con Enrico Pastore, che a furia di scavare per trovare fonti ci ha messo in crisi!!!

Enrico Pastore: L’imperatore di Atlantide

Il libro si presenta bene e affronta tutto il dietro le quinte di quella bellissima opera che è L’imperatore di Atlantide. Ci racconta di Ullmann e di Kien, della loro collaborazione, di come quando e perché sono nati gli interessi condivisi coi colleghi, e di quanti artisti furono deportati. Psicologicamente ci inquieta pure con il disastro della memoria: non più importava loro dove fossero o cosa facessero, producevano bellezza e questo bastava. Poi, poi si tornava indietro, per poi un giorno non tornare più.

 

Libro ottimo

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Libro ottimo, ben curato, scritto e armonizzato. Dattiloscritto che Miraggi Edizioni ha fatto bene a pubblicare con l’inserimento del libretto dell’opera in appendice, che poi tanto appendice non è dato che un terzo del libro è tutto il libretto con traduzione a fianco. Conoscere un’opera musicale è molto bello, sapere chi sono i suoi autori, e in quale triste e doloroso contesto si son dovuti muovere e son riusciti a creare, lo è ancor di più. Andare all’ etimologia di ogni singolo termine che compone il titolo, aprire con un capitolo che ti dice tutto: “Il campo delle menzogne”, non ha più motivo di dare spiegazione. Questo libro va letto: assolutamente!

Miraggi riesuma miracoli e capolavori, non possiamo rendergliene atto che giorno dopo giorno si impone come realtà editoriale per tutti, mantenendo quell’aurea di nicchia.

 

 

 

 

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://lurlo.news/limperatore-di-atlantide-lanalisi-di-enrico-pastore/

PENULTIMI di Francesco Forlani – recensione su Magazzino Jazz

PENULTIMI di Francesco Forlani – recensione su Magazzino Jazz

Francesco Forlani, Penultimi/Pénultièmes, Miraggi Edizioni  2019

Traduzione dall’italiano di Christian Abel, Nota critica di Biagio Cepollaro

Francesco Forlani è poeta, cabarettista, traduttore dal francese, conduttore radiofonico, scrittore-calciatore…fondatore di una rivista qua, redattore di un’altra là. Un esempio raro di agitatore culturale. Un performer vulcanico, un folletto che legge benissimo le sue opere (e di quanti autori si può dire davvero?), un fiume di idee costantemente in allerta alluvione. Non dovrei scrivere di questo libro perché non è il mio lavoro (ma qual è, poi?).

Scrivo già di musica, storia, romanzi gialli, tento spericolati approcci culturali tra mondi lontani, mescolo pastiche tuttologi. Scrivere di poesia così, d’emblée? Non dovrei, però sento di volerlo fare perché la vita di Forlani -transfuga in Francia per insegnare in una scuola di banlieue, un universo raggiungibile via metropolitana partendo dal centro della più bella città del mondo- è di per sé una metafora della vita di molti, ovunque. Siamo tanti a essere penultimi. Allora visto che questo libricino, una volta richiuso, mi ha imposto di reagire, salvo la mia bronzea faccia di mestatore culturale affermando con certezza che qui tutte le frasi e i componimenti di Forlani possiedono una propria musica interna. Un lungo blues che attraversa le pagine, che segue le fotografie a corredo del testo, che parla di partenze all’alba e di sfatti rientri serali.

Sono davvero poche le cose che il penultimo

chiede alle cose, a volte solo un segno, un cenno,

da parte a parte della vita, ma inequivocabile

preciso che non solo ti indica il cammino e la distanza

ma sembra quasi che ti tenga la porta al vivere.

Un inizio sommesso che in qualche modo prende di petto l’argomento e invece lo sfiora soltanto, con delicatezza. Un blues dei migliori.

La stanchezza del ménage nella vita globalizzata, nella quale gli essere umani sono sbatacchiati ovunque a faticare in maniera indicibile per guadagnarsi la sopravvivenza. La sera tutta la stanchezza di questo tipo di vita ci piomba addosso e ci impone un esame. Quanto abbiamo combattuto? Quanto ci siamo arresi all’ordine costituito delle cose?

Dovremmo forse smettere di pensare alla vita in modo militare, accet­tare la resa alle cose nell’ordine   naturale in cui ci parlano, generalmente alla fine del giorno.

La vita dei pendolari assume a volte nella descrizione di Forlani una densità dantesca, mentre le persone scendono silenziose nella metro e affrontano il viaggio-purgatorio verso gli inferi lavorativi.

Se ne stanno seduti i penultimi

alle cinque e mezza del mattino

tutti occupati i sedili sulla banchina

prima che il primo treno del giorno

salpi e porti per mari di moquettes

e vetri negli uffici le donne delle pulizie

o gli operai giù in fabbrica, i travet per piani

senza più nulla chiedere né altro domandare

Lavoro, routine quotidiana, ma anche amore. L’amore assume i toni di una ballata lentissima, dall’incedere quasi sfinito nel tentare delle riflessioni di autobiografia metafisica.

Nelle storie d’amore ho a volte come l’impressione che tutta la propria storia, le proprie storie d’amore, non siano altro che il tentativo di forgiare le armi che in quella prima grande storia avrebbero potuto salvarci dalla disfatta.

La ballata sfuma e torna il blues, prepotente:

perché nero è il colore della pelle

e perché fuori l’alba è ancora senza luce

Potrebbero tranquillamente essere le parole cantate da un uomo di colore con la sua chitarra in spalla, all’angolo di una dura strada degli Stati Uniti del Sud. O degli stati di tutto il mondo e di ogni tempo.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

il blues dei penultimi