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Poema bianco – recensione di Paolo Birolini su Fogli&Viaggi

Poema bianco – recensione di Paolo Birolini su Fogli&Viaggi

Un poema vertiginoso, un monologo (o un soliloquio) costruito su un paradosso dichiarato: chi scrive immagina che sia una donna, il suo amore, l’amore straziato e finale di tutto il poema, a scrivere. A parlare a sé immaginando il suo unico lettore fare la stessa cosa. In questo rifacendosi, non so se e quanto volontariamente, ad una delle ultime poesie di Hölderlin
 prima della follia, dove lo svevo si immagina che Diotima (Suzette Gontard), gli scriva versi di commiato e distanza

Se da lontano ancora mi conosci,
é ci separammo ed il passato 
per te che dividesti i miei dolori 
può ancora rappresentare qualche bene, 
dimmi come ti aspetta la tua amica?

Panella Battisti

Pasquale Panella, più noto come autore di testi per l’ultimo Battistiche come poeta è invece, a mio avviso, il più affascinante dei giocolieri, il più illuminante e raffinato iniziatore di misteri quotidiani e amorosi.

Il Poema Bianco, dove è il bianco che fa la poesia, che crea i versi per sottrazione, è un inarrestabile flusso di parole e struggimenti post-mortem su un amore finito. La storia e l’anti-storia, il pieno e il vuoto di questo finale che si autoavvera..

Panella Battisti

Panella non è nella classifica dei più venduti. Credo che pochi, o nessuno, sappiano dei suoi libri introvabili. Eppure scrive versi memorabili sull’assenza:.

Il telefono
Quando lo guardo
Sento il violento
Sentimento del niente
(sono, quindi, eccessiva
o eccedente) 
Quando squilla
Tutto il mondo chiama e parla
Quando il telefono non squilla
Sei sempre tu
Che non mi chiami

O cita direttamente i versi di Diotima allo svevo:

Siccome lontano,
in quanto lontano,
ti muovi sconosciuto,
uscito dalla nostra
porta aperta,
come il futuro
del nostro passato
verso una vita certa
(si ha sempre l’impressione
che chi esce dalla nostra
poi viva molta vita
esposta all’aria aperta
e al chiuso si diverta,
e con tutto in mostra)

È un attimo ritrovarsi in questo pensiero disastrato e disastroso. In questa fine del pensiero. Che l’amore è rappresentanza del pensiero novecentesco.

Falla finita novecento
Dai, su, falla finita
non è più tempo

Il Poema è fatto in quattro parti, quarti, quartetti. La prima è il poema, la seconda lo scarto, la terza la fine. La quarta una sceneggiatura che disegna la poetante, la voce che il poeta ha voluto dare a questo lutto. Una sorta di autodenuncia.

La voce è femminile, certo,
perché tu sei vile
Ti scrivi come se io
ti avessi scritto
Poi credi che l’abbia fatto per davvero
(tu che leggi, ovviamente tu che leggi)

Panella Battisti

Arricchito da una prefazione più che amicale del filosofo Lucio Saviani, pubblicato nel 2017 dall’editore Miraggi, Poema bianco, quasi introvabile e quasi sconosciuto, un po’ Hölderlin dalla torre di Tubinga un po’ La voce umana di Cocteau, è un’opera bellissima e spiazzante. Il primo volume da sistemare nel primo scaffale dedicato alla poesia, nella biblioteca che andremo a costruire.

QUI l’articolo originale:

https://bit.ly/3vDsrJY

RUR – recensione di Ludovico Lamarra su Nerdface

RUR – recensione di Ludovico Lamarra su Nerdface

«Nulla è più estraneo all’uomo della sua immagine»

robot. Quanto dobbiamo essere grati alla creazione di questo archetipo narrativo per la nostra formazione di nerd? Per molti di noi i robot sono stati il primo contatto con una cultura dell’intrattenimento nuova e dirompente, diffusa su scala nazionale dalla miriade di canali locali della televisione italiana a cavallo tra anni ’70 e ’80.

Il primo robot

Dall’apripista Goldrake abbiamo assaporato talmente tante sfumature di cuore e acciaio d’aver perso il conto. Eppure, come giustamente sottolineato da Alessandro Catalanonella bella postfazione di R.U.R.: Rossum’s Universal Robotsfumetto imponente proposto da Miraggi Edizioni nella collana miraggINK, il creatore dei robot e dello stesso termine coniato per identificarli è ancora ignorato dalla maggior parte degli stessi fruitori delle storie che li vedono oggi protagonisti.

Un curioso destino

È questo, infatti, il curioso destino cui è andato incontro Karel Čapek, autore ceco che nel 1920 pubblica il dramma in tre atti R.U.R.: Rossum’s Universal Robots, messo in scena la prima volta l’anno successivo al Teatro Nazionale di Praga. A differenza di Mary Shelley col suo Frankenstein o di Bram Stoker col suo Dracula, Karel Čapek non è celebrato per aver dato alla luce i suoi «robota», esseri senz’anima fabbricati dall’uomo per assolvere ai ruoli produttivi della società.

un uomo annuncia alla platea di un teatro la creazione dei robot - nerdface

E così, divenuti patrimonio collettivo, i robot hanno subito profonde mutazioni. Oggi, grazie a Miraggi Edizioni, quanti avranno l’intelligenza d’approcciarsi alla stupenda opera di Kateřina Čupová, che ha trasformato il dramma di Čapek in fumetto, potranno per esempio scoprire che in origine i robot non erano di metallo, ma di materia organica, più simili ai Replicanti di Blade Runner che a una qualsiasi creatura di Go Nagai.

Il perché di un oblio

Non è questa la sede per addentrarci nei numerosi motivi storici e culturali che hanno condotto i robot lontanissimi da Karel Čapek e, paradossalmente, la lettura della versione di R.U.R.: Rossum’s Universal Robots a romanzo grafico potrebbe fornirvi proprio gli spunti adatti per le vostre riflessioni, rappresentando allo stesso tempo una piacevole scoperta.

La trama

La vicenda è ambientata in un futuro prossimo come lo si poteva immaginare agli inizi del Novecento: una giovane donna si reca in visita allo stabilimento di produzione R.U.R., dove sono fabbricati i robot. Inizialmente non svela i motivi della sua presenza e la vediamo incontrare i diversi responsabili dei vari comparti, che le illustrano la meraviglia tecnologica di un essere incapace di emozioni e di riprodursi, più forte di un uomo e insensibile al dolore fisico, creato per liberarci dalla schiavitù della fatica e del lavoro.

opachi robot si aggirano nella fabbrica - nerdface

Non tutte le voci degli uomini e delle donne addetti alla fabbrica sembrano concordi e, non a caso, agli inservienti più umili è data la voce della critica, che sarà fatta propria anche dalla donna in visita, per giunta tenuta all’oscuro fino all’ultimo di un segreto che potrebbe cambiare per sempre le sorti dell’umanità.

I tanti piani di lettura

R.U.R.: Rossum’s Universal Robots è un’opera complessa e dai numerosi piani di lettura, motivo che probabilmente ha contribuito a renderla meno digeribile alla cultura popolare. L’idea di una massa proletaria priva d’identità e da sfruttare in mansioni logoranti è un evidente richiamo alla Seconda Rivoluzione Industriale, i cui effetti su società e ambiente saranno al centro di tanta produzione letteraria, per restare solo in questo ambito espressivo. Ma è inevitabile anche pensare a una prima riflessione sul Comunismo reale e al miraggio di un’utopia di liberazione tramutatasi in dittatura.

Una distopia in tavole

Kateřina Čupová riesce nell’impresa di rappresentare una distopia angosciante, immaginata un secolo fa e senza possibilità di ritorno, usando colori pastello e uno stile visivo per certi versi fanciullesco, rendendola anche più vicina ai nostri tempi. Sono proprio i colori a dettare i cambi di atmosfera, insieme ad alcune tavole di grandissimo impatto, sorrette ed enfatizzate dal formato imponente del fumetto e dalla scelta di una carta di grande qualità e grammatura.

gli umani superstiti sono circondati da robot - nerdface

Siamo grati che la tradizione dei robot abbia saputo prendere strade pure molto diverse da quelle tracciate da Karel Čapek. È stato rassicurante crescere immaginando d’avere giganteschi protettori sempre pronti a difenderci da nemici alieni, al massimo a «odiare gli stupidi» o «il peccato e non chi lo commette».

Da Rossum a Skynet

Ma grazie a Kateřina Čupová e alla sua riduzione di R.U.R.: Rossum’s Universal Robots non possiamo più ignorare come altri filoni meno rassicuranti in materia abbiano ripreso un filo molto indietro nel tempo, che ci ha condotti fino a Skynet. Capiamo, forse, il motivo del suo oblio: sfruttamento e prevaricazione sono mostri ben peggiori di qualsiasi succhiasangue o scienziato pazzo, sono uno specchio al quale non tutti riescono a guardare.

QUI l’articolo originale:

RUR – segnalazione su WIRED

RUR – segnalazione su WIRED

6 fumetti di fantascienza da non perdere 

Le migliori novità dal mondo della sci-fi tra comic book, graphic novel e manga

Il termine robot deriva dalla parola ceca robota, che indica i lavori pesanti o forzati. Non tutti sapranno, però, che la parola assume il suo significato attuale nel 1920 grazie al dramma teatrale Rur: Rossumovi univerzální roboti, di Karel Čapek, dove per la prima volta è stata utilizzata per definire degli umanoidi artificiali. Oggi, la rivoluzionaria sceneggiatura di Čapek diventa una graphic novel illustrata con tratto appropriatamente retrò dalla disegnatrice ceca Kateřina Čupová. Scopriamo così, in veste inedita, cosa accada nella fabbrica fondata dal dottor Rossumovi, dove i lavoratori vengono “coltivati” in un brodo primordiale, e dove vengono piantati i semi per una ribellione che potrebbe costare cara al genere umano (Miraggi Edizioni, 280 pp).

QUI l’articolo originale:

https://www.wired.it/gallery/fumetti-fantascienza-novita-foto/

RUR – recensione di Gianfranco Franchi su Mangialibri

RUR – recensione di Gianfranco Franchi su Mangialibri

Futuro prossimo. Fabbrica Rossum’s Universal Robots. È giorno di presentazioni, si annunciano nuove invenzioni rivoluzionarie. Il direttore Domin domanda e si domanda: “Qual è, secondo voi, l’operaio migliore? Quello affidabile? Onesto? Niente affatto. Il più economico. Quello con minori bisogni. Il robot”. E cosa sono questi nuovi “robot”? Sono uomini senz’anima: uomini artificiali, meccanicamente perfetti. L’uomo è un “prodotto imperfetto”, forse perché Dio non era tecnologicamente così evoluto; i robot, invece, hanno un altro equilibrio. Sono parecchio più performanti. Stacco. Cocktail post presentazione. Ordini già in arrivo da mezza Europa. Helena Glory si presenta al direttore, con un biglietto di suo padre, il presidente Glory. Vorrebbe tanto poter vedere (in via eccezionale, si capisce) le segrete stanze della fabbrica. È figlia di un presidente: può entrare. Il direttore Domin promette che le mostrerà tutto: ecco le vasche (ciascuna contiene materiale per mille robot), ecco la storia della scoperta. Nel 1920, diverso tempo prima, il vecchio Rossum era sbarcato su quest’isola per studiare la fauna marina; voleva riprodurre, tramite sintesi chimica, la materia vivente detta protoplasma, finché non aveva scoperto un’altra sostanza che si comportava proprio come la materia vivente ma aveva una diversa composizione chimica. Ciò succedeva circa 12 anni più tardi, nel 1932. Quella scoperta era, concretamente e tecnicamente, un grumo di gelatina apparentemente senza senso. Rossum poteva, a quel punto, dare vita a qualunque genere di creatura, con quel grumo: aveva invece deciso di ricreare l’uomo. “Ma voi li fate davvero gli uomini?”, domanda lady Glory. “Più o meno”. Il vecchio Rossum era ateo, era materialista: pensava di poter spodestare Dio e ricreare ex novo un uomo, fino all’ultima ghiandola. Poi era arrivato suo nipote e gli aveva detto che era ridicolo impiegare addirittura dieci anni per replicare un uomo, serviva essere più veloci di madre natura. Quel giovane rappresentava la nuova epoca, davvero! Aveva capito che un bravo ingegnere poteva migliorare l’essere umano, perfezionandolo qua e là; cavando via qualche ghiandola, l’appendice, le tonsille, tutta una serie di cose inutili. Tipo i sentimenti, per capirci. “L’uomo ha bisogno di fare tante cose inutili”, spiega il direttore. “Fare passeggiate, suonare il violino, provare gioia. Sono cose inutili quando c’è da fare calcoli, tessere stoffe, lavorare…Vede, a un motore non servono ornamenti. E produrre robot è come produrre motori”. E così, il giovane Rossum aveva buttato via l’uomo per creare un uomo nuovo, chiamato robot: un operaio prodigioso dalla memoria eccezionale. Oppure una cameriera, una commessa, una dattilografa. Indifferente che fosse maschio o femmina. Il robot non aveva comunque passione e non aveva sentimento. “I robot sono più perfetti della natura ma non possono inventare niente di nuovo. Potrebbero benissimo insegnare all’Università”. Ogni giorno vengono prodotti quindicimila nuovi robot. I più longevi durano anche vent’anni. Poi si deteriorano e vanno rottamati come si deve. Non serve farsi scrupolo: non sono attaccati alla vita, non ne hanno motivo. Non provano più emozioni. Non vengono dotati di anima perché non è nell’interesse della fabbrica. Costerebbe troppo a livello di produzione…

1920. Nella distopia R.U.R. Rossum’s Universal Robots, opera di Karel Čapek, viene coniato il termine “robot”: viene dalla parola ceca “robota”, diventerà qualcosa di estremamente comune. L’invenzione della parola “robot” si deve al fratello di Čapek, Josef, pittore; Karel aveva pensato a un più didascalico “labor”. Questa la vulgata. 2020. Cento anni più tardi, Kateřina Čupová pubblica questa graphic novel, per la Argo di Praga. Secondo Luca Castelli del «Corriere della Sera», “di luce e colori abbondano le tavole della Čupová, che con l’autore dell’opera condivide la nazionalità, le iniziali e l’età in fase di creazione (è nata a Ostrava trent’anni fa). Il suo tratto elegante, gentile, quasi giocoso, discendente dalla tradizione dei cartoni animati dell’Est Europa, aiuta ad alleggerire una trama che spesso lambisce scenari cupi alla Metropolis di Fritz Lang (film che risentì parecchio dell’influenza di R.U.R.)”. A dar retta a Maurizio Di Fazio de «la Repubblica», si tratta di una “rivisitazione assolutamente originale ma rispettosa della pietra miliare. Il suo stile e la sua matita, rimandanti all’universo del cartone animato, affondano le radici in decenni di premiata animazione ceca”. Nella postfazione, il professor Alessandro Catalano puntualmente osserva che durante questi cento anni, a partire dall’invenzione di Čapek, “il robot, multiforme alter ego dell’uomo, sua copia infedele, spesso aggressiva, ha subito mutamenti sostanziali”: tanto che, paradossalmente, oggi è più famosa la parola “robot” che l’opera sua matrice, R.U.R. Rossum’s Universal Robots. “I robot hanno infatti da subito iniziato a vivere di vita propria, fino alla definitiva identificazione con l’essere artificiale antropomorfo di tipo meccanico, dominante a partire dalla fine degli anni Venti e infine istituzionalizzata da Isaac Asimov e dalle grandi saghe cinematografiche”. In R.U.R. Invece il robot è un essere umano “dalle ridotte esigenze e dalla maggiore efficienza lavorativa”. Cosa che, politicamente e simbolicamente, in genere, ha ben diverso peso e ben diversa consistenza. Direi che la distopia del notevole Karel Čapek (Malé Svatoňovice, 1890 – Praga, 1938) aveva parecchi elementi di visionaria critica ai totalitarismi figli del socialismo: i suoi “roboti” sembrano quei cittadini-sudditi cinesi della nostra epoca, estranei a qualunque forma di protesta e di ribellione, vuoti e obbedienti e quando serve aggressivi e famelici, come formichine. I robot di Čapek conosceranno una sorte differente da quella che avevano previsto i loro progettisti, in fabbrica: speriamo che sia così per gli “inconsapevoli automi” derivati e originati dai dispotismi asiatici e dai totalitarismi di nuova generazione. L’opera è stata pubblicata dalla Miraggi di Alessandro De Vito & c. nella nuova e promettentissima collana MiraggInk, con il contributo del Ministero della Repubblica Ceca. Siamo dalle parti di quei fumetti che scintilleranno di grazia e di intelligenza per diverse generazioni, nelle vostre biblioteche. Compratelo e fatelo leggere ai vostri bambini e ai vostri ragazzi, spiegate loro che i totalitarismi non sono un gioco e che l’anima e i sentimenti sono tutto quel che abbiamo. Chiudiamo con qualche cenno biobibliografico. Karel Čapek, giornalista, drammaturgo e narratore, è stato uno dei maggiori scrittori cechi del Novecento. Nelle sue opere antesignane e visionarie ha trattato temi delicati e oggi decisivi come l’intelligenza artificiale, le epidemie, l’energia atomica. Kateřina Čupová da Ostrava, Cechia, classe 1992, animatrice e fumettista, si è laureata presso il prestigioso Dipartimento di Animazione all’Università Tomáš Baťa di Zlín. A dar retta agli amici della Miraggi, “il suo stile accattivante e simile a un cartone animato è fermamente radicato in decenni di apprezzata animazione ceca”. Vediamo di apprezzarla a dovere anche quaggiù in Italia!

QUI l’articolo originale:

https://www.mangialibri.com/rur-rossums-universal-robots

Cari jihadisti – recensione di Francesco Subiaco su Generazione liberale

Cari jihadisti – recensione di Francesco Subiaco su Generazione liberale

CARI NEMICI DELL’OCCIDENTE, UNA RIFLESSIONE SULLO SPAVENTO SENZA FINE DELL’OPEN SOCIETY

“Cari jihadisti, sottovalutate parecchio gli effetti della battaglia in cui vi siete gettati a capofitto. Siete le prime vittime della nostra propaganda, credete di mettere sotto scacco la nostra civiltà. Ci dispiace, non è così. Mirate al mulino a vento sbagliato. Qui non c’è nessuna civiltà”. Tagliente, ironico, disincantato, scorretto, lucidissimo è uno dei testi più affilati di uno dei pensatori più atipici della controcultura francese: “Cari Jihadisti” di Philip Muray (Miraggi Edizioni). Il testo si presenta come una lunga e cinica epistola agli esecutori dell’attentato delle Torri gemelle alla viglia della tragedia che aveva messo in ginocchio l’intero occidente. Una lettera in cui il pensatore francese riesce a mettere in luce le debolezze, le paure, le illusioni della società globale. Per Muray l’occidente non è una civiltà, ma un grande minimarket multietnico, un bazar underground in cui gli uomini, ridotti a consumatori autoconsumanti sono il prodotto e l’acquirente di una realtà distorta e inoffensiva, repressa e inibita, che vive del suo unico vero valore: l’inconsapevolezza. L’inconsapevolezza che pone gli occidentali nella condizione di non capire, e forse nemmeno vedere, la cappa di postverità di cui si circondano. Popoli, soprattutto quelli europei, che ridotti ad una condizione di meri agglomerati umani di consumatori omologati, separati solo da lingua e posizione geografica, vivono una vita erbivora, ignorando i giochi di potenza che si affrontano nei complessi legami geopolitici tra stati, vittime più che della menzogna della fine della storia, dell’illusione della fuga dalla storia. La realtà, questo l’acerrimo nemico di questi iperborei, però è quella cosa che non svanisce nemmeno quando smetti di credergli, infatti essa si è manifestata come una calamità che ha turbato il lungo sonno dell’occidente illuso di potersi rifugiare sotto l’ombrello della Nato vita natural durante. Un sogno che dal 11.09. 2001 agli atroci sviluppi dell’evacuazione afgana e della guerra ucraina, da cui sembra non poterci essere un risveglio definitivo. Come i personaggi descritti nella lettera di Muray gli europei sono una comitiva di stati sovrastanti che galleggiano sulla storia senza farne parte, senza capirla, vivendo in una specie di asilo nido incantato, un luogo di musichette che li stordisce mentre fuori c’è la morte. Dimostrando ancora una volta come l’occidente sia una mamma marcia che ha abolito ogni forma di tragedia e di resistenza al destino, cullandosi nella duplice missione, di abolire l’umano e di lottare per la totale decostruzione e distruzione del proprio patrimonio culturale. Dalla decostruzione della storia come processo di rapporti di forza, allo smantellamento dei classici, dei sistemi, del canone, riscritti secondo un terribile moralismo nichilista nutrito dalla religione di una falsa tolleranza che non è altro che una disperazione passione, tutto cospira per creare la fiaba di una open society autosufficiente dalla realtà. Scossi dalle guerre, dalle pestilenze e dalle crisi essi si dimostrano disarmati di fronte alle sfide del futuro, marci, vuoti, divisi, interconnessi, ma dissociati. Non più decadenti, ma decaduti, vivono come il pubblico del mondo, con indifferenza e rassegnazione, nel privilegio e nella disperazione. Gli europei davanti alla guerra, alla crisi, al fato che muove i destini dei popoli, come in Ucraina ed in Afganistan, si credono innocenti quando al limite sono solo ingenui. Ingenui perché continuano ad ignorare che la legge intrinseca della vita è lotta, che le religioni delle lacrime, umanitarismo, globalismo e universalismo, non sono altro che ornamenti del suicidio occidentale di fronte all’avanzata dei barbari, gli altri, pronti a conquistare i selvaggi, noi. Una stroncatura potente e crudele che però mette in guardia i nemici di questo paese dei balocchi, in primis, poiché il globalismo, come un ellenismo postmoderno, conquisterà i suoi futuri conquistatori, in caso di loro vittoria. In secundis perché nonostante per la nuova classe precaria globale morire per la Nato equivalga a sacrificarsi per la propria compagnia telefonica, essi si sono dimostrati in tutte le occasioni che il tempo gli ha offerto pronti per lottare affinchè il loro sonno secolare non venga disturbato. “ci batteremo e vinceremo. Eccome se vinceremo. Perché i più morti siamo noi e non abbiamo nulla da perdere”. Invece di lottare per la giustizia, per la patria, per la libertà dei popoli affianco dei loro alleati, anche loro purtroppo non più in grado di essere quella Republique imperiale teorizzata da Aron, essi preferiscono lottare per il loro sonno.

QUI l’articolo originale:

Endecascivoli – recensione di Anna Sonatore su ThrillerNORD

Endecascivoli – recensione di Anna Sonatore su ThrillerNORD

Che spettacolo Endecascivoli di Patrizio Zurru!!! Mentre si sfogliano i “sessantacinque” racconti non si può fare altro che ammirarne la genialità travestita da semplicità. 

Una finestra sul passato, un passato che potrebbe essere il mio; tanto è bella la scrittura di Patrizio Zurru, tanto è vera che vi sembrerà di leggere i vostri ricordi. Siete lì, tra bottiglie di latte dimenticate, la miniera, la terra rossa. Una terra rossa che avrete come l’impressione di calpestare in quel momento. Endecascivolisono dei ricordi che non mi appartengono ma che faccio miei. 

15 anni di sottosuolo a spalare carbone, e a un certo punto ha deciso che poteva esserci un’altra possibilità, si è messo a studiare per laurearsi, facendo registrare a mia madre le lezioni su un Geloso, che ascoltava nella strada che da casa ogni notte lo portava in miniera. Avanti e indietro. Play, stop, rewind. Play again, sto, rewind, return home. Ha fatto la strada quasi dormendo, ascoltando la voce di mamma che invece di dirgli “ti amo” gli diceva Scisti, Concrezioni, formule chimiche, Carote, che non erano da mangiare ma da esaminare per verificare strati e stratificazioni. Eppure, anche se lei diceva Quarzi, Quarzite, Falde, Cristalli, lui ha sempre sentito lei che gli diceva Sono Qui, Amore, Tieni Duro, Arriva Alla Miniera Anche Oggi. Torna anche oggi.”

Difficile scegliere un estratto, se volessi riportare ogni frase che mi ha colpito mi toccherebbe ricopiare l’intero libro, e credetemi non esagero. La scrittura di Patrizio Zurru è un fluire continuo; un mare di storie in cui immergersi viene naturale. Endecascivoli è la storia di una famiglia, di un’isola, la Sardegna, che fa da sfondo ma è anche essa protagonista. 

Racconti con echi lontani, una magia unica che si percepisce dalla prima all’ultima pagina. 

Patrizio Zurru ci fa assaporare l’affetto della famiglia, le gioie della giovinezza e le avventure che ne seguono. Una lettura come questa serve a viaggiare nel tempo e nell’anima, una lettura come questa aiuta a ritrovare le proprie radici e farne un vanto. 

Se avete voglia di leggere qualcosa di profondamente bello ma allo stesso tempo maledettamente malinconico, questo è il libro che fa al caso vostro… attenzione, perché la malinconia che Patrizio Zurru vi trasmetterà è una malinconia che tocca il cuore e fa sorridere. In Endecascivoli c’è una magia che ormai sembra estinta, distrutta e uccisa dal dio progresso. C’è una frase che a mio parere si associa perfettamente all’autore “Spacciatore di colori” perché è questo che fa Patrizio Zurru, spaccia colori e voglia di vivere con i suoi racconti. Inutile dire che ne consiglio la lettura, ho già detto abbastanza. 

Buone letture!

QUI l’articolo originale:

L’animale nella fossa – citazione su Nazione indiana

L’animale nella fossa – citazione su Nazione indiana

Gaia Ginevra Giorgi: “di una specie che ho tradito”

Ospito qui alcuni estratti del libro L’animale nella fossa di Gaia Ginevra Giorgi, pubblicato da Miraggi Edizioni.

***

il mio mestiere ha a che fare con il silenzio

– con il dolore elementare raccolto nelle stanze:

ascoltare l’acqua che gonfia la terra, la luce

che filtra, misurare a lunghi sonni le radure

saper battere in ritirata. scavarmi

un buco nello sterno

ritrovare i fili che mi portano

le radici che mi tengono

***

con questa terra a lungo

sono stata in aperto dialogo:

mi sono abbeverata alla fonte

della sua luce rigorosa,

roccia bianca e schianto d’onda,

sentiero acceso,

esuberanza e poi rovina.

sono figlia di queste grazie

rispondo a leggi organiche,

qui ho imparato a stare. essere oggi

senza te e tuttavia respirare

***

coltivo il bianco – a perdere bianco

giardino della mia memoria

così simile al vuoto, ma più leggero

dell’alabastro più bianco

per combattere la levità

ho il peso delle tue ossa

dei tuoi denti e dei tuoi nervi tutti

– ripenso spesso al tuo piccolo femore

che un carro con grandi ruote aveva spezzato

quand’eri bambina

come a segnarti sulla pelle un destino

so riprodurre tutti gli attacchi di panico

che nelle piazze troppo affollate ti assalivano

– li affronto uno a uno

ma ogni mia battaglia sale a fissare il bianco

dei tuoi passi lievi

della tua risata selvatica

di ragazza

***

mi hanno generata in autunno inoltrato

all’interno di una specie che ho tradito

sono evasa, mi sono messa qui di lato

sospesa abbandonata su un fianco

sono venuta al mondo per piantare in asso

***

cosa diciamo quando diciamo latte

– che parola elementare, la sanno dire tutte

quando diciamo mulino diciamo casa

tra il costone e la conca che si svuota

verso il mare. tutto è vetro, pietra,

legno e carta. le prime ore del giorno

sono stabilite da luce a perdere

che scopre le nervature della terra,

poi i corpi si mischiano in azzurro

novembrino e ombre nuove:

eucalyptus, mimosas e ulivi

derive tra i rovi e le frane

xilù: per dire argentino cangiante

lucente per dare i nomi alle cose piccole

per trasecolare

QUI l’articolo originale:

Mona – recensione di Alessandra Fontana su La lettrice controcorrente

Mona – recensione di Alessandra Fontana su La lettrice controcorrente

La trama

La peculiare, profondissima, forma d’amore tra Mona, infermiera in un ospedale travolto dalla guerra, e Adam, il giovane soldato che arriva dal fronte con una grave ferita alla gamba, fa qui da collan…

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 – Struggente –

Mona di Bianca Bellovà è stata una scoperta bellissima. Su consiglio di Angelo Di Liberto (fondatore di Billy il vizio di leggere- il gruppo Facebook) acquistai Il lago di Bellovà che è rimasto nella pila dei libri in attesa.

Ho acquistato Mona allo stand di Miraggi al BookPride di Milano, Fabio Mendolicchio mi aveva detto: “Molla tutto quello che hai e comincia Mona, non c’è libro più adatto di questi tempi”. E devo dire che non si è sbagliato.

Mona - Bianca Bellova - Miraggi edizioni

Mona è la commovente (e cruda) storia di un’infermiera in tempo di guerra. Mona è un racconto pieno di orrore, bellezza e dolore, Mona è un romanzo che contiene moltissimi temi e pochissime parole.

Mi è piaciuta parecchio la scrittura di Bellovà: precisa, intensa, apparentemente scarna perché è potente, scorrevole e ammaliante. Ora sì che non vedo l’ora di leggere anche il resto.

Ma torniamo alla nostra storia dai contorni temporali e geografici indefiniti. Bellovà racconta l’orrore della guerra e no, non c’è bisogno di avere le coordinate geografiche per immedesimarsi. Gli occhi di Mona diventano i nostri: ovunque si posino non facciamo altro che vedere sangue, sentire urla… i medicinali scarseggiano, l’odore della morte è così forte che stordisce.

«Nessuno vuole morire» sussurra Mona. «Si sforzano tutti di vivere, di sopravvivere. Si aggrappano tutti alla vita, anche quelli a cui resta solo mezzo cervello e senza una gamba. Nessuno vuole morire».

Mona con i dolori alle ossa, piegata dalla stanchezza, stufa dei soprusi dentro e fuori dall’ospedale, incrocia gli occhi di Adam, soldato che ha appena perso la gamba.

Comincia così una narrazione alternata tra presente e passato. Della nostra infermiera cominciamo a conoscere l’infanzia, traumatica e ingiusta.  Ripercorriamo le bugie, i drammi, la solitudine che hanno cambiato per sempre Mona. La guardiamo diventare adolescente e poi diventare moglie e madre. Errori, rimpianti conditi da apatia e nervosismo. Quanto avrei voluto abbracciare questa bambina costretta a dormire con la luce di notte per non rivivere l’incubo della prigionia.

Ed eccola lì, tra quattro pareti non murate. La stanza – ma poteva chiamarsi stanza? – era completamente buia, senza finestre. Alzandosi in piedi Mona toccava con la testa la botola da cui una volta al giorno riceveva una ciotola di riso e consegnava il recipiente con gli escrementi

Mona - Bianca Bellova - Miraggi edizioni

Ma la storia di Adam non è più facile: i primi amori, le amicizie, quella spensieratezza destinata a non durare  per l’arrivo della guerra. Che cos’hanno in comune Mona e Adam? La dignità. Mentre il mondo fuori viene inghiottito dalla violenza, quella della Guerra, quella dell’oppressione nei confronti delle donne, ecco che loro due conservano la forza dei principi. Fedeli a sé stessi daranno vita un legame in grado di superare ogni orrore.

Bellovà con poche ma precise pennellate ci trascina in una storia che dimostra non solo l’insensatezza della guerra, ma anche la violenza di cui siamo capaci in quanto esseri umani.

Esistono molti tipi di umiliazione, Mona ne conosce a migliaia, per sentito dire e per esperienza diretta. Gli uomini che incrociandola per strada fanno schioccare la lingua. L’impiegato della banca che ticchetta impaziente con la matita sullo sportello, senza prendersi la briga di aprir bocca, quando Mona si attarda troppo a cercare un documento. Gli inopportuni palpeggiamenti sull’autobus. Gli infiniti parlottii, essere chiamata puttana quando esce con la testa scoperta.

Se da una parte siamo invasi da amarezza, sdegno e disgusto, dall’altra Bellovà è in grado di commuoverci, regalando un finale delicato e inaspettato.Uccidi il gallo che in eterno scaccia la notte,Uccidi il gallo che chiama il giorno:dondoliamoci sulle onde del buiofino all’orlo dell’eternità.

Mona è…

Struggente. Ho amato tutto di questo romanzo ma non ho dato cinque stelle perché avrei voluto durasse di più. Ho bisogno di stare ancora in compagnia di Mona e Adam.

In queste settimane sono molte le persone che mi hanno detto di non riuscire a leggere per via del conflitto tra Russia e Ucraina. Comprendo perfettamente, ricordo anche che durante le quarantene molte persone non riuscivano a dedicarsi ai libri. Eppure oggi vi consiglio spassionatamente questo libro perché certo non distrae ma colpisce e ci costringe a calarci in una realtà vicina e spaventosa con un trasporto emotivo che forse prima non avremmo avuto.

Mona per reggersi in piedi beve molta acqua e tè verde. Questa è una guerra, le ripete l’inconscio fino alla nausea, la guerra e così, li porteranno qui finché laggiù ci sarà ancora qualcuno, in prima linea, nelle trincee, tra i fili spinati… Non ha idea di come sia davvero il fronte, le fotografie delle battaglie sono sottoposte a censura e chiedere ai moribondi le sembra senza senso.
Il letto di Adam è per lei l’unico rifugio dall’incessante flusso di uomini sofferenti.

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I Tedeschi – recensione di Cristina Mosca su Amantideilibri.it

I Tedeschi – recensione di Cristina Mosca su Amantideilibri.it

“I Tedeschi” è un libro meraviglioso. Scritto nel 2012 da Jakuba Katalpa e tradotto da Alessandro De Vito, è stato pubblicato nel 2019 da Miraggi nella collana “NováVlna” dedicata alla letteratura ceca. L’autrice è classe 1979 e con questo romanzo ha ricevuto tantissimi riscontri di pubblico e di concorsi letterari del suo Paese. Costa 24 euro e se vi sembrano tanti sappiate che ne vale molti di più.

Trama

Dopo la morte di suo padre, la protagonista cerca di ricostruire il passato di sua nonna biologica. Cosa l’ha spinta ad abbandonare suo figlio a Praga e tornare in Germania, cercando poi di coltivare un rapporto inviando caramelle per anni?

Si trova costretta a vagare in un presente senza memoria. Mentre la voce narrante si dà da fare per archivi, parrocchie e biblioteche, assistiamo allo scorrere della storia di Klara, in terza persona, in un periodo in cui la Cecoslovacchia era sotto il protettorato del Reich. Cosa è significato essere tedeschi “veri” in un posto in cui essere tedeschi era obbligatorio? Trovarsi a fare da spia e da collante nello stesso momento? Cosa è significato essere sole?

Recensione

Se non fosse stato per il gruppo di lettura della libreria “On the road” non avrei mai, mai preso in considerazione di leggere un’autrice ceca. La letteratura dell’Est per me ha un fascino ai minimi termini, forse nullo. Parafrasando una citazione famosa: non leggo autori che non so pronunciare.

“I Tedeschi” è tante cose. È la nostalgia, la rabbia, la malinconia. È l’impotenza, il segreto, la libertà.

“A volte sognavamo che un giorno la nonna avrebbe ripreso piena coscienza, guarita e con una memoria perfetta, e ci avrebbe raccontato tutto quello che volevamo sapere. Non ci passava neanche per la testa che i suoi segreti li avrebbe voluti preservare, che avrebbe potuto rannicchiarsi intorno a essi, circondarli con le braccia e non lasciarci passare; che non avrebbe voluto condividere.

Con un retrogusto amaro, sentivamo che la sua appartenenza alla nostra famiglia ci desse il diritto di insinuarci nel suo passato”https://dfb2d31e33a485bd6ae456cdb62e9790.safeframe.googlesyndication.com/safeframe/1-0-38/html/container.html

Ne “I Tedeschi” il tempo si spalanca. Ogni persona è un incrocio di storie: la propria, la Storia e quella di Klara. È una narrativa per ingrandimenti, che può disorientare. Soprattutto nella seconda metà, il lettore può chiedersi se una certa digressione è veramente necessaria, se non sarebbe meglio procedere con l’azione. Inoltre non tutti i dialoghi sono cristallini, non si capisce sempre chi parla a chi.

“Mi ha colpita un dolore risalente a quasi sessant’anni fa, e stavolta non è il solo dolore di mio padre, tante volte declamato e sofferto con una certa solennità, è qualcosa di ancora diverso a rodermi dentro, un’incertezza e una pena, scoprire che tra verità e menzogna c’è un confine così labile che lo si può rimuovere con un semplice gesto della mano, con un battito di ciglia”.https://dfb2d31e33a485bd6ae456cdb62e9790.safeframe.googlesyndication.com/safeframe/1-0-38/html/container.html

Ma la verità è che anche le digressioni sono ricche di azione, e lo stile della Katalpa è così coinvolgente che queste piccole perplessità si trasformano in sabbia, non contano più nulla. Resta la grandezza di un romanzo profondo, ricco, carico di saggezza e rassegnazione.

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RUR – recensione di Maurizio Di Fazio su Repubblica

RUR – recensione di Maurizio Di Fazio su Repubblica

Un graphic novel che prende le mosse da un testo teatrale intriso di leggenda visto che fu il primo in assoluto a introdurre nell’immaginario collettivo, un secolo fa, il termine robot. Parliamo di R.U.R., acronimo di “Rossum’s Universal Robots” (I robot universali di Rossum), la distopia dello scrittore ceco Karel Capek, una delle primissime del secolo breve, nonché tra le più profetiche. La sua messa in scena inaugurale avvenne al Teatro nazionale di Praga nel 1921 e prese subito a girare e affermarsi sui palcoscenici mondiali. Il vaso di Pandora era ormai dissigillato.

Adesso quest’opera alchemica rivive, a fumetti, in un libro edito da Miraggi disegnato dalla giovane illustratrice Katerina Cupova. Anche lei è della Repubblica ceca, e riesce a infondere forma e una spiritualità cangiante a colori, con tratti raffinati e sobri, all’immarcescibile dramma post-umanista. La traduzione e la postfazione sono curate da Alessandro Catalano, professore associato di letteratura ceca al dipartimento di studi linguistici e letterari dell’università di Padova: sempre quest’ultimo ha firmato uno zoom sulle evoluzioni iconografiche e concettuali dei “nostri migliori amici bionici” (“100 anni in cinquanta immagini”), ospitato all’interno del volume. La versione di Cupova, classe 1992, offre una rivisitazione assolutamente originale ma rispettosa della pietra miliare. Il suo stile e la sua matita, rimandanti all’universo del cartone animato, affondano le radici in decenni di premiata animazione ceca. Non a caso lei si è laureata nella prestigiosa Tomáš Batt”a di Zllíín.

R.U.R. a fumetti ci rituffa all’alba della nostra metamorfosi in golem e poi in cavat digitali. Riecco sotto i nostri occhi mai smaliziati del tutto le tragiche conseguenze della creazione di un uomo artificiale, fatto di muscoli, pelle e sangue ma in teoria privo del nostro corredo più prezioso. I sentimenti, i bisogni, il libero arbitrio. Quegli elementi che ci rendono così straordinari e fragili. In sintesi, l’anima. Però poi accade che questi robot di Rossum (analoghi al Frankenstein e ai replicanti), che pure erano stati plasmati per affrancarsi dalle angustie del lavoro fisico, diventano ribelli, rivendicativi, violenti all’esatta stregua dei loro fautori terrestri.

Una metafora potente delle supreme paure di inizio Novecento, come del resto fu l’intera produzione di Capek, drammaturgo e narratore che sperimentò molti generi e guardò sempre all’attualità più bruciante, trasfigurandola. Il totalitarismo sovietico, la disumanizzazione delle masse, il cinismo e le contraddizioni del capitalismo, l’elevazione a feticcio delle macchine. Le fregole e le ottusità del potere politico, le epidemie di conformismo, la corsa cieca a precipizio verso l’autodistruzione del progresso tecnico-scientifico.

Ineluttabilmente macerato, anche perché la sua epoca non induceva certo all’ottimismo, come la nostra, Karel Capek morì nemmeno cinquantenne. Si risparmiò gli orrori della Seconda guerra mondiale, che non lo avrebbe sorpreso affatto, come non si stupirebbe oggi. Perché «nulla è più estraneo all’uomo della sua immagine».